“Trasformare il mondo in un eremo” (Vita Romualdi, 37).

Progettualità e utopia in una formula agiografica di Pier Damiani

 

Lorenzo Saraceno O.S.B.

Estratto da "Studi Umanistici Piceni" 29 (2009), pp. 65-73 - Istituto internazionale di studi piceni 2009


 

1. “Trasformare il mondo in un eremo”: la singolarità dell'espressione

 

Pier Damiani,  nella sua celebre opera giovanile (è del 1042) che racconta la vita di san Romualdo di Ravenna, a un certo punto della narrazione attribuisce al suo protagonista il desiderio forse più ambizioso, come la cifra di un'esistenza per tanti aspetti inquieta, apparentemente lontana da quell'otium che sembrerebbe tratto caratteristico dell'eremita; in esso, per il processo di rispecchiamento caratteristico del rapporto tra santo e agiografo[1], potremmo riconoscere anche quello stesso anelito che aveva spinto lui stesso, pochi anni prima, a lasciare il mondo secolare con la prospettiva di una brillante carriera già intrapresa, per rifugiarsi a Fonte Avellana:

 

1. Infine, lasciati in Val di Castro alcuni suoi discepoli, Romualdo si trasferì nei dintorni di Orvieto e costruì un monastero nelle terre del conte Farolfo, con la sovvenzione di molti per coprire le spese, e in particolare, grazie al suo contributo. Nel petto del sant’uomo, infatti, la passione di produrre frutti era così accesa che, egli mentre faceva una cosa, subito s’affrettava a concepirne un’altra, mai contento dei risultati: si sarebbe perfino detto che volesse trasformare il mondo intero in eremo e associare all’ordine monastico gran parte della società. In questo luogo, insomma, egli riuscì a sottrarre al mondo molte persone, e le indirizzò a numerosi e diversi luoghi sacri.

[Latino: adeo ut putaretur totum mundum in heremum velle convertere et monachico ordini omnem populi multitudinem sotiare][2]

 

Il mondo trasformato in un eremo: in questo anelito del santo dobbiamo riconoscere il carattere di un vero e proprio progetto, o quello di un sogno utopico? Obiettivamente dobbiamo riconoscere nell’espressione sia i tratti dell’iperbole sia quelli del paradosso, tanto che Pier Damiani stesso si premunisce utilizzando l’artificio retorico della modestia (“si sarebbe perfino detto”). E' evidente l'iperbole: il mondo in tutta la sua estensione ridotto, concentrato nella singolarità della cella eremitica. Meno immediato da cogliere, ma altrettanto essenziale, e certamente concepito per essere individuato da parte del lettore attento, il paradosso: almeno perché un mondo trasformato in un eremo è destinato a non perpetuarsi, e perché, se fosse tutto appartenente all’ordine monastico non darebbe più senso al monachesimo che certo per Romualdo e Pier Damiani era una “fuga dal mondo”, quale che sia il senso da dare all’espressione.

A un primo livello di osservazione, qui si potrebbe agevolmente riconoscere semplicemente una voluta forzatura, rappresentativa di una dimensione utopica non estranea allo spirito di un autore che sappiamo essere amante degli eccessi non solo ascetici (nel perseguire, sia pure con le opportune attenuazioni, una sanctitas per tanti aspetti  indiscreta [3]), ma anche retorici con funzione eminentemente provocatoria. Già dire questo non è a mio avviso senza conseguenze di rilievo, se è vero che la retorica non è per Pier Damiani un artificio esornativo, ma sempre struttura, “grammatica” del pensiero.

A un secondo livello, dobbiamo poi almeno precisare che questa formulazione dell'anelito di Romualdo non sembra trovare riscontri nella tradizione agiografica anteriore. Ho condotto una ricerca specifica sull'espressione, e sulle possibili varianti ottenibili connettendo i termini convertere, heremus, mundum e quelli semanticamente e lessicalmente correlati, passando in rassegna tutto il corpus contenuto nell'archivio di testi del CLCLT (Cetedoc Library of Christian Latin Texts) 6, e ho ottenuto  risultati negativi: sembra improbabile il reperimento di una fonte specifica, e peraltro non si riscontra l'utilizzo dell'espressione o di qualcosa di simile nel giro di tutto il secolo XI. Se dunque l'espressione nasce dalla penna di Pier Damiani, possiamo allora affermare che essa appartiene al suo stile  e al suo mondo concettuale, ed è quindi probabilmente indicativa dei “caratteri originali” della sua idea monastica.

