Camaldoli e i Camaldolesi.

di Raoul Romano

estratto da "Codice forestale camaldolese - La Regola della vita eremitica", INEA 2009

 

In questo capitolo cercheremo di ripercorrere i momenti più salienti della storia millenaria di Camaldoli e della sua Congregazione, rimandandone comunque a più degni studi l’approfondimento.

Come precedentemente accennato, le fonti che raccontano la nascita dell’Eremo di Camaldoli sono varie e contrastanti[1], ma sicuramente la più autentica e attendibile rimane il diploma[2] con cui Teodaldo di Canossa, vescovo di Arezzo dal 1023 al 1036, nell’agosto del 1027 donava al venerabile eremita Pietro Dagnino, discepolo di Romualdo, le terre su cui era stata costruita, qualche anno prima, la prima Lavra e l’oratorio di San Salvatore.

La donazione di Teodaldo viene fatta in memoria del Santo, probabilmente qualche mese dopo la sua morte, che san Pier Damiani indica nel 19 giugno di un non ben precisato anno. Molto probabilmente proprio il 1027.

Nel testo del diploma, di cui riportiamo di seguito un estratto tradotto dal latino (Lugano, 1907, p.32), ritroviamo così descritte le origini della fondazione dell’heremus:

«Se ai servi di Dio e principalmente a quelli che attendono alla contemplazione divina, noi provvediamo il necessario alla vita, osserviamo indubbiamente gli statuti dei santi padri. Poiché è veramente degno che i rettori delle chiese somministrino i comodi temporali a coloro, che, nella chiesa, tengono fisse nelle cose celesti le loro menti. Per la qual cosa, sappiano tutti i nostri diletti fedeli cristiani, che noi, per amore della pia memoria dello spirituale padre nostro messer Romualdo chiarissimo eremita, per comune consiglio e col consenso de' chierici, nostri fratelli, doniamo e concediamo per rimedio dell'anima nostra e di tutti i nostri successori, a messer Pietro venerabile eremita, per uso e consumo de' confratelli suoi eremiti e de' loro successori, una chiesa, posta tra le alpi, di ius dell'episcopio di san Donato, da noi consacrata, dietro preghiera dello stesso eremita messer Romualdo, ad onore e sotto il titolo del santo Salvatore nostro Signore Gesù Cristo; la quale è precisamente situata nel territorio aretino, alle radici delle alpi che dividono la Tuscia dalla Romagna, nel luogo che si chiama "Campo Malduli”. La posizione precisa è questa; da una parte scorre un rivolo chiamato il Nera (Niger), che è incontrato da un altro rivolo detto del Tiglieto (de Tellito), ambedue confluenti nel seno di un fiume: dall' altra è una via che discende dalle più alte vette delle alpi: dal terzo lato si ergono i fieri monti e gli intonsi gioghi delle alpi, e dal quarto emergono i greti del rivo Nera. Tra questi confini, adunque, ride quel luogo che si appella "Campo Malduli”, campo specioso e amabile, dove zampillano sette purissime fonti e verdeggiano ameni vireti. Questo luogo, pertanto, si elesse il pio padre degli eremiti messer Romualdo e previde che sarebbe stato molto adatto e conveniente per le celle dei frati eremiti, servienti a Dio, separatamente, nella vita contemplativa: costruitavi perciò la basilica del santo Salvatore, vi pose accanto, separata l’una dall' altra, cinque piccole celle co' loro tabernacoli. E alle singole celle deputò singoli frati eremiti che, allontanati dalla sollecitudine dalle cure secolari, attendessero unicamente alla contemplazione divina: ai quali volle che fosse fedele ministro e precettore il venerabile eremita, messer Pietro, cui noi, per aver parte nell' eterna vita col prenominato santo uomo Romualdo, abbiamo fatto la presente donazione.».

Il luogo di Campo Malduli o Amabile (successivamente Camaldoli [3]) era stato dunque da Romualdo ritenuto il più adatto e conveniente per accogliere le celle del primo nucleo di eremiti. In questa radura, tra Pratomagno e Monte Falterona, in mezzo alle attuali foreste Casentinesi, Romualdo fece costruire la sua Lavra o villaggio eremitico tanto simile all’eremo della tradizione bizantina. Vi eresse quindi l’oratorio di San Salvatore e cinque cellette. In queste presero posto i primi eremiti di Campo Malduli (Pietro, Benedetto, Gisone, Tenzone e Pietro II).

Tra essi Romualdo scelse il venerabile Pietro come guida. Fu quest’ultimo, nell’agosto del 1027, a ricevere in dono e concessione dal vescovo oltre all’oratorio e all’intero luogo di Campo Malduli, anche qualche maso e decima di proprietà vescovile in ville vicine.

Ma nella concessione vi è una condizione: che i discepoli di Romualdo e l’eremo rimangano dediti alla vita eremitica, solitaria e contemplativa, senza quindi poter trasformare l’eremo in monastero per cenobiti. Inoltre Teodaldo proibisce ai suoi successori di “devastare, molestare, inquietare” o sminuire Pietro e i futuri eremiti di quel luogo, garantendo così tutto ciò che hanno acquisito o acquisiranno. La concessione fu poi confermata nel 1037 dal vescovo aretino Immo e nel 1064 dal vescovo Costantino [4], e corroborata dall’ Imperatore del Sacro Romano Impero, Enrico III il 3 gennaio 1047.

