Angelitus vivere. Pier Damiani e la perfezione eremitica

Umberto Longo

(Estratto da “Noctua” Anno VIII, n.1-2, 2021.

E-theca OnLineOpenAccess Edizioni)

 

Le pagine che seguono sono dedicate all'idea di perfezione per Pier Damiani. Come è noto il nostro molto ha scritto e molto ha ragionato sulla santità, intesa come condizione di vita cristiana perfetta, sui modi di condurre la vita monastico-eremitica; si pensi in questo senso alle sue due così dette "regole eremitiche", le Epistole 18 e 50 dell'edizione Reindel, l'Epistola 28 (il Dominus vobiscum), o le Epistole 44 e 45, nelle quali tratteggia una serie di medaglioni che in maniera vivida e concreta mostrano l'esemplarità di suoi fratelli nell'eremo. Pier Damiani ha definito come possa - e debba - essere la perfezione eremitica nell'Epistola 109:

 

E ora se ne vadano coloro che si dilettano delle lusinghe della propria carne [...] Come cavalli sfrenati corrano adesso per le praterie delle loro passioni, per poi provare sulle loro braccia e sulle loro mani la finale stretta di briglie della morte. Il nostro Domenico invece portò le stimmate di Gesù nel suo corpo, e si segnò non solo sulla fronte il vessillo della croce, ma anche da ogni parte sulle membra. Inaridito ed esausto di ogni linfa di canna e di giunco meritò di essere irrigato dalle copiose piogge della grazia celeste. Quaggiù era cinto da una corazza di ferro, lassù è adorno delle candide vesti della gloria degli angeli. Quaggiù era logorato dal duro giaciglio, lassù riposa nel tenero seno dei patriarchi. Di tutta la vita di quaggiù ha fatto come un venerdì santo sulla croce, lassù, gioioso e avvolto di luce celebra la gloria eterna della risurrezione. Ora brilla tra le pietre fiammeggianti della Gerusalemme celeste, ora adorno dei meriti delle sue vittorie trionfa della lode eterna e partecipa alla gioia serena della comunione nella città dei santi [1].

 

Così Pier Damiani chiude la sua Vita di Domenico Loricato, la testimonianza agiografica sul suo discepolo più caro, figlio e padre spirituale allo stesso tempo, compagno di cella e di vita, l'esempio che elegge come perfetto rappresentante della conversatio eremitica avellanita, sul finire della sua vita, nella seconda metà degli anni Sessanta del secolo XI quando, rientrato nell'eremo, propone la "ricetta avellanita" al mondo monastico enfatizzando l'importanza della condizione eremitica ascetica come picco ideale di perfezione cristiana.

Il testo dedicato a Domenico è inserito insieme alla Vita di Rodolfo vescovo di Gubbio, revisore dei suoi scritti e altro suo carissimo discepolo in una lettera, la 109, indirizzata al pontefice Alessandro II, dove intende presentare e promuovere al mondo la perfezione di vita che fiorisce dall'esperienza eremitica avellanita, ricordando al papa che questo suo testo deve essere tenuto da conto, conservato tra i suoi scritti più importanti, «inter scripturas autenticas reservari»[2].

Siamo nel 1067, tre anni dopo il ritorno di Pier Damiani dalla missione in Gallia, dove è avvenuto l'incontro tra il nostro e il monachesimo cluniacense, nell'ultima stagione della sua vita dove più pressante è stato nei suoi scritti e nelle sue frequentazioni - le sue visite a Montecassino si concentrano tutte nella seconda metà degli anni Sessanta - il richiamo alla condizione monastica e alla conversatio ascetico-penitenziale eremitica come picchi della perfezione cristiana.

Nella chiusa di quel testo pregnante ci sono una serie di temi e concetti nodali del pensiero di Pier Damiani sulla perfezione: l'importanza eccezionale connessa alla passione: «di tutta la vita di quaggiù ha fatto come un Venerdì santo sulla croce», la partecipazione all'umanità del Cristo - germe di tempi nuovi - attraverso la partecipazione alla sua sofferenza; le stimmate; la centralità della Croce, il vexillum crucis; la relazione esclusiva tra penitenza, mortificazione del corpo e grazia celeste. Il percorso e le tappe sono indicate chiaramente. Meta finale, anelito costante è Gerusalemme. Tra le pietre fiammeggianti della Gerusalemme celeste brilla chi con la sua vita di perfezione, come Domenico Loricato, il campione degli eremiti avellaniti, per la sua ascesi penitenziale è asceso nella gloria luminosa dei santi.

