I Canoni DI Marutha di Maipherqat

Sabino CHIALÀ - Comunità di Bose, Italia

Stralcio dell'articolo "Le regole monastiche siro-orientali ed il loro proprio carattere".

Estratto e tradotto dal francese dal sito www.academia.edu

Link al testo completo dell'articolo in lingua francese con abbondante bibliografia

 

La nostra ricerca sulle regole monastiche della tradizione siro-orientale ha la possibilità di poter beneficiare di una raccolta di testi che dobbiamo al lavoro dell'infaticabile Arthur Vööbus. Parlo in particolare del suo Syriac and Arabic Documents, pubblicato nel 1960. Quest'opera è presentata come una serie di testi legislativi che si riferiscono alla vita monastica. Nella prima parte sono raccolte le collezioni di origine siro-occidentale [1] seguite da quelle di origine siro-orientale [2]. Questo insieme ci dà già un'idea della ricchezza dei testi legislativi che il mondo siriaco nel suo insieme ha prodotto; ben sapendo che ciò che vi è raccolto è solo una parte dell'antica produzione. Lo stesso Vööbus specifica infatti che i documenti che ha appena pubblicato "sono certamente i resti di un materiale più importante che non è sopravvissuto" [3]; e possiamo aggiungere che ci sono ancora altri materiali che non sono stati inclusi nella collezione, semplicemente perché sono stati successivamente trovati [4], o che rimangono ancora da scoprire e studiare, o che non sono stati considerati come appartenenti a questa stessa categoria. Nella seconda parte dell'opera di A. Vööbus, abbiamo una buona base per la nostra ricerca che, come indica il titolo, si limiterà alla tradizione siro-orientale. Per contro, e la bibliografia lo conferma, allo stato attuale abbiamo pochissimi studi specificamente dedicati alle regole monastiche siriache. A parte la citata collezione di Vööbus, così come i commenti che lui fa nel terzo volume della sua History of Asceticism (Storia dell'ascetismo) (dove purtroppo egli riprende solo i canoni siro-occidentali), noi possiamo raccogliere solo pochissime cose nelle opere dedicate all'uno o all'altro autore [5].

Una panoramica dei documenti siro-orientali disponibili, raccolti da Vööbus, ci farà già intravedere che questo non è un insieme omogeneo e quindi è assolutamente necessario considerarli nella loro propria specificità - elemento che deve essere rispettato nel nostro saggio sulla ricostruzione storica del fenomeno monastico. In effetti, noi abbiamo dei documenti che appartengono ad almeno due tipologie molto distinte: una prima che consiste in diverse "serie di canoni sulla vita monastica" stabiliti da questo o quel sinodo cattolico; ed una seconda tipologia rappresentata da delle "regole monastiche" nel vero senso del termine, stabilito da uno o più membri di un monastero specifico, volto a regolare la vita di questo monastero. I due gruppi di testi saranno quindi presentati separatamente per identificare le loro caratteristiche.

 

I Canoni sinodali sulla vita monastica

I Canoni attribuiti a Marutha di Maipherqat

Il primo testo pubblicato da Vööbus nella seconda parte del suo lavoro è costituito da una serie di diciannove Canoni, scelti da un corpus di settantatré, noto come i "Canoni di Marutha di Maipherqat" [6]. Si tratta di una raccolta che, secondo la tradizione siriaca, fu portata in Persia all'inizio del V secolo da Marutha, vescovo di Maipherqat, e sarebbe stata accettata dalla Chiesa siro-orientale nel sinodo presieduto dal Catholicos [7] Isacco nel 410. Questa collezione conterrebbe le decisioni dei 318 Padri riuniti a Nicea, ma in realtà non corrisponde ai soli decreti greci del primo concilio ecumenico. L'attribuzione a Marutha, almeno dell'insieme così come è qui conservato [8], è quindi contestata, da cui il titolo di Vööbus "I cosiddetti Canoni di Marutha", sebbene la datazione di questi cannoni rimanga confermato per il V secolo [9].

