La riforma romualdina
di Marta Costantini
estratto da "Codice forestale camaldolese - La Regola della vita
eremitica", INEA 2009
La forte personalità che contraddistingue Romualdo e il periodo storico in
cui vive, delineano il perimetro entro cui prende forma il nuovo
“ordinamento” di vita monastica che il Santo ha tentato, passo dopo passo,
di costruire nel suo lungo percorso spirituale. Un modello di ricerca della
perfezione cristiana da lui concepito e praticato, ma volutamente non
definito da alcuna Regola scritta, né fissato in un nuovo ordine. Come
monaco benedettino e padre spirituale in una Chiesa non ancora divisa tra
Roma e Costantinopoli (1054), non ha lasciato ai suoi discepoli e a tutti
noi nessuno scritto.
La figura di Romualdo non può essere quindi associata a quella di un vero e
proprio “fondatore”, se per fondatore si intende colui che detta una regola
di vita rispettata dai suoi seguaci. Il suo ruolo può essere definito
solamente attraverso le parole di san Pier Damiani, che nella
Vita beati Romualdi al di là di
una lettura agiografica del percorso monastico del Santo ci offre una
descrizione della movimentata vita dell'eremita scrivendo di lui: tacente
lingua et predicante vita.
La forza riformatrice di Romualdo si concretizza principalmente in una
interpretazione evolutiva del monachesimo fino ad allora praticato. La
scelta eremitica diventa per il Santo un passaggio fondamentale per la
propria professione monastica, per la propria santificazione. Nella realtà
del suo tempo diventa, anche, un impegno morale nei confronti della sempre
più forte secolarizzazione della vita cenobitica. San Romualdo, infatti, non
è un innovatore dell’ideale eremitico, da secoli praticato sia in Oriente
che in Occidente, né tantomeno il suo legislatore, bensì, come scrive
Gregorio Penco in Storia del Monachesimo in Italia, «il suo fervido
apostolato, contento solo di aver dato nuovo impulso a codesta istituzione
da lui però mantenuta ancora nell’ambito della Regola di san Benedetto».
Nella Regola è proprio lo stesso san Benedetto a rimandare allo studio delle
esperienze della vita dei santi Padri tutti coloro che volessero procedere
verso la perfezione.
Per tutta la sua vita Romualdo difenderà con forza la Regola Benedettina
nella sua originalità, pur trovando, fino alla fine dei suoi giorni,
risposte al bisogno di contemplazione, nella cultura e nella spiritualità
orientale. Al centro del suo cammino c’è sempre la pratica dell’ascesi e
della contemplazione secondo gli insegnamenti dei Padri. Ma sarà sempre più
forte in lui quel sentire di essere inutile e troppo distante dal mondo,
ovvero il sentirsi troppo asceta ed eremita. Sarà questa sensazione,
identificata da san Pier Damiani come “l’impazienza della sterilità”, a
sostenere l’urgente necessità del Santo di calarsi nel suo tempo, per
incidere e intervenire dove serviva.
Con spirito critico, ma non presuntuoso, nei confronti della
secolarizzazione della chiesa e attraverso una nuova interpretazione della
vita monastica, Romualdo getta le basi di un’importante riforma. In un
momento storico in cui la secolarizzazione della vita cenobitica continua a
rafforzarsi, accentuando con forza la divisione tra esperienza eremitica e
cenobitica, egli recupera l’equilibrio delle radici del monachesimo dei
Padri.
Nei fondamenti tramandati dai suoi insegnamenti troviamo il bisogno di
autenticità e di essenzialità caratteristico del suo tempo e, nella
necessità di coniugare la vita comunitaria e l'aurea solitudine dell'eremo
nella parola di Dio e nella comunione fraterna nella carità le basi di quel
profondo rapporto tra monaco e Dio, tra uomo e ambiente.
Lascia quindi un solco profondo nella comunità monastica del suo tempo,
intervenendo nella vita cenobitica che, riformata da Cluny, aveva ridotto
l’ascesi cristiana al ritualismo ieratico, ricercando sia in senso fisico
che spirituale, nell’unità dialettica tra vita attiva e vita contemplativa,
la dignità e la forza del monachesimo. Tutto il suo cammino sarà dedicato a
coniugare stili e autorità differenti, a pacificare e conciliare esigenze
diverse, ma convergenti: stare nel mondo e uscire da esso, sempre in nome e
per conto della gloria di Dio.
Cogliendone l’istanza spirituale, ma anche i limiti culturali, rompe i
contorni istituzionali della Regola benedettina e, ispirandosi alle
influenze bizantine ancora presenti nella cultura post carolingia, recupera
le esperienze del monachesimo italo-‐greco,
trovando la necessaria sintesi. San Romualdo, pur non avendo voluto mai
raggiungere o realizzare un preciso disegno istituzionale, come scrive Bruno
Bonifacio di Querfurt, è dunque «il padre degli eremiti ragionevoli, che
seguono una certa ratio», cioè gli insegnamenti dei Padri. Cercherà
incessantemente di armonizzare la Chiesa e il monachesimo e soprattutto, di
coniugare la realtà cenobitica così istituzionalizzata, con la realtà
eremitica, così spontanea e priva di ogni regolamentazione. In questa
congiunzione individua l’utile strumento per restaurare moralmente la vita
monastica del cenobio, sempre più legata agli interessi materiali del mondo
esterno, salvaguardandone i caratteri spirituali. I suoi tentativi di
riformare il monachesimo cenobitico strutturato però fallirono, nonostante
gli sforzi, perché troppo consolidati erano i privilegi e i legami dei
centri monastici con la vita politica ed economica del tempo.