Secondo Pier Damiani, come per una folta schiera di autori monastici, si tratta di evocare e rappresentare il desiderio di un'esperienza indescrivibile, attraverso un continuo gioco di variazioni in un linguaggio dotato della potenza evocativa più ampia possibile per esprimere una condizione di beatitudine cui il monaco deve tendere mediante il desiderio e la contemplazione.

Nel linguaggio mistico il monaco è un uomo di desiderio, nel senso che imposta la sua vita su questa condizione dinamica di tensione. La contemplazione di Dio è resa attraverso la metafora del viaggio verso Gerusalemme. L'ascesi monastica si connota così di una rappresentazione che propone un'accezione spaziale legata al movimento: il pellegrinaggio, e una cronologica: la dinamicità della condizione del monaco, che è resa attraverso la categoria della fretta; la meta è partecipare alla contemplazione di Dio e questo è reso mediante il concetto di arrivare a Gerusalemme, entrare a far parte della schiera di cittadini celesti. Attraverso l'ascesi perfetta che, tecnicamente, comporta, come primo passo, lo spogliamento di tutto ciò che è materiale, corporeo, mondano attraverso la penitenza per tendere attraverso la perfetta compunzione del cuore a una sorta di pregustazione del cielo.

La dimensione è escatologica; alimentando la propria ascesi con il desiderio, mediante la contemplazione il monaco perfetto può avere una sorta di partecipazione anticipata, sebbene ancora necessariamente imperfetta, alla visione di Dio, e in questa prospettiva il luogo in cui tutto ciò si attua simbolicamente è Gerusalemme, punto di approdo di chi vive e si libra come un angelo in terra. Come si può realizzare la 'angelicità', la condizione angelica? Come è possibile anelare alla Gerusalemme celeste all'interno delle coordinate di tempo e spazio, da cui non si può derogare mentre si è vivi? Il discorso ruota intornio ai tre termini di tempo, spazio, ascesi.

Il linguaggio monastico è composto di temi, analogie e simbolismi che rendono possibile esprimere le urgenze fondamentali della conversatio monastica. La condizione dinamica pellegrinante di viaggio, che è necessaria per tendere alla Gerusalemme celeste, è resa anche mediante alcuni temi consonanti e convergenti. Anche l'ascensione, la condizione angelica, il volo sono temi che esprimono la realtà e la necessità della contemplazione monastica.

Il rapporto con il tempo e con lo spazio è un argomento fondamentale nella vita monastico-eremitica. In uno dei testi archetipici, la Vita di Antonio d'Egitto composta dal vescovo Atanasio di Alessandria, nei primi capitoli, dedicati al racconto dei rudimenti della vita solitaria, anelata e sperimentata dal giovane asceta, il rapporto con il tempo trova espressione potente e pone in essere un ventaglio di possibilità di declinazione che resterà una caratteristica costante e identitaria della via monastica e, nello specifico di quella eremitica.

Antonio - scrive Atanasio - cito in traduzione: «Pregava continuamente. Aveva infatti imparato che bisogna pregare senza interruzione» (Mt 6,6)[3]. Il tempo, dunque, per l'asceta Antonio ha la pienezza del suo valore nel presente costante e consapevole e dedicato a Dio attraverso la preghiera incessante.

Il futuro e il passato sono in subordine, anche qualitativo, rispetto a questo tempo intero, totalizzante che assorbe tutta l'energia e lo zelo dell'asceta. Subito dopo viene ricordata un'altra caratteristica fondamentale - seppure subordinata dal punto di vista della priorità assoluta - del rapporto con il tempo dell'asceta: la memoria. Si afferma, infatti, assai icasticamente che Antonio «ricordava tutto; al posto dei libri aveva la memoria»[4]. La memoria salda l'esperienza dell'eremita nel solco della tradizione, ponendo il suo agire in una direzione che da un passato fondante mira a un futuro di realizzazione che può avvenire solo attraverso il vivere totalmente immersi nel presente, un presente fatto di preghiera che non necessita di misurare il tempo.