Dunque qui sembrerebbe di poter individuare uno dei nodi del carisma di Romualdo, almeno nella lettura che ci propone a distanza di quarant’anni il suo agiografo: la sua esperienza singolarissima si propone come qualcosa che non è tanto concepita come utile alla salvezza e alla vita spirituale per pochi, ma piuttosto la si sogna per tutti, per il complesso della società, per il mondo appunto, di cui si auspica una trasformazione ispirata all’eremo e all'ordine monastico[4].

Del resto non sembra inutile ricordare che dire carisma, se vogliamo seguire l’indicazione di Paolo nella sua prima lettera ai Corinti (cf. 1 Cor 15,12), significa individuare il ruolo di una esperienza mossa dallo Spirito ad edificazione della Chiesa. Se di questo si tratta, troviamo nella espressione damianea un livello certamente molto alto dell'autocoscienza che gli ambienti monastici, in particolare quelli del “nuovo monachesimo” che fiorisce a cavallo dell'XI e XII secolo, potevano avere del proprio ruolo trainante nella riforma pregregoriana, la quale non a caso per tanti aspetti fu una sorta di monasticizzazione della Chiesa almeno nelle strutture disciplinari relative all'ordo clericalis e nelle proposte spirituali. E vale la pena aggiungere che il discutere sulla dimensione ecclesiale del carisma eremitico in Romualdo e Pier Damiani ha un rilievo oggettivo, anche dal punto di vista ecumenico: proprio a cavallo del tempo in cui si consuma la separazione tra Roma e Bisanzio abbiamo con Romualdo l’ultima esperienza monastica eremitica e semianacoretica d’occidente ancora in continuità con la tradizione monastica della Chiesa indivisa, e nella generazione successiva abbiamo con Pier Damiani, agiografo di Romualdo, l’ultimo e forse più radicale teorico dell’istituzione eremitica in un occidente che ormai sta sanzionando la sua divisione dall’oriente (1054). Questo non toglie il fatto che fenomeni di vita solitaria e di reclusione (pur nella diversità delle varie tipologie) abbiano attraversato la storia della Chiesa latina anche nel secondo millennio; ma è anche vero il fatto che la tradizione camaldolese, che da quelle fonti “romualdine” e damianee[5] ha tratto ispirazione, è rimasta fino alla fine del secondo millennio l’unica forma monastica  istituzionale che in occidente, bene o male, ha tenuto viva la tradizione eremitica, insieme a quella, alquanto differente e comunque di poco successiva, dei certosini.  E forse non è casuale che entrambi, Romualdo e il suo agiografo, fossero di Ravenna, la città che per secoli aveva fatto da ponte con la civiltà bizantina, ma a partire da quegli anni ormai sempre maggiormente si integra senza più distinguersi in una civiltà esclusivamente latina. Certamente si deve tener conto dell'opinione di chi, con solidi argomenti, ha escluso rapporti diretti tra l'esperienza romualdina e la tradizione greca[6], ma è indubbio che negli eremiti rationales[7] caratteristici della tradizione romualdino-camaldolese e avellanita si percepisce una certa aura del semianacoretismo dell'oriente cristiano.

Propongo in questa luce, un'analisi più ravvicinata di questa espressione di Pier  Damiani, per discuterne il significato nella sua letteralità e nelle suggestioni che essa evoca, collocandola nel contesto della Vita Romualdi e della concezione monastico-eremitica del suo autore, e per proporre conclusivamente  qualche prospettiva di lettura più generale.

