Beato Paolo Giustiniani
REGOLA DELLA VITA EREMITICA
Tradotta da Don Aldo Visentin
Estratta da: Beato Paolo Giustiniani,
“REGOLA DELLA VITA EREMITICA”
ed. Abbazia san Benedetto, Seregno,
1996
Prologo:
Elogio della vita eremitica
(testo completo)
Tre tipi di eremiti
Strumenti di vita eremitica
(testo completo)
I tre voti religiosi e la professione della Regola
La povertà
(testo completo)
La castità
L’obbedienza
L’umiltà
La solitudine e la posizione dell’eremo
(testo completo)
Norme per l’accettazione dei fratelli nell’eremo
Lettura - Meditazione - Preghiera
Studio e conferenze spirituali
Discrezione e cura per i deboli, gli affaticati dal lavoro, i vecchi ed i
malati
Il silenzio e la moderazione nel parlare
Il lavoro manuale
Evitare l’ozio e la perdita di tempo ed acquistare il bene della quiete e la
stabilità
Le qualità del priore
Non è tutta qui l’osservanza della vita religiosa
(testo completo)
PROLOGO:
ELOGIO DELLA VITA EREMITICA
(Pagg. 21-24)
Come al di fuori della fede cristiana non vi sono mezzi adatti che possano
condurre alla beatitudine eterna, così all'interno dell'immensa varietà dei
fedeli in Cristo vi sono moltissimi generi di vita per mezzo dei quali
possiamo giungere alla celeste patria e alla gloria della vera felicità.
Tra tutte le regole di vita cristiana non vi è un genere di vita che possa
più facilmente e in modo migliore offrire ai propri seguaci la soavissima
tranquillità della presente vita e la desideratissima felicità di quella
futura come l'istituzione della vera vita eremitica e solitaria.
Questa regola, infatti, rispetto a tutte le altre, conduce chi la abbraccia
in modo più facile e più sicuro alla perpetua beatitudine del regno celeste
e, nello stesso tempo, a chi vi cammina in modo retto dona tanta
tranquillità in questa vita terrena, che già qui, come pellegrini in questo
mondo, offre una parte considerevole delle celesti delizie. Essa infatti in
sommo grado distoglie l'uomo da tutte quelle cose che nel pellegrinaggio
terreno sogliono turbare e offuscare la mente e, allontanando tutte le
occasioni di peccato, lo costringe quasi ad attendere alle rette occupazioni
e alle opere buone, al punto di fare di lui, povero mortale, un essere non
tanto diverso dagli angeli e di condurlo con un breve cammino alle angeliche
sublimità.
Nei secoli scorsi questo singolare genere di vita ebbe grandi
organizzazioni, elogiatori meravigliosi e famosi seguaci. I loro
insegnamenti e la loro esemplare vita irradiarono sul mondo una luce quasi
divina, che in buona parte risplende ancora in questo nostro misero tempo.
Ma, mentre una volta questa pratica di vita cristiana e di professione
religiosa era tenuta in grandissima considerazione, ora è venuta meno
rispetto alle altre vocazioni cristiane; anzi, sembra addirittura che la
vita eremitica, così bella e così nobile un tempo, sia quasi scomparsa.
Infatti, saranno venti, o poco più, gli abitanti di Camaldoli che amano
l'eremo e che conducono una vera vita da eremiti secondo la Regola di san
Benedetto e le Costituzioni di vita eremitica legittimamente approvate.
Tutti gli altri che con qualsiasi abito vivono in luoghi solitari, o che
comunque si fanno chiamare eremiti, in realtà non sono né eremiti né
veri religiosi, perché non hanno nessun voto religioso, non praticano
nessuna regola approvata, non sono sottomessi al magistero o all'obbedienza
di alcuno; cose tutte che in qualsiasi forma di vita religiosa costituiscono
il primo necessario fondamento. Il loro miserabile genere di vita è
deplorevole, poiché col nome di «eremiti» militano senza voto e senza regola
non per piacere a Dio, ma soltanto per il proprio comodo.
Noi, tuttavia, non siamo degni seguaci di un genere di vita tanto
rispettabile e in nessun modo maestri capaci di un cammino così eccellente.
Ma desiderosi di piacere a Dio quanto più ci è possibile e con il suo aiuto,
per l'anelito verso la patria celeste già da tempo abbiamo legittimamente
abbracciato l'istituzione di questa santa vita. Pur nei limiti delle nostre
forze abbiamo cercato di osservare per tanti anni questa disciplina quasi
abbandonata dagli altri; essa, tuttavia, se ben tramandata, può condurre
alla salvezza molti di coloro che la accolgono.
Non confidando nelle nostre forze, ma appoggiandoci all'aiuto divino, ci
accingiamo a scrivere la Regola della Vita Eremitica e Solitaria
prima di tutto per noi stessi, poi per i fratelli eremiti che sono con noi,
ed infine per tutti quelli che dopo di noi vorranno abbracciare questo
genere di vita.
Esortiamo nel Signore tutti coloro che desiderano la dolcissima tranquillità
della vita presente e la ricchissima beatitudine della celeste patria, di
abbracciare l'istituto della vita eremitica per amore di Dio e col proposito
fermo di perseverarvi fino alla fine.
Infatti, pur essendoci nella santa Chiesa molte vie e diversi sentieri per i
quali possiamo arrivare al Signore, tuttavia fra tutti non ve n'è uno che
come la regolare vita eremitica possa condurre i suoi seguaci in modo
diretto e spedito, come in un viaggio senza pericolo alcuno, alla gioia
ineffabile della celeste Gerusalemme.
