La Regola di 
	Rabbula di Edessa o la difficoltà del cenobitismo
	
	
	
	
	[1]
Estratto e tradotto da "Solitude et communion. Tome II. Fuite du monde et vie communautaire"
	
	di Jean-Luc Molinier – Ed. 
	
	Cerf Patrimoines 2016
	
	
	 Dopo 
	lo studio di due autori che si sono evoluti nell'universo persiano
	
	
	
	[2], la Regola di Rabbula ci 
	indirizza verso un altro contesto, peraltro congiunto, quello della Siria.
	Rabbula (morto nel 435 o 
	436) è famoso per la sua azione contro il nestorianesimo e con la sua 
	diffusione dei “Vangeli separati„ che egli avrebbe tradotto. Di conseguenza 
	proscrisse l'impiego del Diatessaron
	
	
	
	
	[3]. Nel suo articolo del 
	1928 Peeters si rifiuta di attribuire a Rabbula la paternità della 
	traduzione in siriaco dei quattro Vangeli e riporta piuttosto quest'opera ad 
	Ibas 
	
	
	[4]. Nel 1931 Lagrange, nella sua 
	risposta allo studio di Peeters, ridà una certa credibilità alla vita 
	siriaca di Alessandro l'Acemeta
	
	
	
	[5] ed, in particolare, a ciò che egli 
	insegna sull'opera di Rabbula. La vita di Rabbula è stata bene studiata ed 
	il testo dei Canoni monastici sembra ora ben stabilito.
	Il fatto è che questi sono stati 
	poco analizzati nella prospettiva attuale.
	
	Nato in Siria da un sacerdote pagano, Rabbula sembra essere stato poco 
	influenzato da sua madre, dalla sua nutrice e da sua moglie che erano 
	cristiane: diventato prefetto dell'Impero, diventa il difensore delle 
	divinità pagane. In seguito, convertito da due miracoli, è battezzato nel 
	Giordano, vende i suoi beni ed incita la moglie ed i figli alla vita 
	monastica. Nel 412, diventa vescovo di Edessa ed esercita il suo episcopato 
	in una maniera di rigoroso ascetismo. Viene anche in soccorso dei più poveri 
	facendo costruire ospedali, lebbrosari ed aiutando i più bisognosi. In 
	occasione del concilio di Efeso, nel 431, si pone a fianco di Cirillo di 
	Alessandria.
	
	Ecco ciò che scrive al suo riguardo François Graffin, che riassume bene il 
	modo in cui il suo ricordo passerà alla posterità, sia come santo, che come 
	persona autoritaria:
	
	Rabbula è temuto più che amato, al punto di essere nominato “il tiranno di 
	Edessa„ da parte di Ibas, professore alla “Scuola dei Persiani„ della città. 
	Egli caccia quest'ultimo nel 433, rimproverandogli di avere tradotto in 
	siriaco le opere di Teodoro di 
	
	Mopsuestia
	
	
	
	[6] 
	(tuttavia Ibas diventerà il suo successore come vescovo). Questo accanimento 
	preoccupa la Chiesa armena, che comunica ciò a Proclo, vescovo di 
	Costantinopoli, il quale redige allora il suo Tomus ad Armenios per 
	informare coloro che lo hanno consultato.
	Rabbula morì il 7 agosto 435 o 
	436. La chiesa di rito siriano lo ha messo nei ranghi dei più grandi 
	santi.
	
	
	
	[7]
	
	
	Studio dei Canoni
	
	
	
	
	[8]
	
	I Canoni 
	di Rabbula, scritti verso il 430, distinguono i “monaci„ che vivono nei 
	monasteri (Canoni da 1 a 25) da coloro che si ricollegano senza 
	dubbio maggiormente ai monaci itineranti, le cui biografie più famose sono 
	riportate da Teodoreto di Ciro (o Cirro) nella Storia dei monaci della 
	Siria, Canoni che trattano allo stesso tempo dei chierici e dei monaci (Canoni 
	26 a 85).
	
	I Canoni 
	1-25 aiutano a comprendere meglio ciò che ne era realmente di questi due 
	tipi di monaci nella loro relazione con la Chiesa.
	
	Sull'origine dei Canoni detti di Rabbula, Lagrange non dice parola; 
	noi ci atterremo dunque 
	all'analisi di Peeters:
	
	Dell'amministrazione episcopale di Rabbula, il narratore parla lungamente 
	per non dire nulla di preciso. Tutta la sua amplificazione ritorna a 
	mostrare come il santo abbia cercato di inculcare ai sacerdoti, ai monaci ed 
	alle religiose i precetti che si trovano parzialmente codificati 
	successivamente alla Vita, nello 
	stesso manoscritto e, più completamente in alcuni altri, sotto il titolo di 
	“Ammonizioni„ o “Regolamenti di Mâr Rabbula„. Questo artificio sarebbe 
	soltanto in parte discutibile, se si fosse certi che questa legislazione è 
	sicuramente di Rabbula. Ma, a partire da san Clemente e sant'Ippolito, senza 
	contare gli Apostoli, quanti personaggi famosi non hanno coperto del loro 
	nome e della loro autorità leggi e regole uscite da un'evoluzione secolare? 
	Anche le raccolte canoniche, che non erano pseudepigrafe (attribuite a chi 
	non ne era il vero autore) all'origine, lo sono diventate nel corso dei 
	tempi con le modifiche e gli ampliamenti che le hanno snaturate nel loro 
	spirito e nella loro lettera. “Il libro dei precetti di Mâr Rabbula„ 
	certamente non è sfuggito a questa evoluzione. Potrebbe anche appartenere 
	interamente ad uno stesso autore che non sarebbe Rabbula.
	
	
	
	[9]
	
	Questi Canoni conosceranno una grande posterità:
	sono citati 62 volte nelle fonti 
	del diritto del patriarcato di Antiochia
	
	
	
	[10]. 
	La nostra attenzione riguarderà principalmente i Canoni per i 
	cenobiti (Canoni da 1 a 25).
	
