M. M. Geltrude ARIOLI OSB ap
LA REGOLA PASTORALE DI S. GREGORIO MAGNO:
PROFEZIA DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA
[1]
Scuola di
cultura monastica – Monastero san Benedetto – Milano,
10
Gennaio 200
Impostare questo tema su un’analisi puntuale dei singoli aspetti della dottrina
sociale della Chiesa potrebbe evidentemente risultare una forzatura. Pur
riconoscendo delle costanti nella prospettiva della filosofia cristiana circa le
problematiche sociali, le epoche storiche sono profondamente segnate da
differenti situazioni, livelli di sviluppo economico e di consapevolezza sociale
non paragonabili.
Ciò che tuttavia colpisce leggendo la
Regola pastorale con la memoria nutrita dalle espressioni delle
encicliche sociali dalla
Rerum novarum alla
Centesimus annus, è l’identica prospettiva di lettura teologica
delle problematiche economico-sociali, come si
esprime la
Sollicitudo rei socialis ai nn. 35-40 e la delineazione di
un’antropologia che fonda sulla vocazione trascendente dell’uomo
il suo impegno a
far fruttificare le risorse naturali per il bene comune.
Una linea costante che congiunge la
Regola pastorale con i più recenti documenti del magistero è il
puntuale riferimento alla Parola di Dio, su cui si fonda ogni affermazione e si
giustifica qualunque giudizio. Citiamo come esempio tra i tanti possibili:
“«Quando avrete fatto tutto ciò che vi è stato comandato, dite: siamo servi
inutili, perché abbiamo fatto solo ciò che dovevamo fare». (Lc 17, 10)
Perché il rammarico non guasti la liberalità, è stato scritto: «Il Signore ama
l’allegro donatore». (II Cor 9, 7)
Perché non cerchino lode passeggera, si sforzino di capire quanto è stato detto:
«Non sappia la tua mano sinistra che cosa fa la tua destra». (Mt 6, 3) Cioè, non
si cerchi mai nella beneficenza la gloria terrena, perché un’azione tanto retta
non deve conoscere desiderio alcuno di lode.
Perché non cerchino doni in contraccambio, è detto: «Quando dai un pranzo o una
cena, non invitare i tuoi amici e fratelli, né i parenti, né i vicini ricchi,
perché anch’essi non abbiano di nuovo a invitarti e così tu venga pagato. Ma,
quando fai un convito, invita i poveri, i deboli, gli zoppi, i ciechi; e ne
sarai felice perché non hanno di che contraccambiarti». (Lc 14, 12-15)
Perché non si rimandi al domani ciò che deve essere dato oggi, è stato scritto:
«Non dire al tuo amico: vai e torna e domani ti darò, quando invece lo puoi dare
subito». (Prov 3, 38)”[2]
“Chi desidera certi guadagni del mondo terreno e ignora le pene che soffrirà nel
mondo futuro, ascolti ciò che è detto: «Il patrimonio al quale ci affretta fin
dall’inizio, alla fine sarà privo di benedizione» (Sir 20, 21)
In effetto, noi incominciamo da questa vita il cammino che ci porta all’eredità
di benedizione.
Pertanto, il voler entrare in possesso dell’eredità, sin da principio, significa
rinunciare alla possibilità di avere, in ultimo, la parte di benedizione.
Volersi vedere moltiplicata, qui, la propria fortuna, a prezzo del peccato di
avarizia, significa essere diseredati, lassù, del patrimonio eterno.”[3]
Risalta da questi passi una concezione dell’uomo e della sua vita caratterizzata
da una prospettiva
etica ed escatologica: è questo un filo conduttore
che percorre tutte le opere di Gregorio oltre che la
Regola pastorale ed è una visuale
tipica dell’antropologia cristiana di ogni tempo.
Afferma Giovanni Paolo II nella
Centesimus annus:
“È nella risposta all’appello di Dio, contenuto nell’essere delle cose, che
l’uomo diventa consapevole della sua trascendente dignità. Ogni uomo deve dare
questa risposta, nella quale consiste il culmine della sua umanità, e nessun
meccanismo sociale o soggetto collettivo può sostituirlo. La negazione di Dio
priva la persona del suo fondamento e, di conseguenza, induce a riorganizzare
l’ordine sociale prescindendo dalla dignità e responsabilità della persona.