STRUMENTI DI VITA EREMITICA
(pagg. 35-45)
Questi sono gli strumenti della santa vita eremitica:
1. Far nascere nel proprio cuore, in modo puro e libero, i santi voti di
povertà, castità e obbedienza; professarli con la voce e osservarli
integralmente per tutta la vita, secondo la Regola di san Benedetto e queste
Costituzioni eremitiche.
2. Seguire con tutte le forze queste regole eremitiche e la Regola di san
Benedetto quando non è contraria alla vita eremitica, la quale richiede
osservanze più austere e perfette.
3. Amare la tranquillità profonda della santa solitudine.
4. Gustare la dolce riservatezza della cella, isolata e separata dalle
altre.
5. Evitare in qualsiasi modo, nel rispetto però della carità, di frequentare
o avvicinare persone che vivono nel secolo o che hanno altri modi di vivere.
6. Amare con tutto il cuore la santa volontaria povertà.
7. Con la castità integra del corpo conservare anche lo spirito libero da
qualsiasi inquinamento.
8. Mai allontanare da sé il giogo, veramente soave e leggero per chi lo
accetta volentieri, della santa obbedienza, ma portarlo con gioia fino alla
morte.
9. Col desiderio continuo di giungere alla vetta sempre più alta di questa
virtù, obbedire sempre ai propri superiori, anche nelle cose nelle quali non
sia esplicito l'obbligo dell’obbedienza.
10. Procedere con passo sicuro, fatto di buone opere, verso le alte cime di
tutte le virtù.
11. Custodire il tesoro della più perfetta umiltà tanto più gelosamente
quanto più si avanza nella perfezione.
12. Evitare le distrazioni della mente e l'attrattiva e la petulanza della
vita mondana.
13. Non desiderare gli Ordini sacri e la dignità del sacerdozio e non
accettarli se non per amore di perfetta obbedienza
[1].
14. Rifiutare con forza gli incarichi di governo e ogni grado di direzione,
non per timore di oneroso impegno, ma per amore di umiltà, come se fosse un
mare infido e tempestoso.
15. Desiderare gli impegni che non danno onore.
16. Non rifiutare un servizio perché non è dignitoso.
17. Essere sempre di aiuto agli altri e mai desiderare di essere superiori
agli altri.
18. Recarsi in chiesa all'opus Dei non solo per abitudine o perché
obbligati, ma piuttosto sospinti dal desiderio interiore di lodare il
Creatore.
19. Celebrare l'Ufficio divino secondo l'uso monastico, con ogni riverenza e
compostezza, con devozione grande, nel rispetto di giuste e ordinate
cerimonie, senza canto, ma con giusta voce.
20. Celebrare la santa Messa con letizia di spirito, oppure ascoltarla con
devozione.
21. Dilettarsi nella quotidiana pratica della salmodia privata.
22. Amare la lettura della Sacra Scrittura.
23. Soffermarsi spesso in devota meditazione.
24. Attendere alla santa orazione con lacrime e compunzione del cuore, se
non proprio continuamente, almeno una volta al giorno.
25. Attendere volentieri allo studio delle Lettere, specialmente della
divina Scrittura.
26. Consigliarsi a vicenda e imparare sempre da quelli che hanno il dono del
consiglio.
27. Fare con frequenza la confessione dei peccati con vera contrizione del
cuore.
28. Ricevere con grande rispetto il venerabile Sacramento della santa
Comunione.
29. Conservare ovunque la compostezza del corpo e dell'abito.
30. Sapendosi sempre davanti a Dio e ai suoi Angeli, mantenere ovunque la
purezza dello spirito e la gravità del tratto.
31. Rallegrarsi dell'astinenza rigorosa, del digiuno frequente, della
bevanda e del cibo scarsi e comuni.
32. Astenersi dal vino, se non sempre, almeno con frequenza.
33. Non allentare, se non per vera necessità o per ordine del superiore,
l'osservanza della vita comune, ma piuttosto restringerla con discrezione
nel tempo giusto e nel modo conveniente secondo gli esempi degli antichi
eremiti.
34. Quando ciò è ragionevole, e cioè con le persone più delicate e deboli,
coi vecchi, coi malati e con chi è affaticato dal lavoro, diminuire un poco
il rigore con il sollievo di una misericordiosa discrezione.
35. Amare molto il santo silenzio, perché in esso si trova il culto della
giustizia
[2]e il progresso di ogni virtù.
36. Nei tempi e nei luoghi stabiliti, osservare un silenzio inviolabile.
37. Abituarsi a parlare a voce sommessa, ma non con voce troppo esile.
38. Usare poche e posate parole e soltanto quelle che sono richieste per
necessità e per edificazione.
39. Guardarsi diligentemente dai colloqui prolungati, dalle parole inutili e
dal vizio della mormorazione.
40. Mai occuparsi troppo di ciò che capita nel mondo, come guerre o altri
avvenimenti secolari; mai raccontare queste cose ad alcuno e non ascoltarle
volentieri.
41. Col lavoro fuggire l'ozio, conservare la virtù dell'umiltà e tenere a
freno le eccessive esigenze del corpo.
42. Essere sempre occupati in qualche lavoro manuale o spirituale.
43. Essere lieti di vivere nell'eremo e di abitare continuamente nella cella
e in questa conservare la stabilità dello spirito e del corpo.
44. Mai entrare nelle celle altrui e neanche nei comuni laboratori senza il
permesso del priore, quando non vi sia urgente bisogno.
43. Non gironzolare all'esterno dell'eremo.
46. Per quanto è possibile non ridurre mai il rigore e lo stile della vita
eremitica quando per necessità o per obbedienza occorra uscire dall'eremo.
47. Dormire sempre da soli nella propria cella.
48. Non lamentarsi dei giacigli grossolani e delle coperte più ruvide.
49. Dormire vestiti e cinti
[3].
