San Romualdo – Biografia

A cura di Giovanni Tabacco

Estratto da “Bibliotheca Sanctorum – Vol. 11”, Città Nuova Editrice, 1968

 

ROMUALDO, santo. Nato a Ravenna dal duca Sergio intorno alla metà del X sec., si fece monaco a S. Apollinare in Classe non prima del 973, dopo una violenta contesa, in cui si trovò implicato, fra il padre e un congiunto, che vi perdette la vita. A S. Apollinare rimase forse un triennio. Insofferente della mediocrità di quei monaci, passò a vita eremitica verso la laguna di Venezia. Si fece discepolo dell’eremita Marino, uomo d’animo semplice e di grande purezza, ma non esperto di regole eremitiche: digiunava ed ogni giorno recitava l’intero salterio, ma ora stava in cella, ora col discepolo salmodiando vagava per la vastità dell’eremo. Da lui Romualdo imparò a leggere il salterio. E con lui fu a Venezia, dove si unirono al celebre Guarino, abate del monastero di S. Michele di Cuxa, nella parte orientale dei Pirenei, e allora pellegrino in Italia.

Fu in quel tempo, nel 978, che il doge Pietro Orseolo I abbandonò la città per convertirsi a vita monastica e insieme con Guarino, Marino, Romualdo e con gli ottimati veneziani Giovanni Gradenigo e Giovanni Morosini fuggì, per la Lombardia e la Provenza, fino al monastero di Cuxa, allora fiorente e sotto l’influenza, mediante appunto Guarino, dell’attività riformatrice di Cluny. Nei pressi del monastero, Marino e Romualdo ripresero la vita eremitica e vissero del lavoro delle proprie mani, coltivando la terra. La lettura delle Vitae patrum e delle Collationes di Cassiano indusse Romualdo a un’ascesi più ordinata e lo fece maestro di virtù e di preghiera a Pietro Orseolo e a Giovanni Gradenigo. Insegnava, come ci informa un suo futuro discepolo, Bruno di Querfurt, l’oblio totale del mondo, la stabilità nella cella e la mortificazione di veglie e digiuni, la penetrazione nella parola e nello spirito dei salmi, l’annullamento di sé nell’attesa di Dio, e all’asprezza del suo magistero univa un rapporto intenso ed austero di amore privilegiato con le anime forti che si sottomettevano a lui.

Quando Pietro Orseolo nel 987 o 988 morì e intorno al medesimo tempo giunse dai monaci di S. Severo in Classe notizia a Romualdo che il padre, entrato in quel monastero durante la lontananza del figlio, se n’era pentito ed era tornato nel secolo, Romualdo si affrettò a Ravenna, dove indusse Sergio a rientrare nel monastero, e il Gradenigo e Marino accompagnarono a Montecassino un penitente illustre, il conte di Cerdagna, Olibano. Marino trascorse poi nelle solitudini delle Puglie, dove i Saraceni lo uccisero. Il Gradenigo invece condusse vita eremitica presso Montecassino e ne insegnò le regole, apprese da Romualdo, a un giovane chierico originario di Benevento, già fattosi monaco e da qualche tempo vivente in solitudine.

Romualdo intanto si era ritirato a vivere in cella nella palude di Classe, cosi riprendendo le sue esperienze di vita solitaria nelle zone desolate della costa adriatica, soprattutto nelle isole formate dai molti rami del Po nel suo grande delta, dal Ravennate a Cornacchie: non senza tuttavia spingersi talvolta fin d’allora, su nell’Appennino. Visse infatti per un certo tempo nella zona di Bagno di Romagna, a monte di Sarsina, costruendo anzi lì presso il monastero di S. Michele di Vergherete, non lungi dal quale visse in cella solitaria. Lì ricevette elargizioni dal marchese Ugo di Toscana e di esse si servì, oltre che per Verghereto, per rimediare a un incendio del monastero di Palazzolo presso Ravenna: donde le ire dei monaci di Verghereto e l’espulsione di Romualdo dal luogo. Visse anche vicino al monte Catria, nell’Appennino umbro-marchigiano, donde tornò a Classe, presso il monastero di S. Apollinare.