Negli stessi anni le prime donazioni incominciano ad ampliare e meglio definire i confini e le proprietà dell’Eremo, anche oltre il territorio aretino,[5] ma Campo Malduli continuava a rimanere ciò che voleva il suo Fondatore: una piccola Lavra, sullo stile bizantino, con a poca distanza un ospizio a essa subordinato.

In breve tempo cominciava però a prendere forma una comunità monastica organizzata e consapevole delle vicende politiche del tempo. Nel 1072, in piena riforma gregoriana, arriva con la bolla Nulli fidelium di Alessandro II (P. 1061-1073) la prima conferma papale alla Congregatio di Campus Amabilis (Camaldoli), con cui viene concessa la protectio apostolica. Nel marzo del 1074 la protezione papale, non in contrasto con l’autorità episcopale, viene ribadita da Papa Gregorio VII (P. 1073-1085). La Comunità di Camaldoli, per l’importanza assunta nella riforma della Chiesa di quegli anni, viene dotata di alcuni privilegi legislativi al fine di salvaguardare l’autonomia dall’ingerenza laica e il primo intento di vita contemplativa.

A tutto questo fa subito seguito nel 1080 la redazione delle prime Constitutiones Camaldolesi del Beato Rodolfo [6] (+1089), dove viene definita l’organizzazione interna della Comunità, le regole quotidiane della vita monastica e dei rapporti con il mondo esterno. Vengono osservate le volontà del Fondatore e ripresi i principi esposti nella Regula eremitarum redatta qualche anno prima dal priore di Fonte Avellana Pier Damiani, considerato fedele interprete delle volontà di Romualdo. Prima di dettare le strette consuetudini il Beato Rodolfo ci spiega come fu edificato il venerabile Eremo di Campo Malduli, confermando le vicende descritte nel diploma di Teodaldo:

 

«Sappiate dunque, o fratelli carissimi, che l’Eremo di Campo Malduli , fu edificato dal santo padre Romualdo eremita, per ispirazione dello Spirito Santo e a preghiera del reverendissimo Teodaldo vescovo di Arezzo, insieme con una basilica che il predetto vescovo consacrato in onore del santo salvatore l’anno dell’incarnazione 1027. Il santo, edificatevi cinque celle, vi pose cinque religiosi fratelli, cioè Pietro, un altro Pietro, Benedetto, Gisone, Tenzone. Uno di questi, Pietro Dagnino, uomo prudente e santo, fu da lui preposto agli altri quattro. A essi Romualdo diede la regola di digiunare, tacere e di rimanere nella celletta».

 

Rodolfo scrive, inoltre, che fu lo stesso Romualdo a individuare un altro luogo, poco al di sotto di Campo Malduli , denominato Fontebono, in cui Pietro Dagnino in seguito edificò una casa, dedicata a ospizio. Ha così origine l’hospitium di Fontebono, che assolveva principalmente la funzione di infermeria e supporto alla vita eremitica, ma anche di ricovero per i pellegrini che valicando l’Appennino sui tracciati della vecchia via Flaminia Minor [7]  utilizzata nel medioevo come variante alla via Francigena. Nell’hospitium risiedevano un monaco e tre conversi [8], incaricati di proteggere l’eremo:

 

«... affinché l’eremo sovrastante restasse sempre nascosto e lontano dai rumori del mondo, come un soldato ben protetto da corazza e disposto a battaglia, intento a difendersi con lo scudo contro gli strali nemici e come il tabernacolo e l’altare coperti da una tenda per le varie necessità».

 

Il ruolo dell’hospitium viene inoltre arricchito di significato e acquista il compito di essere luogo di formazione. Cresciuta infatti la fama dell’eremo, le richieste di «vestirvi l'abito monastico e menar vita penitente [9]»(Lugano, 1907, p.37) aumentarono, ma la durezza della vita eremitica e il rigido rispetto delle regole, nella maggior parte dei casi, “finito l’entusiasmo iniziale”, portavano al fallimento. A riguardo Rodolfo scrive:

 

 «... alcuni uomini secolari anche ai nostri tempi abbandonato il mondo si rifugiarono al porto sicurissimo dell'eremo, indossaron l'abito e presero a salire per la vetta della vita eremitica; ma poiché, alcuni, si spingevano alla sommità prima di abbracciar le radici dell’albero, tosto cadevano in fondo e venivan meno con amara tristezza.»

 

Venne quindi deciso che l’ospizio di Fontebono diventasse, nell’osservanza della Regola di san Benedetto, luogo di preparazione monastica per i novizi, prima del passaggio alla vita dell'eremo. Nell’organizzazione interna il priore diviene guida spirituale e autorità gerarchica per gli eremiti, i monaci e i laici dell'ospizio di Fontebono, presenti e futuri. Sul modello Avellanita, già consolidato dal priorato di Pier Damiani, si vuole sottolineare nella scelta del priore in sostituzione dell’abate, il netto distacco dal secolo. Abate, infatti, era sinonimo non solo di cenobio ma anche di potere politico, di ricchezza e di ingerenza secolare. Anche l’hospitium assume quindi una natura giuridica, celebrata in funzione dell’eremo, e anche per l’ospizio-monastero viene ribadito ciò che il vescovo Teodaldo imponeva all’eremo:

 

«... l'ospizio di Fontebono non debba diventare mai monastero di cenobiti, ma debba restare in perpetuo quale ospizio dell'eremo e a questo soggetto, come non possa giammai allo stato cenobitico passare l'eremo stesso.»