50. Fare di frequente e di spontanea volontà le «discipline»
[4].
51. Usare volentieri il duro cilicio
[5] e avere piacere di portare abiti poveri.
52. Considerare il superiore, chiunque sia, purché legittimamente eletto,
come scelto da Dio stesso.
53. Non esprimere giudizi sul superiore, ma piuttosto essere disposti ad
accettare il suo giudizio.
Rispettare il superiore e ascoltare volentieri i suoi ordini e osservazioni.
55. Se il superiore è un uomo virtuoso, imitarlo nelle buone opere; mettere
in pratica i suoi insegnamenti anche se - Dio non lo voglia - egli faccia il
contrario di quello che dice.
56. Obbedire in tutto con ogni spirituale letizia al superiore, come a Dio.
57. Il superiore deve amare tutti i suoi confratelli senza favoritismi
personali.
58. Vigilare sulla quiete e sulla salute altrui come fossero proprie.
59. Provvedere alle necessità materiali dei confratelli più ancora che alle
proprie.
60. Sentirsi sempre responsabili quando ci si accorge che qualcuno viene
meno ai suoi impegni o il suo progresso diminuisce.
61. Ricevere volentieri e portare a termine senza indugio, quando venga
affidato, un incarico di comune utilità.
62. Quando è richiesto, dopo aver pregato, partecipare al Capitolo
[6] per dare giusti consigli.
63. Esporre il proprio consiglio con umiltà e con timor di Dio.
64. Accettare volentieri il giudizio e la decisione della maggioranza, anche
se qualcuno la pensa diversamente.
65. Conservare il segreto su tutto ciò che viene detto in Capitolo.
66. Accettare di buon animo la correzione fraterna e anche i più duri
richiami dei superiori.
67. Fare con sollecitudine e volentieri le obbedienze imposte per qualsiasi
lavoro e le penitenze per le mancanze.
68. Non accettare subito e indifferentemente chiunque domandi di entrare
nella vita eremitica.
69. Decidere sempre col consiglio di tutti, con diligente esame e con
legittima approvazione chi deve essere respinto e chi deve essere accolto.
70. A chi viene accolto offrire un posto giusto e adatto secondo le norme
stabilite.
71. Occupare, nei vari momenti di vita comune, il posto che compete a
ciascuno.
72. Non turbare l'ordine delle adunanze.
73. Svolgere senza esitazione l'incarico ricevuto. Non sottrarsi con dei
pretesti a qualche obbedienza.
75. Non inviare nessuno fuori dell'eremo, se non per giusta utilità e per
urgente necessità.
76. Con sollecita cura e con grande carità fare in modo che agli eremiti, a
tempo opportuno e secondo il bisogno di ciascuno, non manchi quanto è
necessario al vitto e al vestito.
77. Avere sempre per i deboli e i malati una prudente discrezione, una
pietosa cura e una attenta sollecitudine.
78. Accogliere chi si reca all'eremo con parole dolci, con attenzioni di
carità e col profumo del buon esempio.
79. Per chi è eremita aperto: essere ben disposto a servire gli
eremiti reclusi
[7].
80. Per gli eremiti reclusi: pregare con maggior impegno per quelli
aperti.
81. Per chi non è recluso: avere in venerazione la perfezione della
reclusione e, nei limiti del possibile, imitarla.
82. Per chi vi sia una volta arrivato: custodirla diligentemente ed essere
fedele in tutto.
83. Per gli eremiti sia aperti che reclusi: osservare tutte le
regole della vita eremitica, ferventi di zelo per Dio.
84. Adoperarsi con diligenza perché le regole eremitiche siano osservate.
85. Imporre ai trasgressori giuste penitenze a seconda delle inosservanze.
86. Non ritenere che la perfezione della vita religiosa consista in queste
regole, ma per mezzo di esse tendere alla perfezione e alla sapienza del
Vangelo e degli Apostoli e soprattutto custodire sempre integro e perfetto
il vincolo della carità fraterna.
87. Aiutarsi gli uni gli altri in modo perfetto.
88. Come principale scopo di tutte le virtù, accendersi sempre più
fervorosamente con tutte le forze dell'intelletto e gli affetti della
volontà nella conoscenza e nell'amore di Dio Creatore, Ottimo e Massimo.
Ecco, questi sono gli strumenti della santa arte eremitica. Se gli eremiti
li faranno propri e saranno capaci di conservarli, riceveranno come
ricompensa il denaro di ogni giorno
[8], cioè l'eterna beatitudine e nel finale giudizio sorte
uguale a quella dei Santi Fondatori di questa vita religiosa, se non per i
propri meriti, certamente per la bontà del Signore.
L'officina dove senza interruzione e senza intralci possiamo compiere queste
cose è il sacro eremo, luogo amabilissimo della solitudine beata, e
la perseveranza ferma fino alla morte nel proposito di vita
eremitica.
LA POVERTA’
(pagg. 50-55
Chi ha fatto la Professione di vita eremitica abbia cura di conservare
sempre e in tutto la povertà. Non solo si mostri veramente povero non avendo
assolutamente nulla di proprio, ma soprattutto ami la santa e volontaria
povertà.
Cerchi di evitare con attenzione tutto ciò che, anche in parte, possa
intaccare e violare il voto di povertà. Anzitutto nulla, proprio nulla
possieda; non consideri come propria o in suo esclusivo uso, per sempre o
per qualche tempo, alcuna cosa, anche se piccola e minima, anche se gli può
essere molto utile o addirittura necessaria.
Comprenda chiaramente che tutte le cose di cui gli viene concesso l'uso a
giudizio del superiore sono comuni a tutti; e questo non per finzione o per
modo di dire, bensì in realtà e in forza dell’autorità inviolabile della
Regola.
