“VECCHIO” E “NUOVO” MONACHESIMO
A CAVALLO TRA IL PRIMO
ED IL SECONDO MILLENNIO

Stefania Zucchini

Estratto da "Riforma o restaurazione?", Atti del XXVI Convegno del Centro Studi Avellaniti

Fonte Avellana 29-30 agosto 2004 - Il Segno dei Gabrielli editori 2006


 

Il tema che affronterò in queste pagine, il rapporto tra “vecchio” e “nuovo” monachesimo nei secoli centrali del Medioevo occidentale, è stato più volte preso in esame dalla storiografia monastica.[1] Basti ricordare gli autorevoli interventi di Piero Zerbi, Glauco Maria Cantarella, Grado Merlo e Giovanni Vitolo,[2] che hanno concentrato la propria attenzione sui secoli XII e XIII e in particolare sul confronto tra Cluniacensi e Cisterciensi.

È mia intenzione invece applicare l’indagine al periodo immediatamente precedente - fine X e XI secolo -, per comprendere se le radici del rinnovamento successivo possano già essere individuate in quest’epoca. Soffermandomi sulle posizioni di personalità carismatiche quali Romualdo di Ravenna, Pier Damiani e Giovanni Gualberto, fondatori di alcuni tra i più significativi movimenti monastici dell’XI secolo, cercherò inoltre di individuare quale fosse il loro atteggiamento nei confronti della tradizione, comparandolo con quello dei riformatori del secolo successivo.

È necessario precisare in via preliminare che, come già rilevava Piero Zerbi nella sua prolusione alla Settimana internazionale di studio della Mendola del 1977 dedicata alle istituzioni monastiche e canonicali in Occidente fra il 1123 e il 1215,[3] gli aggettivi “vecchio” e “nuovo”, applicati a classificare le esperienze monastiche dei secoli XI e XII, non vanno intesi in riferimento ad atteggiamenti chiusi e conservatori nel primo caso ed innovativi nel secondo. Tali schematizzazioni possono infatti risultare eccessivamente semplificatrici se non addirittura fuorvianti, in quanto sovente i nuovi movimenti monastici affondavano le proprie radici nelle tradizioni del monachesimo precedente, come d’altra parte quest’ultimo si dimostro spesso maggiormente aperto alle proposte provenienti dal “nuovo” monachesimo di quanto si potrebbe immaginare. È sufficiente menzionare gli Statuta cluniacensi pubblicati nel 1146 ma proposti da Pietro il Venerabile ed approvati già nel 1132,[4] che dimostrano la disponibilità dell’Ordine ad una riflessione sul proprio modo di vivere la Regola di san Benedetto, una consapevolezza dei propri limiti, evidenziati dalle “nuove” correnti monastiche, e la volontà di superarli.[5] Un tentativo di rinnovamento che non si propone di sconvolgere gli aspetti essenziali della vita cluniacense e che perde il proprio vigore con la morte di Pietro il Venerabile, ma che non di meno dimostra la volontà dell’Ordo di Cluny di non chiudersi in un immobilismo assoluto.[6]

In questa sede quindi con l’espressione “vecchio monachesimo’’ si intenderanno quei centri monastici autocefali o facenti parte di organismi unitari, fra i quali il più importante è senza dubbio Cluny, che per lo più adottarono la Regola di san Benedetto mediandola ed attualizzandola attraverso Consuetudines, pratiche usuali che con il passare del tempo assunsero forza di legge: prescrizioni sulla disciplina, il cerimoniale, la liturgia, il rapporto con l’esterno, che completavano quanto stabilito dalla Regola, alquanto concisa, di san Benedetto.[7]

Il “nuovo monachesimo’’ comprende invece quelle esperienze monastiche che sorsero a partire dalla prima metà del secolo XI e che per taluni aspetti si discostarono dalle forme del monachesimo tradizionale.

In generale si può affermare che questa fu l’epoca in cui si cercò di ripercorrere da capo la duplice via della perfezione cristiana, quella che si richiamava direttamente al Vangelo, proponendo l’imitatio Cristi e il pauperismo come ideali di vita, e quella che poggiava le sue basi teologiche sul passo degli Atti degli Apostoli che descrive la vita della prima comunità cristiana di Gerusalemme, dotata di un unico cuore e di un’unica anima, alla base della Regola benedettina e di tutto il monachesimo occidentale dei secoli IX e X.[8]

Ad ispirarsi all’ideale evangelico sono - per citare solo le correnti più note - l’Ordine di Grandmont, fondato nell’ultimo quarto del secolo XI da Stefano di Thiers, per il quale il Vangelo è la prima fondamentale Regola da cui derivano tutte le altre,[9] e, nel secolo successivo, la corrente monastica di Pulsano, dedita anch’essa al più rigoroso pauperismo. [10]

Al modello di una vita comune basata sull’esempio dei primi cristiani si rifanno invece il movimento canonicale, che vede la massima espansione nei secoli XI e XII, legato inizialmente alla Regola di sant’Agostino ma ben presto influenzato anche da quella benedettina (a questa ad esempio chiaramente si ispirano nel modo di suddividere le occupazioni durante la giornata due sillogi normative redatte intorno alla metti del XII secolo, l’ Ottob. lat. 175 e il ms. 2535 della Biblioteca Universitaria di Bologna), [11] ed in seguito l’Ordine cistercense, intento ad un recupero della Regola di san Benedetto nella sua purezza e rettitudine, senza la mediazione delle Consuetudines che ad essa si sono sovrapposte nel corso del tempo.[12]

Sempre inquadrabili nella tradizione benedettina sono anche gran parte delle esperienze monastico-eremitiche del secolo XI: in ambito italico si possono ricordare Camaldoli, Fonte Avellana e Vallombrosa. In tutti e tre i casi infatti la Regola di san Benedetto costituisce un punto di riferimento essenziale anche se non esclusivo. Partendo da Camaldoli, mi limito a citare la Vita Bogumili, legata ad ambiente camaldolese, il cui autore asserisce che «san Romualdo fu il primo che, a norma della Regola di san Benedetto, trasformò gli eremiti da locuste senza leggi e senza re in api mellifiche della santa Chiesa». [13]