Così, infatti, si esprime Atanasio:

 

Antonio non ricordava il tempo trascorso, ma considerando ogni nuovo giorno come l'inizio della sua ascesi, si adoperava sempre più a progredire e recitava continuamente il detto di Paolo: "Dimenticando le cose che stanno dietro di me, mi protendo verso quelle che sono davanti a me". [...]. Ricordava anche la parola del profeta Elia che diceva: "vive il Signore dinanzi al quale oggi <mi trovo>". Interpretava così questa parola: quando il profeta dice "oggi", non teneva conto del tempo passato, ma fissando sempre un nuovo principio cercava ogni giorno di presentarsi a Dio così come bisogna apparire a Dio, di vederlo nel cuore, e di essere pronto a obbedire alla volontà di Dio e di nessun altro. Diceva tra sé Antonio: "colui che pratica l'ascesi cristiana deve contemplare la propria vita come in uno specchio, guardando quella del grande Elia" [5].

 

La via del perfetto eremita è tracciata nel solco di una tradizione che si specchia nel modello par excellence costituito dal profeta Elia, ed è protesa in un anelito di perfezione costante e risolto nell'istante. Se questa è la dimensione cardine della concezione del tempo eremitico, il rapporto con il tempo conosce anche sfaccettature e declinazioni. Misurare, scandire il tempo è necessario, e per certi versi basilare per imprimere un ritmo corretto alla conversatio eremitica in cui il controllo del corpo deve essere subordinato e in sintonia con i progressi ascetici spirituali: il tempo se non è orientato e vissuto nella sua pienezza, se non è costantemente dominato può rivelarsi una pietra di inciampo. Lo sapeva Antonio, e dopo di lui lo hanno sperimentato sulla propria pelle generazioni di eremiti che nel corso del Medioevo hanno eletto la solitudine a regola di vita e si sono cimentati con il carico ascetico che tale condizione comporta. Tra i molti esempi possibili in questa direzione spicca senz'altro il nostro Pier Damiani, eremita e riformatore, scrittore e maestro, e anche legislatore della conversatio eremitica. L'esperienza eremitica sperimentata nelle comunità che facevano riferimento a Pier Damiani, e da lui promossa e codificata, rappresenta un momento di fissazione della tradizione e di elaborazione concettuale con un tentativo di regolarizzazione dell'istituto eremitico e di definizione delle sue caratteristiche. Pier Damiani sa per esperienza diretta che in cella il tempo può dilatarsi fino a divenire una sorta di buco nero che assorbe energie e zelo: un esempio calzante si trova nella partecipata e consapevole testimonianza citata in apertura su suoi discepoli più stretti, Rodolfo di Gubbio e Domenico Loricato, l'Epistola 109 in cui il maestro propone un modello di eremiti perfetti, scaturiti dall'eremo di Fonte Avellana, fucina di perfezione eremitica e riforma.

Di Rodolfo, divenuto pure vescovo di Gubbio, Pier Damiani ricorda come, anche se promosso all'ufficio sacerdotale, rimase sempre interiormente un eremita. L'agiografo, agli inizi della narrazione tutta orientata a dimostrare questo concetto, inserisce una formula efficace che in modo denso e lapidario connota perfettamente l'esperienza esistenziale e spirituale di Rodolfo e, viene da aggiungere, anche quella di Pier Damiani: «quod in eremo diddicit in aecclesia non omisit»[6].