 

2. Nel quadro della Vita Romualdi: perché Valdicastro

 

In altra sede, mettendo in relazione indici formali e sequenze narrative, ho sostenuto che la Vita Romualdi può essere suddivisa in due parti principali, la prima (capitoli 1-27) avente come perno Ravenna, la seconda (capitoli 30-72) avente come riferimento principale Valdicastro[8]. Al centro (capitoli 28-29) le due passiones dei discepoli missionari di Romualdo, che nel loro anelito di estendere i confini del mondo cristiano costituiscono la miglior prova  della fecondità del loro maestro[9]. Di fatto la presenza di Romualdo a Valdicastro in questa seconda parte della narrazione è segnalata tre volte, con evidente rilievo strutturale: agli inizi, al centro e alla fine. Notiamo così come quel luogo venga ad essere uno dei pilastri su cui organizzare il pur debole impianto cronotassico di questa seconda parte della vita del santo, in cui, dopo il fallimento del progetto di un monachesimo imperiale gravitante nell'orbita di Ottone III, a seguito della morte dell'imperatore (che costituisce un vero e proprio spartiacque nella vicenda biografica di Romualdo), i vari eventi narrati sembrano esemplare soprattutto i caratteri di un eremita itinerante, e si susseguono ordinariamente più per aggregazione di episodi correlati per contenuti che per successione cronologica.  A partire da queste osservazioni sull'impianto narrativo, può essere utile allora  verificare se abbia qualche importanza il fatto che l'ambizione di trasformare il mondo in eremo nasca in Romualdo in un contesto che ha a che fare con Valdicastro.

Agli inizi, dopo il rientro di Romualdo in Italia dal luogo dell’Istria (Parenzo) in cui si era rifugiato dopo la morte di Ottone III,  Valdicastro è il primo luogo in cui Romualdo, mal tollerando il vedere che rimaneva sterile il suo insegnamento, ritrova una compagnia di discepoli adeguati. Una situazione paragonabile solo a quella di Cuxa e a quella del Pereo, e poi a Sitria. Rileggiamo quanto dice in proposito Pier Damiani:

 

“Chi potrebbe descrivere per iscritto, o raccontare a voce, quali e quanti furono i frutti d’anime che Dio fu in grado di mietere in questo luogo per mezzo di lui? La gente, infatti, cominciò a confluire da ogni dove per fare penitenza, a distribuire misericordiosamente le proprie sostanze ai poveri, e alcuni ad abbandonare all’istante il mondo e ad affrettarsi con animo fervoroso a seguire il regime di vita monastico. Il beatissimo uomo era, infatti, come uno dei serafini, poiché egli stesso era infiammato in modo incomparabile d’amore divino, e infiammava gli altri con le fiamme della santa predicazione, ovunque andasse.” (cap. 35).

 

L’ambizione di Romualdo a un mondo trasformato in eremo sembra dunque una prosecuzione della mietitura dei “frutti d’anime” ottenuta a Valdicastro, la giustificazione di un percorso nuovo di itineranza. Dal mondo i discepoli erano venuti a Valdicastro, ora da Valdicastro Romualdo si rivolge lui stesso al mondo.

Al centro di questa seconda parte si evoca un rapido ritorno a Valdicastro, a carattere per così dire disciplinare, per correggere la vita scandalosa di un abate dell’eremo-monastero da lui fondato. Ma anche in questo caso si inserisce un’ambizione carismatica e profetica del santo a largo respiro, il respiro del mondo, concetto che non a caso ricompare nel linguaggio di Pier Damiani nella parola  saecularis, che a quel campo semantico si connette:

 

“Al beato uomo il modo di vivere degli abati, come vediamo, appariva così detestabile che, se avesse potuto strappare un’abbazia dalle mani di qualcuno di loro, non avrebbe gioito meno che se a lui fosse stato dato di chiamare al regime della vita monastica un qualsivoglia potente del mondo (potentissimum quemque secularium).”(cap. 45).

 

Alla fine Romualdo torna a Valdicastro, luogo prediletto per la fecondità che vi aveva trovato nelle due occasioni precedenti, avendolo scelto come luogo in cui morire. La parola mundum o altre semanticamente o lessicalmente connesse qui non compaiono, ma il narratore fa arrivare qui il suo protagonista dopo aver precisato che molti sono stati i luoghi da lui abitati, molti i mali subiti soprattutto ad opera dei discepoli, ma, ancor più numerosi i miracoli (cap. 68). A Valdicastro insomma, nella reclusione di S. Biagiolo, si ricompone in unità e si riconcilia la multiformità delle esperienze del santo che ha girato per il mondo con l'ambizione di trasformarlo in un eremo: non è riuscito certo in un’impresa per certi versi così folle, ma nella solitudine radicale della morte è come se quella molteplicità, che è propria del mondo e che lui stesso aveva attraversato da eremita, potesse trovare la sua unificazione. Valdicastro, luogo prediletto del ritiro eremitico da parte di Romualdo, è come se fosse l'ombelico del mondo, e sembra esercitare il ruolo di punto di attrazione e quello di sorgente di irradiazione.