Ricordi sempre che quelle cose che usa, siano abiti o strumenti di lavoro,
deve adoperarle in modo tale da non introdurre in esse, di sua iniziativa,
alcuna modifica nella forma o nell'uso, ma, come giustamente si esige per un
oggetto di proprietà comune, a lui concesso per uso personale, si studi
diligentemente di conservarlo, per quanto è possibile, senza alcun guasto.
Sia sempre pronto, senza amarezza e senza facili scuse, a restituire ogni
cosa all'invito del suo superiore; inoltre lo ringrazi per avergli permesso
per tanto tempo di usare un oggetto comune. Con umiltà sia disposto a
chiedere scusa per aver usato lui solo a lungo e per proprio comodo un
oggetto che è di tutti e forse più utile e necessario a qualche altro che a
lui stesso. Si scusi, poi nel caso in cui avesse inavvertitamente
deteriorato o insudiciato un oggetto.
Non ardisca mai di chiamare «sua» una cosa (Cfr. At 4,32). Inoltre mai dia
alcunché a chiunque, né riceva qualcosa da qualcuno senza aver prima
avvertito il suo superiore circa l'oggetto, la persona, il motivo e non
abbia da lui ottenuta espressa licenza di dare o di ricevere.
Anche se qualcuno riceve in dono o in prestito qualcosa dai suoi stessi
genitori o fratelli, subito lo presenti e lo consegni al superiore; e questi
decida liberamente cosa se ne debba fare o a chi si debba dare, come fa per
tutte le altre cose. Non si rattristi e non se ne abbia a male chi avesse
ricevuto un dono che poi non fosse stato dato a lui ma a qualche altro
fratello, o messo a disposizione di tutti per la comune utilità. Di più: a
meno che non vi sia una grande impellente necessità, non si permetta ad
alcuno di avere in proprio uso quelle cose che egli stesso ha portato o
acquistato o ha ricevuto in dono dai suoi cari, perché non pensi che per
questo gli siano state concesse, considerandosi quasi proprietario di esse o
in diritto di usarne più di altri.
Se avesse veramente bisogno di queste cose, le prenda da quelle comuni, se
il priore crede opportuno, affinché ogni proprietà privata sia del tutto
eliminata.
Non si può promettere, né farsi promettere con qualsiasi parola o gesto, un
oggetto benché minimo e insignificante, senza che il superiore sappia e
abbia dato il permesso.
I fratelli eremiti evitino di scambiare, promettere, chiedere o ricevere
qualsiasi cosa, senza aver chiesto e ottenuto il permesso dal superiore.
Inoltre, professi e anche novizi, che hanno ricevuto l'abito di prova,
finché vivono nell'eremo non possono avere con sé né usare denaro; questo va
depositato e custodito presso il superiore o il cellerario.
Chi esce dall'eremo, prenda in quell'ora stessa ciò che gli è necessario per
il viaggio e per l'affare da sbrigare. Stando fuori dell'eremo non è
proibito usare e avere con sé del denaro; però quando si è in gruppo, questo
è concesso soltanto a uno, che agisce a nome degli altri. Ritornati
all'eremo, se hanno del denaro, lo consegnino subito al superiore o al
cellerario prima ancora di entrare nella loro cella.
L'eremita nulla abbia in cella di superfluo; ma restituisca quelle cose che
di fatto non adopera, anche se gli sono state date in uso. Non tenga con sé
a lungo indumenti, libri e strumenti di qualsiasi arte, né qualsiasi altra
cosa che non gli sia necessaria in quel tempo.
Non si permetta che ci sia nella cella degli eremiti una cosa che abbia un
certo valore, che sia preziosa o che possa servire più al gusto dei sensi
che a qualche uso necessario, ma ci siano soltanto quelle cose che sono
veramente necessarie; ognuno poi faccia in modo che queste siano molto
semplici e adatte alla volontaria povertà e alla purezza eremitica.
Per questo il padre dell'eremo insieme col cellerario o con qualche altro
fratello eremita, come scrutatore, in assenza degli interessati, visiti le
celle con frequenza, non superficialmente ma con grande diligenza. Se
giudicasse qualcosa superflua o non conforme alla santa povertà, non esiti a
toglierla. Lui stesso, però, cerchi di essere più povero degli altri, in
tutto.
Nessuno abbia una chiave privata, eccetto il cellerario. Infatti, nulla deve
essere chiuso di ciò che è comune a tutti ed è concesso in uso ai singoli a
beneplacito del superiore.
A chi cambia cella non si permetta in nessun modo di trasferire vasi, né
attrezzi in ferro, né quadri e niente altro, ad eccezione dei vestiti che
gli sono stati dati in uso, dei libri che effettivamente adopera e degli
strumenti di speciale arte, se li ha, in modo che le cose che uno adopera in
cella siano considerate come appartenenti alla terra più che alla persona.
Infine, ciascuno si sforzi, per amore della santa povertà, non solo di
godere dell'estrema semplicità delle cose del cui uso l'umana fragilità ha
bisogno, ma di eliminare altresì dal cuore ogni desiderio di possedere e
ogni attaccamento alle cose che adopera, in modo da essere veramente un
osservante della vita eremitica secondo la disciplina apostolica; essere,
cioè, in questo mondo come se non ci fosse e usare le cose di questo mondo
come se non le usasse
[9].
Insomma, anche se ci si accorge che mancano molte cose, assolutamente
nessuno e neppure lo stesso priore del luogo, cui spetta maggiormente di
interessarsi, si preoccupi eccessivamente di quelle cose che sono necessarie
alla vita umana e nessuno pensi in cuor suo: Che cosa mangeremo, o che
cosa berremo o di che ci vestiremo? Ma ogni preoccupazione si metta
davanti a Dio, praticando fedelmente ciò che è detto per bocca della Verità:
Cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia e il resto vi
sarò dato in sovrappiù
[10].