Per quanto riguarda Fonte Avellana invece precisi riferimenti normativi in questo senso sono espressi dallo stesso Pier Damiani nelle lettere 18 e 50 (Opuscoli XIV e XV nell’edizione Migne).[14]

Il Damiani, pur essendo un deciso sostenitore del pluralismo monastico, ribadisce la validità della Regola di san Benedetto, solo però come punto di partenza per il pieno coronamento dell’ideale di Benedetto stesso rappresentato dall’eremitismo. Nella visione damianea, che prevede una graduale ascesa verso la perfezione, la Regola ha infatti una funzione preparatoria nei confronti di una vita monastica più alta. [15] Come già constatò da Jean Leclercq, questa interpretazione della Regola benedettina non è interamente nuova: già in epoca carolingia Ildemaro aveva compiuto riflessioni sulla possibilità o meno che la vita monastica si concludesse nel deserto arrivando alla conclusione che questo dovesse rappresentarne il coronamento ultimo.[16]

Infine, per quanto concerne il movimento vallombrosano, in una delle prime Vitae del fondatore Giovanni Gualberto, opera di Andrea da Strumi,[17] è sottolineato pili volte l’impegno del Gualberto per il ripristino di una più rigida osservanza della Regola benedettina. In quest’ottica è letto dall’agiografo anche l’atteggiamento pauperistico del fondatore di Vallombrosa, considerato in stretta relazione con la perfetta adesione di Giovanni Gualberto alla Regola di san Benedetto. Povertà dunque, ma anche austerità e lavoro manuale.[18] Nella narrazione dello Strumense è lo stesso fondatore che in punto di morte si richiama ai cardini della Regola benedettina insistendo sull’importanza che nella comunità si mantengano la carità! e l’unità.[19]

Sulle origini di Vallombrosa non va pero trascurata un’altra importante testimonianza, una anonima Vita di Giovanni Gualberto, in cui l’autore, pur dando ampio rilievo all’influsso del modello di san Benedetto sull’operato di Giovanni Gualberto, ricollega la primitiva esperienza vallombrosana alla tradizione monastica orientale: Giovanni Gualberto - scrive l’agiografo -, rifiutando la cenobialem monasteriorum consuetudinem, decide di vivere allo stesso modo dei santi padri e cioè; degli Apostoli, di san Basilio e soprattutto di san Benedetto.[20]

Estranea all’ambito del monachesimo benedettino è invece l’esperienza eremitica certosina, anch’essa sorta nel secolo XI, la quale si fonda esclusivamente sull’esempio del fondatore Bruno di Colonia.[21]

Riguardo ai movimenti appena citati e ad altre numerose esperienze eremitiche irregolari dell’epoca, Henrietta Leyser parla di nuovo eremitismo, rimarcando la loro peculiarità rispetto all’eremitismo dell’antichità e dell’alto Medioevo.[22] Ed in effetti in quest’epoca il termine eremus ha un’applicazione molto più vasta rispetto al passato: è utilizzato per eremitaggi isolati che non fanno capo a nessun monastero ma anche per quelli invece dipendenti da enti monastici (di cui sono esempio gli eremitaggi legati a Cluny), per i gruppi di celle eremitiche che organizzano Romualdo a Camaldoli e Pier Damiani a Fonte Avellana ed infine per monasteri cenobitici localizzati lontano dalle città.[23] Allo stesso modo, sono eremiti coloro che vivono negli eremi ma anche i predicatori itineranti che vanno di citta in città.[24]

Gli elementi che accomunano tutte queste diverse forme di vita monastico-eremitica sembrano essere costituiti da ciò che le differenzia dal monachesimo urbano: la povertà pressoché assoluta, l’austerità dei costumi, la separazione dal mondo.

Il quadro di sfondo su cui si muovono le varie esperienze riformatrici e rappresentato da un mutamento della mentalità religiosa che caratterizza i secoli XI-XII, a sua volta legato alle profonde trasformazioni politiche, economiche e sociali che si verificano a partire dalla fine del secolo X. Una nuova spiritualità quindi, fenomeno più volte evidenziato dalla storiografia monastica, a partire da Jean Leclercq che ha dedicato all’argomento numerosi interventi,[25] sottolineando proprio il ruolo delle correnti eremitiche nella crisi del monachesimo tradizionale. Nel suo ultimo lavoro l’insigne studioso precisa il suo concetto di crisi, limitando l’influenza dell’eremitismo ad una prima fase della medesima, per la quale parla di «crise de prosperité». Nella visione di Leclercq, questa ebbe luogo nel periodo compreso fra la seconda metà del secolo XI ed il 1130, epoca in cui le tradizionali esperienze monastiche non riuscirono a soddisfare le nuove esigenze spirituali della società e le aspirazioni ascetiche di molte anime generose. A tale prima fase di crisi del cenobitismo ne seguì una seconda, collocabile fra il 1125 ed il 1175, definita da Leclercq «crise d’identité»: trovatosi di fronte alle proposte dei nuovi ordini monastici, primo fra tutti quello cistercense, il monachesimo tradizionale fu costretto a riflettere sul senso profondo dell’osservanza della Regola ed a migliorarsi.[26]

In realtà, come abbiamo visto, con le esperienze camaldolese ed avellanita si può retrodatare alla prima metà del secolo XI il contributo dei movimenti eremitici ad una diversificazione delle forme di vita religiosa. E se veramente ci fu una crisi di prosperità dovuta all’eccessiva opulenza e connivenza con il mondo da parte dei cenobi appartenenti al monachesimo urbano, i prodromi risalgono indubbiamente alla fine del X, inizi XI secolo. Sia la Vita Romualdi di Pier Damiani[27] che la Vita Iohannis Gualberti di Andrea da Strumi ci mostrano infatti una situazione che, per quanto riguarda i monasteri benedettini non riformati, è a dir poco desolante. Romualdo è costretto ad allontanarsi dal monastero di Sant’Apollinare in Classe in cui si è ritirato in penitenza, scoraggiato dall’inosservanza della Regola benedettina e dall’assenza di zelo riformatore da parte dei confratelli.[28] Giovanni Gualberto, dal canto suo, sente di dover abbandonare il monastero di San Miniato dove ha vissuto «in omni hobedientia et sancta conversatone» sino alla morte dell’abate che lo ha accolto, in seguito all’elezione simoniaca del suo successore, Uberto.[29] Inoltre la Vita Romualdi ci presenta una serie di tentativi di riforma operati da Romualdo e falliti per la cattiva volontà dei monaci non disposti a condurre una vita più austera.[30]