 

Attribuire a Romualdo l’istituzionalizzazione della sua forma eremitica ideale può risultare forse azzardato, ma sicuramente il suo desiderio di garantire la fragile autonomia dell’eremo rispetto all’invadenza del cenobio e del mondo, fu perfettamente interpretata da Teodaldo prima e realizzata dai suoi discepoli poi. Sicuramente la spinta riformatrice del vescovo, istituzionalizzata nel diploma di concessione con il primato dell’eremo sull’ospizio, fu la ragione che consentì a questa forma eremitica di rimanere nel tempo e non scomparire all’ombra del cenobio. È così che la prima donazione vescovile e le sue successive riconferme rappresentano, in quegli anni di riforma ecclesiastica, lo stretto legame che unisce la diocesi, quindi il vescovo, e l’espansione del fenomeno monastico. Rodolfo racconta inoltre che alla casa fu aggiunta una chiesa, consacrata anch'essa dal vescovo Teodaldo. Infine descrive che Romualdo, dopo aver ammonito con diligenza i suoi discepoli, li abbraccia con le lacrime agli occhi prima di partire per Valdicastro dove morirà, come riferisce san Pier Damiani in Vita Romualdi.

La piccola Comunità, sotto la potente personalità del priore Rodolfo, seguirà un rapido processo di istituzionalizzazione e organizzazione centralizzata sul modello cluniacense. Sul finire del secolo XI, acquisisce un numero notevole di eremi, chiese e possedimenti in centro Italia e in Sardegna, ingrandendosi nella fama, nel prestigio e nell’autorevolezza.

Nel 1086 a opera dello stesso priore Rodolfo viene fondato il ramo femminile della Congregazione con il monastero di S. Pietro presso Luco in Mugello, a cui venne associato, nella tradizione camaldolese un ospedale. Il priore non è più, quindi, una semplice guida spirituale, un supervisore, ma diventa a tutti gli effetti un “reale signore”, un dominus.

A un secolo dalla sua fondazione la Comunità dei Romualdini di Campo Malduli e Fontebono con due interventi da parte del Papa Pasquale II (P. 1099-1118), si trova ufficialmente a capo di una Congregazione di monasteri e di eremi inseriti nell’Ordine Benedettino. Il termine Camaldulenses assume un suo significato specifico e con la bolla Ad hoc nos del 23 marzo del 1105 il Papa riconosce e concede alla Comunità tutte le donazioni e proprietà acquisite, e per la prima volta l’hospitium di Fontebono viene riconosciuto come monasterium. Ma ancora più importante è la bolla Gratias Deo del 4 novembre 1113 (riconfermata da altri Papi tra il 1153 e il 1184), con cui Pasquale II diede vita alla Congregatio Camaldulensis Ordinis Sancti Benedicti, unendo sotto Camaldoli tutti i Monasteri ed Eremi creati o riformati da san Romualdo e quelli che avevano già adottato la riforma romualdina. Nel maggio del 1111 era inoltre arrivato anche il riconoscimento e il patrocinio dell’Imperatore Enrico V (+1125). È probabilmente da inserire in questi anni la redazione del Liber heremitice regule [10] (detto anche “Costituzioni lunghe”), in cui, sul solco delle prime Constitutiones, viene evidenziata un’organizzazione della comunità assai più complessa della precedente.

Prende forma una struttura piramidale molto vicina al modello cistercense, dove, nell’autonomia economica e organizzativa degli eremi e dei diversi monasteri, si costituisce l’unità della Congregazione. Il priore non è più chiamato a “dominare”, ma a servire i fratelli, nello spirito del “Maestro”. Il priore generale diventa, quindi, la guida superiore e la sua nomina prevede il riunirsi di un corpo elettorale denominato “Capitolo”, ovvero l’assemblea generale dei coristi professi [11]. A questa elezione non partecipano più i soli Eremiti di Camaldoli e alcuni fra i monaci di Fontebono e delle altre Comunità Camaldolesi: il corpo elettivo vede adesso anche gli abati e i priori di tutte le altre comunità della Congregazione.

Le “Costituzioni lunghe” sono un’altra testimonianza del tentativo in atto nella Chiesa dell’epoca di reagire al troppo autoritarismo e alla troppa rigidità introdotte con la riforma gregoriana.

Questo tentativo, sulla scia dell’esperienza vallombrosana, sarà purtroppo fallimentare, in quanto con esso si tenderà a introdurre nel mondo cristiano il dualismo tra Chiesa e secolo, tra monachesimo contemplativo e monachesimo attivo. L’autore del Liber sottolinea, riprendendo la volontà Romualdina di communio vera, l’importanza dell’ospizio quale luogo di ospitalità per i pellegrini e cura dei poveri, presupponendo uno spirito più collaborativo tra il cenobio e l’eremo.

