Il Libro della Regola Pastorale

Introduzione.

Estratto e tradotto da "Nicene and Post-Nicene Fathers", Volume 12, Leo the Great, Gregory the Great -Serie II, a cura di Philip Schaff e Henry Wallace – CosimoClassics – New York 2007

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Il titolo, Liber Regulæ Pastoralis, è quello adottato dall'Edizione Benedettina in diversi antichi manoscritti, essendo la designazione propria di Gregorio della sua opera quando la inviò al suo amico, Leandro di Siviglia; - "Ut librum Regulæ Pastoralis, quem in episcopatus mei exordio scripsi… sanctitati tuæ transmitterem” (Epp. Lib. v., Ep. 49). Il titolo precedente più usuale, Liber Pastoralis Curæ, potrebbe essere stato preso dalle parole iniziali del libro stesso, "Pastoralis curæ me pondera fugere, ecc." Il libro fu pubblicato (come risulta dal brano citato prima nell'Epistola a Leandro) all'inizio dell'episcopato di Gregorio, e (come risulta dalle sue parole di apertura) indirizzato a Giovanni, vescovo di Ravenna, in risposta ad una lettera del medesimo. Ma, anche se redatto per uno scopo speciale in questa occasione, deve essere stato oggetto di un lungo pensiero precedente, come è ulteriormente evidente dal fatto che nei suoi Magna Moralia, o Commentario al Libro di Giobbe, iniziato ed in gran parte scritto durante la sua residenza a Costantinopoli, aveva già abbozzato il piano di un simile trattato ed aveva espresso la speranza di scriverlo un giorno. Infatti, nei Magna Moralia troviamo il prologo del terzo libro della Regula già scritto, insieme alla maggior parte dei titoli contenuti nel primo capitolo di quel libro, seguito dalle parole: "Dovremmo infatti menzionare minuziosamente quale ordine di consigli dovrebbe essere osservato in ogni caso particolare, ma siamo ostacolati dalla paura di essere troppo prolissi nelle nostre osservazioni. Ma siamo ansiosi di portarlo a termine in un'altra opera [La "Pastorale"], con l'aiuto di Dio, se ci rimane ancora un po' di tempo in questa vita laboriosa.” (Moral. Lib. XXX. C. 12 e 13).

Il libro sembra essere stato apprezzato come meritava già durante la vita dello scrittore. Fu inviato da Gregorio, come abbiamo visto, a Leandro di Siviglia, apparentemente su richiesta di quest'ultimo, a beneficio della Chiesa di Spagna. Questo testo venne anche molto apprezzato in una lettera indirizzata a Gregorio da Liciniano, un dotto vescovo di Cartagena in Spagna, anche se costui esprime il timore che lo standard richiesto per l'idoneità all'ufficio episcopale potrebbe rivelarsi troppo elevato per l'ordinario raggiungimento del titolo. (Epp. Lib. II., Ep. 54). L'imperatore Maurizio, avendone richiesta ed ottenuta una copia da Anatolio, diacono di Gregorio a Costantinopoli, lo fece tradurre in greco da Anastasio, patriarca di Antiochia. Lo stesso patriarca lo apprezzò molto (Epp. Lib. XII., Ep. 24). Sembra che sia stato portato in Inghilterra dal monaco Agostino. Ciò è affermato da Alfredo il Grande, che, quasi trecento anni dopo, con l'assistenza dei suoi teologi, ne fece una traduzione, o meglio una parafrasi, nella lingua sassone occidentale con l'intenzione, come egli dice, di inviarne una copia ad ogni vescovo del suo regno [1].