L’ateismo...è strettamente connesso con razionalismo illuministico. Si negano in
tal modo l’intuizione ultima circa la vera grandezza dell’uomo, la sua
trascendenza rispetto al mondo delle cose, la contraddizione che egli avverte
nel suo cuore tra il desiderio di una pienezza di bene e la propria
inadeguatezza a conseguirlo e, soprattutto, il bisogno di salvezza che ne
deriva.”[4]
Questa ottica caratterizza anche la
Sollicitudo rei socialis:
“La condizione dell’uomo è tale da rendere difficile un’analisi più profonda
delle azioni e delle omissioni delle persone senza implicare, in una maniera o
nell’altra, giudizi o riferimenti di ordine etico.
Questa valutazione è di per sé
positiva, specie se diventa coerente fino in fondo e se si basa
sulla fede in Dio e sulla sua legge, che ordina il bene e proibisce il male.
In ciò consiste la differenza tra il tipo di analisi socio-politica e il
riferimento formale al «peccato» e alle «strutture di peccato». Secondo
quest’ultima visione si inseriscono la volontà di Dio tre volte santo, il suo
progetto sugli uomini, la sua giustizia e la sua misericordia. Il Dio
ricco di misericordia, redentore dell’uomo, Signore e datore di vita,
esige dagli uomini atteggiamenti precisi che si esprimano anche in azioni
o missioni nei riguardi del prossimo. Si ha qui un riferimento alla «seconda
tavola» dei dieci comandamenti (cf. Es 20,12-17; Dt 5,16-21): con l’inosservanza
di questi si offende Dio e si danneggia il prossimo, introducendo nel mondo
condizionamenti e ostacoli, che vanno molto più in là delle azioni e del breve
arco della vita di un individuo. S’interferisce anche nel processo dello
sviluppo dei popoli, il cui ritardo e la cui lentezza deve essere giudicata
anche sotto tale luce.”[5]
“A questa analisi generale
di ordine religioso si possono aggiungere
alcune considerazioni particolari, per notare che tra le azioni e
gli atteggiamenti opposti alla volontà di Dio e al bene del prossimo e le
«strutture» che essi inducono, i più caratteristici sembrano oggi soprattutto
due: da una parte, la
brama esclusiva del profitto e, dall’altra, la sete di potere con
proposito di imporre agli altri la propria volontà.” (n.37)[6]
Pur nella diversità di situazioni storiche e di orizzonti dei problemi sociali,
si individua la radice di ogni ingiustizia ed emarginazione in quegli
atteggiamenti di egoismo divenuti vere e proprie “strutture di peccato”.
“La brama esclusiva del profitto” e la “sete del potere” si trovano - afferma la
Sollicitudo rei socialis - alla base di sistemi imperialistici che
opprimono non solo gli individui, ma anche le nazioni e i blocchi:
“Se certe forme di «imperialismo» moderno si considerassero alla luce di questi
criteri morali, si scoprirebbe che sotto certe decisioni, apparentemente
ispirate solo dall’economia o dalla politica, si nascondono vere forme di
idolatria: del denaro, dell’ideologia, della classe, della tecnologia.
Ho voluto introdurre questo tipo di analisi soprattutto per indicare quale sia
la vera
natura del male, a cui ci si trova di fronte nella questione dello
«sviluppo dei popoli»: si tratta di un
male morale, frutto di
molti peccati, che portano a «strutture di peccato». Diagnosticare
così il male significa identificare esattamente, a livello della condotta umana,
il cammino da seguire per superarlo.”[7]
Già Gregorio afferma questa prospettiva etica e trascendente come criterio di
giudizio sull’operato umano nella gestione dei beni. Coloro che non fanno “cose
degne della ricompensa e della misericordia” nutrono - dice - “sentimenti che
scaturiscono da un cuore chiuso alla Parola di Dio”. “Gli avari devono
comprendere che faranno a Dio un torto grande a non offrire neppure un’oblazione
di misericordia a lui che tutto ha donato.”[8]
Il termine “oblatio” è usato normalmente da Gregorio per indicare le offerte
della Messa. Risulta evidente da questo contesto l’inscindibilità della
prospettiva religiosa e di quella etica che illuminano e guidano le scelte nel
campo dell’economia. Su questa linea la
Centesimus annus afferma che la dignità e la libertà della
persona, la correttezza delle relazioni sociali e il riconoscimento dei diritti
e dei doveri delle varie aggregazioni sociali poggiano sulla fede in Dio, mentre
dall’ateismo scaturiscono le errate concezioni della natura della persona e
della società, come è affermato nel passo già citato (n° 13).
Per rimuovere le “strutture di peccato” che proiettano sulla società tutti gli
egoismi, la sete di profitto e di potere degli individui, occorre una profonda
conversione interiore, un cambiamento di mentalità e di criteri di scelta e di
azione. Afferma sulla stessa linea Gregorio:
“Quanti, perché misericordiosi, distribuiscono i propri beni, vanno avvertiti
affinché non credano di essere superiori a coloro ai quali largiscono i beni
terreni. E neppure li autorizzi a ritenersi migliori il motivo che altri trovano
aiuto in loro.”[9]
Siano quindi umili, guidati dal senso evangelico della gratuità.
