“Trasformare il mondo in un eremo” (Vita Romualdi, 37).
Progettualità e utopia in una formula agiografica di Pier Damiani
Lorenzo Saraceno O.S.B.
Estratto da "Studi Umanistici Piceni"
29 (2009), pp. 65-73
1. “Trasformare il mondo in un eremo”: la singolarità dell'espressione
Pier Damiani, nella sua celebre
opera giovanile (è del 1042) che racconta la vita di san Romualdo di
Ravenna, a un certo punto della narrazione attribuisce al suo protagonista
il desiderio forse più ambizioso, come la cifra di un'esistenza per tanti
aspetti inquieta, apparentemente lontana da quell'otium che
sembrerebbe tratto caratteristico dell'eremita; in esso, per il processo di
rispecchiamento caratteristico del rapporto tra santo e agiografo[1],
potremmo riconoscere anche quello stesso anelito che aveva spinto lui
stesso, pochi anni prima, a lasciare il mondo secolare con la prospettiva di
una brillante carriera già intrapresa, per rifugiarsi a Fonte Avellana:
1. Infine, lasciati in Val di Castro alcuni suoi discepoli, Romualdo si
trasferì nei dintorni di Orvieto e costruì un monastero nelle terre del
conte Farolfo, con la sovvenzione di molti per coprire le spese, e in
particolare, grazie al suo contributo.
Nel petto del sant’uomo,
infatti, la passione di produrre frutti era così accesa che, egli mentre
faceva una cosa, subito s’affrettava a concepirne un’altra, mai contento dei
risultati: si sarebbe perfino detto che volesse trasformare il mondo intero
in eremo e associare all’ordine monastico gran parte della società.
In questo luogo, insomma, egli riuscì a sottrarre al mondo molte persone, e
le indirizzò a numerosi e diversi luoghi sacri.
[Latino: adeo ut putaretur totum
mundum in heremum velle convertere et monachico ordini omnem populi
multitudinem sotiare][2]
Il mondo trasformato in un eremo: in questo anelito del santo dobbiamo
riconoscere il carattere di un vero e proprio progetto, o quello di un sogno
utopico? Obiettivamente dobbiamo riconoscere nell’espressione sia i tratti
dell’iperbole sia quelli del paradosso, tanto che Pier Damiani stesso si
premunisce utilizzando l’artificio retorico della modestia (“si sarebbe
perfino detto”). E' evidente l'iperbole: il mondo in tutta la sua estensione
ridotto, concentrato nella singolarità della cella eremitica. Meno immediato
da cogliere, ma altrettanto essenziale, e certamente concepito per essere
individuato da parte del lettore attento, il paradosso: almeno perché un
mondo trasformato in un eremo è destinato a non perpetuarsi, e perché, se
fosse tutto appartenente all’ordine monastico non darebbe più senso al
monachesimo che certo per Romualdo e Pier Damiani era una “fuga dal mondo”,
quale che sia il senso da dare all’espressione.
A un primo livello di osservazione, qui si potrebbe agevolmente riconoscere
semplicemente una voluta forzatura, rappresentativa di una dimensione
utopica non estranea allo spirito di un autore che sappiamo essere amante
degli eccessi non solo ascetici (nel perseguire, sia pure con le opportune
attenuazioni, una sanctitas per tanti aspetti
indiscreta
[3]), ma anche retorici con
funzione eminentemente provocatoria. Già dire questo non è a mio avviso
senza conseguenze di rilievo, se è vero che la retorica non è per Pier
Damiani un artificio esornativo, ma sempre struttura, “grammatica” del
pensiero.
A un secondo livello, dobbiamo poi almeno precisare che questa formulazione
dell'anelito di Romualdo non sembra trovare riscontri nella tradizione
agiografica anteriore. Ho condotto una ricerca specifica sull'espressione, e
sulle possibili varianti ottenibili connettendo i termini convertere,
heremus, mundum e quelli semanticamente e lessicalmente
correlati, passando in rassegna tutto il corpus contenuto nell'archivio di
testi del CLCLT (Cetedoc Library of Christian Latin Texts) 6, e ho ottenuto
risultati negativi: sembra improbabile il reperimento di una fonte
specifica, e peraltro non si riscontra l'utilizzo dell'espressione o di
qualcosa di simile nel giro di tutto il secolo XI. Se dunque l'espressione
nasce dalla penna di Pier Damiani, possiamo allora affermare che essa
appartiene al suo stile e al
suo mondo concettuale, ed è quindi probabilmente indicativa dei “caratteri
originali” della sua idea monastica.
