San Pier Damiani
A cura di 
Pietro 
Palazzini
Estratto da “Bibliotheca Sanctorum – Vol. 10”, Città Nuova Editrice, 1968
PIER 
DAMIANI, 
Dottore della Chiesa, santo.
Sommario: 
I. Vita - II. Opere e Dottrina - III. Culto e reliquie - IV. 
Iconografia.
I. Vita.
Cardinale vescovo 
e, 
prima, monaco avellanita e, se non fondatore, principale organizzatore della 
Congregazione eremitica di Fonte Avellana, P., che nacque a Ravenna nel 
1007, fu anche uno dei più noti scrittori del sec. XI 
e 
uno dei più grandi 
attori della riforma pre-gregoriana. La morte dei genitori e l’abbandono di 
alcuni dei suoi l’accompagnarono nei primi anni della vita, finché trovò 
nella sorella Roselinda una seconda madre (Ep. Agneti imp.; scritta nel 1037: ed. A. Wilmart, 
in 
Revue Bénéd., 
XLIV [1932] p. 128) e nel fratello maggiore Damiano (da cui il secondo nome) 
un sostegno nel suo avviamento allo studio 
(Op. 
XLVII, in PL, CXLV, coll. 
710-15, 
passim). 
Studiò a Ravenna, Faenza e Parma 
(Op. 
XLV, 6, 
ibid., 
coll. 699-700; LI, 13, 
ibid., 
col. 762; v. anche F. Lanzoni, 
S. Pier Damiano e Faenza, Faenza 1898; F. Botti, 
S. Pier Damiano, 
Panna 1959).
In questo primo periodo è ricordato un particolare toccante della sua vita, 
di grande interesse per la storia dello 
stipendium Missae. Mentre conduceva ancora stentatamente la sua 
infanzia, trovata una moneta, anziché servirsene per i propri bisogni, la 
consegnò ad un sacerdote, perché celebrasse la Messa in suffragio dei suoi 
defunti genitori (Giovanni da Lodi, 
Vita b. Damiani, 2, in PL, CXLIV, coll. 116-17).
Iniziò la sua attività come professore nelle arti del trivio e del 
quadrivio, ma alcuni fatti, in cui egli vide la mano di Dio, lo persuasero a 
cambiare vita. Il suo primo biografo, Giovanni da Lodi, accenna in 
particolare al rifiuto da lui fatto di un’elemosina ad un poveretto che 
gliela chiedeva, mentre stava a pranzo. Poco dopo una resta di pesce gli si 
poneva di traverso e poco mancò non rimanesse soffocato. Questo fatto fu 
l’occasione decisiva per la scelta di una vita più perfetta, la cui ricerca 
andava già maturando nel suo animo.
Entrò nell’eremo di Fonte Avellana (allora assai modesto) verso l’a. 1035 (Ep. Agnati imp., 
cit.).
La sua personalità s’impose subito nel piccolo gruppo di eremiti che 
vivevano su quello sperduto ridosso del Catria, ma fu richiesto anche da 
altre comunità come oratore: dall’abbazia di S. Maria di Pomposa, nelle 
vicinanze di Ferrara, e dal monastero di S. Vincenzi di Petra Pertusa tra le 
gole del Furlo, e, quando tornò al suo eremo di Fonte Avellana, vi fu eletto 
priore verso il 1043 
(Vita, 6-7, in PL, 
CXLIV, coll. 123-25).
Dal suo priorato ha origine il mirabile fiorire di questo eremo. Scrisse tra 
il 1045 ed il 1050, quasi una regola per i suoi monaci, gli opuscoli: XIV,
De ordine eremitamm et facultatibus 
eremi Fontis Avellani (PL, CXLV, coll. 327 sgg.), e XV,
De suae congregationis institutis 
(ibid., 
coll. 335 sg.), ai quali si devono aggiungere gli speciali ordinamenti dati 
per l’eremo di Gamugno o Gamogna 
(Ep. 
VI, 32, 
ibid., 
CXLIV, col. 429). Nello stesso tempo cominciò a propagare case filiali nelle 
Marche, Umbria, Romagna e Abruzzo, dando origine ad una Congregazione 
eremitica (detta poi di S. Colomba) di ispirazione camaldolese (ai 
Camaldolesi fu infatti unita nel 1569), anche se in sé autonoma. Sono, tra 
l’altro di sua fondazione l’eremo di Gamogna, il monastero di Acereta (oggi 
Badia della Valle, in dioc. di Faenza), ed il monastero di S. Gregorio in 
Conca (Rimini).
P. è, dunque, innanzi tutto, un santo monaco, maestro di vita religiosa e 
soprattutto di vita eremitica, cofondatore di una Congregazione religiosa e 
formulatore di una dottrina dell’eremo, che è rimasta poi classica (cf. A. 
Giabbani, 
L’insegnamento 
monastico di S. Pier Damiano, in 
Vita monastica, XV [1961], pp. 3-18).
Le sue opere, specialmente quelle dirette ai monaci, sono piene di tali 
concetti: il monastero è una preparazione all’eremo, cui tutti i monaci 
dovrebbero tendere, come alla più alta forma di vita religiosa. 
Particolarmente nel bellissimo opuscolo 
Dominus vobiscum, scritto tra il 1048 ed il 1055
(Op. XI, in PL, 
CXLV, coll. 231-51; A. Kolping, 
Petrus Damiani. Das Büchlein vom Dominus vobiscum, 
Dusseldorf 1949), che, a dire del Battelli 
(S. Pier Damiano, Vita di S. 
Romualdo ed altri scritti volgarizzati, Milano 1927, pp. 
20- 21), è fra le creazioni più belle della letteratura latina del Medioevo, 
P., con elevata poesia, tesse il più alto elogio della vita eremitica.
Egli vede esempi di vita eremitica nel Vecchio e Nuovo Testamento (cf. anche
Op. XV, 2, in PL, 
CXLV, col. 336; 
Op. 
LI, 
ibid., 
coll. 749 sgg.); avverte però che il padre della vita eremitica è s. 
Romualdo (cf. 
Vita Romualdi, 
32, 
ibid., 
CXLIV, col. 893; 
Op. 
XV, 16, 
ibid., 
CXLV, col. 348; XLIX, 
ibid., 
col. 278: questo ultimo opuscolo fu scritto al nipote Marino dopo il 1065). 
Quanto scriveva era da lui sentito e vissuto. In lui il cardinalato non poté 
sopprimere l’eremita ed il suo esempio riuscì trascinante, pur tra le 
difficoltà di questo genere di vita (cf. M. Della Santa, 
Ricerche sull’idea monastica di S. 
Pier Damiano, 
Arezzo 1961).
Un altro aspetto della figura di P. è delineato dal Blum, che ha definito il 
santo « consigliere dei Papi »; fu questo, infatti, il suo compito 
principale nella vita pubblica durante il periodo pre-gregoriano (cf. Q. J. 
Blum, 
The monitor of the Popes: St. Peter 
Damian, 
in 
Studi Gregoriani, 
II [1947], pp. 459-76).