Bisogna evitare che nella distribuzione dei beni
“...si annidi speranza di favori ricambiabili, desiderio di una lode passeggera
che spegnerebbe il lume della carità; né il rammarico abbia a insidiare
l’offerta del dono; oppure il cuore gioisca più di quanto è necessario per il
bene fatto.
È bene non attribuirsi merito alcuno, anche nel caso che la rettitudine abbia
animato il bene compiuto per non perdere al tempo stesso ciò che era costato non
poca fatica.”[10]
Già abbiamo citato un passo in cui Gregorio sottolinea come doverosi,
nell’atteggiamento del donatore, la gioia del donare, il nascondimento e la
saggia sobrietà. Egli richiama anche fortemente la prospettiva dell’apertura
alla compassione e della sensibilità verso l’indigenza estesa persino a chi
opera il male, proprio in nome della carità evangelica e del rispetto della
dignità umana:
“…chi offre il pane al peccatore, non in quanto peccatore, ma
perché uomo, nutre non certo il peccatore, ma un povero uomo, perché ne ama non
la colpa, ma la natura.”[11]
Dall’avarizia e dalla cupidigia è necessario convertirsi al distacco affettivo
ed effettivo dalla ricchezza e aprire il cuore al senso della solidarietà:
“Gli avidi che moltiplicano case e terreni, porgano l’orecchio al detto della
Scrittura: «Guai a voi che aggiungete casa a casa e unite terreno a terreno sino
al confine del luogo. Forse che abiterete voi soli in mezzo alla terra?» (Is 5,
8)
Come se dicesse apertamente: «Fin dove intendete estendervi, voi che non potete
sopportare vicini nel mondo, il quale appartiene a tutti?»
Voi sospingete via i vicini, ma troverete sempre vicini contro i quali vorrete
estendervi ed espandervi.
A quanti nasce brama di aumentare il denaro, la Scrittura dice: «L’avaro non
sarà riempito di denaro; e chi ama la ricchezza non ne caverà frutto alcuno.»[12]
(Sir 5, 8)
Il punto nodale della conversione, che è poi il cardine della dottrina sociale
della Chiesa, principio che già Gregorio formula e che ricorre con successivi
approfondimenti in tutti i documenti del Magistero è la teoria della
destinazione universale dei beni:
“È necessario far comprendere a quelli che non desiderano i beni altrui e che
non sono generosi dei propri, essere comune a tutti gli uomini la terra dalla
quale provengono e che il suo prodotto deve servire a tutti.
Invano si ritengono immuni da colpa quanti rivendicano, come privato, il dono
che Dio ha destinato a tutti.
Il rifiutarsi alla distribuzione dei doni ricevuti equivale a ingannarsi sulla
responsabilità delle morte del prossimo.
La quantità dell’aiuto che possiamo dare ai bisognosi e che, tuttavia, teniamo
accantonato presso di noi, è anche quantità di prossimo che lasciamo quasi
morire. Dare il necessario ai poveri è restituzione del dovuto e non elargizione
del nostro.
Liberalità elargita ai poveri è, pertanto, giustizia, non misericordia.
Il motivo si è che il dono del Signore deve essere utile a tutta la comunità.
È così che si comprende il detto di Salomone: «Il giusto donerà senza stancarsi»
(Prov
21, 16).
È bene avvertire costoro che il severo agricoltore si lamenta del fico non solo
perché non porta frutto, ma anche perché sfrutta quel poco di terra che occupa.
In realtà, il fico sterile che occupa la terra è significazione del cuore degli
avari, i quali inutilmente accumulano ciò che poteva giovare agli altri.
È anche significazione dello stolto che inerte occupa un posto che altri avrebbe
potuto coltivare con il sole delle opere buone.”[13]
Un’esortazione a convertirsi ad una mentalità solidale, volta a rispettare e a
incrementare il bene comune risuona nella
Sollicitudo rei socialis:
“È da auspicare che anche gli uomini e donne privi di una fede esplicita siano
convinti che gli ostacoli frapposti al pieno sviluppo non sono soltanto di
ordine economico, ma dipendono da
atteggiamenti più profondi configurabili, per l’essere umano, in
valori assoluti. Perciò, è sperabile che quanti, in una misura o l’altra, sono
responsabili di una «vita più umana» verso i propri simili, ispirati o no da una
fede religiosa, si rendano pienamente conto dell’urgente necessità di un
cambiamento degli
atteggiamenti spirituali, che definiscono i rapporti di ogni uomo
con se stesso, col prossimo, con le comunità umane, anche le più lontane, e con
la natura; in virtù di valori superiori, come il
bene comune, o, per riprendere la felice espressione
dell’enciclica
Populorum progressio, il pieno sviluppo «di tutto l’uomo e di
tutti gli uomini.»