Pier Damiani aveva conosciuto intimamente Rodolfo, con cui aveva condiviso la cella e l'esperienza ascetica, e racconta un episodio che tratta di quella sorta di spleen, che lui chiama «accidia», che coglieva il giovane eremita, ma che conosceva assai bene anche l'agiografo e che ben rappresenta i pericoli insiti in quella «lunghezza del tempo» di cui scriveva Atanasio nella Vita di Antonio[7]. A causa della giovane età talvolta Rodolfo era preso dal desiderio di «evadere» dalla cella e dalla condizione di solitudine assai dura da sopportare. Per contrastare questa «accidia» egli si legava le braccia con dei lacci al soffitto della sua cellula e così sospeso si dedicava alla pratica della salmodia. Il tempo allungato, estenuato, vacuo, deve essere riempito di senso e scandito attraverso la preghiera, nella declinazione avvellanita penitenziale.

Anche Pier Damiani in un'altra occasione confessa di essere preda di questa accidia. Nell'Epistola 62, indirizzata proprio a Rodolfo di Gubbio a cui, insieme al vescovo Teodosio di Senigallia, aveva affidato il delicato compito di revisori dei suoi scritti, Pier Damiani offre una intima e sincera testimonianza della sua vocazione di scrittore raccontando che egli per vincere i taedia e l'accidia derivanti dall'ozio inerte della cella solitaria era solito comporre «quaedam opuscula»[8]. La cella eremitica da lui in più occasioni sentita e descritta come paradisus deliciarum è anche il luogo dove, per vincere l'accidia e i taedia derivanti dall'ozio - «inertis ocii et remotioris cellulae tedia non perferrem»[9] scrive -, emerge la sua vocazione di scrittore, la sua libido scribendi. Attraverso l'attività dello scrivere egli combatte la lunghezza del tempo, l'oppressione del tempo inane, e testimonia la conoscenza e la pratica del tempo eremitico, fatta anche di scacchi, cadute di tensione, di vuoti.

L'accidia è sempre in agguato ed è pronta a svuotare di senso il tempo dell'eremita. Nell'Epistola 50, la seconda delle due regole composte per le sue comunità, Pier Damiani maestro esperto ed eremita provato, con sapienza antropologica si sofferma sulle modalità e l'intensità con cui è necessario dedicarsi all'orazione. «Spesso» scrive, «mentre recitiamo i salmi, il demonio ci assale con violenza con pensieri che sembrano riguardare l'ufficio divino, affinché, mentre la mente s'immagina di pensare a cose sante, si ritenga libera di distogliere gli occhi dall'intelligenza del salmo»[10].

Accidia, pigrizia, torpore sono strumenti che svuotano di senso il tempo dell'eremita. Attraverso questi esempi Pier Damiani testimonia con efficacia il delicato rapporto tra la cella, il tempo e l'eremita. Si tratta di un rapporto complesso che non si risolve solo con il mettere, il riempire e il togliere, ma attraverso la capacità di mantenere in equilibrio e in tensione otium e negotium, attività fisica, intellettuale e meditazione.

Il punto nevralgico rispetto al porsi di fronte al tempo è il ritmo tra tempi pieni e tempi vuoti, l'alternanza (scansione) tra la necessità di lavorare in un modo o in un altro, mediante un'attività o manuale o intellettuale, da soli o comunitariamente e la necessità di tempo libero dal lavoro. L'otium eremitico, il tempo libero dal lavoro riveste però un significato preciso; non si tratta - ovviamente - di una fuga dalla realtà, di un'astrazione, di ozio nel senso deteriore; quanto piuttosto di uno stato di quies, vacatio, sabbatum. Si tratta di una condizione di quiete della mente, quies mentis, che favorisce l'ascesi, attraverso il silenzio interiore e la serena contemplazione. Non si oppone al labor, ma ne costituisce una parte complementare, non si possono considerare come momenti separati, disgiunti. Obiettivo dell'eremita è il controllo di sé, la ricerca di una pace interiore, il superamento di sé.

Le metafore legate alla lotta, all'atletismo sono costanti negli scritti di Pier Damiani ma in generale nei trattati monastici. Come l'atleta che continuamente cerca di migliorarsi e di superare i propri limiti precedenti attraverso un accorto dispendio e un costante controllo delle proprie energie, così l'eremita deve sempre sforzarsi di trascendere sé stesso. Si può raggiungere questo risultato soltanto grazie a una serie di pratiche specifiche, quali la veglia, il digiuno, gli esercizi penitenziali, la consapevolezza della presenza di Dio e il dominio delle passioni che devono essere scandite e regolamentate rigorosamente. La lotta interiore è resa, se possibile, ancora più dura proprio dalla condizione di tranquillità che la cella spesso offre e che è una delle prerogative principali della conversatio eremitica. Ecco che allora prorompono il tedio, la noia, l'accidia rispetto a cui l'eremita deve guardarsi bene e deve reagire riempiendo di senso il tempo.