Afflitto dai mali della Chiesa, di cui egli lamentò assai energicamente le 
manifestazioni più palesi, le cosiddette eresie (simoniaca e nicolaita), o 
meglio le piaghe del secolo (scostumatezza e simonia nel clero), senza però 
misurare, almeno in tutta l’estensione, la radice profonda del male riposta 
nella investitura laica, egli prese contatto con Gregorio VI, il primo papa 
che parve far sperare al mondo l’attuazione di una riforma 
(Ep. I, 1, 2, in 
PL, CXLIV, coll. 205-207) e si tenne sempre a contatto con gli altri papi 
che gli succedettero, divenendo, quando più quando meno, uomo di fiducia e 
di consiglio. Ma la vocazione a consigliere dei pontefici non era dettata da 
altro che dal desiderio di affrettare la riforma della Chiesa, la cui 
iniziativa era allora in mano ai monaci.
Ecco il terzo aspetto della complessa figura di s. P.: il riformatore (cf., 
H. Löwe, 
Petrus Damiani. Ein 
italienischer Reformer am Vorabend des Investiturstreites, 
in 
Geschichte in Wissenschaft und 
Unterrickt, 
VI [1955], pp. 65-79; C. Mazzotti, Il 
celibato e la castità del clero in S. Pier Damiani, 
in 
Studi su S. Pier Damiani in onore del Card. A. G. Cicognani, Faenza 1961, pp. 123-31).
Chiamato dalla Provvidenza a svolgere una grande opera di riforma, sentì 
sempre la nostalgia per la sua grande aspirazione: la vita eremitica. Queste 
due attrattive producevano nel suo animo un vivo contrasto, che alle volte 
divenne drammatico. Sul piano di riforma, dopo aver tracciato le grandi 
linee nei suoi opuscoli, P. preferiva risolvere le questioni con contatti ed 
amicizie personali, ecclesiastiche e politiche. Sembravano essergli di 
guida, in questa strada, le cordiali relazioni degli imperatori Ottone III 
ed Enrico II con s. Romualdo (cf. 
Vita 
Romualdi, 
22-25, 30, 34, in PL, CXLIV, coll. 973-76, 982, 1003, 1004).
Basta semplicemente sfogliare il suo vasto epistolario in otto libri, per 
rendersi conto dei molteplici contatti intercorsi tra P. e le più note 
personalità ecclesiastiche e laiche dell’epoca. Le ingiunzioni 
dell’imperatore Enrico III, che lo voleva vicino collaboratore del papa 
tedesco, Clemente II, valsero a vincere le ultime riluttanze del suo animo, 
preso dall’amore della contemplazione ed asceso già alle più alte vette 
della mistica (Ep. I, 3, 
ibid., coll. 
207-208; 
Op. XIX, 5, 
ibid., 
CXLV, col. 
432). La familiarità e poi l’immatura morte di Enrico III lo misero in 
relazione con la sua sposa, l’imperatrice Agnese. Le interferenze dei 
consiglieri di corte ecclesiastici e laici e la poca corrispondenza di 
Enrico IV, figlio dell’imperatrice stessa e di Enrico III, dovettero 
deluderlo non poco (cf. 
Et. VII, 6-10, 13-15, 
17-19, Vili, 1-6, 12, 
ibid., 
CXLIV, coll. 443-60, 461-76, 485).
Nel campo ecclesiastico egli si appoggiava come ad un amico ed insieme guida 
ad Ildebrando, il futuro Gregorio VII (cf. 
Ep. 
I, 8, 11, 16, 
ibid., 
coll. 
212-13, 214, 236; II, 5, 6, 8, 9, 
ibid., 
coll. 260-75; 
Carmina 149, 150, 194, 195, 196, 
ibid., CXLV, coll. 
961. 966, 967). La 
scaltrezza e la ferma volontà dell’amico, a volte, lo lasciavano 
sconcertato, ma finì presto con l’arrendersi, persuaso della sua superiorità 
di vedute, cui però, da amico, non risparmiava scherzosi versi e bonarie, ma 
salaci allusioni.
I brevi pontificati di Clemente II e di Damaso II non gli danno modo di 
svolgere attività degne di rilievo come consigliere dei papi ed anche come 
riformatore. La sua opera a favore della Chiesa prende forme concrete con 
Leone IX (1049-1054), sotto cui furono scritti i due più famosi trattati: il
Gratissimus (Op.
IX, in PL, CXLV, coll. 99-156) ed il 
Gomorrhianus (Op. VII, 
ibid., 
coll. 
159-190; quest’ultimo risale al 1049). Ma alcuni attriti con il pontefice, 
tra cui la critica fatta allo stesso Leone IX per il suo intervento nella 
guerra di rivendicazione contro i Normanni di Benevento, non facilitarono 
sempre la sua cooperazione nell’opera della riforma 
(Ep. 
I, 4, 
ibid., 
CXLIV, coll. 208-209). L’attività (Ep. I, 5, ibid., coll. 209- 10) riprende 
con Vittore II (1055-1057), finché, con Stefano IX (1057-1058), è assorbito, 
suo malgrado, nella curia ed è creato cardinale e vescovo di Ostia (Op. XIX, 
prol., in PL, CXLV, col. 424). L’amico Ildebrando riusciva così ad averlo al 
suo fianco nella lotta intrapresa; ed al suo fianco fu presente a Siena 
all’elezione di Niccolò II (1059-1061), contrapposto all’intruso Giovanni, 
antipapa Benedetto X (Ep., I, 7, 8, 
ibid., 
CXLIV, coll. 210-13). Sotto Niccolò II espletò la sua prima missione a 
Milano (1059) per la riforma di quella Chiesa e di altre della Lombardia, e 
vi applicò la sua teoria, non del tutto esatta nella impostazione, ma esatta 
nelle sue conclusioni pratiche, sulla validità delle ordinazioni simoniache, 
in contrasto con quella del cardinale Umberto di Selva Candida (ci. L. 
Saltet, 
Les réordinations..., 
Parigi 1907, 
passim;
Op. V, in PL, CXLV, 
coll. 89 sgg.).
Fu in quell’occasione che P. si rammaricò di non 
aver seguito il consiglio dell’amico Ildebrando, che lo aveva caldamente 
invitato a compilare una nuova collezione di Canoni ispirati alla 
dimostrazione del primato di Pietro e dei suoi successori, principi da 
tenersi come cardini dell’opera di riforma. Può darsi, ma non si può 
affermare con certezza, che P., in seguito, abbia dato ascolto a Ildebrando, 
nel qual caso potrebbe essere stato uno dei possibili autori di quella
Collectio LXX titulorum 
che ancor oggi dai cultori della storia del diritto è data come anonima e 
che il Michel, con soli argomenti interni, rivendica invece ad Umberto di 
Selva Candida (cf. A. Michel, 
Die Sentenzen des Kardinals Humbert..., Lipsia 1943). Se 
l’ipotesi fosse esatta occorrerebbe però spostarne la data di composizione 
dal 1054 a dopo il 1059.