E LA POSIZIONE DELL’EREMO
(pagg 70-77)
Dopo l'ininterrotta osservanza della povertà, della castità e
dell'obbedienza, necessaria agli eremiti come a tutti i religiosi, nulla è
più importante per loro che la ricerca della solitudine. Infatti il nome di
eremita e di solitario deriva dalle parole eremo e solitudine, per cui non
esatto chiamare eremiti quelli che non amano e non cercano veramente la
solitudine.
Pertanto, chi abbraccia questo genere di vita, per nessun motivo e in
nessuna circostanza, per quanto possa sembrare ragionevole, viva nelle città
o anche accanto a esse, come pure in castelli o presso monasteri, come
risulta facessero tutti i monaci di un tempo. Neppure prendano posto vicino
a strade frequentate, in luoghi vicini a campi coltivati; ma abitino in
celle separate, distanti almeno tre o due miglia dalle città e quanto più è
possibile lontane dalle case degli uomini.
Volendo costruire celle eremitiche, scelgano sempre luoghi incolti, orridi,
solitari, deserti, difficili da raggiungere; sulle cime ardue dei monti, in
zone nascoste tra i boschi, in spelonche sconosciute, nelle caverne della
terra o in solitudini dagli orizzonti vastissimi.
Abbiano diligente cura di non favorire in quei luoghi la frequenza di
persone per nessun motivo, e col pretesto di devozione o di utilità
spirituale. Infatti, dove è permesso l'accesso alla donna o è tollerata la
frequenza degli uomini, non è possibile tenere in piedi come si deve
l'istituto della vita eremitica.
Per conservare la solitudine vedano di mettere tutta l'attenzione e la
diligenza al fine di evitare qualsiasi familiarità con persone estranee e
qualsiasi rapporto con la gente del mondo, a meno che non sia richiesto
dalle necessità della vita umana e dalla necessaria carità verso il
prossimo. Pertanto mai o molto di rado, cioè soltanto qualora lo richiedesse
il necessario rispetto della carità o non si potesse evitare altrimenti lo
scandalo delle persone semplici, si dia da mangiare o da bere, si permetta
di pernottare agli abitanti dei luoghi vicini, i quali, proprio per la
vicinanza, solitamente frequentano di più i luoghi degli eremiti. Per essi è
facile o portare con sé il cibo per la refezione o tornarsene a casa
propria.
Circa queste cose, quando esse si debbano negare o permettere, intervenga
sempre la provvida discrezione del superiore, col consiglio di qualche
fratello anziano, facendo somma attenzione a che, per eccessivo desiderio di
rispettare la solitudine, mai si venga meno ai necessari doveri della
carità; o al contrario, preoccupati di dimostrare una carità più grande di
quanto non sia richiesto, non si venga meno alla quiete e alla necessaria
solitudine degli eremiti.
A nessun ospite, per quanto nobile o distinto, secolare o religioso, anche
se familiare degli eremiti o anche benefattore o consanguineo, si permetta
di mangiare, bere, dormire o fermarsi a lungo in qualche cella degli
eremiti, anche se vuota. In questo si fa eccezione qualora vi sia una
inevitabile necessità, la quale, anche se non contemplata nella legge, di
per se stessa è legge. Benché il luogo sia solitario, non possono mancare la
cella, o le celle, dove dare accoglienza a ospiti religiosi e onesti. Tali
edifici non siano mai accanto alle celle degli eremiti, ma in disparte; si
costruiscano in quella zona dell'eremo che è vicina all'entrata, distante
dalla chiesa e dalle stesse celle degli eremiti quanto può essere il
percorso di una freccia, tuttavia entro i duecento metri. Tutto ciò
affinché, per la troppa vicinanza, il trambusto degli ospiti in arrivo o in
partenza non possa infrangere la tranquillità o turbare la quiete degli
eremiti che si trovano in chiesa o che stanno nelle loro celle; e d'altra
parte, per una distanza eccessiva, non diventi faticoso al superiore e agli
altri eremiti, quando lo richieda l'utilità verso l'ospite, recarsi lì e
quindi ritornare in cella, ma sia invece facile andare e venire, anche più
volte al giorno. Infatti, così non saranno distanti dalle loro celle e nello
stesso tempo non verranno meno agli impegni che l'ospitalità richiede.
Presso le stanze degli ospiti ci sia una stalla per i giumenti degli ospiti
e per le necessità dell'eremo Così si evita che qualcuno seduto sul giumento
o anche le bestie stesse entrino nell'eremo, cioè in quella zona dove ci
sono le celle degli eremiti con la chiesa, a meno che non si presenti
un'estrema necessità.
Le celle degli eremiti non devono essere costruite come quelle dei cenobiti,
dentro al chiostro o unite sotto un unico tetto, ma si costruiscano separate
e un po' distanti tra loro e dall'oratorio comune, disseminate qua e là
nell'ambito dell’eremo, in modo che uno stando in cella possa liberamente
leggere, salmodiare, pregare a voce alta o con gemiti o far altre cose del
genere, se preferisce, senza essere sentito dagli altri.