Quanto fin qui detto riguarda prettamente la dimensione individuale, intima, del rapporto dell'eremita con il tempo; come accennato all'inizio esiste però una molteplicità di percezioni possibili del tempo. Se esiste il tempo individuale, nella sua duplice declinazione di tempo pieno e tempo vuoto, esiste certamente un tempo comunitario. Così come esistono spazi comunitari, comuni, e spazi distinti, separati, individuali lo stesso avviene per i tempi. Il tempo comunitario è sia tempo condiviso, costruito intorno alla liturgia e alle consuetudini: capitolo, pasti ecc., che tempo solitario dove i pieni devono sovrastare i vuoti. Esiste un tempo comune e un tempo separato e una serie di modalità: fretta, ritmo, scansione, dilatazione, attraverso una serie di attività: musica, lavoro, liturgia, lectio, oratio, dieta, sonno, veglia.

Se tutto questo si riferisce a una dimensione quotidiana del rapporto con il tempo esiste poi ancora un'altra estensione del rapporto con il tempo verso il passato e verso il futuro. L'esempio damianeo in questo è perspicuo, proprio perché nel tentativo di codificazione della conversatio eremitica, nel dettato normativo il rapporto con il passato e il futuro è ineludibile.

I nessi con il tempo in uno scritto normativo sono strutturali: si tratta di fissare quanto si vive nel presente coniugandolo con il passato, ponendolo nel solco della tradizione, e con il futuro, proponendolo ai posteri. La connessione tra le tre scansioni del tempo - passato, presente, futuro - è inscindibile e il legame dell'eremita con il tempo connota in modo potente la scrittura damianea. Insieme alla percezione di vivere un'esperienza religiosa importante c'è la cosciente volontà di tramandarla; si registra una lucida e programmatica consapevolezza rispetto alla continuità. Pier Damiani è rivolto al futuro, esplicitamente, il suo sguardo spazia lontano ed è, per così dire, consapevolmente ambizioso. Tutto questo è perfettamente chiarito: «Infatti per il fatto che spero di avere tra non molto il sepolcro in questo luogo, se la divina Provvidenza non riterrà altrimenti, non mi sento meno sollecito della futura vita religiosa di questo luogo, di quanto sia vigilante al suo attuale andamento» [11].

L'avellanita rappresenta l'esperienza eremitica come una via da percorrere o un corso d'acqua che dalla sorgente man mano si irrobustisce fino a divenire un fiume. Pier Damiani specifica con chiarezza quale sia l'attività e il luogo caratterizzante un eremita avellanita: eremita è colui che: «entra nella cella per combattere col diavolo» e l'eremita deve rivolgere ogni suo sforzo «a non sentire più, neppure per un istante, i diletti della carne, ed a vivere morto a sé stesso e al mondo». La cella è "un'arena" e l'esperienza eremitica è un "agone spirituale". La metafora adottata per descrivere l'esistenza eremitica è quella della vita militare, il gergo è marziale, e questa non è certo una novità introdotta specificamente da Pier Damiani che insiste, però, in maniera minuziosa e particolare sulla penitenzialità assoluta insita nella scelta eremitica.

Qua e là Pier Damiani dedica accenni e allusioni alle pratiche di estrema ascesi che sono in voga a Fonte Avellana:

 

Riguardo poi allo zelo per tutti gli altri esercizi spirituali, non ho l'ardire di scrivere quale ne sia il fervore continuo, quale la sollecitudine, quanto operosa e vigile sia la frequenza, perché non sembri che io faccia vana ostentazione [...] Solo mi sia permesso di dire che non poca è qui la diligenza nelle genuflessioni, nelle discipline a colpi di verga e in simili esercizi; ma poiché tu stesso, o fratello carissimo [Stefano, l'eremita a cui l'Epistola è dedicata], puoi apprendere più chiaramente tutto ciò dalla viva voce di coloro che li praticano, non conviene che io descriva qui ogni cosa minutamente». Oppure in seguito: «Del resto, anche tra noi ci sono alcuni fratelli che camminano per una via ben diversa da quella qui descritta e che si impongono una regola di vita molto più rigida [12].