	Un primo punto attira l'attenzione del lettore: l'incompatibilità della vita 
	monastica con il fatto di vivere del proprio lavoro.
	
	Perché per nessun motivo il lavoro deve fare mancare le ore di preghiera 
	(Canone 15), l'autore aggiunge alla “non proprietà personale„ (Canone 
	11), inerente al fatto monastico, la “non proprietà comunitaria„ (Canoni 
	9-10). Ecco ciò che scrive a 
	questo proposito A. Vööbus:
	
	Le Regole 
	conosciute sotto il nome di Rabbula non permettono alle comunità monastiche 
	di possedere pecore, capre, animali da soma o altri animali. Vi è permesso 
	soltanto un asino, e solo per coloro che ne hanno necessità, ed una paio di 
	buoi, per coloro che seminano campi. Inoltre, non è permesso avere 
	mercanzie: “Mercanzie comperate o da vendere non si troveranno nei 
	monasteri, ad eccezione del necessario, senza ingordigia„ (Canone 
	10). Nonostante queste 
	concessioni, è sembrato che tali Regole ostacolassero 
	profondamente ogni sviluppo progressivo.
	Non abbiamo del resto alcuna 
	garanzia - è necessario accennarlo - che le concessioni citate sopra fossero 
	in realtà una parte primitiva ed originale delle Regole. Al 
	contrario, alcune discordanze nelle Regole ed alcune flessioni nella 
	tradizione manoscritta indicano la possibilità di un rimaneggiamento nei 
	testi che sono sopravvissuti.
	
	
	
	[11]
	
	Perché la vita economica non deve essere assunta dai monaci stessi, si può 
	leggere nei Canoni indirizzati ai monaci itineranti che, 
	tradizionalmente, spetta ai sacerdoti ed ai laici di provvedervi:
	
	I sacerdoti ed i diaconi prenderanno cura dei monaci che si trovano nel loro 
	paese; si occuperanno di loro come loro membra; esorteranno anche i secolari 
	a venire in aiuto per le cose corporali e faranno in modo che le donne non 
	entrino nei monasteri (Canone
	40).
	
	Potendoci essere la tentazione di chiedere alle monache di provvedere al 
	sostentamento dei monaci, un Canone lo vieta:
	
	I sacerdoti, i diaconi ed i religiosi non molesteranno le religiose affinché 
	tessano loro dei vestiti per forza 
	(Canone 28).
	
	
	
	[12]
	
	La situazione di dipendenza nella quale i monaci si trovano situati non li 
	rende atti a difendere le cause dei poveri, dei prigionieri od a sostenere 
	le loro famiglie in difficoltà. C'è una grande differenza con i Canoni 
	di Marutha
	
	
	
	[13] che fanno della solidarietà con i 
	prigionieri ed i poveri un elemento costitutivo delle comunità monastiche.
	
	Un Canone 
	per i cenobiti chiede a coloro che sostentano il monastero di non servirsi 
	del nome del monastero per ottenere grano ad un migliore prezzo, ma 
	piuttosto di comperarlo al prezzo di mercato
	
	
	
	[14]. Benedetto certamente ha la stessa 
	preoccupazione quando chiede ai monaci di vendere i prodotti ad un prezzo 
	più basso di quello dei secolari
	
	
	
	[15].
	
	Questa volontà che il lavoro non sia pregiudizievole alla vita monastica è 
	una preoccupazione che attraversa tutta la tradizione monastica; tuttavia, 
	dove la maggior parte dei legislatori si accontenta di mostrare il pericolo 
	pur invitando a vivere una certa tensione tra il mantenimento nella presenza 
	di Dio e l'attività dell'uomo - tensione che dà luogo ad una teologia del 
	lavoro - l'autore qui esclude una vera presa in carico da parte dei monaci 
	dalla loro economia e richiede piuttosto che sia instaurata un'assistenza 
	delle comunità monastiche da parte della Chiesa locale.
	
	Un secondo punto, che deriva dal precedente, è quello della dipendenza 
	giuridica dei monaci riguardo al clero locale: solo coloro che sono 
	sacerdoti o diaconi possono distribuire la comunione (Canone 19), 
	sono loro che sono superiori nelle loro comunità.
	L'argomentazione di Rabbula è che 
	colui che ha dato prova di capacità per gestire una Chiesa è atto a condurre 
	una comunità monastica:
	
	
	Una situazione importante, dove si vede apparire il ruolo del superiore, è 
	l'accoglienza di un fratello che viene da qualche altra parte:
	
	Nessuno riceverà un fratello che passa da monastero a monastero senza il 
	permesso del superiore presso il quale dimorava (Canone 25).
	
	Questa disposizione ispirata dal buon senso si trova nella Regola di san 
	Benedetto (RB 
	61,13).
	
	Nei Canoni 
	di Rabbula, i monaci itineranti sembrano così in una certa misura, minima ma 
	ben reale, dipendenti dal clero locale
	
	
	
	[16].
	
	Un terzo punto: la sfiducia nella relazione col mondo.
	
	Non si trova nei Canoni di Rabbula per i cenobiti, eccetto il 
	Canone 16
	
	
	
	[17], la benché minima allusione ad una 
	relazione positiva del monaco con l'esterno.
	Ciò che è indicato si trova 
	ovunque nella tradizione monastica, ma la caratteristica di questi Canoni 
	è l'insistenza sui punti negativi: 
	non rimanere con le donne (Canoni dal 27 al 29);
	non passare la notte fuori di un 
	monastero (Canoni 2 e 3);
	fuggire le locande per non bere 
	vino: Canone 4 (stessa cosa per gli anacoreti, Canoni 
	48 e 71); non leggere libri che 
	non trattano della fede (Canone 10).
	
	D'altra parte, si rileva il pericolo dell'esibizionismo ascetico dei 
	cenobiti (Canoni 5 e 6) e quello della pratica dell'Arte divinatoria
	(Canone 18).
	