Altre volte visse recluso in cella nella malsana palude di Comacchio, in luogo prossimo al monastero di S. Maria in Aula Regia, o convisse in cella con un discepolo di nome Guglielmo, a Sud di quella palude, al Pereo: un’isola da lui resa famosa, detta poi di S. Alberto, che era allora a Nord del Po di Primaro, tra il fiume e le valli di Comacchio, e che ora è venuta a trovarsi a Sud del Reno, quindici chilometri a Nord-Ovest di Ravenna. Dal Pereo lo trasse l’imperatore Ottone III per affidargli il governo e il riordinamento del monastero di S. Apollinare in Classe. Ma il suo rigore non piacque ai monaci, né Romualdo li tollerò a lungo. In cospetto dell’imperatore gettò la verga abbaziale.

Quasi fuggitivo, mosse verso Montecassino a ritrovare Giovanni Gradenigo, il compagno di penitenza e di preghiera. Ma Benedetto di Benevento, che dalle parole del Gradenigo, ormai suo proprio maestro, aveva imparato ad amare in R. un maestro più grande, gli mosse incontro a sua volta e ne divenne il discepolo esemplare per fedeltà all’ascesi durissima da Romualdo insegnata e per umile sollecitudine nel servirlo quando, nell’autunno del 1000, Romualdo cadde gravemente ammalato. Risanato, Romualdo entrò in Roma, dove Ottone III era di ritorno da un pellegrinaggio alla tomba del recente martire s. Adalberto in Polonia. E nei pressi di Roma raccolse un gruppo eremitico, a cui attrasse anche amici diletti dell’imperatore, come il giovane Bruno di Querfurt. già canonico a Magdeburgo e cappellano di corte, poi monaco a Roma col nome di Bonifacio ed ora eremita, da Romualdo affidato alla direzione spirituale di Benedetto di Benevento. Le relazioni fra l’eremo e la corte imperiale al principio del 1001 erano intime, come appare sia dalla mediazione di Romualdo fra Ottone e la ribelle Tivoli, sia dal trasferimento del gruppo eremitico al Pereo, quando l’imperatore, ribellatasi Roma, riparò in febbraio a Ravenna. Fu allora che Ottone promise a Romualdo di convertirsi, trascorsi tre anni, a vita monastica, e che per volontà di Ottone fu eretto al Pereo un oratorio in onore di S. Adalberto. La consacrazione avvenne nell’autunno del 1001. La chiesa fu affidata a una comunità cenobitica, tratta dall’affluire nell’isola, intorno a Romualdo, di penitenti non tutti idonei alla vita eremitica. Alla duplice comunità, di eremiti e di cenobiti, Romualdo non volle presiedere, preferendo esser maestro di anime piuttosto che signore di corpi, e cercò di preporvi il suo Benedetto. Il quale, giudicandosi giovane troppo per un simile carico, ricorse mediante Bruno di Querfurt all’imperatore. Altri fu fatto abate, non senza sdegno di Romualdo.

Intanto Bruno persuadeva Benedetto all’idea, cara ad Ottone, di una missione per convertire gli Slavi: il martirio appariva ai due giovani coronamento dell’ascesi eremitica. E poiché Ottone volle per qualche tempo ancora trattenere Bruno in Italia, fu richiesto a Romualdo, ed ottenuto senza le previste difficoltà, il consenso per la partenza in missione, anzitutto, di Benedetto e di un altro giovane eremita, di nome Giovanni. Ma le interferenze imperiali e la frequenza dei visitatori avevano ormai troppo turbato al Pereo la vita contemplativa. Nel dicembre del 1001 Romualdo abbandonò l’isola e per mare passò a Parenzo nell’Istria.