I canoni che Vööbus distacca dal resto, proponendoli come testi legislativi sulla vita monastica (quindi la parte che ci interessa), possono essere collegati, partendo dal loro contenuto, a due modelli. Un primo, rappresentato dai canoni dell'inizio e della fine, in cui vengono trattati i problemi che riguardano più il corretto funzionamento della diocesi che la vita interna dei monasteri. Nel primo gruppo, è stabilito che:

- il corepiscopo deve essere scelto tra i monaci ed avrà una serie di facoltà e di obblighi da rispettare (canoni 25-27); che in tutte le città ci siano degli xenodochi per accogliere i malati e che la loro direzione è affidata a degli uomini scelti dai monaci (canone 36); che non è permesso eleggere sacerdote o abate del monastero un monaco senza il permesso del vescovo (canone 40); che ci siano donne consacrate, figlie del Patto, nelle chiese delle città e che esse dovrebbero essere istruite (canone 41); che in ogni città la comunità scelga tra i monaci un "apocrisario per i prigionieri" - e come debba comportarsi (canone 47). I canoni che troviamo alla fine sono dello stesso tipo, vale a dire che riguardano ancora questioni piuttosto generali: sul diritto di consacrare le chiese e riorganizzarle (canoni 56-57); che i Canoni devono essere letti due volte all'anno (pistola 58); o ancora sul comportamento dei monaci (canone 59); sull'onore del monastero da cui è uscito un corepiscopo (canone 66).

Al centro di questo insieme abbiamo un secondo gruppo di canoni, particolarmente omogeneo, che riguarda lo sviluppo e la qualità della vita interna del monastero. Si occupa di diversi argomenti come: le qualità dell'abate, come debba essere scelto e quali debbano essere i suoi rapporti con la gerarchia ecclesiastica (canone 48); come l'abate sceglie i suoi aiutanti, vale a dire l'economo, il portinaio e gli altri collaboratori (canone 49); come deve agire l'economo (canone 50); come deve comportarsi il portinaio (canone 51); come deve agire il sa'ura, letteralmente "l'operaio" o "il visitatore-ispettore" - ma il contesto suggerisce di interpretare il "procuratore-fattore" (fac totum), vale a dire colui che esce dal monastero per prendersi cura dei bisogni dei fratelli (Canone 52); come deve agire colui che è al servizio dell'abate (canone 53); infine, ci sono delle regole che si riferiscono alla vita di tutti i monaci: il lavoro, le infrazioni con le rispettive punizioni, l'organizzazione degli spazi e del tempo, l'accoglienza dei novizi (canone 54).

Osserviamo ora, ciò che è importante per la nostra ricerca, la natura di questo insieme, che descriverei partendo da tre elementi principali:

- si tratta di un testo canonico, appartenente ad un'autorità ecclesiale; infatti all'inizio di ogni Canone si ripete la frase: "Questa è la volontà del sinodo generale";

- non è un documento omogeneo finalizzato alla vita monastica, ma di Canoni, fra gli altri, che riguardano i monaci;

- non si riferisce a uno o più monasteri specifici, ma a situazioni generali, probabilmente in risposta a delle tendenze che ponevano dei problemi.

Queste tre osservazioni ci portano immediatamente a sottolineare che il nostro insieme non può essere considerato né come una "regola" alla maniera delle regole conosciute in Occidente (Regola di San Benedetto, per esempio), né come una sorta di typicon di stampo bizantino. Il motivo principale che ci impedisce di classificare il nostro insieme tra i due generi elencati è soprattutto l'origine: non è il prodotto di uno specifico fondatore di monastero o di un gruppo di monaci che vogliono regolare la propria vita, ma si tratta di una serie di prescrizioni "riguardanti i monaci" stabilite dall'autorità ecclesiastica, tra gli altri canoni. Inoltre, se prendiamo le decisioni dei sinodi siro-orientali, troveremo altri Canoni che si riferiscono ai monaci, che di solito non vengono considerati come regole o frammenti di regole [10]. Potremmo quindi concludere che in questo primo esempio abbiamo solo "dei Canoni" che si riferiscono alla vita monastica e non una "regola" nel senso stretto della parola. Si tratta di un documento prezioso per conoscere la realtà monastica siro-orientale dell'epoca, ma qui non abbiamo a che fare con ciò che chiamerei "un testimone di autocomprensione monastica".