Dunque qui sembrerebbe di poter individuare uno dei nodi del carisma di
Romualdo, almeno nella lettura che ci propone a distanza di quarant’anni il
suo agiografo: la sua esperienza singolarissima si propone come qualcosa che
non è tanto concepita come utile alla salvezza e alla vita spirituale per
pochi, ma piuttosto la si sogna per tutti, per il complesso della società,
per il mondo appunto, di cui si auspica una trasformazione ispirata
all’eremo e all'ordine monastico[4].
Del resto non sembra inutile ricordare che dire carisma, se vogliamo seguire
l’indicazione di Paolo nella sua prima lettera ai Corinti (cf. 1 Cor 15,12),
significa individuare il ruolo di una esperienza mossa dallo Spirito ad
edificazione della Chiesa. Se di questo si tratta, troviamo nella
espressione damianea un livello certamente molto alto dell'autocoscienza che
gli ambienti monastici, in particolare quelli del “nuovo monachesimo” che
fiorisce a cavallo dell'XI e XII secolo, potevano avere del proprio ruolo
trainante nella riforma pregregoriana, la quale non a caso per tanti aspetti
fu una sorta di monasticizzazione della Chiesa almeno nelle strutture
disciplinari relative all'ordo clericalis e nelle proposte
spirituali. E vale la pena aggiungere che il discutere sulla dimensione
ecclesiale del carisma eremitico in Romualdo e Pier Damiani ha un rilievo
oggettivo, anche dal punto di vista ecumenico: proprio a cavallo del tempo
in cui si consuma la separazione tra Roma e Bisanzio abbiamo con Romualdo
l’ultima esperienza monastica eremitica e semianacoretica d’occidente ancora
in continuità con la tradizione monastica della Chiesa indivisa, e nella
generazione successiva abbiamo con Pier Damiani, agiografo di Romualdo,
l’ultimo e forse più radicale teorico dell’istituzione eremitica in un
occidente che ormai sta sanzionando la sua divisione dall’oriente (1054).
Questo non toglie il fatto che fenomeni di vita solitaria e di reclusione
(pur nella diversità delle varie tipologie) abbiano attraversato la storia
della Chiesa latina anche nel secondo millennio; ma è anche vero il fatto
che la tradizione camaldolese, che da quelle fonti “romualdine” e damianee[5]
ha tratto ispirazione, è rimasta fino alla fine del secondo millennio
l’unica forma monastica
istituzionale che in occidente, bene o male, ha tenuto viva la tradizione
eremitica, insieme a quella, alquanto differente e comunque di poco
successiva, dei certosini. E
forse non è casuale che entrambi, Romualdo e il suo agiografo, fossero di
Ravenna, la città che per secoli aveva fatto da ponte con la civiltà
bizantina, ma a partire da quegli anni ormai sempre maggiormente si integra
senza più distinguersi in una civiltà esclusivamente latina. Certamente si
deve tener conto dell'opinione di chi, con solidi argomenti, ha escluso
rapporti diretti tra l'esperienza romualdina e la tradizione greca[6],
ma è indubbio che negli eremiti rationales[7]
caratteristici della tradizione romualdino-camaldolese e avellanita si
percepisce una certa aura del semianacoretismo dell'oriente cristiano.
Propongo in questa luce, un'analisi più ravvicinata di questa espressione di
Pier Damiani, per discuterne il
significato nella sua letteralità e nelle suggestioni che essa evoca,
collocandola nel contesto della Vita Romualdi e della concezione
monastico-eremitica del suo autore, e per proporre conclusivamente
qualche prospettiva di lettura più generale.
2. Nel quadro della Vita Romualdi: perché Valdicastro
In altra sede, mettendo in relazione indici formali e sequenze narrative, ho
sostenuto che la Vita Romualdi può essere suddivisa in due parti
principali, la prima (capitoli 1-27) avente come perno Ravenna, la seconda
(capitoli 30-72) avente come riferimento principale Valdicastro[8].