Da quanto sin ora detto, quindi, si direbbe che esistesse giti nell’XI secolo una contrapposizione evidente tra “vecchio” e “nuovo” monachesimo: il primo opulento, tiepido nell’osservanza della Regola benedettina ed immischiato negli affari secolari, il secondo ascetico e puro. In realtà il confine non è tanto netto né tale era sentito dai protagonisti della riforma monastica dell’XI secolo. Nessuno dei movimenti sorti in questa epoca, infatti, rivendica la propria originalità rispetto alla tradizione. Al contrario, nel secolo successivo, il “nuovo” monachesimo cistercense afferma con forza la volontà di distaccarsi dal passato.[31] E proprio questa differenza di posizione nei confronti della precedente tradizione monastica costituisce a mio parere uno dei principali elementi di distinzione tra il “nuovo” monachesimo del secolo XI, che non professa la propria contrapposizione ideale alle esperienze benedettine anteriori, e quello del secolo successivo, in particolare cistercense, che possiede invece la consapevolezza quanto mai intensa di rappresentare una forza nuova.

Faccio solo qualche esempio: confrontando l’ideale di vita monastica di Vallombrosa e di Citeaux si vedrà che molti sono i punti in comune, a partire dalla volontà di tornare ad una osservanza della Regola più rigorosa, ma anche, scendendo più nello specifico, la necessità di vivere in povertà, il ripristino del lavoro manuale, la cautela nel concedere l’abito monastico, l’elogio della vita claustrale a cui si deve derogare solo lo stretto necessario.[32] Mentre però Andrea da Strumi, il già ricordato biografo di Giovanni Gualberto, tende a ricondurre il movimento vallombrosano all’interno della tradizione benedettina,[33] Bernardo di Clairvaux, tra i massimi esponenti dell’universo cistercense, insiste sulla rottura del proprio Ordine rispetto al recente passato.[34]

Lo stesso dicasi per le correnti eremitiche. Romualdo e Pier Damiani si pongono ancora idealmente nel solco della riforma cluniacense, verso la quale non dimostrano alcuna perplessità.[35] Dalla Carta Caritatis dell’Ordo cistercense emanata da Stefano Harding, al contrario, emerge una netta contrapposizione proprio nei confronti del monachesimo cluniacense, a cui i seguaci di Roberto di Molesmes rimproverano di osservare la Regola benedettina in modo troppo tiepido.[36] Nelle prime battute della polemica tra Cisterciensi e Cluniacensi Bernardo di Clairvaux esprime senza reticenza quale sia la sua opinione su Cluny. Cibi raffinati, ricchi abiti, ostentazione nella decorazione delle Chiese, eccessiva commistione con il mondo: ecco alcune delle debolezze a cui si concedono i monaci cluniacensi e che invece sono intollerabili per Bernardo. Allo stesso modo è degno di biasimo l’eccessivo spazio attribuito all’aspetto liturgico ed alla preghiera a scapito del lavoro manuale.[37]

In sostanza Bernardo di Clairvaux sente una cesura netta tra la propria esperienza religiosa, vissuta nel rigore e nell’austerità, e quella di Cluny, ritenuta parte a tutti gli effetti di quel monachesimo che ha tradito la Regola di Benedetto sovrastandola con tutta una serie di Consuetudini che hanno finito per oscurarne i principi basilari.

All’epoca di Romualdo e Pier Damiani, invece, Cluny è ancora considerata un esempio da seguire, una roccaforte della riforma della Chiesa, una istituzione da difendere. L’uno e l’atro sono infatti legati anche se in maniera diversa al movimento cluniacense: il primo perché guida spirituale di due grandi riformatori che si inseriscono nell’ambito dello stesso movimento cluniacense: Giovanni di Fecamp e Ugo di Farfa, il secondo per la venerazione dimostrata nei confronti di Cluny e del suo abate Ugo.

Ma procediamo con ordine, iniziando dai rapporti tra Romualdo e Cluny. Tra i riformatori con cui fu in contatto Romualdo figurano Guglielmo di Volpiano, fondatore di Fruttuaria, il cui programma monastico era ispirato a Cluny,[38] ed il nipote di lui Giovanni di Fecamp.[39] Quest’ultimo, originario della zona di Ravenna come Romualdo, dopo alcuni anni passati in solitudine e chiamato a raggiungere Guglielmo di Volpiano a Digione e accetta di restaurare l’osservanza benedettina nell’abbazia della Trinità di Fecamp, in quella di Saint-Bénigne di Digione e nelle case da loro dipendenti. Giovanni ricorderà sempre con nostalgia i suoi anni di isolamento, anche se non si sottrarrà mai alla sua nuova condizione, sostenendo che la più alta prova di amore e l’obbedienza.[40]

Una esplicita testimonianza della stima goduta da Romualdo presso coloro che seguivano le consuetudini cluniacensi è costituita dal prologo del Liber Tramitis Aevi Odilonis Abbatis, in cui Romualdo è considerato il modello di Ugo di Farfa, definito suo sequipeda, il quale Ugo riformo il monastero farfense secondo gli usi di Cluny.[41]

Queste fonti costituiscono prove convincenti di quella assenza di conflittualità tra eremo e cenobio sostenuta giti a suo tempo da Tabacco nel suo breve ma illuminante intervento al secondo Convegno dell’Accademia Tudertina sulla Spirituale Cluniacense.[42]

Ad ulteriore conferma di tale conclusione si possono ricordare le numerose occasioni in cui Pier Damiani loda apertamente gli ideali monastici cluniacensi. L’Avellanita, di ritorno dal viaggio compiuto nel 1063 per difendere l’esenzione di Cluny contestata dall’ordinario diocesano di Macon, più volte elogia il modo di vivere di quei monaci. Nelle lettere scritte all’allora abate di Clùny Ugo ed ai suoi confratelli esprime tutta la sua riconoscenza per l’ospitalità ricevuta, ma anche grande ammirazione.[43] «Convento angelico»[44]   e definita Cluny e «arcangelo dei monaci»[45] il suo abate.

lì immaginabile che in poco pili di ùn cinqùantennio l’Ordine clùniacense abbia sùbito ùna metamorfosi tale da divenire tanto deplorevole qùanto lo ritiene Bernardo di Clairvaùx? Oppùre, a fronte di indùbbi ma non radicali mùtamenti, non e forse il diverso pùnto di vista di Bernardo rispetto ai riformatori del secolo precedente a far emergere aspetti della vita religiosa clùniacense presenti nell’XI come all’inizio del XII secolo?