Per i
cristiani, come per tutti coloro che riconoscono il preciso
significato teologico della parola «peccato», il cambiamento di condotta o di
mentalità o del modo di essere si chiama, con linguaggio biblico, «conversione»
(cf. Mc 1,15; Lc 13,3.5; Is 30,15). Questa conversione indica specificamente
relazione a Dio, alla colpa commessa, alle sue conseguenze e, pertanto, al
prossimo, individuo o comunità. È Dio, nelle «cui mani sono i cuori dei
potenti», e quelli di tutti, che può, secondo la sua stessa promessa,
trasformare ad opera del suo Spirito i «cuori di pietra» in «cuori di carne»
(cf. Ez 36,26).
Nel cammino della desiderata conversione verso il superamento degli ostacoli
morali per lo sviluppo, si può già segnalare, come
valore positivo e morale, la crescente consapevolezza dell’interdipendenza
tra gli uomini e le nazioni. Il fatto che uomini e donne, in varie parti del
mondo, sentano come proprie le ingiustizie e le violazioni dei diritti umani
commesse in paesi lontani, che forse non visiteranno mai, è un segno ulteriore
di una realtà trasformata in
coscienza, acquistando così connotazione
morale.
Si tratta, innanzitutto, dell’interdipendenza, sentita come
sistema determinante di relazioni nel mondo contemporaneo, nelle
sue componenti economica, culturale, politica e religiosa, e assunta come
categoria morale. Quando l’interdipendenza viene così riconosciuta, la
correlativa risposta, come atteggiamento morale e sociale, come «virtù», è la
solidarietà. Questa, dunque, non è un sentimento di vaga
compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine
o lontane. Al contrario, è la
determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene
comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente
responsabili di tutti. Tale determinazione è fondata sulla salda convinzione che
le cause che frenano il pieno sviluppo siano quella brama di profitto e quella
sete di potere, di cui si è parlato. Questi atteggiamenti e «strutture di
peccato» si vincono solo - presupposto l’aiuto della grazia divina - con un
atteggiamento diametralmente opposto: l’impegno per il bene del
prossimo con la disponibilità, in senso evangelico, a «perdersi» a favore
dell’altro invece di sfruttarlo, e a «servirlo» invece di opprimerlo per il
proprio tornaconto (cf. Mt 10, 40-42; 20, 25; Mc 10, 42-45; Lc 22, 25- 27).[14]
La dimensione sociale della persona riconosciuta sia sulla riflessione
filosofica che sulla rivelazione è fondamento della dottrina sociale
fondamentale della Chiesa: il diritto di proprietà è giustificato dalla natura
della persona e
reclamato dalla libertà, ma la prospettiva
relazionale, essenziale alla persona umana, implica la destinazione universale
dei beni. Il nucleo di questa teoria è esposto - come abbiamo visto - nella
Regola pastorale ed è il criterio che guida l’operato stesso del
Pontefice nella sua missione pastorale. Il livello elevato della sua esperienza
mistica e contemplativa non toglie nulla alla concretezza con cui egli, uomo
abituato a gestire beni - era di famiglia assai facoltosa - sa, con saggezza,
prudenza, e libertà interiore, disporre dei beni di famiglia e del “patrimonio
di San Pietro” per i bisogni dei poveri, di chi è oppresso e fatto schiavo dei
Longobardi, delle monache in stato di indigenza, dei missionari e delle loro
opere, di tutti coloro che si trovano in situazioni precarie.
Scorrendo l’epistolario di Gregorio vediamo con che semplice umiltà viva il suo
principio “Dare il necessario ai poveri è restituzione del dovuto e non
elargizione del nostro...Liberalità elargita ai poveri è giustizia, non
misericordia”.[15]
La conciliazione del diritto di proprietà con la destinazione universale dei
beni è principio che si esprime sia nella
Regola pastorale, che in tutti documenti del Magistero. Nella
Rerum novarum:
“L’aver poi Iddio dato la terra ad uso e godimento di tutto il genere umano, non
si oppone per nulla al diritto della privata proprietà; poiché quel dono Egli lo
fece a tutti, non perché ognuno ne avesse un comune e promiscuo dominio, bensì
in quanto non assegnò nessuna parte del suolo determinatamente ad alcuno,
lasciando ciò all’industria degli uomini e al giure speciale dei popoli. La
terra per altro, sebbene divisa tra i privati, resta nondimeno a servizio e
beneficio di tutti, non essendovi uomo al mondo che non riceva alimento da essa.