Al centro (capitoli 28-29) le due passiones dei discepoli missionari
di Romualdo, che nel loro anelito di estendere i confini del mondo cristiano
costituiscono la miglior prova
della fecondità del loro maestro[9].
Di fatto la presenza di Romualdo a Valdicastro in questa seconda parte della
narrazione è segnalata tre volte, con evidente rilievo strutturale: agli
inizi, al centro e alla fine. Notiamo così come quel luogo venga ad essere
uno dei pilastri su cui organizzare il pur debole impianto cronotassico di
questa seconda parte della vita del santo, in cui, dopo il fallimento del
progetto di un monachesimo imperiale gravitante nell'orbita di Ottone III, a
seguito della morte dell'imperatore (che costituisce un vero e proprio
spartiacque nella vicenda biografica di Romualdo), i vari eventi narrati
sembrano esemplare soprattutto i caratteri di un eremita itinerante, e si
susseguono ordinariamente più per aggregazione di episodi correlati per
contenuti che per successione cronologica.
A partire da queste osservazioni sull'impianto narrativo, può essere
utile allora verificare se
abbia qualche importanza il fatto che l'ambizione di trasformare il mondo in
eremo nasca in Romualdo in un contesto che ha a che fare con Valdicastro.
Agli inizi, dopo il rientro di Romualdo in Italia dal luogo dell’Istria
(Parenzo) in cui si era rifugiato dopo la morte di Ottone III,
Valdicastro è il primo luogo in cui Romualdo, mal tollerando il
vedere che rimaneva sterile il suo insegnamento, ritrova una compagnia di
discepoli adeguati. Una situazione paragonabile solo a quella di Cuxa e a
quella del Pereo, e poi a Sitria. Rileggiamo quanto dice in proposito Pier
Damiani:
“Chi potrebbe descrivere per iscritto, o raccontare a voce, quali e quanti
furono i frutti d’anime che Dio fu in grado di mietere in questo luogo per
mezzo di lui? La gente, infatti, cominciò a confluire da ogni dove per fare
penitenza, a distribuire misericordiosamente le proprie sostanze ai poveri,
e alcuni ad abbandonare all’istante il mondo e ad affrettarsi con animo
fervoroso a seguire il regime di vita monastico. Il beatissimo uomo era,
infatti, come uno dei serafini, poiché egli stesso era infiammato in modo
incomparabile d’amore divino, e infiammava gli altri con le fiamme della
santa predicazione, ovunque andasse.” (cap. 35).
L’ambizione di Romualdo a un mondo trasformato in eremo sembra dunque una
prosecuzione della mietitura dei “frutti d’anime” ottenuta a Valdicastro, la
giustificazione di un percorso nuovo di itineranza. Dal mondo i discepoli
erano venuti a Valdicastro, ora da Valdicastro Romualdo si rivolge lui
stesso al mondo.
Al centro di questa seconda parte si evoca un rapido ritorno a Valdicastro,
a carattere per così dire disciplinare, per correggere la vita scandalosa di
un abate dell’eremo-monastero da lui fondato. Ma anche in questo caso si
inserisce un’ambizione carismatica e profetica del santo a largo respiro, il
respiro del mondo, concetto che non a caso ricompare nel linguaggio di Pier
Damiani nella parola
saecularis, che a quel campo semantico si connette:
“Al beato uomo il modo di vivere degli abati, come vediamo, appariva così
detestabile che, se avesse potuto strappare un’abbazia dalle mani di
qualcuno di loro, non avrebbe gioito meno che se a lui fosse stato dato di
chiamare al regime della vita monastica un qualsivoglia potente del mondo (potentissimum
quemque secularium).”(cap. 45).
Alla fine Romualdo torna a Valdicastro, luogo prediletto per la fecondità
che vi aveva trovato nelle due occasioni precedenti, avendolo scelto come
luogo in cui morire. La parola mundum o altre semanticamente o
lessicalmente connesse qui non compaiono, ma il narratore fa arrivare qui il
suo protagonista dopo aver precisato che molti sono stati i luoghi da lui
abitati, molti i mali subiti soprattutto ad opera dei discepoli, ma, ancor
più numerosi i miracoli (cap. 68). A Valdicastro insomma, nella reclusione
di S. Biagiolo, si ricompone in unità e si riconcilia la multiformità delle
esperienze del santo che ha girato per il mondo con l'ambizione di
trasformarlo in un eremo: non è riuscito certo in un’impresa per certi versi
così folle, ma nella solitudine radicale della morte è come se quella
molteplicità, che è propria del mondo e che lui stesso aveva attraversato da
eremita, potesse trovare la sua unificazione. Valdicastro, luogo prediletto
del ritiro eremitico da parte di Romualdo, è come se fosse l'ombelico del
mondo, e sembra esercitare il ruolo di punto di attrazione e quello di
sorgente di irradiazione.