 

E dopo aver presentato esempi di ascesi estrema praticata da suoi confratelli osserva:

 

Ma di queste cose non voglio dire di più, [.] credo giusto però lasciare tali prove a uomini più perfetti e resistenti, e moderare ulteriormente perfino le osservanze più miti descritte, impiegando un certo equilibrio, di modo che, mentre i più validi si accalorano accelerando il ritmo nel vogare per l'alto mare delle virtù, anche i deboli, bordeggiando da vicino lungo la riva, non siano costretti a rimanere incagliati in secche sabbiose [13].

 

In seguito, rispetto alle durissime pratiche penitenziali avellanite chiosa esplicitamente:

 

Quanto a prostrazioni, discipline, colpi a terra col palmo della mano, preghiere a braccia tese ed altri esercizi dettati da santo fervore, non poniamo obblighi al fratello con alcuna legge; crediamo anzi meglio affidarli alla sua libertà e al suo discernimento. Vi sono di quelli ai quali alcune di queste pratiche non convengono, sembra perciò più sicuro e più liberante in simili pratiche proporre la possibilità di sceglierle, anziché prescrivere formalmente una regola fissa[14].

 

Pier Damiani su questo argomento pone la libertà come misura ai suoi eremiti, probabilmente in seno alla stessa comunità avellanita vi era chi avanzava riserve riguardo alle pratiche estreme di ascesi penitenziale che erano promosse e praticate; a questo proposito però Pier Damiani dichiara a chiare lettere che la regola che egli sta componendo, con alcune mitigazioni si osservi però solo dopo la sua morte: «Questa regola però si osservi solo dopo la mia morte, perché fintanto che io vivrò, con l'aiuto di Dio, non sopporterò che vengano menomate le pratiche cui siamo abituati»[15].

L'estremismo ascetico damianeo va contestualizzato per capire a fondo un'esperienza di riforma e di rinnovamento del sentire religioso che ha avuto influenze, echi e ripercussioni nel fenomeno del risveglio spirituale e evangelico, così come nella formazione di una nuova sensibilità religiosa[16]. L'affanno con cui Pier Damiani cerca in molteplici occasioni nei suoi scritti precedenti spunti dalla tradizione e dalle Scritture che giustifichino la cifra penitenziale delle sue comunità è una spia del clima di scalpore, polemica e sospetto con cui era vista la conversatio peculiare avellanita, che è stata considerata dai contemporanei una «inaudita novitas».[17]

La regola di vita proposta agli eremiti avellaniti volutamente vaga per ciò che attiene alle pratiche estreme ascetiche è assai puntuale - quasi pignola - per quel che riguarda gli usi alimentari quotidiani. A questo proposito la prescrittività di Pier Damiani diviene minuziosa ed è il segno di una considerazione davvero rilevante connessa ai tempi, e quindi ai ritmi, dell'alimentazione, della salmodia e del sonno.

Del resto all'inizio del testo Pier Damiani specifica che «per l'impegno di vita solitaria vi sono tre condizioni esterne che particolarmente si confanno ad esso e che debbono essere mantenute a preferenza delle altre: la quiete, il silenzio, il digiuno; gli altri strumenti per conseguire la giustificazione si ottengono per lo più con la semplice pratica e abitudine alla devozione; queste tre invece esigono di essere esercitate con una attenzione che valga a renderle famigliari». Pier Damiani prosegue portando un esempio, un paragone: così come «è proprio del sacerdote dedicarsi alla celebrazione dell'ufficio, del dottore predicare, così è dovere dell'eremita conservare la quiete nel silenzio e nel digiuno»[18].