L’esperienza del Pereo ebbe un posto centrale nell’attività di Romualdo. Attraverso le contraddizioni fra solitudine e rapporti coi potenti, fra esigenze eremitiche, affluire di penitenti, disciplina di cenobiti, si espresse in Romualdo il proposito di innalzare l’eremo, come vita di gruppo simile alle antiche laure egiziane, a un’autonomia di governo e a una superiorità istituzionale sul cenobio, conformi alla maggior dignità, affermata in Cassiano e riconosciuta nella regola benedettina, della vita eremitica. È presumibile che l’esempio di Pomposa, dove nell’ultimo decennio del X sec. gli abati usarono ritirarsi per lunghi periodi a vita eremitica, conservando l’alta direzione dei monaci, abbia influito su Romualdo, così come la spiritualità romualdina influì a sua volta ben presto su Pomposa. L’esperienza di gruppo, formatasi spontaneamente nella consuetudine di Romualdo coi suoi veneziani a Cuxa, e ripresa nei pressi di Roma, in rapporto con la corte tedesca, nell’autunno del 1000, poté cosi confluire con l’esempio degli abati eremiti di Pomposa e ricostruire l’idea antica dell’eremo autonomo. Ma il modo in cui una tale colonia eremitica sorse, per il riunirsi intorno al figlio del duca Sergio di giovani di provenienza diversa, da Benevento a Magdeburgo, membri spesso di grandi famiglie e in collegamento col potere imperiale, se conferì all’idea romualdina e ai maggiori eremiti del delta padano, da Ravenna a Pomposa, fama europea e larga efficacia entro il movimento monastico, da Farfa a Digione, complicò d’altra parte la vita dell’eremo di gravi responsabilità, dalla conversione dei penitenti e dal governo dei monaci fino alla missione fra gli infedeli, donde il turbamento di Romualdo e la ricerca di solitudini nuove oltre l’Adriatico.

Tre anni visse nella diocesi di Parenzo, per lo più recluso in cella, dove teneva un altare, e nel dire i salmi ebbe il dono delle lacrime. Ma anche allora ebbe cura delle anime e costruì un monastero. Intanto la fama di lui rimaneva viva nel Ravennate, per cui alcuni eremiti dimoranti a Biforco, ora S. Benedetto in Alpe, nell’alta valle del Montone, un torrente che dall’Appennino scende a Ravenna, più volte ricorsero a lui per trarne insegnamento nella lotta col diavolo. Romualdo finì col recarsi presso di loro, superando le difficoltà oppostegli dai vescovi di Parenzo e di Pola, che lo volevano in Istria. Ma gli eremiti di Biforco, che vivevano ciascuno per proprio conto, mantenuti in celle confortevoli dalla generosità di persone diverse, non vollero mettere le proprie cose in comune né eleggersi un superiore, per cui Romualdo, dopo aver dimorato nell’unica cella, quella dell’eremita Pietro, che rispondesse alle esigenze dell’ascesi da lui predicata, abbandonò il luogo e passò nella marca di Camerino, fermandosi a Val di Castro, tra Fabriano e Cingoli: un pianoro fertile ed irriguo, circondato da monti e da selve, un possesso comitale messo a sua disposizione, dove già c’era una piccola chiesa, tenuta da monache, che si allontanarono. Presso la chiesetta Romualdo fece costruire celle per sé e per alcuni discepoli. Molti vi convennero per ascoltarne la parola infiammata, ricchi penitenti che distribuivano ai poveri le proprie cose e talvolta passavano a vita monastica, chierici simoniaci che Romualdo ammoniva ad abbandonare l’ufficio acquistato, vescovi corrotti che, al dire di Pier Damiani, non mai s’inducevano a mantenere le promesse fatte a Romualdo. Promosse anche, se la testimonianza di Pier Damiani è esatta, la creazione di canoniche per la vita comune del clero, e costruì in quei luoghi un monastero femminile. Da Val di Castro, ivi lasciati alcuni discepoli, passò in Umbria, nel comitato di Orvieto, dove costruì un monastero nei possessi del conte Farolfo, molti attraendo a sé, anche giovani di famiglie potenti, che abbandonati i parenti fuggivano presso di lui. Tre altri monasteri sorsero poi nelle Marche per opera sua: uno a Val di Castro, un altro presso il fiume Esino, tra Val di Castro e Fabriano, un terzo presso Ascoli Piceno.