3. Solitudine e comunione: trasformare tutto il mondo in un eremo
Vale allora la pena di tornare al testo da cui ci siamo mossi, e di
osservarlo più da vicino, con un piccolo frammento di analisi formale. Si
noti almeno il gioco retorico, caratteristico dello stile di Pier Damiani,
per il quale, a mo’ di ossimoro, si accostano i due termini antitetici,
‘eremo’ e ‘mondo’[10],
singolarità e pluralità, e il fatto che, nel secondo membro della frase,
come a ribadire il concetto mediante la ripetizione del'idea in modo
simmetrico, secondo la
figura retorica del chiasmo in antitesi, la società (‘sotiare’)
è connessa all’antitetico ordine monastico (‘monachico’):
aggettivo quest'ultimo di cui, a mio avviso, Pier Damiani percepisce
perfettamente e vuole evocare il valore etimologico, che ancora rimanda alla
singolarità, posto che è questo è il valore semantico del greco
monos da cui il termine
monachicus deriva come calco.
Questo saggio di analisi retorica e stilistica, se non altro, sta a
confermare la rilevanza della formula, come cifra del modello agiografico
romualdino: singolarità e pluralità in Romualdo sembrano istanze compresenti
e sempre in fragile equilibrio nel loro concretizzarsi, se non anche nelle
motivazioni del suo inquieto peregrinare fondando nuovi eremi e riformando
monasteri, ma mai separabili anche nei momenti di maggior apertura al mondo
o di radicalità della separatezza, nella solitudine dell’eremo o della
reclusione.
Sembra da questo punto di vista significativo il fatto che, attraverso la
ricerca sui data base, si riesce a trovare solo un'espressione che si
possa accostare a questa tournure del pensiero che stiamo
analizzando, e che essa sia ancora di Pier Damiani. Nel
Sermo XVII, I, 6, a proposito di Gervasio e Protaso, i quali alla
morte dei genitori si ritirano per dieci anni in un cenaculum della
loro città per dedicarsi alla lettura e all'orazione[11],
, si dice:
De populosa urbe faciunt heremum, diversorium habitandi vertunt in oratorium[12]
Possiamo vedere qui gli ancora degli elementi antitetici accostati in questo
caso non a chiasmo, ma in parallelismo ( populosa urbs / heremus;
diversorium habitandi / oratorium) , ma ciò che conta è
constatare anche in questo caso il riproporsi di questo processo, che è
linguistico ma anche mentale, che tende a far convergere in un medesimo
nesso ciò che è singolare con ciò che è molteplice: da questo punto di vista
vale anche la figura etimologica (più che paranomasia) diversorium
[habitandi] / vertunt [in oratorium][13]
. Se allora è vero, come si accennava sopra, che gli artifici stilistici non
sono puro ornamento del bello scrivere, ma, per un maestro di stile come
Pier Damiani, sono rivelatori di una struttura concettuale, forse qui
possiamo intravvedere qualcosa non di episodico, o comunque riferibile solo
a san Romualdo, ma di caratteristico anche del pensiero del nostro autore.
Certo in questa dialettica degli opposti è la singolarità dell'eremo ad
affascinare particolarmente chi per l'eremo ha lasciato il mondo, ed essa
riveste per lui una sorta di primato, perché eremo e monastero, secondo
l'unanime tradizione monastica, esprimono e sono concepiti in funzione di
una vita “unificata”, una vita solo per Dio e solo con Dio, sono insomma il
centro di gravità cui far convergere ciò che è disperso; ma primato non
significa cancellazione dell'opposto, semmai integrazione, assorbimento.