Esaminando le lettere inviate da Pier Damiani ai monaci di Clùny si vedra come l’Avellanita apprezzi proprio qùegli ùsi clù- niacensi sù cùi Bernardo di Clairvaùx esprime tùtta la sùa riprovazione: i lùnghi offici litùrgici, grazie ai qùali secondo il Damiani anche i deboli si possono occùpare di Dio in maniera assidùa, senza la necessità del lavoro manùale per allontanare il peccato, e la costanza nella preghiera. Clùny e il deserto separato dal mondo in cùi ci si nùtre della manna spiritùale. La presenza in seno alla Chiesa di ùomini votati alle preghiere e necessaria in qùanto fa in modo che lo sgùardo non sia mai distolto dalla contemplazione. [46]

Ma anche la stessa esenzione del monastero dalla giurisdizione vescovile, per la cui difesa Pier Damiani compie il lungo viaggio sino alla diocesi di Macon, sarà uno dei punti contestati dai primi Cisterciensi, che vogliono essere inseriti nella Chiesa locale e rifiutano il privilegio di dipendere direttamente dalla Sede Apostolica.[47]

Quali motivi possono aver condotto a sentimenti tanto diversi nei confronti di quelli che sono i principi ispiratori dell’Orbo cluniacense?

Le considerazioni di Cinzio Violante sulla crisi del Cluniacesimo, individuata dallo studioso a partire dagli ultimi due decenni del secolo XI, possono aiutarci ad individuarne alcuni. Violante constata che proprio sotto il pontificato del cluniacense Urbano II entra in crisi «l’influsso cluniacense sull’azione pontificia in campo politico-ecclesiastico».[48] Mentre infatti Gregorio VII guarda a San Vittore di Marsiglia e a San Pietro di Cluny «come a modelli e a centri propulsori della sua politica monastica in Germania»,[49] Urbano II risolve l’annoso problema del monachesimo imperiale rinunciando all’apporto cluniacense. Il medesimo pontefice, più ancora del suo predecessore, sostiene i diritti ed i poteri del vescovo per un ricompattamento dell’unità territoriale della diocesi, a tutto discapito dei monasteri esenti nel cui novero è compresa Cluny. Ma non solo. Nello stesso periodo il Papato dimostra di appoggiare i canonici Regolari che contestano l’invadenza cenobitica nel campo della cura animarum ed il fenomeno del sacerdozio dei monaci particolarmente diffuso fra i membri dell’Ordo di Cluny. Violante ravvisa infine, sempre a partire da questo momento, un legame in precedenza assente tra il potere politico ed i nuovi nuclei cluniacensi che, pur sottoposti giuridicamente all’abate di Cluny, stabiliscono vincoli concreti con le autorità politiche da cui accettano protezione ed aiuti finanziari. In sostanza, conclude Violante, in quest’epoca l’esperienza di Cluny non rappresenta più né l’unica né la più significativa espressione del movimento riformatore monastico.[50]

È difficile capire se questo “abbandono’’ da parte del Papato costituisca la causa o sia invece una spia della convinzione che il modello cluniacense fosse inadeguato alle nuove esigenze spirituali, che non costituisse più l’esempio più alto del monachesimo cenobitico. Di certo tale sentimento, che pervade anche la Carta Caritatis cistercense, riceve una sistematizzazione teorica nei primi scritti di Bernardo di Clairvaux.[51] È lo stesso modello cluniacense infatti ad essere messo in discussione da Bernardo, e non una degenerazione dei costumi rispetto alle origini del movimento. Bernardo contesta il fondamento primo del Cluniacesimo: la preminenza attribuita alla vita contemplativa su quella attiva. Contesta un modo di vivere la Regola che è tale sin dai primordi di Cluny.

In questo senso si può parlare per il XII secolo di «crisi del cenobitismo», tema ampiamente dibattuto dalla storiografia monastica sin dagli inizi del Novecento. Quello che entra in crisi, almeno agli occhi dei nuovi movimenti monastici, è un tipo di cenobitismo fondato sulla mediazione e attualizzazione della Regola benedettina attraverso Consuetudines, il quale invece nel secolo XI - quando vissuto santamente come a Cluny - era considerato ancora pienamente valido.

Di conseguenza, prendendo in considerazione le fonti letterarie ed in particolare quelle polemiche attinenti al dibattito tra Cluniacensi e Cisterciensi, facilmente si è indotti ad ipotizzare per il XII secolo una crisi del monachesimo benedettino tradizionale, non in grado di soddisfare le nuove esigenze spirituali. Al contrario, con un altro approccio alla questione, si può giungere a negare completamente l’esistenza di una crisi. È quello che ha fatto John Van Engen, fondando la sua analisi su indici quali il numero di fondazioni e di monaci, la situazione patrimoniale, la qualità del personale e la leadership nella Chiesa - definiti dall’autore indicatori esterni - e ancora sulle donazioni ricevute, la capacità o meno di soddisfare le aspettative dei laici, i rapporti con la società. Attenendosi a questi parametri Van Engen dimostra come il monachesimo benedettino goda di indubbia prosperità almeno sino alla metà del secolo XII.[52]