Mentre nella prima metà del XII secolo l’esperienza monastica aveva portato nell’ambito della Chiesa elementi di novità e di riforma, nella seconda metà dello stesso secolo tutte le grandi Congregazioni monastiche vivono un periodo di involuzione, contraddistinto dal consolidamento istituzionale, dalla precisazione di forme giuridiche e dalla larga espansione. Questa crisi non risparmia certo Camaldoli, in cui si accentuano polemiche e conflittualità interne già da tempo latenti. Inoltre, i rapporti tra la Diocesi aretina e la Congregazione di Camaldoli diventano sempre più difficili e tesi. Le missive episcopali acquistano adesso un tono distaccato e burocratico, evidenziando un rapporto non più di tipo fraterno, ma di conflitto tra due grandi potenze ecclesiali in contrasto su autorità e proprietà. Particolarmente interessanti sono le quattro lettere con cui Papa Adriano IV (P. 1154-1159) cerca di favorire una tregua tra vescovo aretino e Congregazione Camaldolese. Egli da una parte rimprovera i monaci di avere abbandonato l'antica quiete, unanimità e concordia, e di essersi lasciati dominare dai desideri carnali e dalle concupiscenze, e soprattutto dal detestabile vitium della mormorazione dell'uno contro l'altro e dall'altra parte esorta il priore a dimostrarsi padre dei suoi monaci e a tener conto del loro parere nelle decisioni, secondo la Regola di san Benedetto, ed esorta i monaci a obbedire al loro priore.

Durante il pontificato di Alessandro III (P. 1159-1181), Camaldoli si troverà ad affrontare le prime difficoltà dovute alla sua vasta “signoria feudale”, contestata dalla Diocesi, dai signori vicini e anche dagli stessi sudditi. Nel 1187 oltre alle conferme su diritti e proprietà da parte del papa Clemente III (P. 1181-1191), anche l’Imperatore Enrico VI (+1197), oltre a numerose donazioni, concesse l'immunità all'Eremo di Camaldoli. La conferma papale, in particolare, servì a limitare l’ingerenza vescovile nei confronti dei Camaldolesi: nessun vescovo aveva la facoltà di scomunicare i monaci o sospenderli dall’ufficio divino senza aver prima ottenuto il consenso papale. Numerose sono, infatti, le controversie e le liti processuali che si trascinarono per più di un secolo, fino ad arrivare addirittura a scontri armati, come quello che porterà al “Sacco di Camaldoli” del 1260 a opera del vescovo Guglielmo degli Ubertini (+1289).

È in una di queste controversie che, a opera degli stessi monaci Camaldolesi, le origini dell’Eremo furono artefatte, rimanendo così nella tradizione per i secoli successivi: interpolando le fonti e addirittura costruendone appositamente di false, i monaci cercarono di attribuire una particolare rilevanza alle loro origini, al solo fine di rendere ragione - come era mentalità dell’epoca - dell'importanza nel frattempo assunta da questo piccolo Eremo del contado aretino e di garantirne al contempo l’autonomia (Vedovato, 1994). La vicenda prese le mosse da una falsa testimonianza resa dal priore camaldolese Raniero di S. Michele di Arezzo, il 26 novembre del 1216 davanti ai delegati del Papa Innocenzo III (P. 1198-1216).

Per salvaguardare i diritti di esenzione dell’Eremo di Camaldoli contro alcune pretese giurisdizionali e patrimoniali avanzate dal vescovo di Arezzo, il priore dichiarò di avere visto e letto, nel 1182, un diploma notarile dove si affermava che il luogo donato a Romualdo per edificare l’Eremo era stato offerto da un certo conte Maldolo nel 1012, e non dal vescovo Teodaldo. Questa versione, non confortata da alcun documento, è rimasta nella tradizione fissando quindi la data della fondazione all’anno 1012.

Purtroppo esistono poche fonti sulla storia della congregazione dopo il XII secolo, ma pur in un complessivo ridimensionamento dell’esperienza monastica, Camaldoli continuerà negli anni successivi a ricercare quella originaria communio tra eremo e cenobio, tra fede e storia. Particolare importanza assumeranno le nuove Constitutiones Camaldulenses, scritte dal priore Gerardo nel 1279 che, come vedremo nei capitoli successivi, rappresentano uno dei primi atti di quello che è il complesso di norme e usi definito “Codice forestale Camaldolese”.

In queste Constitutiones, oltre a comparire la figura del “Padre Maggiore”, incaricato del solo governo dell’Eremo e del Monastero di Camaldoli, si comincia a regolare in modo strutturato il rapporto che si era ormai saldamente realizzato tra i monaci e le risorse forestali Casentinesi. Tutte le legislazioni che si succederanno via via nel tempo si preoccuperanno di disciplinare questo sodalizio fino a quando esso verrà interrotto dalle soppressioni civili del XIX secolo.

Tra il XIII e il XIV secolo la Congregazione Camaldolese conobbe una forte espansione territoriale e un inserimento molto deciso nella società dei Comuni. Si rafforzò sempre più la componente cenobitica, assumendo sempre maggior rilievo nella formazione culturale e teologica dei monaci, anche a seguito della nascita di nuovi ordini (frati mendicanti, francescani, domenicani). Tali ordini porteranno con loro nuove correnti di pensiero che troveranno spazio all’interno del mondo camaldolese. Camaldoli entrò nella nuova società urbana, fece sue le nuove istanze volte a un’attenzione sempre maggiore verso l’”Uomo” e il suo protagonismo nella storia, istanze che venivano dalla vicina Firenze, culla dell’umanesimo. In questi secoli moltissimi sono inoltre i miniatori Camaldolesi che hanno operato negli scriptoria di Firenze, Camaldoli e Fonte Avellana, spesso muovendosi dall’uno all’altro monastero per le reciproche esigenze di lavoro, producendo un prezioso patrimonio di documenti miniati.