Pier Damiani conosce a fondo l'animo umano e ha dimestichezza dei pericoli sempre dietro l'angolo nella via di perfezione che distingue il tempo quotidiano dell'eremita dal cenobita. Così all'eremita che deve con umiltà cercare di percorrere vie elevate consiglia di guardarsi dalla categoria della fretta: è necessario prestare attenzione a non sovraffollare la propria mente e in questo modo contaminare e vanificare le proprie azioni con l'ansia o inquietudine: «se capita di aver qualcosa di urgente da fare, egli [l'eremita] non deve mettersi a correre nel recitare la salmodia come sono soliti fare certi cenobiti, e a mutare bruscamente attività in modo così perverso, passando dal salterio all'affare mondano come dal nuotare nel mare aperto al camminare sulla riva»[19].

La condizione di quiete è premessa fondamentale per la conversatio eremitica, lo sa il maestro Pier Damiani e lo sa bene l’'antico nemico' sempre pronto a creare alterazioni di ansia nella mente dell'eremita. La lotta con il demonio, che si vuole impossessare della «lunghezza del tempo», dei tempi vuoti, è una delle attività fondamentali dell'eremita, Pier Damiani lo ripete in continuazione, e si sofferma molto sull'importanza di difendere la mente dall'assalto di inopportune suggestioni. Rivolgendosi ai futuri eremiti ammonisce: «chiunque tu sia, o figlio, che ti prepari a venire alle prese col nemico invisibile, sforzati con cura più che vigile di difendere la tua mente dall'assalto di ogni genere di suggestioni importune, e come subito getti nel fuoco gli scarti e le immondizie che cadono a terra quando fai lavoro manuale, così getta in Dio tutti i turbamenti dei tuoi pensieri. Dato che Dio è un fuoco che divora, affida a lui da bruciare ciò che di superfluo c'è nel tuo cuore»[20].

Pier Damiani dispensa anche consigli pratici ed efficaci, ricorre a metafore ed esempi concreti sul modo di comportarsi nell'agone quotidiano. Le sue sono le parole di chi ha fatto una pratica profonda della cella. La cella, scrive Pier Damiani, che «è la maestra migliore per chi vi persevera», la cella che: «col procedere del tempo insegna con i fatti quello che la lingua non può esprimere a suon di parole»[21].

Dagli scritti damianei emerge la peculiare concezione del tempo eremitico: se nella dimensione normativa il tempo dell'eremita si raccorda con il passato e con il futuro, nella dimensione ascetica e spirituale il tempo eremitico si risolve in un presente fatto di consapevolezza e scandito da preghiera incessante, come aveva scritto Atanasio a proposito del paradigma Antonio, rifuggendo in questo modo «la lunghezza del tempo» e ricercandone la pienezza in Dio.

Pier Damiani, ma prima di lui Gregorio Magno, si pensi alle pagine pregnanti di Jean Leclercq in Cultura monastica e desiderio di Dio, sono fonti di continue citazioni a riguardo, e i loro testi sono matrici di immagini e concetti: il monaco è concepito come il vero abitante di Gerusalemme: il monaco angelo[22].

Pier Damiani, che dedica parole e poesie sublimi all'anelito al cielo e al concetto simbolo di Gerusalemme che lo esprime (si pensi al Rytmus de gloria paradisi), sviluppa in maniera particolare l'associazione tra perfetto eremita e angelo, al punto che nelle sue opere agiografiche, nelle quali i suoi discepoli più stretti incarnano gli esempi di perfezione ascetica assoluta, arriva a dichiarare esplicitamente che chi segue l'ascesi praticata a Fonte Avellana è un angelo in terra.