Quando salì al soglio pontificio il suo collega nella legazione di Milano, 
Anselmo da Baggio, con il nome di Alessandro II (1061-1073), P. lo coadiuvò 
in ogni maniera, per rafforzarlo nella sua posizione contro l’antipapa 
Onorio II (Cadalo; v. 
Ep. 
I, 20, 21, in PL, CXLIV, coll. 237-54), arrivando perfino a commettere, per 
eccesso di zelo, dei passi politicamente imprudenti 
(Ep. I, 16,
ibid., col. 235), 
come gli farà poi osservare il suo amico Ildebrando.
Era un po’ una sua persistente illusione (evidente anche nella 
Disceptatio Synodalis, 
l’opera sua più direttamente politica, scritta nel 1062, [MGH, 
Libelli, I, pp. 
15-75]) quella di voler agire ad ogni costo di concerto tra papato ed 
impero, quando invece, data la situazione di fatto, c’era innanzi tutto da 
scuotere il giogo dell’impero e del laicato, come condizione indispensabile 
per rendere possibile la sospirata riforma.
Le disillusioni acuivano la nostalgia del chiostro, sempre viva in lui. 
Riuscì a strappare un permesso di ritorno al suo eremo dell’Avellana e più 
tardi un’accettazione, almeno tacita, alla rinunzia, più volte vagheggiata, 
alla sede di Ostia (1066); nel frattempo però era chiamato per nuove 
missioni a servizio della Chiesa e della riforma: in particolare, nel 1063 a 
Cluny per la difesa dei privilegi di quella Congregazione benedettina 
(De gallica profectione, 
in PL, CXLV, coll. 863-80). Alla fine del 1062, l’esistenza di Cluny era in 
grave pericolo. Dragone, vescovo di Mâcon, nel cui territorio sorgeva 
l’abbazia, in tutti i modi cercava di annullarne i privilegi e le esenzioni. 
L’abate Ugo, recatosi a Roma, nel sinodo che Alessandro II tenne nell’apr. 
1063, chiese l’aiuto e l’appoggio della S. Sede. Si giudicò opportuno fare 
un’inchiesta sul luogo, ma tale soluzione presentava una serie di 
difficoltà. P., presente al sinodo, vide con pena il pericolo che sovrastava 
l’abbazia borgognona, e, nonostante la sua avanzata età, si offri come 
legato del papa (Mansi, XIX, coll. 1023-1026). Il papa, per accreditarlo, 
scrisse una lettera di presentazione ai vescovi Gervasio di Reims, Richerio 
di Sens, Bartolomeo di Tours, Aimone di Bourges e Giosselino di Bordeaux 
(PL, CXLV, coll. 856-58).
Durante il viaggio, essendosi P. fermato al monastero di Souvigny, vicino a 
Moulins in Alvernia, dove riposavano i corpi di s. Maiolo e di s. Odilone, 
fu pregato dall’abate Ugo di fare la ricognizione del corpo di quest’ultimo 
e di riscriverne la 
Vita, 
già scritta dal monaco Jotsaldo (PL, CXIV, col. 925): ciò che P. fece in 
quello stesso 1063. Nella 
Vita 
è ricordata l’istituzione della commemorazione dei defunti stabilita da 
Odilone al 1° nov. con apposito 
statutum de defunctis (1030-1031; Parigi, Bibl. Nat., 
cod. Lat. 17716).
Un monaco italiano, di cui s’ignora il nome, che accompagnò P. in tutta la 
missione, narrandoci questo viaggio nel 
De gallica profectione Domni Petri 
Damiani et eius ultramontano itinere (PL, CXLV, col. 
856-80), ci dà preziose notizie sull’argomento. Poco dopo è inviato a 
Firenze (1066) per un’indagine sull’arcivescovo Pietro Mezzabarba, accusato 
di simonia e da lui assolto per mancanza di prove.
In questa missione il grande fustigatore della simonia fu accusato di 
eccessiva accondiscendenza, perché, secondo le genuine norme del diritto 
canonico, non aveva voluto condannare colui del quale non era stata provata 
la colpevolezza. Ciò fa onore al senso di moderazione di P., ma gli procurò 
delle noie (cf. A. Salvini, 
S. Pietro Igneo, 
Alba 1929). Frutto di questa missione è l’Opuscolo XXX (1066- 
1067), documento mirabile di saggezza e prudenza (PL, CXLV, coll. 523-30).
Nel 1069 è a Francoforte per distogliere Enrico IV dal divorzio con Berta di 
Savoia (o di Torino), missione questa coronata da temporaneo successo (cf. 
Lamberto di Hersfeld, 
Annales, 
a. 1069, in MGH, 
Script., 
V, pp. 174 sg.). Nel 1071 è a Montecassino per la consacrazione della 
Chiesa: i vincoli con quell’abbazia e specialmente con il suo santo abate 
Desiderio (poi Vittore III) erano stati sempre cordiali (cf. 
Ep. II. 
11, 
12, 13, in PL, CXLIV, coll. 275-87; 
Op. 
XXXIII-XXXVTI, XLIII, 
ibid., 
CXLV, coll. 559-634, 679-86; P. Palazzini, 
Frammenti di un codice in 
beneventana. Amanuensi cassinesi a Fonte Avellana, in 
Aevum, 
XVII [1943], 
np. 254-58; T. Leccisotti, 
Montecassino, 
Badia di Montecassino 1955, pp. 58-59). Nel 1072 è a Ravenna, per 
riconciliarla con la Sede Apostolica dopo l’interdetto per aver 
l’arcivescovo Enrico parteggiato per l’antipapa.
Al ritorno, P. moriva a Faenza nel monastero dei Benedettini di S. Maria
foris portam 
(detta pure S. Maria dell’Angelo o degli angeli, S. Maria 
ad nives, 
S. Maria vecchia) nella notte tra il 22 e il 23 febb. 
(Ep. I, 14, in 
PL, CXLIV, col. 224; 
Obituarium 
monasterii S. Crucis Fontis Avellanae Februarii XXII, in G. B. 
Mittarelli - A. Costadoni, 
Annales Camaldulenses, Venezia 1755-64, VII, App., 
p. 
359). Il corpo fu 
deposto in un bacino di sasso di splendida bianchezza e fu collocato vicino 
ai gradini dell’altare dirimpetto al coro. Nel 1354 fu traslato in un’arca 
nuova ordinata dall’abate Matteo da Cagli a Tura da Imola, che vi scolpì 
un’immagine giacente, in paludamenti episcopali. L’arca fu incastrata nel 
muro dietro l’altare maggiore, in alto, sotto l’immagine di S. Maria 
dell’Angelo (cf. F. Lanzoni, 
S. Pier Damiano e Faenza, 
Faenza 1898, pp. 84, 88 nota 6). Nel 1673, per mutamenti fatti nella chiesa, 
l’arca fu trasferita nella cappella della crociera, a destra dell’altare 
maggiore, dove rimase fino alla partenza dei Cistercensi (1778), subentrati 
agli Avellaniti (1168-1469), succeduti a loro volta ai Benedettini nella 
chiesa di S. Maria nuova (già chiesa del Gesù). Nel 1826 il corpo del santo 
fu trasferito provvisoriamente nell’oratorio di S. Apollinare in vescovado e 
quindi in cattedrale. Dopo una prima collocazione, fu traslato nel 1898 in 
una cappella espressamente a lui dedicata (cf. F. Lanzoni, op. cit., pp. 17 
sg.; C. Rivalta, 
Il Duomo di Faenza, 
Faenza 1933), recentemente restaurata (1958). P. fu canonizzato dal 
sentimento universale che si manifestò dal momento della sua morte e 
sepoltura.