Come tutti i grandi centri monastici, Camaldoli divenne principalmente un grande amministratore che gestiva, attraverso carte e scritti, tutti i suoi possedimenti, ma era nel rapporto con la terra e le foreste che si realizzava la sua grande forza economica e sociale. Fin dal suo primo sorgere la Comunità di Camaldoli stabilì un rapporto vitale con l’ambiente forestale, fino ad assumerlo a simbolo e custode della vita monastica.

Camaldoli divenne realmente una signoria di grandi dimensioni, con forti legami sociali e politici con la chiesa e con l’aristocrazia locale, nonché un grande centro di aggregazione per le popolazioni circostanti che vedevano in Camaldoli non solo un centro spirituale, ma anche un’ importante fonte di protezione e di sicurezza. Nasce così, anche grazie a questo grande centro monastico, il senso di essere parte di una comunità, protetta e tutelata. Ed è in questo contesto che nel 1331 riapre, dopo cinquanta anni dalla sua distruzione per un incendio, l’ospedale di Camaldoli. Resterà operativo fino al 1810 fornendo gratuitamente cure e assistenza, nonché i funerali per i malati che morivano durante il ricovero.

L’opera di carità nei confronti dei pellegrini, dei poveri e degli ammalati distinse la Congregazione Camaldolese quasi ovunque e quarantadue fra ospedali e ospizi, furono i centri operanti dal 1048 al 1445 in varie zone di Italia. In conformità con lo spirito romualdino e con quanto organizzato dal Beato Rodolfo nelle prime Constitutiones, la presenza di una operosa farmacia e di un ospedale rimangono nei secoli il punto di forza e di distinzione della Comunità Camaldolese.

Nel XV secolo si realizza il definitivo distacco tra Medioevo e mondo moderno; il fervore letterario e artistico di quegli anni coinvolge anche Camaldoli, che diviene in breve un importante centro di riferimento per l’umanesimo toscano. Numerose sono le figure camaldolesi che si distinguono nelle arti, nella letteratura e nelle scienze. Fra queste sicuramente di particolare rilievo è il priore generale Ambrogio Traversari (+1439), che dal monastero di stretta clausura di S. Maria degli Angeli di Firenze, dove avviò una scuola sistematica di greco e ebraico, riuscì a intessere stretti rapporti con gli umanisti del suo tempo, da Francesco Foscari di Venezia ad Antonio Beccadelli di Palermo. Nominato priore generale della Congregazione, si dedicò alla sua riforma e per volere di Papa Eugenio IV (P. 1431-1447) si occupò attivamente del Concilio di Basilea, Ferrara e Firenze (1432-1437-1438.) per la riforma e l’unità delle Chiese.

La sua visione ecumenica dell’unità nella pluralità, sancita dalla bolla Lautentur coeli (6 luglio 1439) verrà poi disconosciuta dal Concilio di Trento (1545-1563), troppo preoccupato di condannare la “diversità” della riforma Luterana.

Inoltre nelle arti pittoriche si distinsero Lorenzo Monaco (+1425) e Bartolomeo della Gatta (+1502), come anche Mauro “il cartografo” (+1460) insigne cartografo al servizio della Repubblica di Venezia [12].

Un’altra importante figura è il priore generale Mariotto Allegri (+1478), che fu il fondatore delle Academiae Camaldulenses, luogo di importanti incontri culturali dove, fra tanti altri, trovarono ospitalità Lorenzo il Magnifico De’ Medici, Cristoforo Landino, Leon Battista Alberti e Marsilio Ficino. Da questi incontri presero forma le Disputationes Camaldulenses [13], redatte dal Landino e pubblicate a Firenze nel 1480. L’esperienza camaldolese fu da esempio per la nascita nel Casentino di nuove e numerose altre Accademie neoplatoniche e produsse un sensibile interesse per l’approfondimento delle scienze nei vari monasteri, con l’apertura di diverse scuole e corsi.

In questo secolo, il profondo legame della Comunità Camaldolese con le foreste casentinesi si rafforzò ulteriormente. L’introduzione di una importante evoluzione tecnologica nel 1458 trasformò la comunità in una vera e propria organizzazione commerciale per la vendita del legname. Fu infatti costruita una segheria idraulica adiacente al Monastero, che rimase operativa fino al 1945, dopo essere stata rinnovata e potenziata nel 1845 e nel 1879.

Testimonianze di attività commerciali legate alla risorsa forestale risultano comunque presenti, anche se non in modo continuativo, fin dal XI secolo. Tutte le opere caritative e assistenziali gratuite trovavano finanziamento principalmente dagli utili ottenuti dalla attenta e oculata gestione della foresta.

L’importanza spirituale ed economica data alla risorsa forestale era tale che le prassi acquisite nei secoli per la gestione e la salvaguardia della foresta vennero ben presto promosse e via via aggiornate così come le circostanze suggerivano, per essere poi definitivamente inserite nelle prime Constitutiones e successivamente nella Regola (cfr. Cap. 2.1).