4. Solitudine e comunione: trovare nell'eremo tutto il mondo
Possiamo vedere le cose anche da un punto di vista rovesciato. In una delle
sue opere più famose, il Dominus
vobiscum (= lett. 28)[14],
si propone una questione la cui soluzione sembra essere il massimo
dell'esaltazione della vita solitaria nell'eremo: quando l'eremita se ne sta
più giorni da solo nella sua cella, e celebra la messa, deve dire tutto
quanto è previsto dal rituale per i dialoghi tra sacerdote e fedeli, deve
dire per esempio, al plurale, Dominus vobiscum, "Il Signore sia con
voi"? A chi? Alle panche e alla tavola della cella? E chi può rispondere, se
non ancora lui, Et cum Spiritu tuo, al singolare? Noi, oggi, con la
nostra sensibilità liturgica beneficamente rinnovata dal concilio, faremmo
proprio questa obiezione, tanto è vero che oggi non si concepisce se non in
situazioni particolari una messa senza popolo, fosse almeno rappresentato da
un solo fedele. Eppure Pier Damiani dice che invece sì, si devono
pronunciare tutte quelle formule: perché nell'eremita solitario che celebra
la messa e che prega c'è tutta la Chiesa, a nome della quale il celebrante
pronuncia le parole della consacrazione, e a nome della quale lo stesso
celebrante accoglie il dono che il Signore gli fa della sua sua presenza per
tutti: perché quando uno è solo davanti a Dio, anche se ha chiuso la porta
della propria stanza per essere a tu per tu con Dio, se si pone in tutto il
suo essere vero e senza schermi, non è estraneo a tutta l'umanità di cui lui
è parte, e che in ogni momento, ma in quell'atto liturgico in modo
particolare, rappresenta.
Quanto più uno è solo, concentrato sulla verità di se stesso davanti a Dio,
tanto più scopre in sé la dimensione più profonda del mondo davanti a Dio.
Per riprendere un passo del Dominus Vobiscum:
Come
poi l’uomo in greco si definisce "microcosmo", cioè mondo in piccolo [Sicut
autem homo Greco aeloquio dicitur microcosmus, hoc est minor mundus], in
quanto per la sua costituzione fisica consta dei medesimi quattro elementi
di cui si compone tutto l’universo, così anche ciascuno dei fedeli appare,
per così dire, una Chiesa in
piccolo [ita
etiam unusquisque fidelium quasi quaedam minor esse videtur aecclesia].[15]
Dice insomma Pier Damiani: l'eremita è come un microcosmo, un mondo in
miniatura, e dunque non può dimenticare il mondo, e se prega Dio, non lo
prega per sé, ma per il mondo, altrimenti la preghiera non è vera, è solo
sfogo autoreferenziale. Si è soli davanti a Dio solo se si sa assumere lo
sguardo universale di Dio sul mondo. Del resto già in precedenza, ad un
certo punto della sua trattazione, definendo il ruolo della vita eremitica
aveva ripreso questo nesso tra eremo e mondo con questa formula fulminante:
“[…] per virtù dello Spirito Santo, che è nei singoli e riempie tutti, si
percepisce da una parte una singolarità che ha in sé la pluralità [solitudo
pluralis], dall'altra una molteplicità che ha in sé la singolarità [moltitudo
singularis]”.
[16]
Se si osserva, è lo stesso gioco di opposizione e di simmetrie rilevate nel
passo della Vita Romualdi. L'uno
e il molteplice sembrano insomma riproporsi come prospettive, come costanti
concettuali della scrittura damianea, e regolarmente riproporsi nella loro
polarità come nella loro complementarietà, e nel Dominus vobiscum
questo nesso[17]
trova il suo massimo grado di elaborazione.
5. Oltre l'utopia una proposta spirituale per il mondo
Dal punto di vista nostro, non si può negare che ciò che oggi ci affascina,
in Romualdo e nel Pier Damiani del Dominus vobiscum, è proprio questa
tensione tra solitudine e comunione, proposta nella sua radicalità e nella
sua dialettica. In realtà noi stessi siamo portati a sentire questi come due
poli non solo della nostra tensione religiosa (Dio lo si cerca e lo si trova
solo nell’ a tu per tu, ma non si può amare Dio che non si vede se non si sa
amare e farsi condizionare dal fratello che si vede e ci chiede una parola o
un gesto da condividere), ma anche del nostro modo di porci come attori
responsabili nella temperie del mondo e della storia. È proprio questa
tensione, per esempio, a poter dare profondità, dignità e coscienza critica
a quel bisogno di identità che ci sembra necessario per non soccombere in
questo nostro tempo, tanto ricco di inquietudini e povero di certezze.