Dante lo colloca nel settimo cielo tra i contemplativi 
(Paradiso, 
XXI. vv. 43-90) e lo mostra nella sua veste di fiero fustigatore della 
corruzione, introdottasi nella Chiesa e come spirito innamorato della vita 
eremitica. Qualche dantista ha voluto vedere, forse non del tutto a torto, 
in alcuni brani delle opere di P. una delle fonti della 
Divina Commedia 
(cf. L. Cicciuto, 
Alcuni riscontri tra s. P. D. e Dante, Roma 1948; K. 
Reindel, 
Petrus Damiani bei Dante, 
in Deutsches 
Dante-Jahrbuch, 
XXXIV-XXXV [1957], pp. 153-76).
Carattere ardente, per quanto temperato dallo sforzo continuo di vincersi, 
un po’ ombroso, tanto da assomigliare anche in questo a s. Girolamo, fu 
costantissimo nelle amicizie e con gli amici fraterno, tenero, scherzoso 
(cf. ad es. 
Op. XL, 9, in PL, 
CXLV, coll. 658-60); attivo, ma attratto per vocazione alla solitudine.
Formatosi nel silenzio alla più alta ascesi, fu il maestro nelle vie dello 
spirito dell’alta aristocrazia d’Italia e, potremmo dire, del mondo di 
allora. Sul principio del 1063, la stessa imperatrice Agnese veniva a porsi 
sotto la sua direzione (Ep. 
VII, 6, 7, 8, 
ibid., 
CXLIV, coll. 443-46).
Tra i suoi penitenti contò poi Beatrice, duchessa di Toscana, Adelaide, 
marchesa di Susa 
(Ep. 
VII, 14, 15. 18, 
ibid., 
coll. 451-54; 
Op. 
XVIII, 3, 
ibid., 
CXLV, coll. 416 sgg.). la contessa Guilla, sposa del marchese Raineri 
(Ep., VII, 18,
ibid., 
CXLIV. coll. 
458 sgg.), la contessa Bianca 
(Op. 
L, 
ibid., CXLV. coll. 
731), il duca di Toscana Goffredo (Ep/VII, 10, 13, 
ibid., CXLIV, 
coll. 448-50), il marchese Raineri 
(Ep. 
VII, 
ibid., 
coll. 455 sgg.).
II. 
Opere e Dottrina.
Prodigiosa come la sua attività è la produzione letteraria di P. (che egli 
sottoponeva in vita, per umiltà, alla revisione dei vescovi Teodosio di 
Senigallia e Rodolfo di Gubbio e dei suoi tre monaci Gabizone, Teobaldo e 
Giovanni da Lodi 
[Ep. IV, 11 e VI, 10, 
in PL, CXLIV, coll. 321, 391]), essendo egli insieme teologo e poeta, 
giurista ed asceta, agiografo ed oratore, cioè un ingegno eclettico. La 
parte più cospicua è data dalle 
Epistole 
ed 
Opuscoli che 
trattano i più svariati argomenti (cf. J. Leclercq, 
S. Pierre Damien écrivain, in 
Convivium, 
IV [1957], pp 385-99).
Nella ed. del Gaetani, la più seria e la più completa, sebbene antiquata ed 
incompleta anche essa (riprodotta dal Migne, in PL, CXLIV-CXLV, con 
aggiunte), le 
Epistole 
sono raggruppate in otto libri, divisi secondo la destinazione: qualcuna 
delle lettere è spuria, mentre qualche altra è reperibile altrove (cf. G. 
Lucchesi, 
Clavis S. Petri Damiani, 
in 
Studi su S. Pier Damiano in onore 
del Card. A. G. Cicognani, Faenza 1961, pp. 279-93 [l’intero 
studio sull’autenticità delle opere va da p. 249 a p. 407]). Degli 
Opuscoli, 
che poi sono lettere più ampie, nell’ed. del Gaetani, riprodotta dal Migne, 
se ne enumerano sessanta.
Molto discussa è l’autenticità dei 
Sermoni 
che vanno sotto il suo nome: di questi alcuni sono certamente autentici
(Sermo XXXVII, in 
PL, CXLIV, col. 702; 
Ep. 
VII, 
ibid., 
col. 337); altri certamente spuri e vengono assegnati prevalentemente a 
Nicola di Clairvaux (cf. J. J. Ryan, 
S. Peter Damiani and the sermones of Nicholas of Clairvaux: a clarification, 
II, 
The modern use of 
the sermons of Nicholas as texts of Damiani, in 
Medieval Studies, 
IX [1947], pp. 1.55-57; J. Leclercq, 
Les collections de sermons de Nicolas de Clairvaux, 
in 
Rev. Bénéd., 
LXVI [1956], pp. 269-302; G. Lucchesi, op. cit., pp. 294-303).
Si aggiunge una serie di 
Meditazioni e 
Preci, 
ispirate a s. Agostino, alcune delle quali sono entrate nella liturgia della 
Chiesa (cf. D. Bianchedi, 
Alcune note sull’epistola « ad 
quemdam aegrotum 
», in 
Studi... Cicognani, cit., pp. 63-79; 
G. Lucchesi, 
Sulla emologia liturgica di S. Pier 
Damiano, estr. da 
Consacrazione episc. di S. E. Mons. S. Baldassarri, Faenza 1956: id.,
S. Pier Damiano, S. Tommaso d’Aquino e la storia di una celebre orazione, in 
Boll. dioces. di Faenza, 1950, pp.
97-100) ed infine 
una collezione di inni o 
Carmina (cf. A. Wilmart,
Le recueil des poèmes et des prières de s. Pierre Damien. in 
Rev. Bénéd., 
XLI [1929], pp. 342-57; O. J. Blum, 
Alberic of Montre 
Cassino and the Hymns attrihuted to S. Peter Damian, in 
Traditio, XII [1956], pp. 
87- 148; T. Leclercq, 
S. Pierre Damien poète, in 
La vie spirituelle, Suppl., XLIII [1957], pp. 423-40; P. Meyvaert, 
Alberic of Monte Cassino or s. Peter Damian, in 
Rev. Bénéd., LXVII [1957], pp. 
175- 81; G. Lucchesi, 
Clavis S. Petri Damiani, in 
Studi... Cicognani, 
cit., pp. 322-47).