Un problema metodologico quindi e di selezione di fonti alla base di posizioni tanto diverse come quelle espresse dalla storiografia monastica sullo “stato di salute” del monachesimo benedettino tra la seconda metti dell’XI ed il XII secolo. Ma, se à vero - come sostengono Van Engen e poi ancora Giles Constable[53] - che prendendo alla lettera le esagerazioni delle fonti polemiche si rischia di costruire una immagine del monachesimo tradizionale dalle tinte molto più fosche di quelle che dovevano essere in realtà, è vero anche che i Cluniacensi stessi già a partire dagli anni Venti del XII secolo intrapresero una profonda riflessione sull’interpretazione da loro data alla Regola e sulla validità delle proprie Consuetudini. Questa condusse ad un duplice comportamento. Da un lato la difesa degli usi cluniacensi, che - sostiene Pietro il Venerabile nella famosa Epistola 28 indirizzata a Bernardo di Clairvaux - in molti casi si discostano da una interpretazione letterale della Regola perché determinati dalla necessita di anteporre la caritas, l’amore, a tutto il resto: «quia per caritatem [Regula] condita est, sequitur quia mutanda fuit», sono le parole dell’abate di Cluny.[54] Per amore è stata scritta la Regola e per amore si può cambiare. Dall’altro un tentativo di rinnovamento a livello istituzionale e disciplinare operato intorno agli anni Trenta del XII secolo, che dimostra come lo stesso mondo cluniacense, o quanto meno gran parte di esso, fosse consapevole della necessità di adeguarsi alle nuove esigenze spirituali. Mi riferisco in particolare alle modificazioni apportate ad alcune delle antiche consuetudini nel capitolo provinciale degli abati cluniacensi convocato a Reims nel 1131, il primo dopo il 973, ma, soprattutto, agli Statuta pubblicati nel 1146 ma proposti da Pietro il Venerabile ed approvati già nell’assemblea di abati e monaci cluniacensi che si riunì a Cluny nel 1132, in cui sono emanate numerose disposizioni per rendere più austera la vita condotta nei monasteri appartenenti all’Ordine. Disposizioni che, ispirate alla Regola stessa o all’esperienza degli abati di Cluny precedenti ad Ugo, mostrano però di tener conto anche delle recenti critiche cisterciensi.[55] Per un mutamento significativo delle strutture basilari dell’istituzione bisogna però attendere la fine del secolo XII, epoca in cui - come scrive Gert Melville nel suo recente lavoro sui processi di istituzionalizzazione della vita religiosa nei secoli XII e XIII - i Cluniacensi si liberano di un «antiquato sistema di organizzazione in favore di un vero ordine in senso moderno».[56]

Proprio la volontà di adeguamento ai tempi e la capacità di adattamento, caratteristici della storia di Cluny e ravvisabili in sommo grado nell’attività di Pietro il Venerabile, costituiscono uno dei punti di forza dell’organizzazione cluniacense, permettendone una lunga sopravvivenza, e rappresentano altresì un aspetto che accomuna l’Ordo cluniacense a quello cistercense. Già dalla seconda metà del secolo XII infatti Cìteaux non sfugge a quegli inquadramenti normativi ed istituzionali necessari per la stessa sopravvivenza degli ideali originali, in una fase di grande espansione e consolidamento del movimento.[57] È proprio alla capacità di integrazione nella società ed al superamento della originaria intransigenza si deve la nascita e poi affermazione ed evoluzione di un modello duraturo e funzionale, che poggia le sue basi «sulla rinuncia ad un governo della congregazione di carattere carismatico, o giuridicamente legittimato tramite un’unica persona, a favore di una direzione collettiva, legalizzata da un diritto positivo».[58] Di contro si può constatare come l’assenza di buoni ordinamenti, dovuta alla volontà di mantenersi quanto più possibile fedeli allo spirito del fondatore, condusse rapidamente i Granmontani ad uno stato di indebolimento e corruzione.[59] E se i Premonstratensi, il cui unico riferimento era costituito dalla personale carismatica del fondatore Norberto di Xanten, riuscirono invece ad evitare un crollo totale quando quest’ultimo accetto la dignità di arcivescovo di Magdeburgo, si deve senza dubbio all’assunzione da parte della comunità del modello di organizzazione cistercense.[60] Anche la Chartreuse, per la quale il fondatore Bruno di Colonia non aveva voluto alcuna Regola, deve la sua sopravvivenza all’adozione di Constitutiones all’inizio del XII secolo, sotto il priorato di Guigo I.[61]

In definitiva, come in passato l’elaborazione di Consuetudini aveva permesso di adottare la Regola benedettina adeguandola al mutare dei tempi, così dal XII secolo in poi la redazione di statuti legislativi e la raccolta di corpora di norme danno luogo a quella flessibile e continua rielaborazione necessarie per una sopravvivenza dei vari Ordini anche a grande distanza dalla loro fondazione.

Concludendo le mie riflessioni sul monachesimo nel passaggio dal primo al secondo millennio, ritengo che si possa affermare l’esistenza in quest’epoca di un cambiamento all’interno del mondo monastico, operato però nel segno della continuità. Continuità con la riforma cluniacense, ma anche con tutta la tradizione benedettina. Allo stesso tempo, sebbene la Regola di san Benedetto permanga come prevalente punto di riferimento delle nuove esperienze monastico-eremitiche, con l’XI secolo inizia quella diversificazione delle forme di vita religiosa che si svilupperà poi con pienezza nei due secoli successivi, caratterizzati invece da una più decisa volontà di rottura con il passato.

