Monachesimo Occidentale e Scuola Medica Salernitana
Concetta Falivene
Estratto dalla Tesi di Dottorato - Facoltà di Filologia dell’Università di
Siviglia – 2016
“Donne e scienza: Trotula de Ruggiero e la Scuola Medica Salernitana”
Il lungo periodo storico, che segue la caduta dell’Impero romano d’ Occidente
(476) e sostanzia l’alto Medioevo, è raffigurato comunemente come un’epoca
tristissima di miseria e di decadimento, incupita dall’imperversare di epidemie
ricorrenti, che impoveriscono l’esistenza e accrescono pesantemente il disagio
sociale. Tra le epidemie che devastarono l’Italia meridionale, riportate dagli
storici ricordiamo quella del 543, la “peste di Giustiniano” (peste bubbonica),
ma successivamente ve ne furono altre a ondate nel 565, 582 e 590 per tutto il V
secolo. Il Mezzogiorno fu funestato ancora una volta tra il 745 e il 747 con
migliaia di morti. Nell’856 comparve la cosiddetta “peste anginosa” (perché
colpiva la gola) altrettanto micidiale e poi ancora altre epidemie sempre
altamente letali nel 1013, nel 1016, nel 1022 e ancora nel 1093[1].
Terribili carestie, guerre senza sosta, assedi e saccheggi devastanti illuminano
di luce sinistra questi secoli. Con il crollo dell’organizzazione civile romana
viene meno tutto un sistema di conoscenze, le scuole mediche scompaiono, le
biblioteche sono distrutte, le istituzioni stesse si trasformano in organismi
sterili e marginali, la ricerca scientifica si arresta. Il grande bagaglio
culturale scientifico costruito dal mondo antico è demolito e disperso dalle
ondate barbariche che invadono la penisola, lasciando solo rare tracce di un
passato illustre, fortunosamente scampate e salvate dal naufragio generale[2].
Nel quarto secolo la decadenza della medicina è completa; il bagaglio culturale
si riduce a compendi scarni di antichi testi dimenticati, a libretti di
divulgazione popolare, a ingenue raccolte di stravaganze superstiziose[3].
Con l’abbassamento generale della cultura, provocato dalla calata dei barbari,
chiudono le scuole pubbliche e rovina l’istruzione laica. Una fortunata
espressione di Dupuy riassume il declino: «il fuoco sacro dell’età classica non
ha più per emblema che la pallida luce della cappella dei monasteri»[4].
In tale clima emerge un uomo nuovo, l’uomo medievale che pur non disdegnando la
civiltà del passato, è proteso verso l’affermazione di quei nuovi valori e di
quei nuovi obiettivi sociali e spirituali dettati dal Cristianesimo.
Interessante e suggestiva è l’ipotesi psicanalitica avanzata da Premuda
sull’uomo medievale: « L’uomo medievale si presenta all’osservatore attuale come
in una struttura cristallizzata. Dal punto di vista dell’atteggiamento mentale,
della posizione sociale, filosofica, etica e scientifica si è trovato nello
stato di chi ha già scelto e di conseguenza non ha nulla da scegliere (la scelta
è rappresentata dalla struttura medievale rigidamente gerarchica sotto ogni
aspetto, una scelta già fatta, in cui dal primo, Imperatore, Papa o autorità
scientifica fino all’ultimo elemento della scala gerarchica tutti sono parte
integrante di un tutto integrato e unitario) »[5].
Per l’uomo medievale la terra e i suoi beni sono svalutati e quindi anche le
gerarchie sociali che sono state fondate intorno a questi beni. Tutti gli uomini
della terra non sono che pellegrini affratellati da una comune fede e dall’amore
scambievole che Dio ha comandato, distaccati dal mondo e ripiegati su se stessi
in una lunga meditazione con la loro vita interiore. Esaltazione dell’ascetismo
quindi, della vita contemplativa, ma anche comprensione e difesa di un’umanità
smarrita attraverso nuovi comportamenti e nuovi modelli di vita[6].
Questa continua meditazione dell’oltretomba con conseguente promozione
dell’ascesi provoca però anche l’indifferenza per la cultura, per la civiltà del
passato e le sue testimonianze.
Ma il Medioevo è anche un susseguirsi di eventi dolorosi, torbidi e oscuri, su
cui cade fertile la parola di speranza del messaggio cristiano, lo slancio
solidaristico di chi crede nel soprannaturale e nell’aiuto celeste ed è
soprattutto il debole, l’indifeso, l’emarginato l’oggetto di particolari premure
e di affettuoso riguardo[7].
Sono generalmente persone al bando della società, diversi, ripudiati e respinti
dalle organizzazioni comunitarie, maltrattati, insomma un condensato della
sofferenza umana. In tanta sofferenza, aggravata dalla miseria e dai disagi
fisici e morali, si fa strada la parola di speranza del Vangelo, che interviene
a dare conforto e sollievo agli umili. « La sofferenza è Grazia » dice Pazzini[8]
« è purificazione, per cui l’emarginato e ancor più il malato è un prediletto
del Signore », non un peccatore che deve espiare la sua pena. Il Cristianesimo
porta quindi un messaggio nuovo, che si oppone alle convinzioni dei primitivi,
che attribuivano la malattia a un demone o a una divinità adirata. Per la
civiltà grecoromana la morte era la fine di tutti i piaceri dello spirito e del
corpo. Per i Cristiani la morte è la liberazione dell’anima, che ormai privata
del legame della carne può rientrare definitivamente in seno alla Chiesa
trionfante. Tutti gli uomini, nobili o plebei, ricchi o poveri sono fratelli in
Cristo e la carità cristiana obbliga ad aiutare i fratelli più deboli, gli
emarginati, i malati, la medicina non è che il prolungamento della carità. La
dottrina cristiana eleva il valore della vita umana e, nell’ottica della
solidarietà, della fratellanza, dell’uguaglianza di fronte a Dio, la rende degna
di essere vissuta. Sostiene Cassiodoro citato da Penso[9]
che, pur essendo la medicina creata da Dio, non sono i medici, ma è Dio che
risana. È Dio che concede la vita. Infatti, rivolgendosi ai medici, avverte:
“Omne quod facitis in verbo aut in opera, in nomine Domine Iesu facite, gratiam
agentes Deo et Patre per ipsum ”, cioè « Tutto quello che fate in
parole o in azioni, lo fate in nome del Signore Gesù e per esso distribuite le
grazie in nome di dio e del Padre »[10].