 

3. Solitudine e comunione: trasformare tutto il mondo in un eremo

 

Vale allora la pena di tornare al testo da cui ci siamo mossi, e di osservarlo più da vicino, con un piccolo frammento di analisi formale. Si noti almeno il gioco retorico, caratteristico dello stile di Pier Damiani, per il quale, a mo’ di ossimoro, si accostano i due termini antitetici, ‘eremo’ e ‘mondo’[10], singolarità e pluralità, e il fatto che, nel secondo membro della frase, come a ribadire il concetto mediante la ripetizione del'idea in modo simmetrico,  secondo la  figura retorica del chiasmo in antitesi, la società (‘sotiare’) è connessa all’antitetico ordine monastico (‘monachico’):  aggettivo quest'ultimo di cui, a mio avviso, Pier Damiani percepisce perfettamente e vuole evocare il valore etimologico, che ancora rimanda alla singolarità, posto che è questo è il valore semantico del greco monos da cui il termine monachicus deriva come calco. Questo saggio di analisi retorica e stilistica, se non altro, sta a confermare la rilevanza della formula, come cifra del modello agiografico romualdino: singolarità e pluralità in Romualdo sembrano istanze compresenti e sempre in fragile equilibrio nel loro concretizzarsi, se non anche nelle motivazioni del suo inquieto peregrinare fondando nuovi eremi e riformando monasteri, ma mai separabili anche nei momenti di maggior apertura al mondo o di radicalità della separatezza, nella solitudine dell’eremo o della reclusione.

Sembra da questo punto di vista significativo il fatto che, attraverso la ricerca sui data base, si riesce a trovare solo un'espressione che si possa accostare a questa tournure del pensiero che stiamo analizzando, e che essa sia ancora di Pier Damiani. Nel  Sermo XVII, I, 6, a proposito di Gervasio e Protaso, i quali alla morte dei genitori si ritirano per dieci anni in un cenaculum della loro città per dedicarsi alla lettura e all'orazione[11], , si dice:

 

De populosa urbe faciunt heremum, diversorium habitandi vertunt in oratorium[12]

 

Possiamo vedere qui gli ancora degli elementi antitetici accostati in questo caso non a chiasmo, ma in parallelismo ( populosa urbs / heremus; diversorium habitandi / oratorium) , ma ciò che conta è constatare anche in questo caso il riproporsi di questo processo, che è linguistico ma anche mentale, che tende a far convergere in un medesimo nesso ciò che è singolare con ciò che è molteplice: da questo punto di vista vale anche la figura etimologica (più che paranomasia) diversorium [habitandi] / vertunt [in oratorium][13] . Se allora è vero, come si accennava sopra, che gli artifici stilistici non sono puro ornamento del bello scrivere, ma, per un maestro di stile come Pier Damiani, sono rivelatori di una struttura concettuale, forse qui possiamo intravvedere qualcosa non di episodico, o comunque riferibile solo a san Romualdo, ma di caratteristico anche del pensiero del nostro autore. Certo in questa dialettica degli opposti è la singolarità dell'eremo ad affascinare particolarmente chi per l'eremo ha lasciato il mondo, ed essa riveste per lui una sorta di primato, perché eremo e monastero, secondo l'unanime tradizione monastica, esprimono e sono concepiti in funzione di una vita “unificata”, una vita solo per Dio e solo con Dio, sono insomma il centro di gravità cui far convergere ciò che è disperso; ma primato non significa cancellazione dell'opposto, semmai integrazione, assorbimento.