Giunse a Romualdo notizia, intorno a quel tempo, che Bruno di Querfurt, appresa la morte di Benedetto di Benevento e del suo giovane compagno Giovanni in Polonia, aveva cercato e con diciotto compagni subito il martirio fra i pagani di Prussia, al principio del 1009. Dal racconto, qui alquanto favoloso, di Pier Damiani si può arguire che la notizia ravvivò nella cerchia di Romualdo l’idea di missione fra i pagani, già presente per opera di Bruno nella colonia dei Pereo, ma non riuscì a conciliarla stabilmente con la concezione ascetica e contemplativa dell’eremo. Del resto la predicazione stessa di Romualdo ai penitenti, per i quali creava attraverso l’Appennino tanti piccoli monasteri, ebbe sempre qualcosa di occasionale, nonostante il fervore che in questa attività egli pose, così come in modo del tutto imprevisto gli avveniva di prorompere contro i potenti del secolo. Discontinuità dunque di azione, in conformità di un’aspirazione costante a una perfezione tutta interiore e alla contemplazione.

Dopo il periodo di incertezza, in cui alla fondazione dei tre monasteri marchigiani si intrecciò e segui l’elaborazione e qualche probabile tentativo di esecuzione di disegni di missione nel bacino danubiano, con occasionali rapporti anche con famiglie tedesche, quella soprattutto di Adalberone di Eppenstein, marchese in Stiria e poi duca di Carinzia, Romualdo tornò al monastero fondato nella regione d’Orvieto. Ma deluso dall’ambiziosa condotta di quell’abate ed offeso dalla sua inobbedienza, passò con alcuni discepoli a Preggio nel territorio di Perugia, nei possessi di un potente di Arezzo, Rainerio, più tardi marchese di Toscana. Rainerio aveva per Romualdo reverenza grande e timore, ma non volle lasciare la seconda moglie con cui allora viveva, per tornare alla prima, tempo addietro scacciata, e Romualdo se ne sdegnò, né volle rimanere in quel luogo se non pagando l’acqua e la legna di cui si serviva.

Intesa poi la notizia della vita corrotta di un simoniaco abate di S. Apollinare di Classe, tosto vi si recò e poco mancò vi lasciasse la vita, strangolato da quell’iniquo. Tornò allora oltre Adriatico, a Parenzo, ma per breve tempo. L’Appennino ormai gli appariva come il deserto più rispondente alle esigenze dell’ascesi e della contemplazione. Fu a Cagli, a qualche distanza dal monte Catria, e poi sul monte Pietralata, a Nord di Cagli, non lungi dal monastero di S. Vincenzo, nel quale più tardi Pier Damiani ebbe a scrivere la Vita Romualdi. Tornò per la terza volta a Val di Castro, al monastero che egli aveva fondato, e all’abate, già eremita, insegnava a contemperare la cura del governo con la salvezza dell’anima propria, soprattutto insistendo perché vivesse, come un tempo, nella sua cella e visitasse i monaci soltanto nelle festività. L’abate fini con l’infastidirsi e ne provocò l’allontanamento.