	La rottura con il mondo non consiste soltanto nel non uscire dal monastero - 
	e ciò anche in caso di malattia - ma anche nel non informare la gente (dei 
	villaggi), anche in caso di decesso di un fratello (Canoni 
	1.8.12.23.29).
	
	
	La prospettiva monastica di Rabbula
	
	Lo studio di Arthur Vööbus apparso nel 1959 tiene conto di un rifiuto del 
	cenobitismo nel monachesimo siriano nella prima parte del V secolo
	
	
	
	[18]. Il suo articolo termina con questa 
	conclusione:
	
	Nelle nostre ricerche, abbiamo avuto accesso a fonti di carattere diverso, 
	non soltanto le fonti storiche e le omelie, ma anche i Canoni. Quest'insieme 
	fornisce una prova incontestabile la cui eclatante evidenza taglierebbe 
	corto a qualsiasi discussione. E, tuttavia, queste fonti lasciano il lettore 
	perplesso. Infatti, cosa che colpisce soprattutto è la reazione dell'antico 
	monachesimo siriaco contro le tendenze dominanti dello sviluppo del 
	cenobitismo. Altrove questo sviluppo ebbe luogo facilmente. I Siriani, al 
	contrario, prendevano un'altra via, poiché queste forme nuove non erano 
	soddisfacenti per la totalità del movimento monastico. Il nostro stupore è 
	causato dall'azione del monachesimo siriaco che creava un fronte di 
	opposizione e ricongiungeva attorno a lui le forze relegate alle antiche 
	tradizioni. Queste prospettive sono molto istruttive e vantaggiose per lo 
	studio dell'antichità cristiana siriaca. Inoltre, si può comprendere la 
	storia posteriore e l'evoluzione particolare del monachesimo siriaco 
	soltanto se si presta a questa realtà storica tutta l'attenzione che merita
	
	
	
	[19].
	
	Rabbula ha certamente conosciuto la corrente acemeta che è nata in Siria; 
	nella biografia greca del suo fondatore, sant'Alessandro l'Acemeta, si fa 
	menzione di Rabbula. Inoltre, la caratteristica essenziale dell'abbandono 
	alla Provvidenza nella dottrina di Rabbula che abbiamo appena rilevato si 
	trova nell'insegnamento di Alessandro. Nel suo articolo, Arthur Vööbus
	
	
	
	[20] mostra i legami che collegano la 
	prospettiva monastica di Rabbula a quella del movimento acemeta. Rabbula e 
	Alessandro raccolgono attorno a loro dei gruppi di monaci ai quali 
	comunicano un totale abbandono alla Provvidenza divina. Quando Alessandro 
	muore verso il430, numerose cerchie imitano già il suo genere di vita:
	
	Nella biografia di Rabbula, si raccontano, in modo molto significativo, le 
	ultime disposizioni del vescovo morente, poiché rivelano il suo interesse 
	per il tipo del cenobitismo che intendeva promuovere: “Inviò altre persone 
	per portare i suoi doni ai conventi all'Ovest ed al Sud che sussistono 
	confidando solo nella bontà divina„
	
	
	
	[21].
	
	Rabbula sarebbe stato convertito da due miracoli compiuti da Alessandro nel 
	deserto. Questa prova non concorda con la vita siriaca di Rabbula dove egli 
	è convertito da un miracolo compiuto da Abramo il recluso e da un secondo 
	miracolo nella basilica di Ciro, ed anche influenzato da indicazioni 
	ricevute da due vescovi
	
	
	
	[22]. Tuttavia si può osservare che, nei 
	due casi, è un doppio miracolo che ottiene il consenso alla fede di Rabbula.
	
	I commentatori ricusano la storicità degli elementi ricondotti a Rabbula 
	nella “Vita di Alessandro l'Acemeta „, tuttavia questi stessi eruditi 
	riconoscono un probabile incontro storico tra i due uomini:
	
	Anche se, dando la precedenza alla vita siriaca, Rabbula è stato convertito 
	dall'incontro con Abramo il recluso e dalle esortazioni di due vescovi, 
	nulla impedisce che abbia conosciuto anche Alessandro e che sia stato 
	impressionato dalla sua vita ascetica e dalla sua predicazione
	
	
	
	[23].
	
	È, pertanto, ammissibile che Rabbula abbia visto Alessandro l'Acemeta e che 
	le austerità di quest'ultimo abbiano fatto impressione su di lui
	
	
	
	[24].
	
	Più importante è l'unità di dottrina tra i paragrafi che parlano di Rabbula 
	nella vita di Alessandro e l'insistenza sulla fiducia nella Provvidenza nei
	Canoni monastici chiariti precedentemente.
	
	Nella sua biografia, Alessandro chiede agli aspiranti al battesimo di 
	liberarsi dai loro idoli e, una volta compiuto questo atto, egli li conduce 
	ulteriormente nella fiducia in Dio:
	
	Quanto al beato 
	
	Alessandro, 
	vedendoli tutti esultare di gioia nella fede e rendere grazie a Dio, disse 
	loro: “Fino ad oggi vi nutrivate di latte. Ma se qualcuno desidera ricevere 
	in condivisione il nutrimento solido e vuole diventare un cristiano 
	perfetto, venda ciò che gli appartiene, lo dia ai poveri, non si preoccupi 
	del domani e allora egli avrà un tesoro nel cielo. „ Ma il discepolo Rabbula 
	dice: “Non sono ancora un cristiano? E come posso fare ciò? Chi nutrirà la 
	folla dei miei servi, se non lo faccio io? È menzogna pura. Se lo vuoi, 
	prova a persuadermi con degli atti, nutri me ed i miei schiavi, anche 
	soltanto un giorno, ed allora io crederò alle tue parole. Se non puoi farlo 
	all'interno della città, cosa succederà se partiamo per il deserto? „ Allora 
	il beato 
	
	Alessandro dice: 
	“Prendi gli schiavi della tua casa e molti altri, quanti ne vorrai, e 
	portali nel deserto dove tu vorrai. Se il Signore non si prende cura di noi, 
	non ascoltarmi più„. E Rabbula risponde: “Se tu fai ciò, io seguirò tutto 
	ciò che è scritto nelle Scritture„
	
	
	
	[25].
	