Sono presupposti fondamentali attraverso i quali il Cristianesimo diviene
principio informatore e fattore chiave della riorganizzazione di una vita
sociale e politica profondamente sconvolta. Con questa impostazione etico
religiosa infatti vengono a realizzarsi una serie di iniziative rivolte alla
promozione della catarsi spirituale, dell’elevazione intellettuale e delle opere
di carità, queste ultime peraltro concretizzate nell’esigenza morale di
soccorrere i deboli[11].
La più aderente interpretazione di questo bisogno solidaristico del mondo
occidentale è posta in atto dai Benedettini, ortodossi seguaci della convinzione
che l’uomo vada curato nello spirito e nel corpo, un ideale monastico che
l’ordine riesce a realizzare con l’ausilio agli infermi, ai poveri e ai
pellegrini. E sono proprio la pace e la serenità dei chiostri le premesse per il
sorgere e l’affermarsi della medicina monastica, chiostri che rappresentano la
sede più adatta per l’esercizio della carità cristiana, all’interno dei quali
l’ammalato può sentirsi sicuro e accudito e non considerarsi un pericoloso
reietto per la società. Nell’anno 529 S. Benedetto lascia Subiaco, sua prima
esperienza cenobitica, e si ritira a Montecassino, dove fonda una nuova comunità
religiosa. Nasce così il monastero, che raccoglie i primi adepti fuggitivi dalle
insidie dei tempi. Ma l’abbazia non ha vita facile, distrutta prima dai
Longobardi nel 581 e poi dai Saraceni nell’833, è ricostruita, diventando
esempio di fervore intellettuale e di operosità in tutto il mondo cristiano. San
Benedetto muore nel 547, dopo aver scritto la celebre Regola conventuale, un
insieme di norme atte a regolamentare la vita del monastero, ancora oggi un
monumento di organizzazione, preso a modello da tutte le comunità cenobitiche
costituitesi in epoca successiva. Famoso resta il precetto:
ora
et labora, interpretato forse troppo un profilo sociale, ma inteso
soprattutto per servire la meditazione e la preghiera[12].
In tale impeto di fraternità e di amore l’assistenza sanitaria ne viene
ristorata, acquistando l’ammalato una nuova configurazione, ove per la prima
volta si sancisce espressamente il dovere per la comunità di assistere chiunque
si trovi in stato di bisogno e soprattutto di malattia come se fosse lo stesso
Cristo. Requisiti primari di un monastero benedettino sono la scelta del luogo
dove dovrà sorgere il cenobio, che deve essere appartato e tranquillo, protetto
da solide mura, la presenza attorno ad esso di aree coltivabili tali da
assicurare l’autosufficienza, nel senso di garantire quanto possa occorrere alla
comunità senza creare la necessità di uscire fuori dal convento. Ogni abbazia
prevede nell’ambito dell’orto
(viridarium) un’area adibita alla coltivazione delle piante
medicinali. In prossimità dell’ingresso, separato, più o meno lontano dal
convento è
l’hospitium ovvero il luogo di accoglienza dei malati, dei
pellegrini, degli indigenti, con il passar del tempo
l’hospitium si converte gradualmente in
infermeria, destinata prevalentemente all’accettazione e alla cura
degli infermi. Essa è costituita da locali di degenza e di refezione oltre che
da vari servizi necessari all’attività sanitaria (farmacia, medicheria, corsia
di degenza, ripostigli, ecc.).
Le infermerie nascono inizialmente per i bisogni dei confratelli ammalati e la
stessa Regola fa riferimento a loro, ma sarà una fase molto breve per il rapido
espandersi della richiesta di assistenza da parte delle comunità laiche
all’esterno del monastero.
Responsabile dell’infermeria è il
monachus infirmarius, che provvede all’assistenza e alla cura dei
malati aiutato da qualche servente scelto tra i novizi. L’infermeria rappresenta
un settore di delicata importanza nell’ambiente del monastero, tanto da essere
dotata di una propria autonomia e per la quale è previsto uno specifico
regolamento, che disciplina l’accettazione, i ritmi della giornata e la
dimissione del paziente. Questi, all’ingresso, viene visitato direttamente
dall’abate, che valuta l’effettivo bisogno di accoglienza e di cure e dà
all’infirmario le opportune disposizioni. Costui lo prende in consegna, segue il
decorso dello stato morboso, applica il trattamento farmacologico e, se
necessario, lo sorveglia giorno e notte.
La terapia claustrale è basata sull’uso sapiente delle piante medicinali
coltivate nell’orto adiacente, di queste erbe si raccolgono le parti più utili
alla composizione dei farmaci: le foglie, le radici, i semi e con essi si
preparano pozioni, tisane, unguenti, che sono conservati nell’armarium
pigmentariorum, da dove vengono tratti al bisogno. I degenti,
prima di lasciare l’hospitium,
devono fare il bagno, lavare i propri indumenti e le stoviglie e, se religiosi,
riprendere gradualmente le proprie attività all’interno del convento. Per le
spese di assistenza l’abate attinge ad uno specifico appannaggio: l’honor
infermeriae.