Per l’XI secolo si può parlare, quindi, di un movimento di riforma monastica, o meglio, di una pluralità di movimenti, accomunati dalla medesima ricerca di rigore e di austerità. Una comunione di intenti con il Papato della Riforma, in particolare all’epoca di Gregorio VII - ricordo solamente il sostegno offerto da questo pontefice al movimento Vallombrosano nella lotta alla simonia - fa sì che in genere la Curia romana dia il proprio appoggio a queste nuove correnti religiose. A partire dal pontificato di Urbano II, pero, il Papato si dimostra sempre più vigile affinché non oltrepassino i limiti di una opportuna moderazione. Basti ricordare la lettera che nel 1091 Urbano II inviò agli abati di Vallombrosa e di Camaldoli, rimproverati dal pontefice di essere giunti a rompere la comunione con il vescovo di Pisa Daiberto - accusato dai monaci di simonia -, prima ancora che la sua colpa fosse stata provata. In questa stessa lettera Urbano II condanna fermamente l’attività extraclaustrale dei Vallombrosani, che richiama ai loro doveri di monaci.[62]

Ma l’intera politica monastica di Urbano II mostra come a fronte della perdita dell’influsso cluniacense sull’azione pontificia in campo politico-ecclesiastico, ravvisata - come detto - da Cinzio Violante, non si sia verificata una sostituzione, nella stessa misura, di un influsso da parte dei nuovi movimenti. In sostanza, da Urbano II in poi, non viene sicuramente meno l’appoggio pontificio alle tendenze monastiche riformatrici, ma appare di certo molto più misurato ed inserito all’interno di un orizzonte maggiormente moderato rispetto agli anni del pontificato di Gregorio VII.



[1] Per il dibattito sull’argomento cfr. l’ottima rassegna storiografica di Cristina Sereno, La «crisi del cenobitismo»: un problema storiografico, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo», 104, 2002, pp. 31-83.

[2] Cfr. P. Zerbi, «Vecchio» e «nuovo» monachesimo alla metà del secolo XII. Discorso di apertura, in Istituzioni monastiche e istituzioni canonicali in Occidente (11231213). Atti della settima Settimana internazionale di studio (Mendola 28 agosto-3 settembre 1977), Milano 1980 (Miscellanea del Centro di Studi Medioevali, IX), pp. 324; G.M. Cantarella, Mendola 77: appunti e impressioni, in «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 31, 1977, pp. 496-503; Idem, Un problema del XII secolo: l’ecclesiologia di Pietro il Venerabile, in «Studi Medievali», s. III, 19, 1978, pp. 159-209; G.G. Merlo, Tra «vecchio» e «nuovo» monachesimo (dalla metà del XII alla metà del XIII secolo), in Dal Piemonte all’Europa: esperienze monastiche nella società medievale. Relazioni e comunicazioni presentate al XXXIV Congresso storico subalpino nel millenario di S. Michele della Chiusa (Torino, 27-28 maggio 1983), Torino 1988, pp. 175-198, ora anche in Idem, Forme di religiosità nell’Italia occidentale dei secoli XII e XIII, Cuneo- Vercelli 1997, pp. 9-34; G. Vitolo, «Vecchio» e «nuovo» monachesimo nel Regno svevo di Sicilia, in Federico II. Convegno dell’Istituto Storico Germanico di Roma nell’- VIII centenario della nascita, a cura di A. Esch-N. Kamp, Tübingen 1996, pp. 182-200.

[3] Zerbi, «Vecchio» e «nuovo» monachesimo cit., p. 3.

[4] Cfr. A.M. Piazzoni, Crisi monastica e polemica tra Cisterciensi e Cluniacensi: alcune voci di monaci, in «Benedictina», 29/1, 1982, pp. 91-122, e 29/2, 1982, pp. 405436: p. 423 e nota 178. Per la datazione dei singoli Statuta cfr. G.M. Cantarella, Un problema delXII secolo cit., p. 197, nota 163.

[5] Piazzoni, Crisi monastica e polemica tra Cisterciensi e Cluniacensi cit., pp. 423428.

[6] Cfr. Zerbi, «Vecchio» e «nuovo» monachesimo cit., p. 16.

[7] Cfr. Consuetudines monasticae, ed. a cura di B. Albers, 4 voll., Stuttgardiae et Vindobonae 1900, Montis Cassini 1905, 1907, 1911. Per una breve ma chiara sintesi sul significato e l’affermazione delle Consuetudines monastiche ad integrazione della Regola di s. Benedetto cfr. G. Penco, Cìteaux e il monachesimo del suo tempo, Milano 1994 (Complementi alla storia della Chiesa. Già e non ancora, 262), pp. 17-25.

[8] Cfr. R. Manselli, Evangelismo e povertà, in Povertà e ricchezza nella spiritualità dei secoli XI e XII. 11-18 ottobre 1967, Todi 1969 (Convegni del centro studio sulla spiritualità medievale, VIII), pp. 11-41.

[9] Per le origini dell’Ordine di Grandmont rimangono fondamentali i lavori di Jean Becquet realizzati tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Innanzi tutto le edizioni di fonti: Scriptores ordinis Grandimontensis, Turnholti 1958 (Corpus Christia- norum. Continuatio Medisualis, VIII), ma anche Le bullaire de l’ordre de Grandmont, in «Revue Mabillon», 46, 1953, pp. 82-93, e 53, 1963, pp. 111-133, e La règle de Grandmont, in «Bulletin de la société historique et archéologique du Limousin», 87, 1958-1960, pp. 11-36. Cfr. Zerbi, «Vecchio» e «nuovo» monachesimo cit., pp. 18-19, nota 32. Per il richiamo allo spirito evangelico cfr. G. Melville, Alcune osservazioni sui processi di istituzionalizzazione della vita religiosa nei secoli XII e XIII, in «Benedictina», XLVIII, 2001, pp. 371-394: p. 375.

[10] Cfr. Vita S. Joannis a Mathera abbatis pulsanensis congregationis fundatoris ex perantiquo ms. codice matherano cavensis monachi cura et studio edita, Putineani 1938; Zerbi, «Vecchio» e «nuovo» monachesimo cit., pp. 20-21 e nota 34.

[11] Cfr. C.D. Fonseca, Monaci e canonici alla ricerca di una identità e L. Milis, L’évolution de l’érémitisme au canonicat régulier dans la première moitié du douzième siècle: transition ou trahison?, entrambi in Istituzioni monastiche e istituzioni canonicali in Occidente cit., rispettivamente pp. 203-222: p. 207, e pp. 223-238: p. 224.

[12] Melville, Alcune osservazioni cit., pp. 377-379.

[13] Demalevicius, Vita Bogumili, 29, cit. in B. Ignesti, Vita dei conque fratelli, Camaldoli 1951, p. 4, nota 4, e in G. Penco, Citeaux e il monachesimo cit., p. 32.