	Il seguito del racconto mostra l'arrivo di un contadino in pieno deserto che 
	conduce una bestia da soma carica di alimenti (pane caldo e pentole di 
	verdura). Rabbula, alla vista di questo prodigio, si stacca di tutti i suoi 
	beni e raggiunge il deserto per dedicarsi all'austerità.
	
	Non è il rifiuto della proprietà che costituisce l'originalità di questo 
	testo bensì l'associazione di idee tra l'accoglienza della Parola di Dio che 
	invita all'abbandono delle ricchezze e la fiducia che i beni non 
	mancheranno.
	
	Per 
	
	Alessandro 
	come per Isacco di Antiochia e Rabbula che rappresentano la stessa tendenza, 
	la sistemazione dei monaci è un nonsenso
	
	
	
	[26].
	
	Alessandro 
	giudicava la gestione dei monasteri, le loro provviste, riserve e proprietà 
	come una degenerazione
	
	
	
	[27].
	
	Quest'unità di vista sulla fiducia nella Provvidenza divina è certamente il 
	terreno comune che collega Alessandro l'Acemeta e Rabbula e che permette di 
	comprendere perché questi due nomi si trovano associati nella biografia 
	greca di Alessandro.
	
	Secondo Vööbus, molti conventi della diocesi di Edessa, dove il 
	monaco-vescovo Rabbula aveva voluto propagare lo stesso tipo di monasteri, 
	erano in relazione con la cerchia di Alessandro.
	
	Sarebbe in ambienti di questo genere che occorrerebbe cercare l'origine, se 
	non della vita di Alessandro, almeno dell'episodio relativo alla conversione 
	di Rabbula inserito nella Vita del fondatore
	
	
	
	[28].
	
	Questo inserimento, oltre all'inverosimiglianza dei fatti (benché Alessandro 
	abbia potuto svolgere un certo ruolo nella conversione di Rabbula), vuole 
	soprattutto dire l'affinità che esiste tra l'ideale monastico dei due santi. 
	Infatti, “le Regole attribuite a Rabbula, le sue istruzioni 
	ecclesiastiche e la sua energica vigilanza vanno nello stesso senso 
	dell'opera di sant'Alessandro„
	
	
	
	[29].
	
	Secondo la Vita di Alessandro, al termine di sette anni di vita condotta nel 
	deserto, il fondatore degli Acemeti teme di essere assimilato al servo pigro 
	ed inutile e si lancia risolutamente nell'apostolato. Arriva in una città 
	dedicata all'idolatria e, come più tardi 
	
	San Marcello d'Apemea
	
	
	
	[30], 
	mette a fuoco il tempio
	
	
	
	[31]. Gli abitanti si precipitano per 
	vendicare i loro dei, ma una forza superiore li contiene. Rabbula si fa 
	avanti e si impegna in una discussione che continuerà durante tutta la 
	notte. Alessandro converte Rabbula facendo scendere il fuoco dal cielo, 
	sull'esempio di Elia; e dopo un secondo miracolo riesce a convincerlo ad 
	abbracciare la vita ascetica.
	
	Una delle conseguenze possibili a questo abbandono alla Provvidenza potrebbe 
	essere l'indolenza. Per rimediarvi, una delle intuizioni principali sarà 
	l'apostolato monastico:
	
	Io racconterò in tutta verità come la cosa si fece. Poiché gli otto cori 
	(degli angeli) erano adornati di una fede perfetta e facevano salire verso 
	Dio per molto tempo le loro preghiere ed i loro inni nella gioia ed il 
	giubilo del cuore, egli riflette in sé stesso e dice: “Non deve succedere 
	che la pigrizia venga ad inserirsi nel mezzo di una tale assenza di 
	preoccupazioni„. Ancor più, secondo la sua abitudine, si impone una 
	penitenza corporale; quindi chiama con il loro nome dei coraggiosi soldati 
	di Cristo al numero di centocinquanta, aventi realmente l'armatura della 
	fede, l'elmo della salvezza e la spada dello Spirito-Santo e dice loro: 
	“Fratelli, proviamo noi stessi per vedere se siamo completi nella fede, 
	percorriamo questo deserto spaventoso che è quello degli infedeli e 
	mostriamo con i nostri atti che noi crediamo in Dio con tutto il nostro 
	cuore, e non soltanto a parole 
	
	„ 
	
	
	[32].
	
	Ma, se Rabbula si situa veramente nel contesto del movimento acemeta, come 
	comprendere la sua accanita opposizione ad ogni impegno sociale e pastorale 
	dei monaci?
	
	Se il movimento acemeta ottiene il favore del popolo, esso sfugge alla 
	gerarchia della Chiesa che teme che la sua autorità sia messa in discussione 
	dal comportamento carismatico di questi monaci. Ma, quando Rabbula “scrive„ 
	i suoi Canoni monastici, è già vescovo. Di spirito appassionato, 
	se si crede ai suoi biografi, non è uomo da lasciare installarsi il 
	disordine nella sua diocesi. Anche se sembra essere stato segnato dalla vita 
	ascetica che ha condotto lui stesso, non può ignorare gli eccessi ed i 
	disordini causati dall'apostolato di queste comunità itineranti.
	
	Inoltre, ci si può interrogare: questi Canoni sono quelli di una 
	Regola effettiva che sarebbe stata vissuta da una comunità monastica o 
	sono delle decisioni episcopali che, nello stesso tempo, mantengono il 
	carisma della vita monastica ma anche lo mettono sotto tutela episcopale?
	