Per quanto riguarda lo stile, P. riesce mirabilmente a fare del latino una 
lingua viva. Ci troviamo dinanzi ad uno scrittore per il quale la parola è 
destinata a tradurre e non tradire il pensiero, di modo che egli non rifugge 
dal crearla, traendola magari dall’incipiente linguaggio volgare, qualora 
questa non esista. Il suo stile naturalmente subisce un po’ le flessioni 
della sua anima complessa. A volte è rude e fiero, mentre altre volte è così 
dolce da precorrere le delicate sfumature di un « dottore mellifluo ».
Si confronti, per esempio, il prologo alla 
Vita Romualdi 
con le espressioni con cui sfoga il cordoglio e l’angoscia del suo animo 
esacerbato dal dolore per la morte dei suoi discepoli Rodolfo, vescovo di 
Gubbio, e Domenico Loricato (PL, CCLIV, coll. 953, 1009, 1023, ecc.).
Inoltre, il santo conosce assai bene, oltre la S. Scrittura ed i Padri (cf. 
J. J. Ryan, 
Pseudo- Alcuin’s 
« 
Liber de divinis officiis » and the 
Liber « Dominus vobiscum » 
of St. P. Damiani, in 
Medieval Studies, XIV [1952], pp. 159-68), i 
classici: Cicerone, Sallustio, Virgilio, Tito Livio, Orazio, Svetonio, Aulo 
Gellio, Plinio, Galeno, Eutropio ed altri latini, ai quali non raramente si 
ispira nelle sue opere, contrariamente a quella che era la corrente comune 
degli autori a lui contemporanei (cf. J. Gonsette. 
S. Pierre Damien et la culture 
profane 
[= 
Essais philosophiques, 
7]. Lovanio-Parigi 1956).
Ma il suo stile è soprattutto personale. Non mancano in esso tracce del
cursus, sebbene 
argomenti estrinseci farebbero pensare il contrario. Si tratta del 
cursus ritmico, 
scomparso fin dal sec. VII, ma tornato in uso nel sec. XI, mentre quello 
metrico era definitivamente scomparso dal sec. V (cf. E. Paganuzzi, 
Il problema del ritmo in nuove 
teorie sulla monodia liturgica ed extraliturgica medievale, 
in 
Convivium, 
nuova ser., XXVI [1958], pp. 1-15).
P. ha un limitato interesse come filosofo (è nemico però della dialettica 
applicata al dogma: cf. V. Poletti, 
Il vero atteggiamento antidialettico di S. Pier Damiani. Saggio filosofico, 
Faenza 1953); altrettanto come teologo sia dogmatico (spunti trinitari, 
cristologici, mariologici, di cui si dirà appresso; questione delle 
riordinazioni, di cui si è già parlato), sia moralista (costumi del clero, 
morale coniugale: cf. V. Poletti, 
Prospettive del pensiero morale di S. Pier Damiani, in 
Studi... Cicognani, 
cit., pp. 81-120); l’interesse è maggiore come liturgista (cf. G. Lucchesi,
Ricerche agiografiche e liturgiche, 
3, 
Formule liturgiche inedite composte 
da S. Pier Damiani, in 
Studi romagnoli, 
VIII [1957], pp. 462-65) e come 
giurista, sia dal punto di vista canonistico (cf. P. Palazzini, 
Il diritto strumento di riforma 
ecclesiastica in S. Pier Damiani, Roma 1956; J. Ryan, 
S. Peter Damiani and his canonical 
sources, 
Toronto 1956), che civilistico o romanistico (cf. P. Palazzini, 
Note di diritto romano in S. Pier 
Damiani, 
in 
Studia et documenta iuris, 
XIII-XIV [1947-1948], pp. 235- 68); ha un interesse ancor più elevato (e per 
noi più direttamente sentito) come scrittore ascetico (è il teorico della 
vita eremitica) mentre modesta è la sua attività agiografica.
Nel suo secolo, per cui è una fonte storica di prim’ordine, secolo così 
povero di scritti e di scrittori, può considerarsi uno dei più illustri. Le 
sue opere però non sono che un corollario della sua attività riformatrice ed 
animatrice della vita eremitica.
Il teologo completo si rivela nell’opuscolo XXXVIII, 
Contra errorem Graecorum de 
processione Spiritus Sancti, scritto dopo il 1062. Non solo vi 
espone l’errore dei Greci sul 
Filioque, 
ma la dottrina trinitaria dei Latini è esposta con chiarezza e vivacità alla 
luce dei testi scritturistici e della tradizione patristica e dell’analisi 
teologica, intessuta di già sui tre termini fondamentali 
processio, relatio, persona 
(PL, CXLV, coll. 633-42).
La parte apologetica della dottrina trinitaria cattolica è affidata agli 
opuscoli: II, 
Antilogus contra 
iudaeos, 
III, 
Dialogus inter 
iudaeum... et christianum (ibid., coll. 41 sgg., 58 sgg.). Secondo 
la critica più recente i due opuscoli costituivano un tutto unico (v. G. 
Miccoli, 
Due note sulla tradizione 
manoscritta di Pier Damiano, in 
Note e discussioni erudite, a cura di A. Campana, Roma 
1959, pp. 9-15).
Il pensiero teologico di P. intorno al Verbo Incarnato è contenuto ancora 
particolarmente nella seconda parte dell’opuscolo I, 
De fide catholica 
(scritto tra il 1060 ed il 1071; in PL, CXLV, coll. 19-40). La dottrina è 
esposta con precisione e sobrietà e con linguaggio nitido, pur non 
contenendo elementi nuovi ed originali.
La teologia è, nel santo, via verso l’ascesi. La nostra unione con Cristo 
viene da P. considerata in una tale intimità, dolcezza e totalità da farne 
uno dei Dottori della devozione alla umanità di Gesù Cristo (cf. V. Vailati,
La devozione alla umanità di Gesti 
Cristo nelle opere di S. Pier Damiani, in 
Divus Thomas, 
XLVI [1943], pp. 78- 93), mentre la considerazione del mistero trinitario dà 
alimento alla sua pietà con la contemplazione della vita intima di Dio e del 
dialogo ineffabile ed infinito di amore delle divine persone 
(Op. I, 10, in 
PL, CXLV, col. 39), elementi tutti che ricorrono frequenti anche nelle sue 
orazioni alla S.ma Trinità, nelle dossologie e nei 
Carmina 
(cf. 
Carm. 
I, VIII, IX, 
ihid., 
coll. 918, 925; G. Ferretti, 
La SS. Trinità in S. Pier Damiani, in 
Studi... Cicognani, 
cit., pp. 3-19).
Sempre nell’opuscolo XXXVIII, P., pur nell’esposizione integra e ferma della 
dottrina della Chiesa latina, svolge un tentativo ed un invito all’unione: 
la ferita della divisione era ancora recente (a. 1054) ed era legittima la 
speranza di risanarla subito (cf. S. Belli, La 
processione dello Spinto Santo nell’op. 38 di S. Pier Damiani, primo 
apostolo dell’unione dei Greci con Roma. 
in 
Studi... Cicognani, 
cit., pp. 23-47).
D’altra parte, P. ha chiaro il senso della comunità cristiana (cf. G. 