Gli altri locali comuni, utili e necessari agli eremiti, come la sacrestia,
il capitolo, la biblioteca, la cucina comune, il refettorio, la stanza dove
vengono riposti il frumento, il pane, il vino, l'olio, i legumi, la frutta e
altre cose necessarie alla vita umana, oppure le stanze per altri usi, come
quelle in cui gli eremiti si tagliano i capelli o lavano i loro indumenti o
quelle destinate ai malati, si possono costruire congiunti, cioè in un unico
fabbricato, con lo stesso tetto o accanto alla chiesa o in altra parte
dell'eremo, a seconda della posizione del luogo e del giudizio della maggior
parte degli eremiti, ma sempre avvertendo che, stando in chiesa a
salmodiare, a pregare o a celebrare i divini misteri, o stando a letto nella
cella dei malati, i fratelli non siano disturbati da qualche inopportuno
rumore dai vicini locali di lavoro.
Nella costruzione sia delle celle degli eremiti che dei comuni locali di
lavoro, si osservi attentamente di non erigervi sopra i refettori o la
tristega
[11]. Se si dovesse costruire qualche locale sotto terra,
ciò che è frequente nei luoghi montuosi, non è affatto proibito.
E se capitasse di dover abitare un luogo dove vi siano chiostri, celle unite
e refettori, come usano i cenobiti, gli eremiti non le usino affatto per
abitarvi, ma vedano di adattare questi edifici come comuni locali di lavoro;
ma i refettori ai piani superiori, a meno che non si procuri grave danno al
fabbricato, vengano demoliti.
Agli eremiti, infatti, non si addice abitare in edifici a più piani, ma in
modeste casette. La zona dell'eremo dove si trovano la chiesa, le celle
degli eremiti e i locali di lavoro, non deve essere aperta e di facile
ingresso, ma, a seconda del luogo e delle possibilità, sia chiusa con un
fossato o uno scavo, oppure con siepi o anche con muro, in modo che si possa
entrare e uscire per una sola porta.
Circa il luogo poi dove si trova l'eremo stesso, se ci sono boschi, si
conservino e si aumenti il numero degli alberi; se, invece, non ci sono per
niente, si provveda con molta cura a un'opera di imboschimento, sia per il
decoro e la caratteristica della solitudine, sia specialmente per avere la
legna per il fuoco, tanto necessaria agli eremiti
[12]. Gli stessi eremiti, poi, restino volentieri
all'eremo per amore della amabilissima solitudine, ricca di felicità per le
anime consacrate. Escano raramente fuori dell'eremo, soltanto quando lo
richiede una urgente necessità o una pia utilità. E mai, tuttavia, escano
senza il permesso del superiore e la sua benedizione.
Uscendo, vedano di sbrigare più faccende nello stesso tempo in modo da non
essere costretti a uscire con più frequenza, cioè ogni volta per una
faccenda.
Fuori dell'eremo, se prevedono di ritornare in giornata, non prendano cibo,
senza una speciale benedizione del padre superiore e in caso di vera
necessità, come facevano anche i cenobiti, tornino digiuni all'eremo.
Tuttavia, se pensano che fuori saranno costretti a mangiare e a bere, una
volta avvertito il superiore e ottenuto da lui il permesso, portino con sé
il cibo sufficiente per il viaggio e preferiscano prenderlo fuori, lungo la
strada, in un luogo tranquillo, piuttosto di entrare per questa necessità
nei locali pubblici dei secolari o presso i privati, o anche nei conventi
dei religiosi.
Quando sono all'eremo, nei giorni e nelle ore consacrate al silenzio,
nessuno entri senza speciale licenza del priore nella cella di qualche
fratello, né in qualche locale comune di lavoro.
Mai senza il permesso del superiore, che del resto raramente deve
concederlo, qualcuno entri in una cella che non sia la sua o in qualche
comune locale di lavoro, eccetto in quello che gli è stato affidato. E non
permetta affatto ad alcuno di entrare nella sua cella. E così, ognuno occupi
la propria cella e in nessun caso si consenta di mangiare o di dormire in
due o in più nella stessa cella.
Se i fratelli non osserveranno integralmente queste norme, quantunque
dimorino nell'eremo e in celle solitarie, mai potranno essere solitari.
Sommamente dovranno custodire la solitudine, affinché non venga loro portata
via dagli estranei; ma loro stessi se la porteranno via a vicenda e non avrà
giovato a nulla aver rinunciato al rapporto con la gente e la vita in città,
se non si guardano con grande diligenza dai troppi frequenti rapporti con i
fratelli; tali rapporti, quanto più avvengono facilmente, tanto più
perniciosamente portano via tutta la solitudine.
L’OSSERVANZA DELLA VITA RELIGIOSA
(pagg. 123-135)
Gli eremiti di Camaldoli e tutti gli altri che volessero osservare le
presenti Costituzioni di vita eremitica, sappiano che esse non contengono
perfettamente tutto quello che richiede la vita religiosa ed eremitica. Chi
però volesse metterle in pratica, vi troverà un regolamento
esteriore
del vivere eremitico.
Del resto, tutti quelli che desiderano conoscere e raggiungere tutto ciò che
si riferisce ad una più perfetta osservanza della vita religiosa ed
eremitica dell’uomo
interiore,
anzitutto leggano il sacro Vangelo ed i Commentari del Vangelo che ne
rendono più chiari alcuni punti, cioè le Lettere dei Santi Apostoli, che
altro non sono se non un’esposizione della dottrina evangelica.
In questa dottrina evangelica ed apostolica è contenuto al completo
l’insegnamento della perfezione cristiana ed il metodo perfetto della vita
religiosa, non soltanto per quanto riguarda l’osservanza esteriore, ma anche
per ciò che si riferisce al lavoro interiore. Infatti, prima di tutto, in
essa non ci istruisce l’umana sapienza, che può sbagliare e venir meno, ma
ci istruisce la stessa ineffabile Divina Sapienza, che sa benissimo quello
che noi dobbiamo sapere e quello che non è proprio necessario conoscere.