	Di fronte alla itineranza, Rabbula raccomanda la chiusura monastica
	
	
	
	[33]; in contropartita egli sopravvaluta 
	il discorso acemeta sull'abbandono alla Provvidenza, che mette queste 
	comunità in una situazione inevitabile di dipendenza economica e politica.
	
	Se il monachesimo di Rabbula è da situare nella scia del movimento acemeta, 
	non occorre - sembra -, come fa Arthur Vööbus nel suo articolo, parlare di 
	rifiuto del cenobitismo. Esiste un cenobitismo autentico da Alessandro con 
	una vera presa in considerazione degli elementi principali che lo 
	costituiscono (preghiera corale, comunione nel combattimento spirituale, 
	comunione anche nell'itineranza, comunione nella povertà e nell'abbandono 
	tra le mani di Dio). La prospettiva di Rabbula non deve fuorviare. Ciò a cui 
	reagisce il vescovo di Edessa, non è il cenobitismo ma piuttosto 
	l'indipendenza di una corrente monastica che egli mette sotto tutela per 
	controllarla meglio.
	
	Ma, per quanto riguarda la legislazione propriamente detta di Rabbula e di 
	ciò che possiamo dedurne, lo studio che abbiamo appena condotto ci permette 
	di concludere che la volontà del legislatore di mettere i monaci sotto 
	tutela episcopale li rende inadatti a garantire la loro missione profetica, 
	sociale e missionaria. Inoltre, non sembra ovvio che un cenobitismo 
	autentico possa sopravvivere ad un rifiuto di autonomia economica e 
	spirituale dei monasteri. A monte di questo testo una situazione certamente 
	troppo marginale rispetto alla gerarchia, troppo distinta dalle Chiese 
	locali, avrà condotto alla redazione di questi Canoni. Inseriti nella 
	legislazione della chiesa di Antiochia, conosceranno un certo successo, ma 
	saranno allora messi in un insieme più ampio, meno legato a lottare contro 
	situazioni storiche particolari
	
	
	
	[34].
	
	 
	
	Conclusione
	
	Al termine del nostro studio su alcune delle regole monastiche orientali, la 
	cui scelta è stata determinata dall'anzianità dei testi, possiamo rilevare 
	alcune delle loro similitudini e delle loro divergenze quanto al loro 
	rispettivo cenobitismo ed alla loro relazione con gli uomini e con il mondo.
	
	A titolo di preliminare notiamo che esiste una differenza importante tra 
	l'antica concezione del diritto in Egitto ed in Mesopotamia
	
	
	
	[35], dove prevale una visione che non 
	fonda il potere del re su di una concezione teocratica ma su una ricerca 
	della giustizia e del bene comune. Questa concezione favorisce una 
	legislazione che permette al monarca di stabilire leggi che tengono 
	maggiormente conto delle situazioni e dei contesti locali. Esiste un legame 
	stretto tra la logica delle leggi civili e quelle delle leggi monastiche 
	(religiose) in una certa cultura, la prospettiva del diritto mesopotamico si 
	trova nei Canoni monastici di Marutha attenti allo stesso tempo al 
	bene delle popolazioni ed a quello dei monaci, non esitando ad innovare su 
	molti punti. La preoccupazione di 
	Marutha è di rendere possibili i valori monastici in una data situazione. La 
	legislazione di Rabbula procede dalla stessa libertà, ma con tutt'altra 
	prospettiva. La sua situazione di vescovo ed il suo timore di vedere il 
	monachesimo sfuggire all'autorità della gerarchia lo conducono a mettere i 
	monaci sotto la tutela delle autorità ecclesiastiche; paradossalmente, in 
	uno stesso movimento, il suo proprio itinerario spirituale lo conduce a 
	reagire contro un monachesimo che tende ad istituzionalizzarsi. Da Marutha 
	come da Rabbula, noi abbiamo a che fare con una concezione della vita 
	monastica particolarmente attenta al contesto per attuare una legislazione o 
	per scegliere di raccogliere tale pratica ricevuta dalla tradizione 
	piuttosto che tale altra.
	
	Per quanto riguarda il servizio dei poveri, appare una divergenza. 
	L'argomentazione a favore del cenobitismo sviluppato da Cassiano si trova 
	nelle Regole di Pacomio: la koinônia
	
	
	
	
	[36] rende possibile 
	l'accoglienza delle donne, delle famiglie, dei poveri, senza che ciò sia 
	pregiudizievole alla vita monastica.
	Aphraate non parlerà 
	differentemente ai suoi interlocutori tentati da una visione restrittiva del 
	concetto di “prossimo„. Marutha predispone un'istituzione: un fratello, 
	eletto dalla comunità, ha l'incarico di visitare i prigionieri della città. 
	Queste varie forme del monachesimo cenobitico sono aperte alle necessità 
	della Chiesa e ad una fraternità intesa in senso largo, pur restando 
	interessate che sia salvaguardato il valore dell'amerimnia
	
	
	
	[37]. L'impegno a non 
	possedere nulla di proprio, che non era vissuto nel deserto nello stesso 
	modo, appare veramente come un punto determinante della condizione del 
	monaco semi-anacoreta o cenobita. Ne risulta una volontà più grande di 
	rispondere insieme alle esigenze monastiche ed alle sollecitudini 
	dell'esterno. Il “vizio„ della proprietà di cui parla Benedetto nella sua 
	Regola compromette l'autenticità ed il cemento comunitari che questi 
	testi legislativi vogliono instaurare.
	