In un’epoca in cui non esiste una sanità pubblica e quella privata è meno che
modesta, è facile immaginare la turba di malati e di poveri aggirarsi intorno ai
monasteri e agli
hospitia conventuali. Ogni monastero ha i suoi monaci infirmari
destinati all’assistenza dei malati, che, forniti di un adeguato bagaglio di
conoscenze mediche si prodigano in un premuroso ed efficace adempimento del loro
compito nei riguardi dei confratelli e degli stranieri di passaggio.
Sono poche ed elementari le nozioni di anatomia, fisiologia, patologia e terapia
possedute da questi operatori, ma che legate a un sano e logico buon senso, a un
sagace realismo clinico, a un’arguta e naturale intelligenza, a una lunga
esperienza, a un maturo rapporto medico paziente, riescono ad essere utili,
sufficienti ed affidabili. La loro presenza è tale, relativamente al patrimonio
culturale dell’epoca, che, pur non essendo in possesso di un titolo di studio
ufficiale sono chiamati
medicus o
physicus anche in documenti scritti dell’archivio benedettino.
Nello
scriptorium di Montecassino si leggono e si trascrivono opere di
Galeno e di Ippocrate[13].
Gli
infirmari cassinesi sono in possesso di un notevole bagaglio
culturale medico, a ciò si aggiunga la lunga esperienza con i malati, la
dimestichezza con le piante, la manualità nella preparazione dei rimedi, che ne
fanno personaggi di ragguardevole competenza. Manca loro solo il titolo
ufficiale di
medicus per coronarne la professionalità ed infatti sono
comunemente appellati con tale qualifica. A Montecassino, come nelle altre
abbazie benedettine, sono essi tra le mura conventuali a stilare i manuali delle
piante medicinali e relative virtù specifiche e le tecniche di coltivazione: i
cosiddetti
herbari sanitatis o
hortuli, veri vademecum di fitoterapia. E’ intuitivo quindi il
contributo della medicina monastica nell’evoluzione storica dell’arte salutare,
un’influenza significativa e tanto più degna di apprezzamento quanto più l’epoca
è desolatamente depressa sotto il profilo scientifico[14].
Tante tecniche chirurgiche sono cadute nell’oblio, perché scomparsi gli
operatori, non c’è stato trasferimento agli allievi, né data l’epoca e la
forma mentis, sussistono tentativi di ricerca sperimentale sulle
proprietà e sull’uso delle piante medicinali, né, infine, i metodi presuppongono
un’applicazione scientifica.
Molto spesso il risultato terapeutico è interpretato come fenomeno
soprannaturale sotteso a procedimenti rituali fideistici e irrazionali intentati
piuttosto che ai contenuti logici insiti nel processo biologico. Ciò nonostante,
considerato il vuoto intellettuale venutosi a creare e il prevalere
dell’ignoranza e della superstizione nelle masse popolari, alcune abbazie
diventano celebri per la perizia medica di alcuni confratelli, rinomate per la
bontà dei loro orti e i monaci medici assurgono a chiara fama per l’abilità con
cui esercitano la pratica dell’erboristeria. E infatti a Siviglia il vescovo
Isidoro fonda una scuola di medicina; molti scritti anonimi del periodo
medievale sono monastici. Tanti erbari, lapidari e bestiari sono opera di
monaci, né mancano donne tra esse Ildegarda, badessa di Bingen, che scrive un
trattato di
physica, nutrita opera di scienza naturale con implicazioni di
medicina e terapeutica.
La preparazione e l’abilità di questi religiosi rendono inevitabile la richiesta
della loro opera anche al di fuori del convento e, anche per loro merito, fuori
dalle mura monastiche vengono costruiti i primi ospedali, gestiti dagli stessi
monaci o unitamente a privati, ma sempre alle dipendenze delle abbazie[15].
Ed è in questo periodo (tra il IX e il XII-XIII sec.), che attorno ai monasteri
si aprono i primi ospizi, i posti di ristoro, le medicherie, che vengono
allestite su terreni acquistati dagli abati in prossimità delle istituzioni
religiose proprio per la creazione di opere sociali. Queste strutture sono per
lo più erette in posizione isolata, ma favorevole, lungo le vie di
comunicazione, adiacenti agli orti conventuali e con annesse officine di
fitomanipolazione per consentire ai monaci la coltivazione, raccolta ed
essiccazione delle erbe salutari e quindi la preparazione di formulazioni
medicinali. Vale la pena ricordare che delle piante a scopo medicinale viene
utilizzata ogni loro parte: le
radici (radici, rizomi e bulbi), il
fusto con i rami e i ramoscelli, la
corteccia, che avvolge lo stele, le
foglie e le
fronde, il
fiore con le sue parti (ricettacolo, calice, sepali, petali e
stimmi) e le
infiorescenze, i
semi. Le preparazioni fitogaleniche allestite dai frati e ancora
oggi in uso erano: gli
infusi, (il metodo più antico), ottenuti versando l’acqua calda
sulla droga impiegata o ponendo la droga nell’acqua calda; i
decotti, preparati mantenendo per un tempo stabilito la droga in
acqua bollente e facendo decantare; gli
estratti acquosi, le
tinture, i
vini medicamentosi, gli
oli
aromatici, ottenuti facendo macerare la droga ridotta in polvere o
triturata, per lungo tempo in acqua, in alcool, in vino o in oli, freddi o
caldi. Con le apparecchiature introdotte dagli arabi come gli alambicchi, si
prepararono anche i
distillati, facendo attraversare la droga da corrente di vapore.