Dopo la cultura dello spirito, la virtù dell’ospitalità e il dovere di cura delle foreste i monaci furono, inoltre, i finanziatori e in molti casi gli autori di importanti infrastrutture rurali, come l’apertura di strade, la costruzione di ponti, la regolazione di corsi d’acqua e la bonifica di aree malsane a fini agricoli.

Sul finire del secolo Camaldoli venne anche coinvolta nelle vicende politiche del tempo e pagò un caro prezzo per le simpatie e la protezione avute dalla Repubblica di Firenze, allora in guerra con la Repubblica marinara di Pisa, a sua volta alleata con la Serenissima di Venezia: la difesa del Monastero dagli assalti delle truppe veneziane penetrate nel Casentino, vide nel 1498, i monaci impugnare le armi [14].

La profonda crisi del XVI secolo, il secolo della scissione protestante, coinvolgerà, già alla fine del 1400, anche la Congregazione Camaldolese. Al suo interno cominciano a incrinarsi i rapporti, preludio a una profonda spaccatura. Questa sarà principalmente dovuta all’incapacità di rielaborare il messaggio di comunione nelle diversità di Romualdo, nel nuovo contesto storico. Le Constitutiones stavano invecchiando, i tempi non erano più quelli di san Romualdo e la “Riforma” protestante minacciava la Chiesa. In attesa di una necessaria riforma interna, si moltiplicarono i distacchi e le scissioni in seno alla Congregazione. Le più importanti azioni di autonomia da Camaldoli rimangono due: quella veneta della Comunità cenobitica di Murano e la costituzione della Compagnia di san Romualdo a opera del Beato Paolo Giustiniani (+1528) (cfr. Cap. 2.2). Con un piccolo gruppo al suo seguito, nel 1520, quest’ultimo lascia Camaldoli per le grotte del Fosso del Corvo, nei pressi di Cupramontana, con il proposito di ripristinare l’antico rigore eremitico. Ciò avviene mentre il Giustiniani propugna una radicale riforma della Chiesa, presentata in una lettera [15] datata 1513 e indirizzata a Papa Leone X (P. 1513-1521).

Quest'ultimo consentì all'eremita camaldolese di fondare nuovi eremi e di riformare le regole di quelli esistenti e scarsamente funzionanti sulla base della sua Regula Vitae Eremiticae di cui tratteremo più approfonditamente nel capitolo 2.2.

Il suo tentativo di recuperare il vecchio ideale eremitico venne interpretato come una provocazione e presto i rapporti con Camaldoli si ruppero, giungendo nel maggio 1525, alla separazione definitiva. Nel 1526 la Compagnia di san Romualdo cambia nome e assume quello di Compagnia degli Eremiti Camaldolesi di Monte Corona dall’eremo omonimo presso Umbertide, nell’Umbria.

La Congregazione Camaldolese del sacro Eremo e di S. Michele di Murano invece dovette aspettare il 1616 per sancire formalmente e definitivamente la separazione da Camaldoli, con l’intervento di un commissario di Papa Paolo V (P. 1605-1621), per poi riunirsi a essa nel 1935 con Papa Pio XI (P. 1922-1939).

L’estinzione di ogni legame tra gli eremiti e i cenobiti Camaldolesi portò alla formazione della "Congregazione eremitica di Toscana” e alla "Congregazione dei monaci Camaldolesi” ovvero "Congregazione di S. Michele di Murano”. Nel 1935 il ramo cenobitico fu soppresso e in parte unificato con quello degli eremiti di Toscana.

Agli inizi del XVII secolo dal nucleo centrale di Camaldoli presero presto origine anche altre diramazioni, come la “Congregazione degli Eremiti Camaldolesi del Piemonte” originatasi dalla prima emanazione camaldolese in terra di Piemonte, il cenobio di Pozzo- Strada presso Torino. Nel 1601 fu fondato l’eremo del SS. Salvatore presso Torino per volere di Carlo Emanuele I di Savoia che concesse numerosi privilegi che furono la causa della rottura con la casa madre e la conseguente fondazione di una congregazione autonoma, la “provincia piemontese dell’ordine di san Romualdo”. L’Eremo divenne la sede centrale della filiazione piemontese che non mancò di dimostrare la sua vitalità dando a sua volta origine alla congregazione degli Eremiti Camaldolesi in Francia nel 1625, soppressa poi nel 1770.

Per la Congregazione Camaldolese in questo, tumultuoso periodo, contrassegnato da tensioni e spaccature, vi è da segnalare però anche un’unione di particolare rilievo: il Cenobio autonomo della Congregazione Avellanita viene, nel 1569, con bolla papale, unificato a Camaldoli, cementando così quel forte legame che per cinque secoli le aveva viste unite fin dalle comuni origini.

Rispetto a quelli precedenti, gli illuminati secoli XVII e XVIII rappresentano i meno “attivi” per la Congregazione Camaldolese, ormai definitivamente spezzata in tre tronconi (Camaldoli, Murano e Monte Corona). Le scissioni e gli antagonismi interni indebolirono la primitiva spinta mistica e il prestigio culturale, ma in alcuni casi riuscirono a ravvivarne lo spirito più autentico. Le Constitutiones Camaldolesi scritte nel 1639, che rimarranno in vigore fino alla vigilia del Concilio Vaticano II (1962-65), risentono fortemente dell’influsso coronese e tornano a mettere in primo piano l’Eremo e gli eremiti.