Già in precedenza ci sono prove dell'elevata reputazione in cui il libro è stato tenuto nella Gallia. In una serie di Concili tenuti per ordine di Carlomagno, nell’anno 813, - ossia a Mayence, Reims, Tours e Chalon-sur-Seine – il suo studio era particolarmente ingiunto a tutti i vescovi, insieme alle Scritture del Nuovo Testamento ed ai Canoni dei Padri [2]. Il medesimo studio fu raccomandato in un Concilio tenutosi a Aix-la-Chapelle nell’anno 836. Inoltre, risulta da una lettera di Incmaro [3] , arcivescovo di Reims (845-882), che una copia di esso, insieme con il Libro dei Canoni, veniva messo nelle mani dei vescovi davanti all'altare nel momento della loro consacrazione e che costoro venivano ammoniti di ordinare le loro vite in accordo con le prescrizioni del libro.

L'opera è degna della sua antica reputazione, essendo la migliore nel suo genere e proficua per tutte le epoche. Due opere simili l'avevano preceduta. In primo luogo, quella di Gregorio Nazianzeno (circa nel 362), nota come la sua seconda orazione, e chiamata το ατο πολογητικός, che è stata scritta, come quella del successivo Gregorio Magno, per giustificare la riluttanza dello scrittore di accettare l'episcopato e poi affrontare le responsabilità dell'ufficio. È ovvio, confrontando i due trattati, che il primo aveva suggerito il secondo; ed infatti Papa Gregorio riconosce il suo debito nel prologo al secondo libro della Regula. Il secondo trattato, in qualche modo simile, era stato quello di Crisostomo, "De Sacerdotio", in sei libri, circa nell’anno 382. Anch’egli stabilisce le gravose responsabilità dell'ufficio episcopale; ma non ci sono segni che papa Gregorio ne abbia tratto ispirazione.

È da osservare che l'oggetto di tutti questi trattati è l'ufficio dell'episcopato; non l'ufficio pastorale o sacerdotale nel suo senso più ampio, come era comunemente inteso: ed è degno di nota quanto siano importanti, secondo Gregorio, i doveri della predicazione e della guida spirituale delle anime. È considerato, infatti, in primo luogo come un incarico di direzione - locus regiminis, culmen regiminis, come mette frequentemente in evidenza - e quindi l'esercizio della disciplina viene in primo piano; ed il pastore capo è visto anche come un intercessore tra il suo gregge e Dio – si veda ad es. I. 10; - ma è soprattutto come insegnante e medico delle anime che si parla di lui in tutto il trattato; come uno il cui compito peculiare è quello di avere dimestichezza con tutte le forme di malattia spirituale e così essere in grado di adattare il suo rimedio a tutti i casi, a "predicare la parola, riprendere, rimproverare, esortare, con grande pazienza ed istruendo", e sia con il precetto che con l'esempio guidare le anime sulla via della salvezza. Gregorio non aveva studiato invano le epistole pastorali di san Paolo. È davvero notevole la sua personale intuizione, mostrata ovunque, riguardante i caratteri e le motivazioni umane, e la sua percezione delle tentazioni a cui le circostanze od il temperamento rendono varie persone – sia i pastori così come i membri del loro gregge - particolarmente esposte al pericolo. Non meno sorprendente, in questa come in altre sue opere, è la sua intima conoscenza di tutta la Sacra Scrittura. Infatti la conosceva attraverso la versione latina; la sua competenza critica è spesso errata e le inverosimili interpretazioni mistiche, in cui si dilettava, abbondano. Ma, come vero interprete del suo generale insegnamento morale e religioso, si merita di essere menzionato come uno dei grandi dottori della Chiesa. Ed inoltre, nonostante tutta la sua riverenza per Concili e Padri, come supreme autorità in materia di fede, è alla Scrittura che si appella sempre come autorità finale per condotta e fede.


[1] Edizione critica inglese curata da Henry Sweet del Balliol College e pubblicata per la Early English Text Society, 1871, Parte I., p. 7.

[2] Concil. Mogunt. Præfat.;—Concil. Rhemens. II., Canone X.;—Concil. Turon. III., Canone III.;—Concil. Cabilon. II., Canone I.

[3] Hincmar. Opp. tom. II. p. 389, Ed. Parigi , 1645.

 


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6 ottobre 2020                a cura di Alberto "da Cormano"      Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net