Tuttavia, si deve osservare che la parte centrale del nostro insieme mostra una coerenza essenziale: partendo dall'abate, passando attraverso le cariche ausiliarie, fino al comportamento dei monaci. Si ha l'impressione di essere qui in presenza di qualcosa che è per lo meno "concepito in modo organico" e che potrebbe quindi assomigliare ad una bozza di regola. Tra le altre cose, un piccolo articolo pubblicato da V. Dupont sulla rivista Collectanea Cisterciensia attira la nostra attenzione su questo testo. È stato rilevato un parallelo piuttosto curioso tra uno dei nostri canoni e la Regola di San Benedetto, sulla quantità di vino data a ciascun monaco (un'emina) [11]; e con questo ancora altri dettagli che collegano i due testi in questione. La valutazione di questa sezione rimane dunque incerta: abbiamo qui un frammento di "vera" regola, che sarebbe stata inclusa nei nostri canoni? Non abbiamo abbastanza elementi per decidere. Ma se rispondessimo in senso affermativo, avremmo qui una traccia molto interessante di una regola appartenente all'ambito del monachesimo "puramente cenobitico", così diversa da quella che vedremo più avanti. Con questa espressione intendo un monachesimo che prevede un genere di vita in cui tutto è vissuto in comune – si veda, per esempio, ciò che è stabilito sulla preghiera fatta insieme sette volte al giorno (Canone 54,20). Un altro elemento che potrebbe essere apportato per configurare questa vita strettamente comunitaria è quello dei "dormitori comuni dei monaci" (Canone 54,19, ed anche qui sentiamo un'indicazione della regola benedettina, capitolo XXII). Ma a questo proposito rimango molto prudente. Il testo dice: "Tutti dormiranno in una stessa casa, per terra" [12]. Con questa parola dobbiamo interpretare un dormitorio o semplicemente celle nello stesso edificio? Già Canivet, ed altri prima di lui, si erano posti la domanda sulla possibilità di dormitori comuni in ambiente siriaco [13]. Personalmente, io sono molto perplesso, specialmente a causa del senso spirituale dato in Oriente alla cella, ma anche perché altre testimonianze fornite a sostegno - su cui tornerò - mi sembrano il risultato di una cattiva lettura dei testi.

Attraverso questi Canoni appare un tipo di monachesimo, "strettamente comunitario", che potrebbe essere paragonato al modello dei "figli del Patto" (espressione esplicitamente menzionata nel canone 54.3), quindi di una comunità in città, legata al chiesa locale. Ciò spiegherebbe anche l'interesse di un sinodo ecclesiastico per questa realtà ed i servizi pastorali che le vengono richiesti.

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Il testo dell'articolo prosegue con:

- I Canoni di Isoc bar Nun (tra 823 e 827)

- I Canoni di Timoteo II (tra 1318 e 1332)

- Le Regole di Abramo di Kaskar (circa 570-571)

- Le Regola di Dadisoc (nel 588)

- Le Regole di Babaï (circa nel 610)

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[1] Sources monophysites : VÖÖBUS 1960a, p. 15-112.

[2] Sources diophysites : VÖÖBUS 1960a, p. 113-210.

[3] VÖÖBUS 1960a, p. 13.

[4] Si vedano per esempio i 31 Canoni scritti da Jean de Mardin, intorno al 1125, al momento della sua riforma del monastero di Deir Za'faran; testi che lo stesso Vööbus ha pubblicato qualche tempo dopo, nell'ultima parte del suo "Synodicon in the West Syrian Tradition II", p. 223-243 ; testo siriaco p. 211-230 ; si veda anche Vööbus 1988, p. 390-398 e p. 411-425.

[5] L’unica presentazione d'assieme sulle regole monastiche - ma si tratta di una sintesi - a mia conoscenza è l'articolo "Regole sire" di Jean Gribomont nel Dizionario degli Istituti di Perfezione (si veda GRIBOMONT 1983).

[6] Vööbus 1960a, p. 115-149. L’insieme della versione siriaca di questi Canoni è stata pubblicata dallo stesso autore in "Canons Ascribed to Maruta".

[7] N.d.T. Il titolo ecclesiastico di Catholicos, derivato dalla parola greca καθολικός (katholikós, che significa "universale, generale", è dato al capo di alcune chiese che storicamente si sono sviluppate fuori dell'Impero romano; corrisponde al titolo di patriarca usato nelle chiese sorte all'interno dei confini di tale Impero. (da Wikipedia).

[8] Secondo A. Vööbus, infatti, non sarebbe impossibile che almeno alcuni di questi canoni risalgano a ciò che Maruta aveva portato al sinodo del 410 (si veda "Canons Ascribed to Maruta", p. VIII).

[9] Si veda Fiey 1970, p. 75-76 e Gribomont 1983, p. 1540.

[10] A proposito dei sinodi che legiferano a proposito dei monaci e dei loro abusi, si veda Chialà 2005, p.59-65.

[11] Dupont 2005.

[12] Vööbus 1960°, p.141, cap. LIV, 19.

[13] Canivet 1977, p. 213-214.



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15 novembre 2019                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net