	In compenso, nella Regola di Rabbula, la situazione è diversa:
	perché il lavoro e la gestione di 
	un patrimonio sono una minaccia per l'equilibrio della vita monastica (in 
	particolare per l'abbandono spirituale) i monaci non possiedono nulla 
	comunitariamente e dunque non conducono delle vere attività lucrative. Altri 
	hanno l'incarico di provvedere alle loro necessità e sono coloro che - in 
	fine - garantiscono il governo della comunità. A causa dell'assenza 
	di redditi comunitari risulta che i monaci non possono occuparsi dei poveri. 
	Il servizio del Popolo di Dio, vissuto nell'articolazione del doppio 
	comandamento dell'amore e del paradosso
	
	
	
	[38] che ne consegue invariabilmente, non 
	può essere garantito dal monaco cenobita se la comunità non si occupa del 
	suo futuro. Questa deve dotarsi dei mezzi concreti per giungervi, in 
	particolare con il lavoro ma anche con una cura particolare nel vigilare sul 
	cammino spirituale dei fratelli e con una vera carità per gli ospiti e per 
	più i poveri.
	
	Questa funzione della legislazione monastica è raramente valorizzata dai 
	commentatori, ma sembra avere presieduto a molte delle pagine della 
	Regola di san Benedetto. Essa permette anche di capire che uno dei 
	tratti caratteristici dell'insieme di questi testi legislativi sia la 
	volontà di mantenere i valori monastici tradizionali in un contesto nuovo in 
	cui emergono incessantemente nuove sollecitazioni.
	
	L'essere cristiano in generale ed il progetto di vita monastica in 
	particolare tendono verso l'unità interiore e questa non può essere ottenuta 
	dal solo rispetto dei comandamenti. Matteo, nel Sermone della montagna, 
	riprende molti dei comandamenti fondamentali della legge mosaica e mostra 
	che la loro osservanza non è mai completata, tanto è vero che questi 
	invitano sempre ad un superamento che conduce più lontano. Egli conclude con 
	un invito all'amore, non soltanto dei suoi fratelli ma anche di quelli che 
	ci sono stranieri ed ostili al fine di amare come Dio ama: “Voi dunque, 
	sarete perfetti come il vostro Padre celeste è perfetto„
	(Mt 5,48).
	Più avanti nello stesso Vangelo, 
	il giovane uomo ricco intende dire da parte di Cristo: “Se vuoi essere 
	perfetto, vai, vendi tutto ciò che possiedi, dallo ai poveri, ed avrai un 
	tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi„ (Mt 19,21).
	La sequela Christi 
	implica, dunque, la rinuncia ai beni e la condivisione con i poveri. Questa 
	“perfezione„ che diventa la “misericordia„ in san Luca
	(Lc 6,36) è la via 
	che adegua l'uomo a Dio ed alla sua paternità, fonte ed impegno di ogni 
	fraternità. La gestione quotidiana 
	del doppio comandamento dell'amore è un combattimento spirituale per il 
	monaco, tentato di lasciarsi monopolizzare dal servizio dei poveri, tentato 
	di lasciarsi sviare dalle esigenze dell'amore fraterno
	
	
	
	[39]. La Regola diventa 
	allora il mezzo offerto per vivere il Vangelo nell'unità del doppio 
	comandamento.
	
			
			NOTE: oltre alle note contenute nel testo originale sono state 
			aggiunte altre note del traduttore ricavate da diverse fonti.
			
			
			
			
			
			
			[2]
			
			
			Ndt. L'autore si riferisce alla Regola di Aphraate (o Afraate), 
			detto il Sapiente Persiano, ed ai Canoni monastici di Marutha, 
			vescovo di Maipherqat (in Armenia e alla frontiera con la Siria).
			
			
			
			
			
			[3]
			
			
			Ndt. Diatessaron (Che in greco significa "Attraverso i quattro") è 
			il titolo dell’armonia evangelica, composta con i passi dei quattro 
			Vangeli canonici da Taziano (Apologeta cristiano nato probabilmente 
			in Siria tra il 120 e il 130), intorno al 172, e usata fra i 
			cristiani di Siria fino ai primi del 5° sec. Dell’opera, assai 
			diffusa in rifacimenti arabi e latini per tutto il Medioevo, restano 
			ora un brevissimo frammento in greco, frammenti della versione 
			siriaca (soprattutto nel commento di Efrem), una versione araba (11° 
			sec.) dal siriaco ed un rifacimento in latino.
			
			
			
			
			
			[4]
			
			
			Ndt. Ibas 
			
			⟨ibℎa⟩ 
			(sir. Ḥībā, gr. Ιβας). - Teologo e scrittore siro (m. 457), capo 
			della scuola di Edessa sotto il vescovo Rabbūlā. Presente al 
			Concilio di Efeso, non approvò la condanna delle opere di Teodoro di 
			Mopsuestia e, in conflitto col suo vescovo, fu espulso dalla città 
			(433). Allora forse scrisse la famosa lettera al vescovo persiano 
			Mārī contro il Concilio di Efeso e Cirillo d'Alessandria. Questa 
			lettera, rimastaci in versione greca, distingue tra l'altro il Verbo 
			ed il suo tempio nato da Maria. Insieme agli scritti di Teodoro di 
			Mopsuestia e di Teodoreto di Ciro, essa costituisce i Tre Capitoli. 
			Eletto (435) vescovo di Edessa, più volte accusato di nestorianesimo 
			fino ad essere deposto (449), Ibas fu riabilitato dal Concilio di 
			Calcedonia (451) dopo aver anatematizzato Nestorio. Importanti 
			versioni dal greco in siriaco completano la sua opera. (Da 
			Enciclopedia Treccani)
			
			
			
			
			
			[5] 
			Ndt. Alessandro l'Acemeta. - Educato a Costantinopoli (morto a Gomon 
			430 circa), asceta (380 circa) in Siria, evangelizzò la Mesopotamia 
			fondando un grande monastero sull'Eufrate. Tornato poi, dopo un 
			soggiorno ad Antiochia, a Costantinopoli, vi fondò la comunità degli 
			acemeti, attirando a sé, per la novità e la serietà della regola, 
			numerosi monaci di altri conventi, ma anche rimostranze e 
			persecuzioni da parte delle autorità, che infine lo costrinsero a 
			trasferirsi altrove; fondò allora un monastero a Gomon, sulla riva 
			asiatica del Bosforo. (Da Enciclopedia Treccani)
			
			
			
			
			[6] 
			Ndt. Teodoro di Mopsuestia sosteneva che nel Cristo coesistevano due 
			nature distinte, quella divina e quella umana.
			