S’intende per
droga la parte della pianta medicinale impiegata per fini
terapeutici. Il primitivo
armarium pigmentariorum, destinato alla conservazione dei
medicamenti, si trasforma gradualmente in vera e propria farmacia del
germogliante ospedale, che a sua volta va assumendo sempre più una sua propria
identità e fisionomia accanto alle foresterie[16].
Intorno al Mille in Europa come in Italia, a Montecassino come a Salerno sono
soprattutto i monaci ad esercitare la medicina[17].
I medici laici, per ragioni ancora non chiare, sono quasi inesistenti e quei
pochi scarsamente autorevoli se non anonimi. Probabilmente, tale fenomeno
potrebbe essere riportato all’imbarbarimento legislativo e all’involuzione
anarchica e confusa della società civile, verificatasi nei primi secoli dopo il
crollo di Roma con la disintegrazione delle strutture amministrative e sociali e
con la paralisi degli scambi commerciali, l’abbandono delle città e il ritorno a
una regredita civiltà rurale[18].
Le prime istituzioni ospedaliere sono impiantate fuori le mura della città sia
per una elementare forma di prevenzione igienica per i residenti sia per rendere
più agevole l’utilizzazione del servizio ai pellegrini e a coloro che hanno
bisogno. L’ospedale medievale è una diretta emanazione dell’infermeria
conventuale, lo spazio dove si esercita in concreto il pubblico dovere della
carità verso il prossimo, motivo per cui nasce e resta come opera religiosa. La
gerarchia dell’organizzazione ospedaliera è rappresentata al vertice dal
rettore, individuato nella figura di un sacerdote, che ha
l’obbligo di svolgere il servizio religioso all’interno delle mura nosocomiali
oltre che di scegliere il personale più adatto alle mansioni infermieristiche.
Alle dipendenze del
rettore è il personale di assistenza addetto a incarichi vari.
Intanto tra il X e il XII secolo la medicina monastica raggiunge la sua massima
operatività. I monaci visitano nelle proprie celle, nelle infermerie e sul
sagrato delle chiese, non disdegnando all’occorrenza di accorrere al domicilio
dei malati per assisterli e curarli fino a guarigione avvenuta, senza peraltro
accettare onorari di sorta. Con i divieti all’esercizio medico emanati dalla
Chiesa la medicina monastica si avvia al declino. Si diradano gli interventi
sanitari e le prescrizioni farmaceutiche, mentre progressivamente si fa strada
la medicina laica. Le scuole conventuali abbandonano definitivamente i chiostri
per dare spazio alle scuole secolari, in gran parte eredi delle prime. Al
tempo delle grandi abbazie che illuminano l’arte sanitaria, Salerno, grazie alle
istituzioni monastiche sparse sul suo territorio, si avvia ad assurgere a centro
esclusivo di medicina e primo di insegnamento preuniversitario[19].
La città ospita all’epoca una serie di cenobi benedettini e monasteri dello
stesso ordine sono presenti sul suo territorio. Il più antico monastero
costruito a Salerno è quello di S. Benedetto, voluto dal patrizio romano
Gregorio nel 694 e distrutto dai Saraceni nell’884 .
.Monasterium scilicet Sancti Benedicti Olivetanorum: Gregorii Consulis Patritii
Romani iuxtu anno 694 constructum ”[20].
La presenza di altri monasteri dello stesso ordine, sorti man mano in quei
secoli dentro e fuori la città, lasciano supporre una piena osservanza della
Regola, soddisfatta e diffusa in tutta la regione e quindi
compiutamente posto in atto il dettato di assistenza ai fratelli ammalati e
all’umanità sofferente. E’ sostenibile come il periodo più antico dell’attività
medica in Salerno, quello che precede il Mille, si sviluppa tra le mura di S.
Massimo, S. Lorenzo e S. Benedetto, cenobi benedettini attivi nel IX secolo,
tanto più che annesso al convento di S. Massimo oltre la chiesa è attestato un’hospitium[21],
voluto dal principe Guaiferio in prossimità del suo palazzo e adibito ad asilo
di vedove ed orfani poveri oltre che di indigenti malati. E’ molto probabile
infine che i primi passi della medicina salernitana si muovano proprio in questo
hospitium, primo rudimento di ospedale cittadino. Comunque è
nell’ambito di queste infermerie claustrali che si concretizza il disegno di
quelle che saranno successivamente le
privatae scholae.
Il significato originale di
schola è attribuito alle spontanee adunanze di maestri e allievi,
volontariamente costituitesi allo scopo, rispettivamente, di istruire e di
apprendere e nell’ambito delle quali i docenti scrivono anche i libri di testo
per agevolare l’insegnamento, mentre i discepoli prendono appunti o recepiscono
a memoria in una unitarietà di indirizzo, di dottrina e di formazione. Nei
secoli dell’Alto Medioevo un insegnamento organizzato e pratico è svolto quasi
esclusivamente nelle infermerie claustrali, una necessità peraltro legata alla
volontà di trasmettere le conoscenze acquisite e tesa ad evitare il
dissolvimento di un patrimonio tanto pazientemente e tenacemente accumulato
nonostante insidie devastanti di un mondo imbarbarito. Sostiene Le Goff: “ Molti
uomini nel Medioevo sono analfabeti, per cui la parola risuona con particolare
forza. Uomini di penna sono i monaci, come attestano gli
scriptorii, luoghi della scrittura. Ma il grande veicolo della
comunicazione è la parola e l’uomo medievale è dotato di buona memoria»[22].