Ferretti, 
La comunità cristiana secondo S. 
Pier Damiani e l’opuscolo « 
Dominus vobiscum », 
ibid., 
pp. 51-62; A. Piolanti, 
S. Pier Damiani, il mistero dell’unità della Chiesa nell'opuscolo 
« 
Dominus vobiscum 
» in 
L’Osservatore 
Romano, 
20-21 e 23 febb. 1961) e della disciplina cristiana (cf. V. Poletti, 
Prospettive del pensiero morale in 
S. P. Damiani, in 
Studi... Cicognani, 
cit., pp. 83-120). La teologia 
sacramentaria damianea ha valore soprattutto per le tesi esposte sulla bontà 
e fede richieste nel ministro e sulla validità dei sacramenti amministrati 
dagli indegni (cf. A. De Girolamo, 
La Teologia 
sacramentaria di S. Pier Damiani, Napoli 1942).
Pur senza essere un teologo originale neppure in mariologia, P. ha scritto 
molto della Madonna sulla scia della tradizione, illustrandone egregiamente 
la funzione, i pregi e le qualità. La mariologia del santo emerge 
soprattutto dai suoi 
Sermoni, 
nei quali, attraverso una oratoria incisiva, rivive l’esattezza della 
teologia mariana, assieme ad una singolare pietà che traspira da tanti 
atteggiamenti dell’illustre oratore. Infatti, più che mariologo, o almeno 
mariologo originale e preminente, P. è un grande devoto della Madonna (cf. 
S. Baldassarri, 
La mariologia in S. Pier Damiani, 
estr. da 
La Scuola 
cattolica, 
Milano 1933; P. Palazzini, 
S. P. Damiani « 
S. Mariae Virginis Camerarius », in 
Tabor, XXV [1958], 
pp. 900-18),
Tra i 
Carmina, 
l’espressione più patetica e delicata della sua pietà, sono parecchi gli 
inni eminentemente mariani, ma tre soprattutto sono dedicati a due feste 
specifiche della Madonna: l’Annunciazione e l’Assunzione. Sono i 
Carmina XLIV. XLV e 
XLVII (PL, CXLV, coll. 933-35). Altri inni mariani, senza riferimenti 
particolari a feste, sono i 
Carmina 
LII-LVI, LXI, LXV 
(ibid., 
CXLIV coll. 936-41; cf. per altri scritti mariani attribuibili a P.: J. 
Leclercq, 
Fragmenta mariana, 
3, 
Fragments mariologiques attribuables 
à S. P. Damien, in 
Ephem. lit., LXXII [1958], pp. 301-305).
Gli inni non brillano per esattezza di metrica, metrica che va scomparendo 
per far luogo, ancora imperfettamente, alla rima, ma sono di una vivacità e 
finezza che commuove. Certi versi sembrano precorrere una popolare poesia di 
s. Alfonso de’ Liguori e la delicatezza di un quadro del Dolci.
Tra le pratiche di devozione diffuse o raccomandate dal santo, c’è la 
devozione del sabato e del piccolo Ufficio della Madonna. Sono ricordate 
anche altre pratiche di pietà, come i pellegrinaggi mariani, la 
consacrazione alla Vergine sotto forma di voto di schiavitù, che previene di 
qualche secolo quello promosso da s. Luigi Grignon di Montfort 
(Op. 
XXXIII, 4, in PL, CXLV, coll. 564-67). La devozione del sabato è promossa 
dal santo per un profondo significato mistico. Sabato indica riposo e come 
al termine della creazione Iddio si riposò, così il Verbo, nella pienezza 
dei tempi, trovò riposo nel seno purissimo della Vergine S.ma 
(Op. 
XXXIII, 4, 
ibid., col. 562; v. anche 
Op. 
LIV, 
ibid., coll. 795 sgg.).
Della devozione diffusa della recita del piccolo Ufficio della Madonna è 
teste sicuro il biografo stesso di P., il discepolo s. Giovanni da Lodi, 
vissuto per tanti anni in intimità col nostro santo. Nonostante la 
parsimonia di particolari, da cui è caratterizzata questa breve, ristretta 
biografia (che è però la prima), s. Giovanni da Lodi non manca di presentare 
il maestro come il grande propagatore del piccolo Ufficio della Madonna (PL, 
CXLIV, col. 132).
Più tardi P. sarà indicato falsamente come l’inventore di questa pratica 
devozionale (cf. Lanzoni, op. cit., p. 48). Il favore che incontravano 
allora queste devozioni ci dimostra abbastanza come il sec. XI fosse un 
secolo di intenso risveglio mariano, cui P. partecipò attivamente. Perciò i 
monaci di S. Maria fuori porta a Faenza, che raccolsero febbricitante P., 
legato pontificio, nel suo viaggio di ritorno da Ravenna, che lo ospitarono, 
lo curarono infermo, lieti di questo grande onore, e gli chiusero gli occhi, 
pensarono, come si è detto, di non fare regalo più caro al santo che quello 
di seppellirlo nella loro chiesa dedicata alla Madonna.
Questa circostanza doveva poi dare luogo alla solenne proclamazione da parte 
del santo (o meglio dei suoi primi devoti ed ammiratori) di essere egli il
Camerarius 
della Vergine. L’episodio ci viene narrato dal discepolo e biografo Giovanni 
da Lodi (Vita b. Petri 
Damiani, 
23, in PL, CXLIV, coll. 114-16). Qualche anno dopo la morte (1080), il 
monaco Ungano, già abate del monastero di S. Gregorio in Conca (Rimini), 
ebbe un sogno o una visione: vide P. tra una moltitudine di vescovi seduto 
con mitra e pastorale in atto di insegnare loro le cose di Dio. Avendolo 
l’abate salutato con l’espressione del viso, sentì il santo riprenderlo per 
essersi allontanato da lui ed essendosi l’abate giustificato dicendo di non 
conoscere il luogo dove P. dimorasse, si sentì da questi rispondere: « O 
sciocco, non sai che abito nella camera della S. Vergine Maria e che dimoro 
nel suo sacrario? Infatti abito nella sua casa e mi onoro di essere suo 
camerlengo » (Giovanni da Lodi, op. cit.).
Sogno o visione che sia a noi poco interessa. Ciò che importa è l’aspetto 
con cui P. appariva agli occhi dei suoi contemporanei, ad otto anni dalla 
morte: santo, grande devoto della Madonna, di cui aveva illustrato i pregi 
con la sua incisiva penna e di cui aveva gustato le tenerezze di una 
devozione vivamente sentita durante l’intera vita religiosa, tanto da 
sembrare il s. Bernardo del sec. XI.
La sua produzione agiografica, sebbene di scarso valore in genere, qui più 
direttamente ci interessa e su essa è ovvio che si ponga l’accento. 
Comprende le 
Vitae 
di s. Odilone, abate di Cluny, di s. Mauro, vescovo di Cesena, di s. 