[14] Kurt Reindel, curando l’edizione critica dell’epistolario di Pier Damiani, abolisce la distinzione tra lettere e opuscoli - ancora presente in Migne - e pubblica tutti gli scritti come epistole, in ordine cronologico. Cfr. Die Briefe des Petrus Damiani, a cura di K. Reindel, 4 voll., München 1983-1993 (MGH, Die Briefe der deutschen Kaiserzeit, IV), I, pp. 168-179, e II, pp. 77-131; PL, CXLV, coll. 327-364. Per la Lettera 18 cfr. anche Opere di Pier Damiani. Lettere (1-21), a cura di G.I. Gargano e N. D’Acunto, Roma 2000, pp. 326-341 (edizione e traduzione in italiano), in cui è offerto della medesima anche un puntuale commento (pp. 138-146).

[15] J. Leclercq, Saint Pierre Damien ermite et homme d’Eglise, Roma 1960 (Uomini e dottrine, 8), pp. 55-59.

[16] Ivi, p. 57.

[17] Questa Vita e edita negli Acta Sanctorum Julii, III, Antverphiae 1723, pp. 343-365; in PL, CXLVI, coll. 765-812; ed infine, a cura di F. Baethgen, in MGH, Scriptores, XXX, 2, Lipsiae 1934, pp. 1080-1104. A quest’ultima edizione faranno riferimento le successive citazioni della Vita.

[18] Cfr. S. Boesch Gajano, Storia e tradizione vallombrosane, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano», 76, 1964, pp. 99-215: pp. 159-161.

[19] Vita Iohannis Gualberti auctore Andrea abbate Strumensi, ed. baethgen cit., pp. 1100-1101. Cfr. Alle origini di Vallombrosa. Giovanni Gualberto nella società dell’XI secolo, a cura di G. spinelli e G. rossi, 1984, pp. 117-119.

[20] Vita Iohannis Gualberti auctore discipulo eius anonymo, ed. F. Baethgen, in MGH, Scriptores, XXX, 2, Lipsiae 1934, pp. 1104-1110: p. 1106. Cfr. BoeschGaja- no, Storia e tradizione vallombrosane cit., p. 161, e Alle origini di Vallombrosa cit., pp. 136-137.

[21] Melville, Alcune osservazioni cit., p. 377.

[22] H. Leyser, Heremits and the New Monasticism. A Study of Religious Communities in Western Europe, 1000-1130, New York 1984, pp. 19-22.

[23] Cfr. J. Leclercq, «Eremus» et «eremita». Pur l’histoire du vocabulaire de la vie solitaire, in «Collectanea Ordinis Cisterciensium Reformatorum», XXV, 1963, pp. 8-30; Idem, La crise du monachisme aux XI et XII siècle, in «Istituto Storico Italiano per il Medio Evo», 70, 1958, pp. 19-41: p. 19, nota 1.

[24] Cfr. Eremitismo e predicazione itinerante dei secoli XI e XII, in L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII. Atti della seconda Settimana internazionale di studio, Mendola 30 agosto-6 settembre 1962, Milano 1965 (Miscellanea del Centro di Studi medioevali, IV), pp. 164-181. Questa forma di eremitismo “cittadino” era aspramente biasimata da Pier Damiani, che si scagliò contro il monaco Teuzione, accusandolo di essere un falso eremita perché aveva scelto di condurre una vita eremitica ma in città. Cfr. N. D’Acunto, I laici nella Chiesa e nella società secondo Pier Damiani. Ceti dominanti e riforma ecclesiastica nel secolo XI, Roma 1999 (Nuovi Studi Storici, 50), pp. 158-168.

[25] J. leclercq e J.-P. bonnes, Un maitre de la vie spirituelle au XIe siede, ]ean de Fécamp, Paris 1946, in particolare pp. 13-25; Leclercq, La crise du monachisme cit., pp. 21-31; Idem, Temoins de la spiritualité occidentale, Paris 1965, pp. 193, 205-206; Idem, Diversification et identité dans le monachisme au XIIe siàcle, in «Studia monastica», 28, 1986, pp. 51-74.

[26] Leclerq, Diversification et identité cit.

[27] Cfr. Vita sancti Romualdi, in PL, CXLIV, coll. 953-1008, e Petri Damiani Vita Beati Romualdi, ed. a cura di G. Tabacco, Roma 1957 (Fonti per la Storia d’Italia, 90). All’edizione curata da Giovanni Tabacco faranno riferimento le successive citazioni della Vita.

[28] Cfr. Petri Damiani Vita Beati Romualdi cit., pp. 19-21 (§ III e IV).

[29] Vita Iohannis Gualberti auctore Andrea abbate Strumensi, ed. Baethgen cit., p. 1081.

[30] L’abate di Classe tenta addirittura di strangolare Romualdo nel sonno. Cfr. Petri Damiani Vita Beati Romualdi cit., pp. 83-84 (§ XLI).

[31] Cfr. Piazzoni, Crisi monastica e polemica tra Cisterciensi e Cluniacensi cit.

[32] Per Vallombrosa cfr. Vita Iohannis Gualberti auctore Andrea abbate Strumensi, ed. Baethgen cit., pp. 1083-1085 e boesch gajano, Storia e tradizione vallombrosane cit., pp. 159-163. Per Citeaux rinvio al saggio di R. Manselli, Certosini e Cisterciensi, in ll Monachesimo e la Riforma ecclesiastica (1049-1122). Atti della quarta Settimana internazionale di studio, Mendola 23-29 agosto 1968, Milano 1971 (Miscellanea del Centro di Studi Medioevali, VI), pp. 79-104, in particolare pp. 96-104, con relative indicazioni di fonti e bibliografia; cfr. anche Les plus anciens textes de Citeaux, a cura di J. de la croix bouton e j.b. van damme, Achel 1974; Narrative and Legislative Texts from Early Citeaux, a cura di Ch. Waddel, Citeaux 1999.

[33] Cfr. supra, in corrispondenza di note 17 e 18.

[34] Cfr. Piazzoni, Crisi monastica e polemica tra Cisterciensi e Cluniacensi cit., 29/1, pp. 98-102, 113-122.