Il cardinale eremita descrive l'eccezionale condotta di mortificazione, penitenza e ascesi del suo discepolo più caro, Domenico Loricato, con lo scopo dichiarato di ottenerne il riconoscimento della santità e dunque la sanzione della perfezione di vita religiosa che fiorisce nei suoi eremi e, dunque, anche, di ottenere il riconoscimento del fatto che la sua proposta di riforma della vita cristiana è perfetta poiché conduce alla santità. Alla fine di questo testo, dopo aver insistentemente illustrato e descritto con puntigliosa minuzia gli straordinari exploits ascetici di Domenico, arriva ad affermare che il miracolo vero operato dal suo discepolo è la sua stessa esistenza conforme agli ideali ascetici e penitenziali della conversatio che si pratica nelle comunità eremitiche in cui si attua il progetto di riforma radicale della società cristiana secondo la proposta di Pier Damiani: «Del resto, tu che cerchi i miracoli, non ti sembra già un miracolo che un uomo, ancora avvolto di fragile carne, viva per così dire in modo così angelico al punto che tra tante migliaia di uomini a mala pena ne potresti trovare uno simile?»[23].

La vera santità, la nuova santità fiorisce là dove si vive secondo gli ideali nuovi ed estremi dell'eremitismo riformato. Così si può partecipare della cittadinanza di Gerusalemme, e partecipare attivamente, essendo una pietra che si unisce alle altre nell'edificazione del tempio della gloria di Dio, e così infine ci si può assimilare agli angeli accolti nel seno dei patriarchi nella città dei santi.

 

Umberto Longo

Università degli Studi di Roma "La Sapienza"



[1] Si cita la traduzione italiana da Damiani 2011, 200-223; per il testo latino, si veda Damiani 1989 Briefe 109, t. 3, 222,20-223,2. Sulla lettera, si veda Longo 2012, 150-170. Sull'agiografia damianea si segnala l'uscita recente di Damiani 2020.

[2] Longo 2012, 16-17.

[3] Vita di Antonio 1974, 13.

[4] Ibid.

[5] Ivi, 25.

[6] Damiani 1983-1993, Briefe 109, t. 3, 204,23.

[7] Cfr. Damiani 1983-1993, Briefe 62, t. 2, 219,15-22. Sul problema della accidia di Pier Damiani, si veda Longo 2012, n. 12.

[8] Damiani 1983-1993, Briefe 62, t. 2, 219,18: «Inertis ocii et remotioris cellulae tedia non perferrem». Sull'argomento mi sia consentito di rinviare a Longo 1999, 131-132; cfr. anche Leclercq 1960.

[9] Si veda la nota precedente.

[10] Damiani 2002, 181; per il testo latino, si veda Damiani 1983-1993, Briefe 50, t. 2, 115,17-20.

[11] Damiani 2002, 337; per il testo latino, si veda Damiani 1983-1993, Briefe 18, t. 1, 176,14-17.

[12] Damiani 2002, 159 e 165; per il testo latino, si veda Damiani 1983-1993, Briefe 50, t. 2, 94,11-18 e 100,13-15.

[13] Damiani 2002, 149; per il testo latino, si veda Damiani 1983-1993, Briefe 50, t. 2, 103,8-15.

[14] Damiani 2002, 175; per il testo latino, si veda Damiani 1983-1993, Briefe 50, t. 2, 109,1-6.

[15] Damiani 2002, 175; per il testo latino, si veda Damiani 1983-1993, Briefe 50, t. 2, 110,7-8. Si veda al riguardo Longo 2010.

[16] Cfr. Calati 1981, 131-149.

[17] Cfr. a riguardo, Longo 2010.

[18] Damiani 2002, 159; per il testo latino, si veda Damiani 1983-1993, Briefe 50, t. 2, 86,6-9.

[19] Damiani 2002, 199; per il testo latino, si veda Damiani 1983-1993, Briefe 50, t. 2, 128,23129,2.

[20] Damiani 2002, 177; per il testo latino, si veda Damiani 1983-1993, Briefe 50, t. 2, 112,1-5.

[21] Ibid.; per il testo latino, si veda Damiani 1983-1993, Briefe 50, t. 2, 111,12-14.

[22] Cfr. Leclercq 1957, 36-37; sulla vita angelica legata alla vita eremitica e monastica, intesa non tanto come condizione di angelo ma come funzione di lode da assolvere, si veda Leclercq 1948, 19-56.

[23] Damiani 2011, 325; per il testo latino, si veda Damiani 1983-1993, Briefe 109, t. 3, 217,31-218,3.

 


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24 gennaio 2022        a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net