Come ricorda Kristeller[23],
una vera Scuola di medicina ufficialmente istituzionalizzata nasce tardi con la
legislazione di Federico II nel XIII sec. In precedenza la città è ricordata
solo come sede di valenti medici, tecnicamente capaci e in grado di ottenere
successi terapeutici. Da quanto illustrato appare chiaro come il primitivo
nucleo organizzativo della medicina a Salerno sia di tipo cenobitico ospedaliero
e i medici che operano tra il IX e l’XI sec. monaci o comunque religiosi che
applicano le proprie conoscenze e le proprie esperienze in parte derivate da
modelli autoctoni, in parte sulla scorta dell’indirizzo culturale abbaziale
impartito da Montecassino, sempre epicentro di prima grandezza dell’attività
scientifica altomedievale nel sud della penisola. I Benedettini, all’interno
della loro biblioteca claustrale svolgono un immane lavoro di trascrizione,
studio e commento, che vivifica i conventi subordinati sparsi sul territorio,
contribuendo efficacemente alla costruzione di un primo insegnamento superiore[24].
E già alla fine del VII sec. è presente a Salerno un monastero benedettino, cui
si aggrega nel IX un ospedale.
La presenza di strutture atte ad accogliere infermi intorno ai conventi di S.
Benedetto ripete un modello già sperimentato da S. Basilio in Oriente,
attraverso il quale si perfezionano le infermerie abbaziali forti di alcuni
medici monaci più che autorevoli, che provvedono egregiamente alla cura dei
malati e con solerte competenza alla coltivazione delle piante negli orti
claustrali[25].
Intanto nella prima metà dell’XI sec. si assiste a una progressiva evoluzione
della medicina come materia da insegnare. Fino ad allora l’istruzione era
trasmessa oralmente ed empiricamente, talvolta con appunti rozzamente stilati su
materiale scrittorio scadente o disperdibile. Nell’XI sec. inizia una più
strutturate e armonica organizzazione della comunicazione con informazioni
riportate su manoscritto.
In questo mondo letterario che propone una propria trasformazione culturale
appaiono i primi personaggi, che sbucano dall’anonimato probabilmente per il
consolidarsi di un primitivo insegnamento pianificato. Essi sono Petrocello e
Garioponto, fioriscono nella prima metà dell’XI secolo sotto Guaimario IV,
principe illuminato e potente, palesemente interessato al potenziamento della
medicina a Salerno nella convinzione che l’autorevolezza di quest’ultima è
motivo di prestigio e fortuna per la città e il principato. Non è difficile
quindi immaginarsi lo stuolo di pellegrini, di mercanti e di forestieri, che
intanto giungono a Salerno, divenuta famosa in Europa per aver ospitato malati
illustri, nella speranza di ritrovare la salute perduta nelle mani di quei
medici di cui si dice un gran bene. E’ difficile argomentare se questi due
Autori abbiano operato separatamente o se l’uno possa essere stato maestro
dell’altro; certamente il loro lavoro è svolto all’ombra di un’istituzione
ecclesiastica, ambedue adottano lo stesso idioma scientifico, un linguaggio
greco latino pervenuto dalla medicina bizantina a quella medievale. Le opere
antiche ancora accessibili restano gli
Aforismi di Ippocrate, che costituiscono probabilmente l’opera
scientifica che nell’Antichità e nel Medioevo ha avuto più fortuna con il
maggior numero di edizioni, e qualche altro trattatello minore,
l’Arte medica di Galeno, opera compilativa, conosciuta anche come
Ars
parva o
Microtecne o
Tegni, ampiamente diffusa nel medioevo e utilizzata come libro di
testo nelle Università.
Petrocello, attestato da Trotula e da Plateario, è ritenuto autore di una
Pratica medica attraverso la quale possiamo raffigurarcene il
profilo e la competenza scientifica[26].
L’opera scritta probabilmente intorno al 1035, sembra rappresentare per comune
consenso la sintesi della cosiddetta medicina presalernitana, cioè il condensato
delle conoscenze correnti nell’alto medioevo, intorno alla cui natura e
consistenza ancora sussiste un’oscurità pressoché assoluta. La
Pratica si rivela in sostanza quasi la traduzione di una perduta
opera greca ovvero un’antologia di brani altomedievali, probabilmente
alessandrini, raccolti male e infelicemente compresi ed illustrati. Ma a parte
questo lato negativo, essa ha il merito di essere una prima, organica
esposizione di argomenti medici non priva di spunti interessanti come la parte
diagnostica realisticamente tratteggiata e interpretata secondo i canoni della
teoria umorale in voga nonché la parte terapeutica arricchita dai farmaci tratti
dalla natura e specialmente dalla flora. Scarna la tecnica chirurgica, anche se
degna di menzione è la citazione della legatura dei vasi in corso di emorragia
grave. Di tale procedura purtroppo non si ha la descrizione, ma l’accenno lascia
ritenere una sua appropriata conoscenza. Il coevo Garioponto o Guarimpoto o
Warimpotus, (nato sul cadere del X sec. e morto il 1056), citato come diacono e
quindi anche egli di estrazione ecclesiastica, è a sua volta ripetutamente
menzionato dalla letteratura salernitana, tanto da far ritenere che, almeno
nell’XI sec., sia stato come clinico illustre un punto di riferimento per
l’intera corporazione medica cittadina. Egli è autore di un
Passionarius, un’opera enciclopedica di medicina in cinque libri e
di un