Perché una vita unificata non è una vita in cui la singolarità, e in buona
sostanza la soggettività, assurge a criterio del tutto, ma quella in cui la
pluralità - quella che portiamo dentro e quella del mondo che ci mette
continuamente in questione - trova il suo senso alla luce dell’unico
necessario, integrando la complessità nell’io di ciascuno come in un
microcosmo. L'identità vera e radicata in un progetto non esclude o
respinge, ma include, integra e ricompone.
In questa luce l’espressione di Pier Damiani, “trasformare tutto il mondo in
un eremo”, senza togliere nulla alla provocazione insita nell’iperbole e nel
paradosso, può essere compresa nel suo senso più vero.
Certo è forte la dimensione utopica nelle forme del nuovo eremitismo
dei secoli XI-XII, al punto che qualcuno ha parlato di “principale utopia
realizzata del Medio Evo”[18]
e Romualdo e Pier Damiani non ne sono estranei. Ma non è tanto un’utopia
iperbolica e ingenua e neppure una fanatica ansia di uniformità che anima il
progetto monastico e la peregrinazione di Romualdo sui sentieri del mondo, e
che ispira l'ideale riformatore del suo agiografo Pier Damiani,
quanto l’ansia di condurre tutto ciò che li circonda, vario e
frammentato, alla ricerca di un senso e di un obiettivo,
alla ricomposizione di quell’unità profonda, che è unità in Dio, che
essi stessi perseguirono con una intensità estrema pur nella
molteplicità delle situazioni. Insomma la personale ricerca
dell'assoluto di Dio, per quei due protagonisti del rinnovamento della
Chiesa nel secolo XI, trovava il suo senso e la sua verità quando sapeva
porsi come segno profetico,
come tale sempre singolare e irrepetibile, affinché quel diversorium
habitandi che è il mondo possa diventare oratorium, luogo
dell'incontro di tutti e di ciascuno con Dio solo.
Eremo San Giorgio - 37011 Bardolino VR
[1]
Ne discute per es.
G. Luongo,
Lo specchio dell'agiografo. S. Felice nei carmi XV e XVI di Paolino
di Nola, Napoli, Nuove edizioni Tempi Moderni, 1992
[2]
Petri Damiani
Vita Romualdi, a cura di
G. Tabacco, Roma ISIME 1957, cap. 37 (p. 78). Cito utilizzando la
mia traduzione in corso di pubblicazione nel quadro dell’Opera
omnia presso Città Nuova di Roma.
[3]
Cf. P. Golinelli,
Indiscreta Sanctitas. Sull'uso polemico della santità nel
contesto del movimento riformatore, in Id. Indiscreta Sanctitas,
studi sui rapporti tra culti, poteri e società nel pieno Medioevo,
Roma, ISIME, 1988, pp. 159-191, ove giustamente si pone in luce la
polemica di Pier Damiani contro l'odiosa sanctitas di certi
esponenti dell'area vallombrosiana (Teuzone in primis) nel
nome della discretio, ma il mdello agiografico di Domenico Loricato
(cf. Lett. 112) non è certo meno “indiscreto”.
[4]
Noto che è per lo meno ambigua la traduzione, e di riflesso
l'utilizzazione che di questa formula propone H.
Leyser,
Hermits and the new
monasticism. A study of religious communities in western Europe
1000-1050, London 1984, p. 1: «The eleventh and twelfth
centuries saw a dramatic change: 'it seemed as if the whole world
would be turned into a hermitage'»; anche se poi successivamente a
p. 31 si propone una traduzione corretta di tutto il passo, che non
è interpretazione di un fenomeno nascite di nuove forme monastiche
da parte di uno dei protagonisti, ma solo una sua personale
aspirazione.
[5]
I nessi tra le regole avellanite e le prime costituzioni camaldolesi
sono state puntualmente indicate e discusse da
Consuetudo Camaldulensis.
Rodulphi Constitutiones, Liber Eremiticae Regulae, a cura di P.
Licciardello, Firenze 2004
[6]
Basti il rimando a J.-M
Sansterre, Monaci e monasteri greci a Ravenna, in A.