Chi non ha beni propri vi supplisce col lavoro; tanto che si può affermare con
verità, che il mezzo universale per provvedere alla vita è il lavoro, impiegato
o nel coltivare un terreno proprio, o nell’esercitare un’arte, la cui mercede in
ultimo si ricava dai molteplici frutti della terra, e in essi viene commutata.
Ed è questa un’altra prova che la proprietà privata è conforme a natura. Il necessario al mantenimento e al perfezionamento della vita umana la terra ce lo somministra largamente, me ce lo somministra a questa condizione, che l’uomo la coltivi e le sia largo di provvide cure. Ora, posto che a conseguire i beni della natura l’uomo impieghi l’industria della mente e le forze del corpo, con ciò stesso egli riunisce in sé quella parte della natura corporea che ridusse a cultura, ed in cui lasciò come impressa una impronta della sua personalità; sicché giustamente può tenerla per sua, ed imporre agli altri l’obbligo di rispettarla.”[16]
Con interessanti articolazioni che rispecchiano le mutate condizioni della
storia e della società il duplice principio è ricordato nella
Mater et magistra:
“Il diritto di proprietà privata sui beni anche produttivi ha valore permanente,
appunto perché è diritto naturale fondato sulla priorità ontologica e
finalistica dei singoli esseri umani nei confronti della società. Del resto,
vano sarebbe ribadire la libera iniziativa personale in campo economico, se a
siffatta iniziativa non fosse acconsentito di disporre liberamente dei mezzi
indispensabili alla sua affermazione. Inoltre storia ed esperienza attestano che
nei regimi politici, che non riconoscono il diritto di proprietà privata sui
beni anche produttivi, sono compresse o soffocate le fondamentali espressioni
della libertà; perciò è legittimo dedurre che esse trovino in quel diritto
garanzia e incentivo.
Un altro punto di dottrina, costantemente proposto dai nostri predecessori, è
che al diritto di proprietà privata sui beni è intrinsecamente inerente una
funzione sociale.”[17]
L’impostazione personalistica della dottrina sociale della Chiesa, che concilia
la valorizzazione del singolo con quella della società esprime una prospettiva
originale che esclude sia l’assoluto individualismo del sistema capitalistico,
con la conseguente privatizzazione indiscriminata dei beni, sia la negazione
marxista del diritto di proprietà privata in cui il singolo è travolto da
un’ideologia massificante.
Nella
Centesimus annus si afferma:
“Alla luce delle «cose nuove» di oggi è stato riletto
il rapporto tra la proprietà individuale, o privata, e la destinazione
universale dei beni. L’uomo realizza se stesso per mezzo della sua
intelligenza e della sua libertà e, nel fare questo, assume come oggetto e come
strumento le cose del mondo e di esse si appropria. In questo suo agire sta il
fondamento del diritto all’iniziativa e alla proprietà individuale. Mediante il
suo lavoro l’uomo s’impegna non solo per se stesso, ma anche
per gli altri e con gli altri: ciascuno collabora al lavoro e al
bene altrui. L’uomo lavora per sovvenire ai bisogni della sua famiglia, della
comunità di cui fa parte, della nazione e, in definitiva, dell’umanità tutta.
Egli, inoltre, collabora al lavoro dei fornitori o al consumo dei clienti, in
una catena di solidarietà che si estende progressivamente. La proprietà dei
mezzi di produzione sia in campo industriale che agricolo è giusta e legittima,
se serve a un lavoro utile; diventa, invece, illegittima, quando non viene
valorizzata o serve a impedire il lavoro degli altri, per ottenere un guadagno
che non nasce dall’espansione globale del lavoro e dalla ricchezza sociale, ma
piuttosto dalla loro compressione, dall’illecito sfruttamento, dalla
speculazione e dalla rottura della solidarietà nel mondo del lavoro. Una tale
proprietà non ha nessuna giustificazione e costituisce un abuso al cospetto di
Dio e degli uomini.
L’obbligo di guadagnare il pane col sudore della propria fronte suppone, al
tempo stesso, un diritto. Una società in cui questo diritto sia sistematicamente
negato, in cui le misure di politica economica non consentano ai lavoratori di
raggiungere livelli soddisfacenti di occupazione, non può conseguire né la sua
legittimazione etica né la pace sociale. Come la persona realizza pienamente se
stessa nel libero dono di sé, così la proprietà si giustifica moralmente nel
creare, nei modi e nei tempi dovuti, occasioni di lavoro e crescita umana per
tutti.”[18]
Il criterio della destinazione universale dei beni riguarda quindi non solo la
terra e il capitale ma le stesse risorse umane e culturali. Gregorio nella
Regola pastorale afferma questo stesso principio anche per le
risorse dello spirito:
“Molti si distinguerebbero per spiccate virtù e si raccomanderebbero anche per
la indiscussa capacità di comandare agli altri...