 

4. Solitudine e comunione: trovare nell'eremo tutto il mondo

 

Possiamo vedere le cose anche da un punto di vista rovesciato. In una delle sue opere più famose, il Dominus vobiscum (= lett. 28)[14], si propone una questione la cui soluzione sembra essere il massimo dell'esaltazione della vita solitaria nell'eremo: quando l'eremita se ne sta più giorni da solo nella sua cella, e celebra la messa, deve dire tutto quanto è previsto dal rituale per i dialoghi tra sacerdote e fedeli, deve dire per esempio, al plurale, Dominus vobiscum, "Il Signore sia con voi"? A chi? Alle panche e alla tavola della cella? E chi può rispondere, se non ancora lui, Et cum Spiritu tuo, al singolare? Noi, oggi, con la nostra sensibilità liturgica beneficamente rinnovata dal concilio, faremmo proprio questa obiezione, tanto è vero che oggi non si concepisce se non in situazioni particolari una messa senza popolo, fosse almeno rappresentato da un solo fedele. Eppure Pier Damiani dice che invece sì, si devono pronunciare tutte quelle formule: perché nell'eremita solitario che celebra la messa e che prega c'è tutta la Chiesa, a nome della quale il celebrante pronuncia le parole della consacrazione, e a nome della quale lo stesso celebrante accoglie il dono che il Signore gli fa della sua sua presenza per tutti: perché quando uno è solo davanti a Dio, anche se ha chiuso la porta della propria stanza per essere a tu per tu con Dio, se si pone in tutto il suo essere vero e senza schermi, non è estraneo a tutta l'umanità di cui lui è parte, e che in ogni momento, ma in quell'atto liturgico in modo particolare, rappresenta.  Quanto più uno è solo, concentrato sulla verità di se stesso davanti a Dio, tanto più scopre in sé la dimensione più profonda del mondo davanti a Dio. Per riprendere un passo del Dominus Vobiscum:

 

Come poi l’uomo in greco si definisce "microcosmo", cioè mondo in piccolo [Sicut autem homo Greco aeloquio dicitur microcosmus, hoc est minor mundus], in quanto per la sua costituzione fisica consta dei medesimi quattro elementi di cui si compone tutto l’universo, così anche ciascuno dei fedeli appare, per così dire, una  Chiesa in piccolo [ita etiam unusquisque fidelium quasi quaedam minor esse videtur aecclesia].[15]

 

Dice insomma Pier Damiani: l'eremita è come un microcosmo, un mondo in miniatura, e dunque non può dimenticare il mondo, e se prega Dio, non lo prega per sé, ma per il mondo, altrimenti la preghiera non è vera, è solo sfogo autoreferenziale. Si è soli davanti a Dio solo se si sa assumere lo sguardo universale di Dio sul mondo. Del resto già in precedenza, ad un certo punto della sua trattazione, definendo il ruolo della vita eremitica aveva ripreso questo nesso tra eremo e mondo con questa formula fulminante:

 

“[…] per virtù dello Spirito Santo, che è nei singoli e riempie tutti, si percepisce da una parte una singolarità che ha in sé la pluralità [solitudo pluralis], dall'altra una molteplicità che ha in sé la singolarità [moltitudo singularis]”. [16]

 

Se si osserva, è lo stesso gioco di opposizione e di simmetrie rilevate nel passo della Vita Romualdi. L'uno e il molteplice sembrano insomma riproporsi come prospettive, come costanti concettuali della scrittura damianea, e regolarmente riproporsi nella loro polarità come nella loro complementarietà, e nel Dominus vobiscum questo nesso[17] trova il suo massimo grado di elaborazione.

 

5. Oltre l'utopia una proposta spirituale per il mondo

 