Dopo altra peregrinazione per l’Appennino, Romualdo giunse finalmente in un luogo che fu tra i suoi prediletti, il monte di Sitria, al confine fra le attuali province di Perugia, Ancona e Pesaro, ad oriente del Catria. Anche qui patì persecuzioni, e di particolare gravità morale, per le calunnie soprattutto di un discepolo, di nome Romano, un nobile che divenne più tardi vescovo simoniaco di Nocera e tosto perdette violentemente la vita. Ma all’ampiezza della persecuzione rispose infine una venerazione più ampia e trionfale. Ovunque gli era avvenuto di attrarre discepoli, di riunirli in gruppi eremitici o in piccoli monasteri, preponendovi priori od abati, a cui li affidava per cercare altrove via via la solitudine ancora e in essa l’inevitabile frutto della sua inquietante presenza, la conversione dei penitenti, ma non mai forse l’alternanza di isolamento e di fecondità spirituale, di contrasto e di comunione di anime ebbe la profondità raggiunta a Sitria. Qui lunghi anni di vita reclusa, di inviolato silenzio e di strettissima imitazione dell’antica ascesi eremitica gli valsero a loro volta molti fervidi imitatori, fra gli stessi pastori e servi del gruppo di solitari, con uso anche di flagellazioni volontarie come forma di martirio spontaneo. Il numero crescente di penitenti indusse Romualdo a costruire anche a Sitria un monastero, da cui, prepostovi un abate, si allontanò per ritirarsi nel luogo a lui già noto di Biforco.

Qui l’azione di Romualdo si incontrò una seconda volta con l’attività imperiale. Era la fine del 1021, ed Enrico II, disceso in Italia ed entrato a Ravenna, sottopose formalmente alla disciplina di Romualdo e dei suoi successori viventi nell’eremo di Biforco gli abati ed i monaci di un cenobio sorto in quel luogo su terra fiscale. Una volta ancora era confermata l’idea della subordinazione del cenobio all’eremo, là dove essi fossero entrambi presenti, con un tentativo qui, se il diploma a noi pervenuto in copia non è troppo alterato, di precisare il rapporto in forma istituzionale permanente. La determinazione giuridica fu tentata mediante il collegamento con l’impero, con la ripresa dunque di tendenze già palesi al Pereo, al tempo di Ottone III. Il tema della riforma delle abbazie imperiali mediante ricorso all’eremitismo romualdino si precisò allora, o piuttosto l’anno seguente, 1022, con l’assegnazione a Romualdo del monastero del monte Amiata, nel Senese, dov'egli portò un proprio nucleo di seguaci, ma con scarsa fortuna. Passò allora nel territorio aretino, nel 1023 o poco dopo. Ai piedi dei monti che dividono Toscana e Romagna, nel verde pianoro di Camaldoli, in terra vescovile, fece apprestare cinque celle separate, per altrettanti eremiti, che attendessero alla sola contemplazione divina. La chiesa di S. Salvatore, ivi costruita, fu consacrata dal vescovo aretino Teodaldo, alla cui protezione Romualdo affidò gli eremiti, quando, scelto fra essi come priore Pietro, abbandonò il luogo per recarsi a morire presso il suo monastero di Val di Castro, recluso in cella eremitica. La morte sopravvenne il 19 giugno di un anno non posteriore al 1027: forse anzi proprio nel 1027, se la donazione fatta nell’agosto di quell’anno agli eremiti da Teodaldo, in memoria di Romualdo, avvenne quando più viva fu la commozione per la scomparsa di lui.