Sono nutriti di sana dottrina, comprensivi e pazienti.
Hanno innato il senso dell’autorità.
Benevoli e affabili, severi ed equilibrati, si direbbero nati apposta per
amministrare la giustizia.
Tuttavia, proprio questi, una volta chiamati, rifiutano di accettare il potere
del ministero pastorale.
I doni ricevuti vanno così a vuoto.
Sviliti dal desiderio di farne una proprietà personale, vien tolta a quei doni
la capacità di slancio, insita nella destinazione al bene altrui.
Pensando solo al proprio tornaconto e non alle necessità altrui, sprecano quei
doni che
egoisticamente desiderano avere solo per se stessi.”[19]
“Questi, pieni di doti, hanno il solo desiderio della contemplazione.
Rifuggono dal rendersi utili agli altri con la predicazione. Cercano una quiete
nascosta, bramano silenziose riflessioni.
Il giudizio severo su costoro li rende colpevoli di
un male pari al bene che avrebbero potuto fare, se si fossero sobbarcati a
pubblici incarichi.
Tale atteggiamento è incomprensibile e irragionevole.
Non è possibile preferire la propria tranquillità al bene spirituale degli
altri.
Cristo, per giovare a tutti, è uscito dal seno eterno di Dio per venire ad
abitare in mezzo a noi.”[20]
L’affermazione netta del primato della persona sui beni e il criterio etico
della gestione ricorre nella
Regola pastorale come in tutti i documenti della Chiesa:
“La mortificazione dei sobri diventa gradita a Dio, se il cibo delle loro
privazioni verrà distribuito ai poveri...
Infatti, non si digiuna a Dio, ma per se stessi, se ciò che si toglie
momentaneamente al ventre non viene dato ai bisognosi, ma lo si accantonasse per
offrirselo successivamente.”[21]
Il divenire della storia e il crearsi di nuove situazioni sociali porta a
formulazioni più complesse ma sostanzialmente convergenti con questo principio.
La
Mater et magistra segnala, tra i pericoli che scaturiscono dalla
subordinazione della persona all’economia, la riduzione dell’uomo ad automa
(n.48), l’assoggettamento al meccanicismo economico (n.70), l’accentuazione
degli squilibri (n.81).
Solo l’attenzione al primato della persona e alla sua destinazione trascendente
(Mater et magistra, n. 226) può consentire il rispetto della
giusta gerarchia dei valori e l’utilizzo secondo finalità positive del progresso
tecnico-scientifico della società
(Mater et magistra, n. 227).
Come afferma Giovanni Paolo II nella
Sollicitudo rei socialis, al n.
38, il retto orientamento delle coscienze e l’uso
responsabile della libertà può assumere le situazioni storiche e sociali e
operare su di esse in modo da indirizzarle al bene comune.
Ciò vale specialmente per l’interdipendenza nelle relazioni umane in tutti i
settori. Assumerla come categoria morale significa vivere la solidarietà, valore
essenziale secondo il magistero della Chiesa.
I severi moniti di Gregorio contro gli avari che privatizzano le ricchezze,
accumulando su di sé pene eterne
(Regola pastorale, parte III, cap. 20) risuonano anche nella voce
di Leone XIII quando ammonisce i datori di lavoro che sfruttano le prestazioni
dell’operaio, negando il giusto salario
(Rerum novarum, n. 34). Lo stesso principio deve guidare i
rapporti tra i lavoratori stessi
(Mater et magistra, n. 132;
Laborem exercens n. 8) e i rapporti tra i popoli, come si afferma
nella
Popolorum progressio:
“Il dovere di solidarietà che vige per le persone vale anche per i popoli: «le
nazioni sviluppate hanno l’urgentissimo dovere di aiutare le nazioni in via di
sviluppo». Bisogna mettere in opera questo insegnamento conciliare. Se è normale
che una popolazione sia la prima beneficiaria dei doni che le ha fatto la
Provvidenza come dei frutti del suo lavoro, nessun popolo può, per questo,
pretendere di riservare a suo esclusivo uso le ricchezze di cui dispone. Ciascun
popolo deve produrre più e meglio, onde dare da un lato a tutti i suoi
componenti un livello di vita veramente umano, e contribuire nel contempo allo
sviluppo solidale dell’umanità. Di fronte alla crescente indigenza dei paesi in
via di sviluppo, si deve considerare come normale che un paese evoluto consacri
una parte della sua produzione al soddisfacimento dei loro bisogni; normale
altresì che si preoccupi di formare degli educatori, degli ingeneri, dei
tecnici, degli scienziati, che poi metteranno scienza e competenza al loro
servizio.” (n. 48)[22]
La Costituzione conciliare
Gaudium et spes sottolinea l’aspetto costruttivo in cui sfocia
l’esercizio della solidarietà: la partecipazione che promuove la responsabilità
della persona nella gestione del bene comune e garantisce la democrazia.