Dinamidia, trattato di erboristeria, due monumenti letterari che
segnano il punto delle acquisizioni di patologia e terapia possedute all’epoca,
pressoché interamente derivate da Galeno e dai medici bizantini. Scritto intorno
al 1040, cioè sotto il regno di Guaimario IV, raccoglie conoscenze mediche
tratte da Ippocrate, Galeno e alcuni medici bizantini, ma appare soprattutto
come una compilazione condotta sugli scritti di Galeno. Garioponto è certamente
più capace ed esperto di Petrocello e rafforza la convinzione di essere
l’epicentro dello stato dell’arte raggiunto nella prima metà dell’XI sec.,
un’attività quasi interamente in mano all’ordine benedettino. Il
Passionario non appare certamente un’opera originale, ma è
un’ottima sinossi per i discepoli desiderosi di apprendere l’arte di Esculapio,
scolari identificabili tra i novizi e i fraticelli, ma senza escludere qualche
elemento laico, frequentatore di ambienti monastici. Il testo ottiene in epoca
successiva una fortunata accoglienza nelle aule universitarie. Le opere di
Petrocello e Garioponto compaiono in un’epoca di mezzo, situata dopo quattro
secoli di totale oscurantismo e silenzio scientifico appena sostenuto dal tenue
filo di una dimessa tradizione classica e immediatamente prima dell’esplosione
della rinascita salernitana, ravvivata dalla consumata pratica professionale
ampiamente esercitata dalla gente del Sud. Ad arricchire il bagaglio culturale
della medicina salernitana di fine secolo è Alfano I (1015-1085), che con
Costantino Africano illumina il sapere scientifico di nuova luce, sarà lui a
presentare all’abate Desiderio di Montecassino l’oscuro Costantino Africano, che
tanta influenza e lustro darà alla medicina salernitana e sempre Alfano sarà
l’operatore della rinascita culturale e religiosa dell’XI sec. che troverà il
suo fulcro proprio nella città campana, di quella
renovatio, di cui tanto si avvarrà la Chiesa dell’epoca.
Attraverso l’attiva presenza di Alfano, ammiratore peraltro della civiltà greca,
si assiste a Salerno a una intensa circolazione di codici e di traduzioni dal
greco, che daranno un contributo decisivo all’istituzione scolastica e allo
sviluppo delle arti e delle scienze[27].
Personaggio tra i più ragguardevoli della Scuola di Salerno e figura tra le più
eminenti della cultura medievale è certamente Costantino Africano. Nell’angusto
mondo letterario e scientifico dell’Alto Medioevo egli è il tramite che segna la
riscoperta della medicina occidentale greco latina, in gran parte perduta,
attraverso la sua versione arabizzata. Secondo Pietro Diacono, monaco cassinese
e redattore di una
Cronica, Costantino fu:
monachus omnibus philosophicis studios pienissime eruditus[28].
Nato a Cartagine intorno al 1019, si racconta di lui come di un infaticabile
viaggiatore del mondo conosciuto, dall’Egitto all’Etiopia, dalla Siria alla
Persia fino addirittura alla lontana India. I ripetuti contatti con esperienze e
culture diverse gli consentono un discreto apprendimento delle lingue parlate,
dal greco all’arabo, dal siriaco al latino, sulla cui padronanza riesce a
costruire una solida istruzione specie per quanto riguarda i grandi temi della
medicina, verso i quali matura una decisa inclinazione. Dopo una consolidata
frequenza di alcune prestigiose sedi intellettuali del mondo islamico come
Bagdad e Alessandria, rientra a Cartagine per fondarvi un centro scientifico. Ma
l’iniziativa non ha buon esito e Costantino deve lasciare la città e dirigersi
verso l’Italia, raggiungendo Salerno, all’epoca rinomata per traffici e
opulenza, sede di medici valenti e di affermata professionalità. Vi giunge
intorno al 1076 in un momento di grande confusione (Gisulfo II è appena caduto e
Roberto il Guiscardo si è insediato nel palazzo che già fu di Arechi), ma la
permanenza in città è breve, comunque quanto basta per entrare in contatto con
le personalità più dotate della capitale, da Roberto all’arcivescovo Alfano, ai
dotti della Scuola medica. Dopo circa un anno di soggiorno, convinto da Alfano,
raggiunge Montecassino, dove favorito dal mecenatismo dell’abate Desiderio,
fautore entusiasta delle iniziative intellettuali, indossa il saio dell’umile
fraticello, dedicandosi con energia ad un grande lavoro di traduzione dall’arabo
in latino di numerose opere scientifiche in gran parte di medicina. La
singolarità di quest’uomo nell’ambito della medicina di Salerno non emerge
quindi da una qualsivoglia attività professionale esercitata da costui, ma dalla
sua inestimabile e indiscussa fatica di riesumazione di insegnamenti perduti.
Dei testi medici più significativi tradotti dall’arabo in latino si ricordano il
Viaticum di Al Gazzar e il
Pantegni di Alì al Abbas, due opere di grande contenuto innovativo
per le informazioni e le dottrine contenutevi. I contenuti innovativi di questo
nuovo sapere rendono la capitale normanna cittadella di una cultura aggiornata,
impreziosita da un’ignorata scienza greco-araba, che la lancia su novelli
approcci teoretici e su diversi percorsi terapeutici, rendendola centro
intellettuale capofila nella variegata civiltà europea. La svolta costantiniana,
in altri termini, fa della Salerno del XII-XIII sec. un polo di attrazione per
maestri e allievi d’oltralpe e di diffusione di scritti e idee ai tanti centri
di sapere sparsi per l’Europa.