Carile (éd.), Storia
di Ravenna, II: Dall'età bizantina all' età ottoniana, 2 :
Ecclesiologia, cultura e arte, Venezia, Marsilio, 1992, pp.
323-329 e Id., Les
moines d'Occident et le monachisme d'Orient du VIe au XIe siècle :
entre textes anciens et réalités contemporaines, in
Cristianità d'Occidente e cristianità d'Oriente (secoli VI-XI),
Spoleto, 2004 (Settimane di studio del Centro italiano di studi
sull'alto medioevo, LI), pp. 289-332.
[7]
L'espressione, come noto,
si trova come definizione del carisma romualdino in Vita
quinque fratrum eremitarum [seu] Vita vel passio Benedicti et
Johannis sociorumque suorum, autore
Brunone querfurtensi, a cura di J. Karwasinska, Warszawa
1973, G. Fornasari,
Medioevo riformato del secolo XI. Pier Damiani e Gregorio VII,
Napoli Liguori 1996, p.
210.
[8]
Cf. L. Saraceno,
La “grammatica di Cristo” di
Pier Damiani agiografo. Per uno studio della struttura letteraria
della Vita Romualdi, “Benedictina” 54(2007), pp. 195-216.
[9]
VR 27, p. 61.
[10]
Richiamo che proprio il mundus immundus è il destinatario
fittizio cui si rivolge il narratore nel prologo della Vita
Romualdi:Adversum
te prorsus, inmunde munde, conquerimur quia habes intolerabilem
stultorum sapientium turbam tibi facundam, Deo mutam
(VR, prologo, p.9).
[11]
Noto che, in situazione non polemica come quella della lettera 44 a
Teuzone, qui Pier Damiani appare molto meno critico verso forme di
monachesimo, per di più eremitico, a carattere urbano.
[12]
Petri Damiani
Sermones, a
cura di G. Lucchesi, Turnhout, Brepols, 1983 (CCCM 57), XVII,I, 6,
p.89.
[13]
Diversorium
(classico deversorium), abitazione, dimora, è usato in totale
7 volte da Pier Damiani, ma solo qui, in tensione semantica con
heremus, con questo lusus verborum.
[14]
Pier Damiani,
Lettere, II a
cura di I. Gargano e N. D'Acunto, Roma Città Nuova 2001 (OPD 1/2),
p.112-153.
[15]
Lett. 28, 23; cf. Pier
Damiani, Lettere,
II, cit, p. 129. La spiegazione del termine greco come minor
mundus deriva quasi ad litteram da Isidoro di Siviglia,
ed è utilizzata altre due volte nell'opera damianea. Può essere
interessante segnalare che l'utilizzazione di questa espressione
isidoriana non risulta
attestata dai data base prima di Pier Damiani stesso.
[16]
Lett. 28, 13; cf. Pier
Damiani, Lettere,
II, cit, p. 121.
[17]
Un serio lavoro a tappeto sulle fonti di questa celebre operetta
damianea è forse ancora da fare, dopo i pur puntuali riscontri
individuati dal Reindel nella sua edizione critica. Comunque da
questo punto di vista non ho l'impressione che la ricerca possa dare
risultati particolarmente illuminanti: fonte ispirativa principale
sembra essere sostanzialmente il commento alla prima lettera di
Giovanni di S. Agostino, ma la formulazione delle tesi di tutta
l'opera sembra essere il frutto proprio delle varie modulazioni
concettuali e retoriche che il nesso solitudine e comunione sembra
produrre, applicandolo alla dimensione trinitaria, a quella
cristologica e a quella ecclesiologica.
[18]
"Le
monachisme est à l'évidence la principale utopie réalisée au Moyen
Age et sans doute dans l'histoire de l'Occident. Il est durant des
siècles, en particulier entre le Xe et le XIIe, le modèle de
perfection par excellence": così
si fa riferimento alle tesi di J. Séguy,
Une sociologie des sociétés imaginées: monachisme et utopie,
"Annales E. S. C"., t. 26, 1971, pp. 328-354 in
P. Henriet,
Entre ciel et terre: l'impact du monachisme sur les
sociétés médiévales. À propos d'un ouvrage récent, "Le Moyen
Age" 102 (1996), p. 538.
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22 gennaio 2022 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net