			
			
			
			
			[7]
			
			
			« Rabboula », in 
			
			
			Dictionnaire de Spiritualité, 
			Beauchesne, 1988, t. 13, colonna 13.
			
			
			
			
			
			[8]
			
			
			François 
			
			
			Nau, 
			
			
			Ancienne littérature canonique syriaque, 
			fascicolo 2, 
			
			
			Les canons, 
			Paris, 1906, p. 83-91. 
			
			Ndt. La numerazione dei canoni è diversa da quella che si trova sul 
			sito "ora-et-labora.net".
			
			
			
			
			
			[9]
			
			
			Paul PEETERS, « La vie de Rabboulas, évêque d’Édesse », p. 183-184.
			
			
			
			
			
			[10]
			
			
			Sacra Congregazione per la Chiesa orientale, 
			
			
			Fonti (Serie II 
			- 
			
			
			Fascicolo XXVI) : Disciplina Antiochena antica SIRI 
			- 
			
			
			II. 
			
			
			Les personnes, 
			Tipografia poliglotta Vaticana, 1951, p. 561.
			
			
			
			
			
			[11]
			
			
			Arthur VŐŐBUS, « Sur le développement de la phase cénobitique et la 
			réaction dans l’ancien monachisme syriaque », dans 
			
			
			RSR, 
			t. 47/3, 1959. p. 403-404.
			
			
			
			
			
			[12]
			
			
			Il 
			
			
			Canone 
			seguente che non fa menzione dei monaci dimostra che questa 
			tentazione era senza dubbio riferita al clero; « I sacerdoti ed i 
			diaconi non saranno serviti da donne e tanto meno da religiose » :
			
			
			
			Canone 
			29.
			
			
			
			
			
			[13] 
			Si veda in particolare il
			
			
			
			Canone 
			51 di Marutha che riguarda la funzione dei portinai. Costoro, tra i 
			vari compiti a loro affidati, devono fare in modo di conciliare 
			l'accoglienza con il mantenimento della riservatezza della vita 
			monastica. Al par. 11: "E' giusto che lui riceva tutti gli uomini 
			come persone onorabili; è giusto che stia in guardia"
			
			
			
			
			
			[14] 
			"Se qualcuno procede alla vendita del raccolto a beneficio del 
			monastero, non prenda qualcosa di più del prezzo di mercato 
			stabilito al momento del raccolto, così che non sia tentato di 
			vendere con avidità in nome del monastero". Canone 24
			
			
			
			
			
			[15]
			
			
			
			RB 
			57, 7-8.
			
			
			
			
			
			[16] 
			I monaci itineranti non possono partecipare alle riunioni senza la 
			presenza di sacerdoti, e per le religiose questa missione è devoluta 
			alle diaconesse (Canone 62): sono i sacerdoti che portano davanti al 
			giudice la situazione di una monaca che si lega ad un secolare 
			(Canone 53) e che si assicurano che la penitenza sia ben fatta 
			(Canone 54). Inoltre fanno attenzione a che la distanza con i 
			secolari sia ben rispettata (Canoni 35 e 43).
			
			
			
			
			
			[17] 
			"Riceveranno cordialmente gli estranei e non chiuderanno la porta 
			davanti a nessun fratello".
			
			
			
			
			
			[18]
			
			
			« A partire dalla comparsa del cenobitismo nella sua forma 
			progressiva, una parte del monachesimo siriaco entrò in controversia 
			su questa evoluzione. Questa controversia produsse il suo effetto. 
			La polemica fomentò la rivolta contro un tale sviluppo e, poco a 
			poco, si creò un fronte dell'opposizione »: Arthur VŐŐBUS, 
			« Sur le développement de la phase cénobitique... », p. 431.
			
			
			
			
			
			[19] 
			Arthur VÔÔBUS, « Sur le développement de la phase cénobitique... », 
			p. 406- 407; senza impegnarci con Arthur Voobus, sul fatto di sapere 
			se in Siria l'anacoretismo abbia preceduto o meno il cenobitismo, 
			vogliamo solo mostrare con questa citazione che, nella prima parte 
			del V secolo, stiamo assistendo in 
			Siria ad un rifiuto del 
			cenobitismo.
			
			
			
			
			
			[20]
			
			
			Arthur VÔÔBUS, 
			«Sur le développement de la phase cénobitique et la réaction dans 
			l’ancien monachisme syriaque », in 
			
			
			RSR, 
			t.47/3, 1959, p. 401-407.
			
			
			
			
			
			[21]
			
			
			Arthur VÔÔBUS, « Sur le développement de la phase cénobitique... », 
			p. 403.
			
			
			
			
			
			[22] 
			Si veda Paul PEETERS, « La vie de Rabboulas, évêque d’Édesse 
			
			», 
			p. 173-176. 
			
			Il manoscritto unico che ci ha conservato la biografia di Rabboulas 
			è nel British Museum, sotto il simbolo Add. 14652.
			
			
			
			
			
			[23]
			
			
			Les moines Acémètes, Présentation, traduction et notes par le F. 
			Jean-Marie Baguenard, 
			
			
			Bellefontaine, 1988, p. 84. note 26.
			
			
			
			
			
			[24]
			
			
			Émile de STOOP, « Vie d'Alexandre l’Acémète », in PO, Tomus sextus. 
			1911, Introduzione, p. 654
			
			
			
			
			
			[25]
			
			
			« Vie de notre saint Père Alexandre », 18, in 
			
			
			Les moines Acémètes, 
			1988, p. 91.
			
			
			
			
			
			[26]
			
			
			Jean-Marie 
			
			
			Baguenard, 
			« Introduction à la Vie de notre saint Père Alexandre », in 
			
			
			Les moines Acémètes, 
			1988, p. 52.
			