Sono questi anche i secoli in cui, nel fiorire delle scienze naturalistiche, matematiche e storiche, la Congregazione fornisce contributi importanti. Tra i molti monaci Camaldolesi che si dedicarono allo studio delle scienze spiccano: Guido Grandi (+1742), teologo e matematico stimato anche da Leibniz e da Newton, e titolare di una cattedra di filosofia all’Università di Pisa; Anselmo Costadoni (+1785) e Giovanni Benedetto Mittarelli (+1777), autori tra l’altro degli Annales Camaldulenses [16], la principale fonte della storia camaldolese (Fig. 1.19).

Sul finire del XVII secolo la Comunità dà inoltre una profonda prova dello spirito eucaristico delle origini che mai fu perso nel trascorrere dei secoli [17], con un gesto di profonda carità: fu durante la carestia che colpì le popolazioni del casentino nel 1783 e nel 1789 che i Camaldolesi, per supportare le esigenze delle popolazioni locali stremate dalla fame, impegnarono i paramenti sacri contraendo enormi debiti (cfr. Bartolini, 1926).

Ma la Congregazione affrontò le prove più dure nel XIX secolo, quando il nuovo ordine europeo portò a ridefinire i confini e gli equilibri dei vecchi Stati. Sul territorio italiano, in poco meno di sessanta anni si ebbero due differenti soppressioni degli ordini religiosi. La prima da parte del governo napoleonico durante l'occupazione militare francese nel 1810, che “depredò” i beni ecclesiastici allontanando inoltre i religiosi dai loro monasteri (bisognerà aspettare il 1815 e il Congresso di Vienna per vedere aboliti questi provvedimenti;).

Con la legge-decreto del 7 luglio 1866 giunge la seconda soppressione di tutti gli ordini religiosi del Regno d'Italia. Anche Vittorio Emanuele II promulgò un decreto di soppressione di tutti gli ordini religiosi e di confisca dei loro rispettivi beni. A Camaldoli tutti i beni diventarono proprietà dello Stato, compresi 1.442 ettari di foresta. I monaci furono espulsi dall’eremo e dal monastero che divenne in parte caserma del Regio Corpo Forestale e in parte albergo (l’attuale foresteria). Il patrimonio archivistico fu trasferito all’Archivio di Stato di Firenze, dove ne giunse solamente una residua parte. Il resto fu smembrato e venduto a privati e collezionisti. Nel 1873 fu stipulato un canone d’affitto per le abitazioni e i luoghi di culto; fu così che si ebbe il ritorno degli eremiti a titolo di custodi.

Il nuovo secolo si aprì ai Camaldolesi come un’ennesima sfida. Alcuni monaci partirono per fondare nuove comunità in Brasile. I pochi rimasti si dedicarono con fervore non solo a riorganizzare la Congregazione e a cercare di salvare il patrimonio storicobibliografico disperso ma soprattutto a recuperare quella “impazienza di sterilità” tipica di Romualdo: ritrovare cioè nello spirito originario la forza di vivere il nuovo millennio. Il punto di partenza fu il nono centenario della morte di san Romualdo (1927) in cui oltre a una riconciliazione tra i rami separati della Congregazione, fu avviata una faticosa analisi critica della lunga e complessa tradizione romualdina.

Nella riscoperta delle radici comuni si decise di ricominciare dall’originale programma di contemplazione e apostolato, che confluii nella riunificazione decisa da Papa Pio XI (P. 1922-1939) nel 1935 dei vari rami prolificati sull'antico ceppo dei Camaldolesi. Si aprì così un nuovo stimolante periodo di dialogo, non solo con le proprie radici storiche e spirituali, ma anche con il presente della chiesa e della società, offrendo importanti strumenti di conoscenza del proprio passato, per interpretare il presente e poter progettare il futuro. Importanti furono, negli anni ‘30 e ‘40, i numerosi scambi col mondo laico dell’Azione Cattolica.

Il Concilio Vaticano II (1962-1965), accolto dai Camaldolesi come un dono irripetibile dello Spirito per la Chiesa del nostro tempo, ha ispirato il rinnovamento dell'impianto spirituale, radicato nella tradizione e aperto al nuovo, e la revisione delle strutture giuridiche e organizzative, che si concretizza nel documento di base della vita delle Comunità Camaldolesi del 1957: le “Costituzioni della Congregazione Camaldolese dell'Ordine di San Benedetto”. Con le nuove Constitutiones si considera ormai acquisito il principio secondo cui la Congregazione è composta da Eremi, da Eremi e Monasteri e da Monasteri sui generis, principio in parte confermato e aggiornato dalle ultime Constitutiones del 1985.

Come abbiamo visto, la vita di Camaldoli e della Congregazione Camaldolese è andata incontro a vicende alterne, con fasi di fama e splendore, seguite da lunghe decadenze e significative riprese. Oggi la Congregazione si è rinnovata profondamente al suo interno, vivendo sempre nella Regola benedettina e negli antichi statuti romualdini, secondo i principi della solitudine, della comunione e dell'ospitalità. Essa si è aperta alle esigenze della Chiesa universale e le Comunità Camaldolesi sono tornate a essere luogo privilegiato per il dialogo ecumenico e interculturale.