Inoltre non appare completo un insegnamento che non sia confermato dagli
esempi di colui che lo propone; per questo nei vangeli alla dottrina vengono
aggiunti gli esempi grandissimi di tutte le virtù, che la Sapienza divina ci
ha mostrato attraverso l’umanità assunta del Verbo, affinché, quanto il
Signore fece o sopportò nella sua vera umanità, anche noi uomini potessimo
realizzarlo, senza possibilità di scuse.
Di Gesù infatti è scritto che ha operato ed insegnato, in modo che la
dottrina fosse confermata dai fatti e noi pure venissimo spinti alla sua
imitazione.
Se dunque vogliamo avere un modello perfetto di vita religiosa, guardiamo al
Vangelo ed alla dottrina del Signore nostro Gesù Cristo; mettiamo in pratica
ed imitiamo i suoi esempi ed in questo modo raggiungeremo il vertice della
perfezione di tutte le virtù.
Specialmente apprendiamo nel Vangelo come amare Dio con tutto il cuore, con
tutta la mente e
[13] con tutte le forze, in modo che a Lui tutto sia
rivolto e nulla venga anteposto alla volontà divina e come desiderare e
pregare perché sempre sia fatta non la nostra ma la sua volontà. Impariamo
anche come l’amore debba avere la giusta rispondenza nelle opere. Infatti è
vuoto quell’amore che non è seguito dalla pratica delle opere. Gesù ha
detto:
Amo il Padre e come mi ha detto di fare,
così faccio
[14]. Ed a noi propone la stessa cosa:
Chi mi ama
— disse —
osserva i miei comandamenti
[15].
Questo è il primo e il più grande dei comandamenti: che abbiamo ad amare Dio
più di noi stessi e qualsiasi altro affetto dobbiamo dirigere a Lui, fino ad
amarlo in pienezza; ed impariamo ad odiare il padre, la madre, i fratelli,
le sorelle e perfino la nostra stessa anima. Infatti chi non odia il padre e
la madre e non odia perfino la sua anima, non è degno dell’amore divino
[16].
A tale comandamento si aggiunge, ed è simile, quello di amare il prossimo
non in sé e per sé, non con affetto carnale, cosa che anche gli uomini
imperfetti fanno nel secolo, ma amarlo in Dio con affetto spirituale come si
ama se stessi.
Dunque, la santa dottrina e gli esempi di Cristo nulla di più insegnano a
quelli che seguono la vita religiosa, servi e discepoli di Cristo, se non di
amare, dopo Dio, il prossimo come se stessi e considerare come prossimo
tutti gli uomini ed estendere l’amore non solo ai genitori ed ai parenti, ma
anche a chi non si conosce, cioè agli ospiti ed ai pellegrini, ed allargarlo
ancora fino ai nemici. In pratica:
—
non maledire quelli che ci maledicono;
—
non desiderare o cercare vendetta per le ingiurie, ma piuttosto benedire
quelli che ci maledicono;
—
fare del bene a coloro che ci odiano;
—
pregare per coloro che ci perseguitano e calunniano;
—
dare da mangiare e da bere al nemico affamato e assetato;
—
non ricambiare il male col male, ma, premurosamente, col bene;
—
perdonare a quelli che mancano nei nostri riguardi, non soltanto sette volte
ma settanta volte sette, se vogliamo che siano perdonati a noi i nostri
peccati più gravi contro Dio.
Non solo non nutrire rancore contro un nostro fratello, ma se lui avesse
qualcosa contro di noi, fare in modo
di
riconciliarci, in qualsiasi maniera e con tutta umiltà, prima di presentare
la nostra offerta all’altare.
Mai pronunciare parole irrisorie o calunniose, come
stupido
o
buono a nulla,
nei riguardi di un fratello. Non adirarsi o, se qualche volta avviene per
umana fragilità, non sfogare la collera, né permettere assolutamente che il
sole tramonti sopra la nostra ira.
Sopportare con pazienza da parte del prossimo i danni materiali, le aperte
calunnie e le maldicenze, i dispiaceri per qualsiasi parola od ingiuria; e
per questo non tralasciare di amarlo. A chi ci toglie la tunica, dare anche
il mantello; non richiedere le cose date e non ritornate; con chi ci
costringe a fare mille passi, fame duemila; a chi ci percuote la guancia
destra, presentare anche la sinistra.
Per poter conservare integro ed inviolato l’amore del prossimo anche in
mezzo alle contrarietà, non rattristarsi dovendo sopportare qualcosa di
ingiusto, perché è proprio allora che bisogna essere felici; anzi,
considerare grande gioia quando si è costretti a subire varie ed immeritate
tribolazioni, a sopportare ingiurie di calunniatori e di denigratori ed
infine volentieri donare tutto se stessi non solo per gli amici, ma anche
per la salvezza dei nemici, affinché, se possibile, per la nostra morte
corporale, essi possano tornare alla vera vita, che è in Dio.
In questo modo Gesù non ha insegnato solo a parole, ma anche con gli esempi;
Lui che è stato irriso ed ha taciuto; è stato accusato e non ha risposto;
Lui che è stato percosso e tutto ha sopportato come agnello davanti a chi lo
tosa; Lui che è stato crocifisso ed ha pregato per i suoi crocifissori; e
ancor più Lui che ha offerto se stesso per quelli che hanno insidiato la sua
vita e, giusto per gli ingiusti, non ha rifiutato di morire per noi pur
essendo suoi nemici.
Egli, che non ha commesso peccato, tutto questo ha patito ingiustamente.