			
			
			
			
			[27]
			
			
			A. VŐŐBUS, « Sur le développement de la phase cénobitique... », p. 
			402.
			
			
			
			
			
			[28]
			
			
			« Sur le développement de la phase cénobitique... », p. 403, note 
			41.
			
			
			
			
			
			[29]
			
			
			
			Jean-Marie 
			
			
			Baguenard,
			
			
			« 
			
			
			Introduction à la Vie de notre saint Père Alexandre », p. 53.
			
			
			
			
			
			[30]
			
			
			Ndt. San Marcello d'Apemea, in Siria, era magistrato della città e 
			venne eletto vescovo. Morì assassinato dai pagani nel 389 mentre 
			sorvegliava la distruzione di un tempio di idoli conformemente ad un 
			editto dell'imperatore Teodosio.
			
			
			
			
			
			[31] 
			Si veda anche l'atteggiamento di San Martino e San Benedetto.
			
			
			
			
			
			[32]
			
			
			« 
			
			Vie de notre saint Père Alexandre », 31,2, in Les moines 
			Acémétes,
			
			
			p. 
			
			102.
			
			
			
			
			
			[33] 
			Il monachesimo di Alessandro sperimenterà la stessa evoluzione a 
			Costantinopoli quando il suo secondo successore, Marcello, anch'egli 
			siriano, rinuncerà all'itineranza. In questa epoca, i monasteri 
			degli Acemeti sembrano aver trovato un certo credito presso le 
			autorità religiose dal momento che il nome di Marcello, sacerdote e 
			archimandrita, è apposto con gli altri nomi di coloro che hanno 
			firmato la deposizione di Eutiche (considerato il fondatore della 
			teoria del monofisismo, secondo la quale nell'unica persona di Gesù 
			Cristo, dopo l'incarnazione, vi è una sola natura (physis), 
			quella divina).
			
			
			
			
			
			[34]
			
			
			
			Sacra Congregazione per la Chiesa orientale, 
			
			
			Fonti
			
			
			
			(Serie II 
			- 
			
			
			Fascicolo XXVI).,
			
			
			p. 
			
			
			345-421.
			
			
			
			
			
			[35]
			
			
			« 
			
			Il diritto babilonese non appare avere un così marcato carattere 
			teocratico. Il potere, certamente, è concepito sulle rive 
			dell'Eufrate come di origine divina, ma è al servizio di un ideale 
			di giustizia considerato come ai margini della monarchia incaricata 
			di applicarlo e di farlo rientrare nelle usanze. La missione del Re 
			è quella di far regnare la giustizia e l'ordine che ne risulta e, se 
			la sua autorità è assoluta, deve obbedire a degli imperativi 
			indiscutibili e superiori tanto alla sua persona che alla stessa 
			istituzione reale. Egli ha il dovere di cercare il bene del suo 
			popolo, lo Stato non è di sua proprietà ed è distinto dalla persona 
			del sovrano. C'è, quindi, in Babilonia, contrariamente a quanto 
			abbiamo visto in Egitto, una nozione di Stato che si confonde in un 
			certo modo con la nozione religiosa della giustizia considerata 
			sotto una più ampia visuale e di un reale carità, anche se 
			imperfetta. Il re Urukagina, che regnava intorno all'anno 2400, 
			dichiara, per esempio, con legittimo orgoglio, che egli a protetto 
			la vedova e l'orfano ed ha soppresso la poliandria. Questa ricerca 
			di una giustizia sociale più adeguata, come diremmo oggi, è ancora 
			messa in risalto dal codice di Hammurabi, animato da un ampio 
			spirito di equità che appare già nelle antiche codificazioni sumere. 
			Hammurabi intende proteggere il debole contro il potente. Diverse 
			disposizioni mirano alla protezione del lavoratore contro i 
			possibili abusi di potere del suo capo. Il re si considera il 
			guardiano della pace e dell'equità; egli è incaricato di far regnare 
			la giustizia [Si veda DAUVILLIER, "Problèmes 
			juridiques de l'époque paléolithique", 
			in 
			
			
			Mélanges Henri
			
			
			
			
			Levy, 
			Brühl, Paris. Sirey, p. 12] Presso 
			gli Ittiti, il sovrano si presenta al suo popolo come 
			l'intermediario provvidenziale tra il dio e le sue creature e si 
			ritrova, nel loro regno, come in Babilonia ed in Assiria, una 
			distinzione abbastanza netta tra la persona del sovrano e lo Stato 
			ma, a differenza di ciò che possiamo constatare in queste due 
			imperi, il mondo ittita è regolato da leggi feudali. Tuttavia, è 
			sempre affermata la stessa concezione del diritto dipendente da un 
			ideale di giustizia e garantito dalla fede religiosa »: 
			Pierre 
			
			
			Andrieu-Guitrancourt, 
			
			
			Introduction
			
			
			
			à 
			
			
			l'étude du droit en général et du droit canonique contemporain,
			
			
			
			Paris, Sirey, 1963, p. 102-103
			
			
			
			
			[36]
			Ndt. 
			La « koinonia », ovvero la « comunione » consiste fondamentalmente 
			nel fatto che i monaci hanno tutto in comune.
			
			
			
			
			
			[37]
			
			
			Ndt. Amerimnia: Secondo la mistica cristiana, stato spirituale (gr. 
			ἀμεριμνία, «senza preoccupazione») di colui che ha realizzato il 
			distacco da tutto: uomini, cose e affari terreni; frutto 
			dell’amerimnia è la pace interiore.
			
			
			
			
			
			[38]
			
			
			Ndt. Paradosso tra l'amore di Dio, che obbliga alla separazione, e 
			l'amore del prossimo, che obbliga alla comunione.
			
			
			
			
			
			[39]
			
			
			
			«Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: 
			chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non 
			ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.» : 
			
			
			1 Gv 
			
			
			4, 7-8.
			
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	21 novembre 2017        a cura di Alberto "da Cormano"        
       alberto@ora-et-labora.net