(GS n. 21)
Certo, per realizzare la corresponsabilità occorre il rispetto delle
aggregazioni sociali e la garanzia della sussidiarietà, altro pilastro della
dottrina sociale cattolica, evitando ogni ingerenza indebita dello stato
nell’ambito della famiglia e dei corpi sociali intermedi.
Come afferma Paolo VI, “Lo sviluppo è il nuovo nome della pace”
(Populorum progressio, conclusione). Vivere la solidarietà tra
nazioni è rimuovere le cause dei conflitti. La
Sollecitudo rei socialis espone lo sviluppo di questo tema nel suo
dinamismo storico nel periodo del secondo dopoguerra: dai blocchi contrapposti
alla guerra fredda, dai neoimperialismi fino agli sviluppi della
decolonizzazione e dal debito estero, del commercio delle armi e del terrorismo.[23]
Questo quadro storico è evidentemente assente dalla prospettiva della
Regola pastorale, non così la consapevolezza dell’imprescindibile
responsabilità del pastore nel promuovere la pace come fondamento del vivere
comunitario. Se la concordia non domina il cuore, nessuna offerta a Dio è
gradita.[24]
Gregorio, tante volte osteggiato e incompreso nella sua opera di pace come
pastore della Chiesa universale sa affermare con saggezza il monito: “La pace
dei vostri cuori non si spenga anche se venisse rifiutata”. È infatti
“necessario mantenerla inviolata nel nostro cuore.” “Poiché se la pace è la
risultante del concorso consensuale di due elementi, è bene che almeno venga
conservata integra da quelli che correggono.”[25]
Dalla
Regola pastorale di Gregorio fino al Vaticano II, pur nel variare
delle circostanze storiche e delle problematiche del mondo economico e sociale,
si definisce una coerente linea di pensiero il cui vertice, pur nell’affermata
autonomia dell’agire del cristiano nel mondo, è l’edificazione del regno di Dio
nelle attività temporali attraverso la fedeltà a Cristo e al Vangelo:
“I cristiani che hanno parte attiva nello sviluppo economico-sociale
contemporaneo e propugnano la giustizia e la carità, siano convinti di poter
contribuire molto alla prosperità del genere umano e alla pace del mondo. In
tali attività, sia che agiscano come singoli, sia come associati, siano
esemplari. A tal fine è di grande importanza che, acquisite la competenza e
l’esperienza assolutamente indispensabili, mentre svolgono le attività terrestri
conservino il retto ordine, rimanendo fedeli a Cristo e al suo Vangelo, cosicché
tutta la loro vita, individuale e sociale, sia compenetrata dello spirito delle
Beatitudini, specialmente dello spirito di povertà.
Chi segue fedelmente Cristo, cerca anzitutto il Regno di Dio, e assume così più
valido e puro amore per aiutare i suoi fratelli e per realizzare, con
l’ispirazione della carità, le opere della giustizia.”[26]
[1]
Nota del redattore del sito ora-et-labora.net.
Ieri, 3 ottobre 2020, Papa Francesco ha emanato la Lettera
Enciclica “Fratelli tutti”
sulla fraternità e l'amicizia sociale. Riporto il capitolo dell'Enciclica intitolato:
“Riproporre la funzione sociale della proprietà”, in cui il santo Padre
cita san Gregorio Magno e le Encicliche dei
suoi predecessori che sono citate in questa conferenza di Geltrude Arioli.
-
118. Il mondo esiste per tutti, perché tutti noi esseri umani nasciamo
su questa terra con la stessa dignità. Le differenze di colore,
religione, capacità, luogo di origine, luogo di residenza e tante altre
non si possono anteporre o utilizzare per giustificare i privilegi di
alcuni a scapito dei diritti di tutti. Di conseguenza, come comunità
siamo tenuti a garantire che ogni persona viva con dignità e abbia
opportunità adeguate al suo sviluppo integrale.