[35] Cfr. G. Tabacco, Eremo e cenobio, in Spiritualità cluniacense. II Convegno del Centro di Studi sulla spiritualità medievale, 12-15 ottobre 1958, Todi I960, pp. 326335.

[36] Cfr. Piazzoni, Crisi monastica e polemica tra Cisterciensi e Cluniacensi cit., 29/1, p. 97 e nota 10.

[37] Ivi, pp. 100-101, 116, 119-121, note 19 e 89.

[38] Per le origini di Fruttuaria cfr. G. Penco, Il movimento di Fruttuaria e la Riforma gregoriana, in Il monachesimo e la Riforma ecclesiastica cit., pp. 385-395; per i rapporti tra san Romualdo e Guglielmo di Volpiano cfr. G. Tabacco, Piemonte monastico e cultura europea, in Dal Piemonte all’Europa: esperienze monastiche nella società medievale. Atti del XXXIV congresso storico subalpino, Torino 27-29 maggio 1985, Torino 1988, pp. 3-18, in particolare pp. 7-8.

[39] Sulla vita e l’opera di Giovanni di Fecamp vedi Leclercq e Bonnes, Un maitre de la vie spirituelle cit.

[40] Leclercq, Saint Pierre Damien cit., p. 38, e Idem, La crise du monachisme cit., pp. 23-24.

[41] Liber Tramitis Aevi Odilonis Abbatis, ed. a cura di P. Dinter, in Corpus Consuetudinum Monasticarum, X, Siegburg 1980, pp. 3-4.

[42] Tabacco, Eremo e cenobio cit.

[43] Cfr. Reindel, Briefe, III, 100, pp. 101-115; 103, pp. 138-141; 113, pp. 289-295; 125, pp. 411-413; PL, CXLIV, 6, 2-5, coll. 371-386.

[44] Reindel, Briefe, III, 125, p. 412.

[45] Ivi, 113, p. 28.

[46] Ivi, 100, pp. 105-107. Cfr. Leclercq, Saint Pierre Damien cit., p. 120.

[47] I Cistercensi acquistano una certa autonomia dall’ordinario diocesano a partire dagli anni centrali del XII secolo, per poi raggiungere la piena esenzione a meta Duecento. Cfr. G. Cariboni, Esenzione cistercense e formazione del Privilegium commune. Osservazioni a partire dai cenobi dell’Italia settentrionale, in Papato e monachesimo esente nei secoli centrali del Medioevo, a cura di N. D’acunto, Firenze 2003, pp. 136227, in particolare pp. 141-152; C. Violante, Il monachesimo cluniacense di fronte al mondo politico ed ecclesiastico (secoli X e XI), in Spiritualità Cluniacense cit., pp. 155242: p. 241, nota 138; Zerbi, «Vecchio» e «nuovo» monachesimo cit., pp. 6, 14-15.

[48] C. Violante, Il monachesimo cluniacense cit., p. 197.

[49] Ivi, pp. 228-229.

[50] Ivi, pp. 196 e ss.

[51] Il riferimento è alla lettera indirizzata da Bernardo, già abate di Clairvaux, al cugino Roberto di Chatillon, in seguito alla decisione di quest’ultimo di abbandonare Clairvaux per Cluny, ed all’Apologia ad Guillelmum abbatem, in cui il Cistercense critica aspramente alcuni usi dei monaci «neri». La datazione dei due scritti non è certa: il primo risale probabilmente all’anno 1120, il secondo è forse contemporaneo alla Lettera 28 di Pietro il Venerabile - su cui mi soffermerò tra breve -, datata da Constable al 1127. Per l’edizione dei testi, cfr. rispettivamente Epistola I, in PL CLXXXII, coll. 67-72, e J. Leclercq - H.M. Rochais, Sancti Bernardi Opera, III, Roma 1963, pp. 81-108. Per le ipotesi di datazione: Piazzoni, Crisi monastica cit., pp. 99-100, nota 13, e pp. 102-103, nota 21.

[52] J. Van Engen, The “Crisis of Cenobitism” reconsidered: Benedictine Monasticism in the Years 1050-1150, in «Speculum», 61/2, 1986, pp. 269-304.

[53] G. Constable, The Reformation of the Twelfth Century, Cambridge 1996, pp. 35-37.

[54] La lettera, che Giles Constable ritiene risalire all’anno 1127, è indirizzata a Bernardo di Clairvaux. Cfr. Epistola I, 28, in PL CLXXXIX, coll. 112-159 e Letter 28 nell’edizione curata da G. Constable, The Tetters of Peter the Venerable, I, pp. 52-101. Per le parole di Pietro citate nel testo cfr. ed Constable, p. 98. Per le ipotesi di datazione, cfr. Piazzoni, Crisi monastica cit., 29/1, pp. 102-103, nota 21. Gli scritti di Pietro il Venerabile - ed in particolare questa lettera - a difesa della vita monastica cluniacense sono considerati da Glauco Maria Cantarella come il momento più alto di autocoscienza del monachesimo cluniacense: cfr. Cantarella, Un problema del XII secolo cit., in particolare pp. 186-201.

[55] Cfr. Piazzoni, Crisi monastica cit., 29/2, pp. 421-428.

[56] Melville, Alcune osservazioni cit., pp. 383-385. La citazione è tratta da p. 383.

[57] Cfr. ivi, p. 379. Pietro Zerbi, nel suo intervento su «vecchio» e «nuovo» monachesimo, si sofferma a lungo sui cambiamenti che investono l’Ordine cistercense nella seconda meta del XII secolo, leggendoli però come una deviazione dagli ideali primitivi: Zerbi, «Vecchio» e «nuovo» monachesimo cit., pp. 10-15.

[58] Melville, Alcune osservazioni cit., p. 381.

[59] Per la crisi profonda vissuta dai Grandmontani nella seconda meta del XII secolo, cfr. Zerbi, «Vecchio» e «nuovo» monachesimo cit., pp. 18-20.

[60] Melville, Alcune osservazioni cit., pp. 383-384.

[61] Manselli, Certosini e Cisterciensi cit., pp. 91-96.

[62] Boesch Gajano, Storia e tradizione vallombrosane cit., pp. 119-131.

 


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22 gennaio 2022        a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net