Romualdo, di s. Rodolfo, vescovo di Gubbio, di s. Domenico Loricato; la
passio delle ss. 
vergini Flora e Lucilla; l’esposizione delle visioni dei ss. mm. Giacomo e 
Mariano; una cinquantina di 
Sermoni 
e moltissimi tratti degli opuscoli e delle 
Epistole, 
ove si fa cenno a vite dei santi. Tra i 
Sermoni 
d’indole agiografica, parecchi non hanno interesse, perché si fondano su 
documenti arcinoti, non sempre sfruttati a dovere; altri invece, come quelli 
sui vescovi di Ravenna o quello di s. Rufino, hanno una qualche importanza 
per il loro contenuto.
Per ben valutare tutta la vasta produzione agiografica di P., bisogna 
esaminarla in funzione ed alla luce della principale missione e, quasi 
direi, della vita di lui.
P. è soprattutto riformatore di vita morale. Scrittore di vite di santi, in 
un’epoca classica per l’agiografia tipica e stereotipata, circondato come 
era da un pubblico assetato di narrazioni straordinarie, sorprendenti e 
miracolose, ha subito 
l’influsso 
dell’ambiente, contrastante con la vera e sana agiografia.
Finora egli è stato comunemente giudicato agiografo di scarso valore, facile 
alla credulità, non abile nella critica.
Invero, nelle sue opere agiografiche, le narrazioni sorprendenti e 
miracolose sono abbondanti, ed i dati cronologici scarseggiano. Ciò trova 
forse una spiegazione nel fatto che egli, scrivendo vite di santi, tiene 
sempre presenti i monaci ed il clero da riformare. La sua agiografia ha come 
fine la edificazione, gran mezzo di riforma, e, volendo egli far colpo sui 
suoi lettori e spingerli al fervore ed all’eroismo, si serve di questi 
mezzi, ma non vuole in alcun modo escludere o confondere la storia, che si è 
proposto di servire (ad es. nel 
Sermone su s. 
Rufino troviamo preziosi dati storici: cf. A. Brunacci, 
Leggende e culto di S. Rufino in 
Assisi, 
Roma 1955, pp. 11-22, con titolo un po’ diverso in 
Miscellanea Giulio Belvederi, 
Città del Vaticano 1954, pp. 495-595).
Per maggiore precisione, perciò, si deve dire che nell’agiografia damianea 
esiste una duplice serie di narrazioni. Alla prima appartengono i fatti di 
cui P. è anche testimone diretto: per es. quelli delle leggende di s. 
Rodolfo e di s. Domenico, parte di quella di s. Romualdo (queste 
Vitae perciò 
hanno maggiore valore agiografico) e le notizie storiche riferite nel 
sermone su s. Rufino. Alla seconda appartengono i fatti appresi dai suoi 
discepoli o tratti da fonti comuni, come i 
Dialogi 
di s. Gregorio Magno o altre leggende locali.
Col narrare i primi, il nostro agiografo naturalmente fa anche opera di 
storico, essendo egli in grado di conoscere e narrare la verità; quindi 
merita fede (cf. G. Lucchesi, 
La 
« 
Vita S. Rodulphi et S. Dominici 
Loricati 
» 
di S. Pier Damiani, 
in 
Rivista di Storia della Chiesa in 
Italia, 
1965, pp. 166-77). Lo stesso non possiamo affermare per la seconda serie di 
narrazioni. Qui P. spesso appare occasionalmente facile alla credulità, e 
poco o affatto critico. È vero che non manca quasi mai di ripetere, quando 
ne ha occasione, di non cercare altro che la verità e di citare le fonti dei 
suoi racconti, dicendo se i suoi informatori siano degni di fede o meno, ma 
in nessun modo indaga criticamente se gli abbiano riferito una notizia certa 
oppure una diceria, o se abbiano avuto capacità e possibilità di accertarsi 
delle notizie che gli fornivano.
Per questo grave difetto, P. è agiografo di non molto valore. Nonostante 
ciò, teoricamente, appare uno dei più saggi agiografi non solo dell’epoca, 
ma anche della storia stessa dell’agiografia. Alcuni suoi principi sono 
professati anche dagli agiografi moderni. Talora pure nella pratica P. 
adopera un metodo di narrazione ottimo. Per esempio, nella 
Vita 
di s. Romualdo ed in altre, anziché comporre capitoli speciali sulle singole 
virtù del santo, come facevano allora gli agiografi maggiormente 
accreditati, con vari esempi, disseminati qua e là nella sua esposizione, fa 
toccare con mano queste varie virtù. In particolare, possiamo affermare che 
P. rimane sempre l’agiografo più autorevole per le 
Vitae 
di Rodolfo vescovo di Gubbio e di Domenico Loricato, specialmente se si 
considera che egli è il loro primo biografo e che, inoltre, è stato loro 
maestro e scrive subito o quasi dopo la loro morte.
III. 
Culto e reliquie.
La canonizzazione popolare di P. avvenne -ai suoi funerali, che furono 
un’apoteosi. La venerazione si conservò nel suo Ordine, il quale, ridotto 
ormai di proporzioni, il 12 dic. 1569 da Pio V, con la costituzione 
apostolica 
Quantum animus 
veniva unito alla Congregazione cenobitica camaldolese (G. B. Mittarelli - 
A. Costadoni, 
Annales 
Camaldulenscs, VIII, p. 131), unita a sua volta, 
il 9 lugl. 1935, alla Congregazione dei Monaci Eremiti Camaldolesi 
(costituzione 
Inter religiosos, 
AAS, XXVII [1935], pp. 296-98). Fu anche conservata in tutto l’Ordine 
benedettino. L’esaltazione che Dante ne fece contribuì non poco 
all’estensione della devozione. La festa, oggi di terza classe nel nuovo 
ordinamento liturgico, è celebrata il 23 febb. con Messa propria, estesa 
alla Chiesa universale quando P. fu proclamato Dottore della Chiesa (cost.
Providentissimus Deus, 
1° ott. 1828, in 
Decreta 
auth. Congr. SS. Rituum, Roma 1898-1912, n. 2663, pp. 
225-26).
In particolare, la devozione si è conservata a Fonte Avellana, dove egli 
soggiornò abitualmente e dove forse Dante sostò nel suo esilio. Altri 
luoghi, dove si è mantenuta particolarmente viva, sono Faenza, dove si 
conserva il corpo; Ravenna, sua patria; Velletri, della cui diocesi fu 
vescovo; Fano, al cui capitolo dedicò pure una lettera 
(Op. 
XXVII, in PL, CXLV, coll. 503-12); Gubbio, Urbino, Cagli, Senigallia, le cui 
diocesi furono oggetto delle sue particolari attenzioni apostoliche (quanto 
a Gubbio, egli ne ebbe per qualche tempo, sotto incerto titolo, la cura ed 
al suo vescovo dedicò pure lettere, come anche ai vescovi di Urbino e 
Senigallia: 
Ep. 
IV, 8, 11, in PL, CXLIV, coll. 309-11, 321; 
Vita S. Rodolpbi, ibid., 
coll. 1007-1012; (Op. IX, 
ibid., CXLV, coll. 