I rapporti sempre più frequenti e prolungati degli occidentali con il mondo
arabo (residenza in territori assoggettati, contatti mercantili, pellegrinaggi
in Terrasanta, spedizioni militari...) consentono lo studio di questa civiltà
culturalmente ellenizzata, se ne ritraducono i testi in latino, quei testi già
traslati dagli Arabi nella loro lingua; sicché molti tasselli del patrimonio
classico vengono ricomposti, molte opere perdute sono ritrovate. L’arrivo a
Salerno di una ricca raccolta di traduzioni arabo latine determina un
ammodernamento del bagaglio filosofico scientifico, che si ripercuote
sull’organizzazione degli studi medici, in cui ora entrano di diritto i commenti
di Galeno agli
Aforismi e ai
Pronostici di Ippocrate, il
Pantegni di Alì Abbas, il
Viaticum di Al Gazzar e i trattati di Isacco il Giudeo. Sono testi
che fanno la loro comparsa per la prima volta nel piano di studi della Scuola di
Salerno per diffondersi successivamente nelle università europee sotto il nome
di
Articella che era un’antologia di testi in uso presso le scuole di
medicina come testi curriculari.
In conclusione Costantino con il suo zelo, la sua diligenza e la sua cultura
offre un materiale inestimabile e necessario per dare il via a quel
Rinascimento scientifico[29]
che vede la sua culla proprio nella Scuola di Salerno.
Sul cadere dell’XI secolo intanto la medicina monastica è all’apogeo. Ma proprio
la sua fortunata ascesa crea e consolida una nutrita assistenza extramurale. Le
infermerie claustrali non sono più l’unico polo di accoglienza sanitaria, perché
i monaci, nell’interpretazione sempre più estensiva dell’umana solidarietà verso
la collettività sofferente, si allontanano sempre più frequentemente dai
conventi, a volte per giorni e giorni, per andare a soccorrere l’ammalato. Tale
fenomeno, anche se l’arte sanitaria praticata dai frati incontra consensi a
favore tra la gente comune, diviene peraltro sempre meno compatibile con la
Regola claustrale, rivelandosi soprattutto un cespite di guadagno e di peccato,
perché sempre più spesso è dato assistere a comportamenti poco in linea con
l’abito monastico. Nello stesso tempo sorgono ospedali al di fuori del monastero
retti da monaci, che, pur dipendendo formalmente dall’abate, in pratica sono
svincolati dalla rigida normativa religiosa. Secondo una interpretazione di
Agrimi e Crisciani[30]
ai primordi della propria attività il monaco individuava nella malattia un
oggetto di intervento caritatevole, in quanto la carità è il vincolo d’amore che
istituisce un legame filiale e paterno tra Dio e gli uomini e di fratellanza tra
gli uomini di fede, il che è in sintonia con la predicazione del Vangelo. In
conclusione, fin quando perdura la medicina monastica, il malato supporta
pazientemente le sue sofferenze confidando in Dio, salvatore della sua anima[31].
Con il passar del tempo, il soccorrere e il curare richiedono una sempre
maggiore competenza, una perizia sempre più qualificata; il monaco finisce con
il diventare più medico e meno religioso, nel senso che l’impegno del
trattamento terapeutico lo rendono sempre meno attento alle cure spirituali e
agli studi teologici cui dovrebbe primieramente essere rivolto.
Infatti, mentre nei primi tempi l’opera del monaco medico è soprattutto limitata
a un’attività non propriamente scientifica, ma più congenialmente religiosa,
concentrandosi su preghiere, apposizione delle mani, unzioni con olio santo, in
epoca successiva, anche per naturale evoluzione delle procedure, il suo operato
diviene più propriamente medico con impiego di erbe salutari, manipolazioni di
piante, modalità di somministrazione e dosaggi, quindi l’intervento rispetto ai
primordi è più naturalistico, biologico, farmacologico. La medicina quindi, nata
nei chiostri, si va laicizzando, i monaci non solo prestano consulti ai malati e
ai bisognosi, ma si recano al loro domicilio, offrendo assistenza lungo tutto il
periodo dello stato di malattia[32].
Dopo una lunga resistenza, i monaci rientrano nei ranghi, riadeguandosi alle
loro più specifiche e doverose funzioni, nel giro di un secolo e mezzo circa
assistiamo a questo ritorno nei monasteri, graduale ma progressivo; la medicina
è abbandonata, le infermerie si svuotano, riservate ai soli confratelli, l’arte
sanitaria passa lentamente nelle mani dei laici. Contemporaneamente lo stesso
concetto di assistenza va perdendo significato di obbligo di carità verso il
prossimo, per confluire in una istituzione pubblica, quella dell’ospedale
medievale, dove sono apprestate cure condotte con pari esperienza e competenza,
meno compassionevoli e più professionali. Ma un altro evento, in un certo senso
rivoluzionario, viene a favorire questa trasformazione ed è l’emanazione del
decreto di Ruggero II (Nel 1134), re delle due Sicilie, in cui si prescrive
l’obbligo del possesso di un’autorizzazione regia per esercitare la professione
medica. Tale decreto, confluito poi nelle “Costituzioni” di Melfi di Federico
II, dispone che per esercitare l’arte della medicina, bisogna sottoporsi
preventivamente a un esame davanti a funzionari regi. Tale decisione sembra sia
originata dall’amara constatazione di una diffusa cattiva pratica dei monaci
medico e altri religiosi, la cui maggioranza si rivela una massa di incapaci e
ignoranti con scarse acquisizioni farmacologiche.
Quindi, se da una parte sono presenti a Salerno valenti medici che fanno onore
alla città, meritandole fama e riconoscimenti anche da paesi lontani, di
converso sussiste un vasto gruppo di ciarlatani, guaritori e medicastri anche di
estrazione ecclesiastica, che lascia molto a desiderare sui risultati delle loro
pratiche. Questi, spesso, girovagando per villaggi e per piazze, magnificando le
loro cure miracolose, citando aforismi a sproposito e richiedendo
inopportunamente ausili teurgici.