Dal punto di vista nostro, non si può negare che ciò che oggi ci affascina, in Romualdo e nel Pier Damiani del Dominus vobiscum, è proprio questa tensione tra solitudine e comunione, proposta nella sua radicalità e nella sua dialettica. In realtà noi stessi siamo portati a sentire questi come due poli non solo della nostra tensione religiosa (Dio lo si cerca e lo si trova solo nell’ a tu per tu, ma non si può amare Dio che non si vede se non si sa amare e farsi condizionare dal fratello che si vede e ci chiede una parola o un gesto da condividere), ma anche del nostro modo di porci come attori responsabili nella temperie del mondo e della storia. È proprio questa tensione, per esempio, a poter dare profondità, dignità e coscienza critica a quel bisogno di identità che ci sembra necessario per non soccombere in questo nostro tempo, tanto ricco di inquietudini e povero di certezze. Perché una vita unificata non è una vita in cui la singolarità, e in buona sostanza la soggettività, assurge a criterio del tutto, ma quella in cui la pluralità - quella che portiamo dentro e quella del mondo che ci mette continuamente in questione - trova il suo senso alla luce dell’unico necessario, integrando la complessità nell’io di ciascuno come in un microcosmo. L'identità vera e radicata in un progetto non esclude o respinge, ma include, integra e ricompone.

In questa luce l’espressione di Pier Damiani, “trasformare tutto il mondo in un eremo”, senza togliere nulla alla provocazione insita nell’iperbole e nel paradosso, può essere compresa nel suo senso più vero.  Certo è forte la dimensione utopica nelle forme del nuovo eremitismo dei secoli XI-XII, al punto che qualcuno ha parlato di “principale utopia realizzata del Medio Evo”[18] e Romualdo e Pier Damiani non ne sono estranei. Ma non è tanto un’utopia iperbolica e ingenua e neppure una fanatica ansia di uniformità che anima il progetto monastico e la peregrinazione di Romualdo sui sentieri del mondo, e che ispira l'ideale riformatore del suo agiografo Pier Damiani,  quanto l’ansia di condurre tutto ciò che li circonda, vario e frammentato, alla ricerca di un senso e di un obiettivo,  alla ricomposizione di quell’unità profonda, che è unità in Dio, che essi stessi perseguirono con una intensità estrema pur nella  molteplicità delle situazioni. Insomma la personale ricerca dell'assoluto di Dio, per quei due protagonisti del rinnovamento della Chiesa nel secolo XI, trovava il suo senso e la sua verità quando sapeva porsi come  segno profetico, come tale sempre singolare e irrepetibile, affinché quel diversorium habitandi che è il mondo possa diventare oratorium, luogo dell'incontro di tutti e di ciascuno con Dio solo.

Eremo San Giorgio - 37011 Bardolino VR


[1] Ne discute per es.   G. Luongo, Lo specchio dell'agiografo. S. Felice nei carmi XV e XVI di Paolino di Nola, Napoli, Nuove edizioni Tempi Moderni, 1992

[2] Petri Damiani Vita Romualdi, a cura di G. Tabacco, Roma ISIME 1957, cap. 37 (p. 78). Cito utilizzando la mia traduzione in corso di pubblicazione nel quadro dell’Opera omnia presso Città Nuova di Roma.

[3] Cf. P. Golinelli, Indiscreta Sanctitas. Sull'uso polemico della santità nel contesto del movimento riformatore, in Id. Indiscreta Sanctitas, studi sui rapporti tra culti, poteri e società nel pieno Medioevo, Roma, ISIME, 1988, pp. 159-191, ove giustamente si pone in luce la polemica di Pier Damiani contro l'odiosa sanctitas di certi esponenti dell'area vallombrosiana (Teuzone in primis) nel nome della discretio, ma il mdello agiografico di Domenico Loricato (cf. Lett. 112) non è certo meno “indiscreto”.

[4] Noto che è per lo meno ambigua la traduzione, e di riflesso l'utilizzazione che di questa formula propone H. Leyser,  Hermits and the new monasticism. A study of religious communities in western Europe 1000-1050, London 1984, p. 1: «The eleventh and twelfth centuries saw a dramatic change: 'it seemed as if the whole world would be turned into a hermitage'»; anche se poi successivamente a p. 31 si propone una traduzione corretta di tutto il passo, che non è interpretazione di un fenomeno nascite di nuove forme monastiche da parte di uno dei protagonisti, ma solo una sua personale aspirazione.