Di fronte all’invadenza del cenobio egli vuole “garantire l’autonomia della
vita eremitica mediante una disciplina sua propria, coerente con le sue
finalità” (Tabacco, 1965), di ricerca spirituale, proponendo lo sviluppo di
un nuovo monachesimo sfaccettato. La contemplazione viene esaltata
attraverso la liturgia e la meditazione biblica, l’ascesi raggiunta
attraverso la vita eremitica e, non ultime, la spinta missionaria e il
martirio.
Romualdo è infatti consapevole della fragilità istituzionale della vita
eremitica rispetto a quella cenobitica e della sua consolidata egemonia. Nel
suo instancabile ruolo di fondatore e rifondatore cercherà sempre di
affermare un primato non solo ideale, ma anche reale, dell’eremo rispetto al
cenobio. Si adopera dunque, seguendo la sua inclinazione naturale, per
realizzare un modello ideale di vita monastica, in cui l’eremitismo autonomo
e razionale vissuto dai grandi Padri potesse interagire efficacemente con la
tradizione cenobitica, in una originale forma di subordinazione del cenobio
all’eremo, senza però istituzionalizzare rigidamente la prevalenza della
vita solitaria su quella comunitaria. Promuovendo una mutualistica
convivenza tra eremo e cenobio, valorizza così da un lato l’arricchimento
acquisito con l’esperienza ascetica e dall’altro l’approfondimento teologico
culturale dell’ambiente cenobitico.
Coniuga quindi la dimensione cenobitica con quella eremitica, proponendo
vicino al monastero la presenza dell'Eremo, secondo l’idea della Lavra
palestinese ed egiziana. Nasce così un’unica comunità interdipendente con un
unico superiore, inizialmente proveniente dall’Eremo e in esso residente,
per le due comunità cenobitica ed eremitica. I primi tempi il cenobio viene
concepito come luogo di supporto e di noviziato; esso ha infatti
principalmente una funzione protettiva per l’ascesi e la contemplazione
degli eremiti, affinché questi ultimi non vengano disturbati dal rumore del
mondo, dalle preoccupazioni e dalle vicende politiche, economiche e
amministrative esterne. Successivamente acquista però una funzione
pedagogico formativa per gli aspiranti eremiti, che devono crescere nei
principi della vita monastica.
La vita eremitica e quella cenobitica sono per Romualdo la massima
espressione spirituale del cammino ascetico e si completano nei momenti
della reclusione e dell’evangelizzazione: la prima riprende le esperienze
anacoretiche dei Padri del deserto e rappresenta uno sviluppo altissimo
dell’ideale monastico, ancora oggi uno dei valori più eminenti dell’ideale
romualdino camaldolese (lo stesso Romualdo, secondo la tradizione, la
praticò per sette anni a Sitria, così come si impegnò analogamente
nell’evangelizzazione, o apostolato, dei “popoli pagani”, ritrovando in
quest’ultima esperienza, il momento più incisivo, per una vita dedicata a
Cristo, di incontro tra vita monastica ed eremitica). Da considerare infine
il fatto che per molti dei suoi discepoli l’impegno apostolico si risolse
spesso nel martirio. L’apostolato e la reclusione rappresentano, quindi, i
due culmini di un cammino ascendente, le cui tappe si articolano nel
triplex bonum: cenobio, eremo e
testimonianza apostolica, questa ultima intesa anche come martirio.
La chiara visione della realtà monastica del suo tempo e l’innata tendenza
all’eremitismo hanno portato san Romualdo a non accontentarsi, a
ricominciare continuamente con coraggio. Attratto dal desiderio di
realizzare, nella convivenza, la sua equilibrata visione ascetica ha sempre
cercato nuove comunità in un susseguirsi di profonde esperienze umane e
spirituali. E dopo aver avviato un nuovo nucleo monastico, regolarmente lo
abbandona per ricominciare altrove. Anche a questo sono forse dovute le
varie interpretazione della sua eredità spirituale che nei secoli successivi
hanno visto la formazione di diverse congregazioni romualdine. Le tendenze
più disparate che il Santo aveva unificato con l’ardore della sua ascesi e
della sua genialità, tenteranno di riprendere ciascuna il sopravvento a
discapito delle altre, rompendo quell’equilibrio instabile che la forte
personalità di Romualdo aveva reso possibile. Il suo ideale disegno si
concretizza però chiaramente nella Comunità di Camaldoli. L’ultima delle sue
numerose creature, dove a 1.011 metri sul livello del mare c’è l’eremo, e a
814 il monastero.
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11 gennaio 2022
a cura di Alberto "da Cormano"