Quindi l’intervento di Federico II[33]
viene a ribadire per il medico non solo l’obbligo al possesso di
un’autorizzazione all’esercizio professionale, ma l’obbligo, per ottenerlo, ad
essere sottoposto ad un esame davanti a una commissione di maestri salernitani,
tenuti a testimoniare con adeguate certificazioni la preparazione almeno
sufficiente del candidato. A tanto va aggiunto inoltre anche un attestato di
fedeltà al re, rilasciato dai suoi vicari, che l’avranno esaminato in merito.
Solo quindi dopo un esame ad hoc, condotto ai sensi della disposizione regia,
l’aspirante medico può ottenere l’abilitazione alla pratica
(licentia medicandi).
La regolamentazione apportata all’esercizio dell’arte sanitaria da parte di
Ruggero e di Federico II viene a ristorare e a dare rinnovata dignità e
prestigio alla medicina salernitana, sfrondandola di elementi poco qualificanti
e consentendo la rinascita e la crescita di medici dotati di competenza e
professionalità.
[1]
Cfr. MC NEILL H.W., La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagio
dall'antichità all'età contemporanea, Einaudi, Torino, 1981.
[2]
FIRPO L., La medicina medievale, UTET, Torino 1972, pp. 8-9.
[3]
COSMACINI G., L'arte lunga storia della medicina dall'antichità a oggi.
Laterza, Roma-Bari 1997 pp.99-100.
[4]
FAUVET J., Le tappe della medicina, Garzanti, Milano, 1955, p.41.
[5]
PREMUDA L., Storia della medicina, CEDAM, Padova, 1960, p.98.
[6]
Cfr. PENCO G., Storia del monachesimo in Italia dalle origini alla fine
del Medioevo, Roma, 1961.
[7]
Cfr. MOLLAT M., I poveri del Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1982; GEREMEK
B., La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa,
Laterza, Roma-Bari, 1986.
[8]
PAZZINI A., Storia della medicina, SEL, Milano, 1947, vol. I, pp.
323-328.
[9]
PENSO G., Medicina medievale, Ciba Geigy, Milano, p.8.
[10]
Cfr. DELUMEAU J., Rassicurare e proteggere. Devozione, intercessione,
misericordia nel rito e nel culto dell'Europa medievale e moderna.
Rizzoli, Milano, 1992.
[11]
AGRIMI J., CRISCIANI C., Carità e assistenza nella civiltà cristiana
medievale, in Storia del pensiero medico occidentale. Antichità e
Medioevo a cura di Grmek M.D., Laterza, Roma-Bari, 1993, pp.217-259.
[12]
Cfr. DE ROSA G., Storia medievale, Minerva, Roma, 1971.
[13]
LOWE E.A., The Beneventan Script, Oxford Press, p.18.
[14]
FIRPO L., La medicina medievale, op. cit. p.61.
[15]
CASTIGLIONI
A., Storia della medicina, Milano, Mondadori, 1948, p.263.
[16]
Cfr. SAUNIER
A., La vita quotidiana negli ospedali del Medioevo, in J.
LE GOFF-J.
CH. SOURNIA (a cura di), Les maladies ont une histoire, trad. It.,
Laterza Bari 1986; IMBERT J., Les hopitaux en droit canonique, Paris,
1947.
[17]
GIULIANI G. M., I chirurghi preciani e norcini. Rapporti con la Scuola
di Salerno e con l'ordine di San Benedetto, «Arch. It. Chir.
», LXXII, 3, 1949, pp. 169-190.
[18]
Cfr. PEPE G., Il Medioevo barbarico, Einaudi, Torino. 1960.
[19]
Cfr. VISCO S., La cultura medica europea nell'Alto Medioevo e la Scuola
di Salerno, Salerno 1953.
[20]
MAZZA A., De rebus salernitanis epitome, Napoli, 1681, p.65.
[21]
PAZZINI A., Storia della medicina, op. cit., vol. I, p.433.
[22]
LE GOFF J., L'uomo medievale, Laterza, Roma-Bari, 1987, p.33.
[23]
KRISTELLER P. O., Studi sulla Scuola medica salernitana, Napoli, 1986,
pp.56-57.
[24]
CASTIGLIONI A., Storia della medicina, op. cit., p.264.
[25]
SAINT LEGIER J. B., Histoire des herbiers, Paris, Baillière, 1885.
[26]
Cfr. DE RENZI S., Storia documentata della Scuola Medica Salernitana,
op. cit. pp. 163-167.
[27]
Cfr. ACOCELLA N., La figura e l'opera di Alfano I di Salerno, «Rass.
St. Salern. » XIX, 1-4, 1958.
[28]
BLOCH M., Montecassino in the Middle Age, Roma, 1986, p.127.
[29]
Cfr. HASKINS C. H., La Rinascita del XII secolo, Il Mulino, Bologna,
1982.
[30]
AGRIMI J. - CRISCIANI C., Malato, medico e medicina nel Medioevo,
Torino, 1980.
[31]
Cfr. PAZZINI A., Storia della medicina, op. cit., pp.251-262.
[32]
BUSACCHI V., Storia della medicina, Cappelli, 1951, p.137.
[33]
Cfr. MORPURGO P., L'intervento legislativo di Federico II in Filosofia
della natura nella Schola Salernitana del sec. XII, Cluebb, Bologna,
1990.
| Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto |
| Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia |
26 ottobre 2020 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net