[5] I nessi tra le regole avellanite e le prime costituzioni camaldolesi sono state puntualmente indicate e discusse da Consuetudo Camaldulensis. Rodulphi Constitutiones, Liber Eremiticae Regulae, a cura di P. Licciardello, Firenze 2004

[6] Basti il rimando a J.-M Sansterre, Monaci e monasteri greci a Ravenna, in A. Carile (éd.), Storia di Ravenna, II: Dall'età bizantina all' età ottoniana, 2 : Ecclesiologia, cultura e arte, Venezia, Marsilio, 1992, pp. 323-329 e Id.,  Les moines d'Occident et le monachisme d'Orient du VIe au XIe siècle : entre textes anciens et réalités contemporaines, in Cristianità d'Occidente e cristianità d'Oriente (secoli VI-XI), Spoleto, 2004 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull'alto medioevo, LI), pp. 289-332.

[7] L'espressione, come noto,  si trova come definizione del carisma romualdino in Vita quinque fratrum eremitarum [seu] Vita vel passio Benedicti et Johannis sociorumque suorum, autore Brunone querfurtensi, a cura di J. Karwasinska, Warszawa 1973, G. Fornasari, Medioevo riformato del secolo XI. Pier Damiani e Gregorio VII, Napoli Liguori 1996,  p. 210.

[8] Cf. L. Saraceno, La “grammatica di Cristo” di Pier Damiani agiografo. Per uno studio della struttura letteraria della Vita Romualdi, “Benedictina” 54(2007), pp. 195-216.

[9] VR 27, p. 61.

[10] Richiamo che proprio il mundus immundus è il destinatario fittizio cui si rivolge il narratore nel prologo della Vita Romualdi:Adversum te prorsus, inmunde munde, conquerimur quia habes intolerabilem stultorum sapientium turbam tibi facundam, Deo mutam (VR, prologo, p.9).

[11] Noto che, in situazione non polemica come quella della lettera 44 a Teuzone, qui Pier Damiani appare molto meno critico verso forme di monachesimo, per di più eremitico, a carattere urbano.

[12] Petri Damiani  Sermones,  a cura di G. Lucchesi, Turnhout, Brepols, 1983 (CCCM 57), XVII,I, 6, p.89.

[13] Diversorium (classico deversorium), abitazione, dimora, è usato in totale 7 volte da Pier Damiani, ma solo qui, in tensione semantica con heremus, con questo lusus verborum.

[14] Pier Damiani, Lettere, II  a cura di I. Gargano e N. D'Acunto, Roma Città Nuova 2001 (OPD 1/2), p.112-153.

[15] Lett. 28, 23; cf. Pier Damiani, Lettere, II, cit, p. 129. La spiegazione del termine greco come minor mundus deriva quasi ad litteram da Isidoro di Siviglia, ed è utilizzata altre due volte nell'opera damianea. Può essere interessante segnalare che l'utilizzazione di questa espressione isidoriana  non risulta attestata dai data base prima di Pier Damiani stesso.

[16] Lett. 28, 13; cf. Pier Damiani, Lettere, II, cit, p. 121.

[17] Un serio lavoro a tappeto sulle fonti di questa celebre operetta damianea è forse ancora da fare, dopo i pur puntuali riscontri individuati dal Reindel nella sua edizione critica. Comunque da questo punto di vista non ho l'impressione che la ricerca possa dare risultati particolarmente illuminanti: fonte ispirativa principale sembra essere sostanzialmente il commento alla prima lettera di Giovanni di S. Agostino, ma la formulazione delle tesi di tutta l'opera sembra essere il frutto proprio delle varie modulazioni concettuali e retoriche che il nesso solitudine e comunione sembra produrre, applicandolo alla dimensione trinitaria, a quella cristologica e a quella ecclesiologica.

[18]  "Le monachisme est à l'évidence la principale utopie réalisée au Moyen Age et sans doute dans l'histoire de l'Occident. Il est durant des siècles, en particulier entre le Xe et le XIIe, le modèle de perfection par excellence": così  si fa riferimento alle tesi di J. Séguy, Une sociologie des sociétés imaginées: monachisme et utopie, "Annales E. S. C"., t. 26, 1971, pp. 328-354 in  P. Henriet,  Entre ciel et terre: l'impact du monachisme sur les sociétés médiévales. À propos d'un ouvrage récent, "Le Moyen Age" 102 (1996), p. 538.

 


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22 gennaio 2022        a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net