 


[1]  Il primo lavoro storiografico scientificamente attendibile sulle origini dell'eremo casentinese è rappresentato dal breve articolo di Giovanni Tabacco, La data di fondazione di Camaldoli, pubblicato nel 1962, lavoro sviluppato e integrato criticamente nel 1964 da Wilhelm Kurze in Campus Malduli. Die Frugeschichte Camaldolis, che può essere considerato il punto di riferimento storiografico più completo e autorevole sulle origini di Camaldoli;

[2] Schiaparelli-Baldasseroni, Regesto di Camaldoli, I„ pag. 69, n. 166 ; pag. 132, n. 328;

[3]  Si confronti il documento dell’ottobre 1066, dove si riporta: "eremite de Sancto Salvatorem de Campo Amabilis qui dicitur Camaldulo”;

[4] Schiaparelli-Baldasseroni, Regesto di Camaldoli, I, pag. 98. n. 239;

[5]  Nel 1037 decime e masi nei pressi di Camaldoli, 1059 la Chiesa signorile di San Pietro in Cerreto, nella diocesi di Volterra, nel 1063 l’acquisizione della Chiesa di San Savino di Chio;

[6] Beato Rodolfo, (1074-1089) quarto priore dell’eremo e primo legislatore della comunità monastica di Campo Maldoli;

[7]  Flaminia Minor ancora oggi oggetto di studio, fu costruita dalle truppe del console romano Gaio Flaminio nel 187 a.C., due anni dopo la fondazione di Bologna avvenuta nel 189 a.C.. Questa strada aveva il ruolo importante di unire le aree a nord dell'Appennino con quelle a sud. Dalla via Emilia portava ad Arezzo superando il valico del Gioghetto. Fonti documentarie medievali e oltre (sec. XII - XIV) ne confermano ancora l'esistenza con piccole varianti dall'originale percorso;

[8]  Accanto ai monaci "coristi” si trovano i monaci conversi, incaricati di attività pratiche e lavori manuali; questi sono quasi sempre uomini del popolo, senza cultura che entrano nel monastero da adulti; non mancano comunque casi di uomini che diventano conversi per scelta, pur essendo dotati di un buon livello di preparazione culturale;

[9]  La Congregazione Camaldolese degli eremiti di Montecorona, di Placido T.Lugano Benedettino di Montelovieto, Frascati Sacro eremo Tuscolano, 1907, I, pag.37;

[10]      I codici attraverso cui ci è pervenuto il testo non ne identificano né la data né la paternità, la collocazione e la paternità risultano ancora oggi controverse, anche se la tradizione è concorde nell'attribuirle al Beato Rodolfo;

[11]      I monaci furono distinti in coristi e conversi; i primi costituivano la famiglia monastica vera e propria, i secondi erano, considerati di “seconda classe” perché provenienti dal volgo. Erano al servizio della prima, addetti ai lavori della casa, in modo da permettere ai coristi di dedicarsi completamente al loro ministero;

[12] Lorenzo Monaco (1370-1425): pittore del monastero di S. Maria degli Angeli di Firenze, maestro di Giovanni da Fiesole (Beato Angelico), legato al “gotico fiorino” di Gherardo Starnina, estimatore di Spinello Aretino, amico di Lorenzo Ghiberti, iniziatore dell’uso del "bianco” come "luce interiore” (vedi incoronazione della Vergine, Uffizzi di Firenze; Bartolomeo della Gatta (1448-1502), pittore, scultore ligneo, architetto e miniatore, definito dal Vasari in Le Vite, "il più grande dopo Piero”; Mauro "il cartografo” (+1459) ingegnere idraulico a servizio della Repubblica di Venezia e cartografo insigne, disegnatore del planimondo che ha rivoluzionato la geografia di Tolomeo e contribuì al progetto di Cristoforo Colombo;

[13]      Opera dedicata a Federico Da Montefeltro Duca di Urbino, divisa in quattro dialoghi tenuti in altrettanti giorni sul tema del rapporto tra sapere e fare, tra vita attiva e contemplativa;

[14]      G. Cacciamani, Camaldoli cittadella di Dio, Edizioni Paoline, Roma 1968, pp. 33-36;

[15]      Il Libellus, lettera scritta dai monaci camaldolesi Paolo Giustiniani e Pietro Quirini in cui sottolineano la necessità e l’urgenza di avviare un profondo processo di riforme all’interno della Chiesa. Il Libellus rappresenta il più grandioso e nello stesso tempo il più radicale di tutti i programmi di riforma (Jedin) disegnando una nuova cristianità, basata su una nuova teologia costruita sulla Bibbia e sugli antichi documenti dei Padri.

[16]      Annales Camaldolenses (1755-1773): opera redatta in nove volumi che raccoglie le trascrizioni di un gran numero di documenti antichi, e in base a questi ricostruisce con precisione, anno per anno, la storia della Congregazione;

[17]      La storia della Congregazione Camaldolese è ricca di esempi sul rapporto con le comunità locali. In particolare Camaldoli era famosa per l'attenzione rivolta alle necessità delle popolazioni Casentinesi provvedendo con elemosine, concessioni e aiuti diretti alle famiglie bisognose. Ancora oggi il Rione di San Frediano a Firenze ricorda con una via dedicata il contributo dei monaci Camaldolesi per la sua realizzazione;

 


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1 giugno 2025        a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net