Una vita densa di fatti contraddittori: un collegamento quasi costante col mondo dei potenti, da cui Romualdo stesso veniva, e un’esasperata polemica contro la corruzione che il potere, di principi e di prelati, inevitabilmente genera nell’anima di chi lo detiene; un’evidente insofferenza per le strutture istituzionali, che mortificano la libertà spirituale, e una continua formazione di gruppi ordinati, un richiamo alle regole antiche e alla disciplina pili rigida; un’intransigente volontà di isolamento, di calma interiore e di silenziosa immobilità, e una ricerca quasi affannosa di anime forti da convertire e da conquistare al suo Dio. Nessuno rimase indifferente nella presenza di lui: di fronte alla sua serenità amabile e di fronte al fuoco della sua indignazione e della sua tensione religiosa. Gli odi si alternarono con un entusiasmo di amore. Pier Damiani ne scrisse con cura la vita quindici anni dopo la morte e la popolò di visioni e di miracoli, di lotte col diavolo, tutto attestato dalla fede dei monaci che conobbero il santo e del popolo che lo venerò: le folle accorrevano a Val di Castro, sulla sua tomba, i miracoli si moltiplicavano, occorreva perpetuare la memoria delle sue gesta ad ammonimento di tutti. Già cinque anni dopo la morte la sede apostolica aveva dato licenza che sopra il corpo di lui fosse costruito un altare. Intanto a Camaldoli, l’ultima delle sue fondazioni e la più fortunata, si custodiva con particolare fervore il ricordo del santo e si attuava in rigida forma istituzionale la superiorità dell’eremo, che i vescovi aretini e poi l’ordinamento robusto della congregazione garantirono. Il corpo del santo rimase nell’abbazia di Val di Castro fino al 1480, quando fu trafugato da due monaci di S. Apollinare in Classe e portato a Iesi. Qui le ossa furono recuperate e trasferite il 7 febbraio 1481 nella chiesa camaldolese di S. Biagio in Fabriano, dove sono tuttora. La festa del santo, che originariamente era il 19 giugno, fu da Clemente VIII nel 1595 estesa a tutta la Chiesa e fissata al 7 febbraio.

 

 

BIBLIOGRAFIA: fonti: Bruno di Querfurt, Vita quinque fratrum, ed. R. Kade, in MGH (Monumenta Germaniae Historica), Script., XV, pp. 709-38; Pier Damiani, Vita beati Romualdi, ed. G. Tabacco, Roma 1937 ( = Fonti per la storia d’Italia, XCIV).

Studi: G. Mittarelli - A. Costadoni, Annales Camaldulenses ordinis s. Benedicti, I II, Venezia 1755-56; H. G. Voigt, Brun von Querfurt, Mönch, Eremit, Erzbischof der Heiden und Märtyren, Stoccarda 1907; W. Franke, Romuald von Camaldoli, Berlino 1913 (= Historische Studien, CVII); A. Pagnani, Vita di s. Romualdo abbate, fondatore dei Camaldolesi, Sassoferrato 1927; A. Zonghi, Documenti intorno alla traslazione in Fabriano del corpo di san Romualdo, in S. Romualdo e Fabriano, Fabriano 1931, pp. 43-68; G. Palazzini, S. Romualdo e le sue fondazioni tra i monti del Cagliese, in Studia Picena, XVIII (1948), pp. 61-76; G. Tabacco, Privilegium amoris. Aspetti della spiritualità romualdina, in Il Saggiatore (rivista di cultura filosofica e pedagogica), Torino, IV (1954), pp. 324-43; id., La data di fondazione di Camaldoli, in Rivista di storia della Chiesa in Italia, XVI (1962), pp. 451-55; J. Leclercq, Saint Romuald et le monachisme missionaire, in Revue bénédictine, LXXII (1962), pp. 307 23; W. Kurze, Campus Malduli. Die Frühgeschichte Camaldolis, in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, XLIV (1964), pp. 1-34; K. Elm, in LThK, IX2, coll. 36-37; G. Tabacco, Romualdo di Ravenna e gli inizi dell’eremitismo camaldolese, in L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII. Atti della seconda Settimana internazionale di studio, Mendola 30 agosto - 6 settembre 1962, Milano 1965, pp. 73-121; O. Capitani, San Pier Damiani e l'istituto eremitico, ibid., pp. 122-163.

 

Giovanni Tabacco


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11 gennaio 2022        a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net