207 ss.); Rott am Inn in Baviera e 
altre località della Germania, dove, come si è detto, fece una delle sue 
apostoliche missioni.
P. trovò fortuna e venerazione presso altri grandi scrittori italiani come 
il Petrarca, che ne scrisse una 
Vita 
e il Boccaccio (cf. A. Zini, 
La fortuna di S. Pier Damiani nel Petrarca e nel Boccaccio, 
in 
Studi... Cicognani, 
cit., pp. 135-65).
In conformità con il decreto di Urbano VIII (1625) a Faenza si istituì il 
processo per procedere alla dichiarazione 
constare de huiusmodi cultu ; il processo si svolse dal 29 
genn. 1701. al 23 giug. 1702 (cf. F. tenzoni, Le 
vite dei quattro protettori della Città di Faenza. S. Terenzio, S. Savino, 
S. Emiliano, S. Pier Damiani, scritte da Ser Bernardino Azzurrini nel 
« 
Liber Rubeus 
», 
edite in confronto con quelle 
scritte da G. A. Flaminio, in RIS [1921], fase. 5-6, t. 
XXVIII, III, pp. 285-396). L’11 magg. 1703 gli Atti furono inviati a Roma 
agendo da procuratore il faentino Giacomo Laderchi dell’Oratorio, biografo 
del santo. Furono eseguite varie ricognizioni delle ossa: ne è ricordata una 
nel 1595 o 1596, durante la quale alcuni monaci, ricordati dal Gaetani, 
avrebbero visto intatto il corpo del santo (cf. F. Lanzoni, 
S. Pier Damiani..., 
cit., p. 91); un’altra ricognizione si ebbe in occasione del trasferimento 
da S. Maria dell’Angelo nella cattedrale di Faenza, avvenuto tra il 5 ag. 
1825 ed il 26 febb. 1826. Altre ricognizioni furono fatte nel 1875, nel 
1896, nel 1949 ed il 7 febb. 1958 (cf. [C.W.F.], 
La recente ricognizione delle ossa di S. Pier Damiani, 
in 
II Piccolo, 
30 marzo 1958). Durante quest’ultima ricognizione fu preso il calco del 
teschio del santo, che fu poi racchiuso in una custodia d’argento.
P. è invocato contro il mal di capo. La probabile origine di questa 
devozione è spiegata da F. Lanzoni (S.
Pier Damiani..., 
cit., p. 115) in base al racconto della 
Vita: veglie e 
studio procurarono a P. un forte mal di capo, dal quale fu guarito con 
opportuni rimedi (PL, CXLIV, col. 123). Ma anche il racconto del monaco 
Ungano, sopra riferito, contiene elementi originali antichi, che aiutano a 
spiegare la devozione popolare: il monaco di S. Gregorio di Rimini era 
affetto da mastoidite di Bezold e in sogno P. lo guarisce 
(ibid., col. 145; 
cf. A. Salvioli, 
Le immagini 
faentine di S. Pier Damiani con cenni ad alcune non faentine, 
in 
Studi... Cicognani, 
cit., p. 172, nota 5 [l’intero studio va da p. 169 a p. 248]).
	
IV. 
Iconografia. 
Quanto 
all’iconografia « a parte — scrive il Salvioli (op. cit., pp. 169-70), — il 
capitolo di Faenza, città che custodisce le sacre ossa di S. Pier Damiani e 
nella quale... circa 40 soggetti furono elaborati, l’iconografia del Santo 
romagnolo ha capitoli a Ravenna, nell’Emilia, nelle Marche, nel Lazio ed 
anche in Baviera e nel Cile ».
Come proto-immagine viene data una tavola della Pinacoteca di Ravenna, che 
lo stesso Salvioli (op. cit., p. 188), attribuisce ad un pittore 
quattrocentesco, che sta fra Guglielmo di Guido di Peruccino e Francesco 
Torelli, più noto come Francesco di Faenza, ma di recente assegnata ad 
Antonio da Fabriano.
I dati tipologici condensati dal Salvioli forniscono una sorta di 
graduatoria enumerando, in ordine decrescente di numero, le seguenti 
tipologie: vescovo, Dottore, cardinale, monaco. La rappresentazione quale 
vescovo può considerarsi la costante iconografia, perché compare assai 
spesso sola o combinata e deve riallacciarsi, sempre secondo il Salvioli 
(op. cit., p. 173), alla visione o sogno di Ungano (PL, CXLIV, col. 144), 
avvenuta nel 1080, nella quale il santo è descritto con attributi 
episcopali, in atto di insegnare ad una moltitudine di vescovi.
L’attributo accolto nella iconografia non faentina, e cioè l’Officium B.M.V. 
(come nella statua settecentesca di Ignazio Günther, esistente nella chiesa 
parrocchiale di Rott am Inn in Baviera), è rintracciabile nelle fonti 
agiografiche, ma come riflesso e quasi proiezione di un aspetto della 
complessa figura: la pietà mariana.
L’attributo cardinalizio, da solo o con altri, se non alle origini, compare 
però molto presto: lo si trova infatti in una tavola quattrocentesca, ora a 
Ravenna. Altri attributi sono le discipline, i libri dottorali, ed anche le 
bolle ed i diplomi allusivi alle missioni dal santo compiute in nome della 
Sede Apostolica.
La prima rappresentazione di s. P. in abito monastico nelle bianche lane 
degli Avellaniti è in una pala, della quale fu autore Benedetto Gennari il 
Giovane e committente il p. Giacomo Laderchi, che nel quadro volle quasi 
raccogliere tutto il repertorio della sua erudizione damianea (l’immagine è 
oggi nell’episcopio di Faenza). Tutti i temi e gli attributi iconografici 
che riguardano P. vi sono condensati: il cardinalato è rappresentato dal 
galero, retto da un putto; l’episcopato dalla mitra e pastorale; il 
dottorato dai libri; la confessione monastica dalla cocolla; l’ascetismo dal 
teschio; la lotta contro le passioni dall’angelo della continenza, che 
ricaccia in bocca al dragone la torcia della lussuria; la penitenza dalla 
croce e disciplina in mano al Divin Bambino; la devozione mariana dalla B. 
Vergine che porge l’Qfficium B.M.V.
Il sec. XIX ha dato in maggior numero e varietà immagini in tre tempi: il 
primo caratterizzato da una specie d’incisioni faentine, il secondo ed il 
terzo, l’uno dall’erezione della Cappella, decorata dal Baldini a S. Maria
foris portam, 
l’altro dalla decorazione della cappella dedicata a s. P. nella cattedrale 
di Faenza (cappella ex S. Apollinare) con quadri del Dalpozzo e le tre 
storie in bronzo a decorazione dell’arca, di L. Maioli.
A questo periodo risalgono anche le opere di G. B. Gatti, faentino, in 
avorio e pietre dure e di alcuni buoni cesellatori faentini.
Recentemente nel nuovo seminario diocesano di Faenza il santo è stato 
rappresentato tre volte da artisti diversi e con diverse tecniche (A. 
Sabbatini, R. Sella, A. Compagnoni).
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22 gennaio 2022
a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net
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