-
119. Nei primi secoli della fede cristiana, diversi sapienti hanno
sviluppato un senso universale nella loro riflessione sulla destinazione
comune dei beni creati. [Cfr S. Basilio,
Homilia 21. Quod rebus
mundanis adhaerendum non sit, 3.5: PG 31, 545-549;
Regulae brevius tractatae,
92: PG 31, 1145-1148; S. Pietro Crisologo,
Sermo 123: PL 52, 536-540; S.
Ambrogio, De Nabuthe, 27.52:
PL 14, 738s; S. Agostino, In
Iohannis Evangelium, 6, 25: PL 35, 1436s.] Ciò conduceva a pensare
che, se qualcuno non ha il necessario per vivere con dignità, è perché
un altro se ne sta appropriando. Lo riassume San Giovanni Crisostomo
dicendo che «non dare ai poveri parte dei propri beni è rubare ai
poveri, è privarli della loro stessa vita; e quanto possediamo non è
nostro, ma loro». [De Lazaro,
II, 6: PG 48, 992D.] Come pure queste parole di
San Gregorio Magno: «Quando
distribuiamo agli indigenti qualunque cosa, non elargiamo roba nostra ma
restituiamo loro ciò che ad essi appartiene». [Regula
pastoralis, III, 21: PL 77, 87.]
-
120. Di nuovo faccio mie e propongo a tutti alcune parole di San
Giovanni Paolo II, la cui forza non è stata forse compresa: «Dio ha dato
la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi
membri, senza escludere né privilegiare nessuno». [Lett. enc.
Centesimus annus (1 maggio
1991), 31: AAS 83 (1991), 831.] In questa linea ricordo che «la
tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile
il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione
sociale di qualunque forma di proprietà privata».[Lett. enc.
Laudato si’ (24 maggio 2015),
93: AAS 107 (2015), 884.] Il principio dell’uso comune dei beni creati
per tutti è il «primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale»,
[S. Giovanni Paolo II, Lett. enc.
Laborem exercens (14 settembre 1981), 19: AAS 73 (1981), 626.] è un
diritto naturale, originario e prioritario. [Cfr. Pontificio Consiglio
della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della
Chiesa, 172.] Tutti gli altri diritti sui beni necessari alla
realizzazione integrale delle persone, inclusi quello della proprietà
privata e qualunque altro, «non devono quindi intralciare, bensì, al
contrario, facilitarne la realizzazione», come affermava San Paolo VI.
[Lett. enc. Populorum progressio
(26 marzo 1967), 22: AAS 59 (1967), 268.] Il diritto alla proprietà
privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e
derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e
ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul
funzionamento della società. Accade però frequentemente che i diritti
secondari si pongono al di sopra di quelli prioritari e originari,
privandoli di rilevanza pratica.
[2] GREGORIO MAGNO,
La Regola pastorale, a cura di A. CANDELARESI, ed.
Paoline, 1965, p. 282.
[3]
Ibid., parte III, cap. 20, p.286.
[4] GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc.
Centesimus annus, 13: AAS 83 (1991).
[5] GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc.
Sollicitudo rei socialis, 36:
AAS (1988).
[6]
Ibid., 36.
[7]
Ibid., 37.
[8] GREGORIO MAGNO,
Regola pastorale, ed. cit., p. 290.
[9]
Ibid., p.280.
[10]
Ibid., p.281.
[11]
Ibid, p.284.
[12]
Ibid., pp. 285-286.
[13]
Ibid., pp. 288-289.
[14] GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc.
Sollicitudo rei socialis. (cit.), 38, 39.
[15] GREGORIO MAGNO,
Regola pastorale, ed. cit., p.289.
[16] LEONE XIII, Lett. enc.
Rerum novarum, 7:
Acta Leonis XIII, 11 (1892).
[17] GIOVANNI XXIII, Lett. enc.
Mater et magister, 96, 106: AAS 53 (1961).
[18] GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc.
Centesimus annus, 43: AAS 83 (1991).
[19] GREGORIO MAGNO,
Regola pastorale, ed.cit., pp. 105-106.
[20]
Ibid., p. 107.
[21]
Ibid., p. 277.
[22] PAOLO VI, Lett. enc.
Popolorum progressio, 48: AAS 59 (1967).
[23]Ibid.,
22, 23, 24.
[24] GREGORIO MAGNO,
Regola pastorale, ed.cit., parte III, cap. 22, p.295.
[25]
Ibid., parte III, cap. 22, p. 299
[26] CONCILIO VATICANO II, Cost. past.
Gaudium et spes, 72: AAS 58 (1966).
Ritorno alla pagina iniziale: "La Regola Pastorale di san Gregorio Magno"
Ritorno alla pagina iniziale "Regole monastiche e conventuali"
| Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto |
| Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia |
4 ottobre 2020 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net