Noi, invece, non possiamo pretendere di aver subito qualche torto
immeritato, perché siamo peccatori e siamo ricompensati secondo il nostro
operato; e qualsiasi offesa od ingiuria ci viene data dal prossimo non è da
considerarsi offesa, ma punizione, perché noi prima abbiamo peccato contro
Dio e perciò tutto quello che di male ci capita non dobbiamo credere che
provenga soltanto dall’uomo ma per volontà di Dio.
Da questa sorgente di genuino amore sgorgano tutti i rivoli della santa e
religiosa vita; così L’anima, irrigata da essi, produce non soltanto fiori,
ma frutti perfetti di ogni virtù.
Nella vita e nella dottrina di Gesù Cristo, dopo l’amore verso Dio ed il
prossimo, impariamo:
—
a perseguire in tutto l’umiltà;
—
a fuggire la vanagloria ed a evitare gli incarichi di prestigio, anche se
vengono offerti;
—
a diventare come bambini quanto a malizia, non quanto a giudizio.
Impariamo poi che chi è più grande deve comportarsi come se fosse il più
piccolo e chi è il primo come se fosse il servo; e seguire in tutto la sua
umiltà: Lui che, essendo Dio, annientò se stesso assumendo la condizione di
servo; Lui, che non appena si accorse che erano venuti a prenderlo per farlo
re, fuggì sul monte tutto solo e rifiutò qualsiasi potere, anche se a Lui
spettante. Questi, inoltre, i suoi insegnamenti:
—
andar d’accordo con tutti;
—
mai litigare per qualche motivo;
—
evitare le discussioni inutili;
—
non essere sempre in lite, ma in pace con tutti e conservare questa pace,
per quanto sta in noi, anche con quelli che non la cercano;
—
non offendere nessuno;
—
non calunniare nessuno, ma piuttosto sopportare di buon animo le ingiurie
inferte o le calunnie messe in giro sul nostro conto;
—
non far giudizi su nessuno, ma giudicare noi stessi per non essere
giudicati, poi, da Dio;
—
non imitare la superbia e la temerarietà del fariseo nel giudicare il
prossimo, ma l’umiltà del pubblicano, che accusa se stesso;
—
non bramare le cose attraenti del mondo; non temere quelle avverse;
—
non preoccuparsi di quello che verrà, ma prima di tutto cercare il Regno di
Dio e la sua giustizia e gettare in Dio ogni altra preoccupazione;
—
se il Signore ci ha dato particolari capacità, non metterle in disparte, ben
protette e nascoste sotto terra, ma raddoppiarle, mettendole in vista e
sfruttarle;
—
tuttavia, non mettere l’olio necessario per le nostre lampade in quelle
delle vergini stolte, cosicché non basti a noi e neppure a loro;
—
fare le opere buone davanti a tutti, perché siano esempi efficaci e
mostrarle agli altri come lampade ardenti;
—
ma tenere nel segreto dell’anima le stesse opere, per quanto riguarda
l’intenzione per la quale vogliamo piacere a Dio solo;
—
non vantarsi dei doni di Dio, ma cercare invece la gloria di Dio;
—
mai gloriarsi di se stessi o delle proprie capacità, ma gloriarsi soltanto
nel Signore;
—
non vantarsi dei doni ricevuti, come se non li avessimo ricevuti;
—
avere l’occhio dell’intenzione sempre limpido e semplice, affinché tutto il
corpo sia splendente;
—
non temere chi interpreta malamente le nostre opere;
—
evitare lo scandalo dei piccoli e dei deboli;
—
non curarsi se i
farisei
si scandalizzano;
—
non aspettare l’approvazione di quelli che non vedono le nostre opere;
—
se l’occhio destro o la mano o il piede ci è motivo di scandalo, toglierlo
da noi e gettarlo lontano;
—
ascoltare di buon animo quelli che d insegnano cose giuste, anche se poi
essi non le mettono in pratica;
—
guardarsi non solo dal male, ma anche da qualsiasi apparenza di male;
—
stare lontano dalle occasioni di peccato;
—
custodire non solo il corpo dalle cattive
azioni,
ma conservare libero anche lo Spirito da ogni desiderio di cose mondane;
—
non cedere alle tentazioni, bensì
pregare
senza intermissione non soltanto per
sé,
ma anche
per tutte le creature umane;
— piangere continuamente davanti a Dio non soltanto le proprie colpe, ma
anche quelle del prossimo, cioè di tutte le creature umane e con suppliche
chiedere perdono per loro;
—
perseverare, poi, nella preghiera, senza scoraggiarsi, anche quando non
riceviamo ciò che chiediamo;
— fare il bene in silenzio e di nascosto, in modo che la tua sinistra non
sappia quello che fa la tua destra;
—
quando si fa digiuno, lavarsi il viso e cospargersi di olio il capo;
—
non temere la povertà, l’esilio, le persecuzioni, le maledizioni, il
carcere, i tormenti e la stessa morte, cose queste che fanno bene all’anima,
sull’esempio di Colui che, innocente, sopportò tutto questo;
—
sopportare di buon animo gli scherni degli uomini, senza cedere e soccombere
alle tentazioni del demonio, ma sostenerle virilmente;
—
sopportare pazientemente le avversità, la morte degli amici e tutte le
infermità del proprio corpo;
—
dominare il corpo nei suoi istinti con digiuni, flagelli, esercizi fisici e
col continuo pensiero della morte;
—
guardarsi con diligenza dalle parole inutili ed oziose e dal troppo parlare;
—
custodire la lingua con molta attenzione dalla mormorazione e dal vizio
della maldicenza;
—
chiudere gli orecchi a queste voci con le chiavi del divino amore;
—
essere sinceri, non solo nelle parole ma anche nei fatti;
—
evitare le menzogne e le falsità come veleni mortali;
—
dire la verità, dicendo semplicemente
sì o no,
senza giuramento;
—
ridere raramente, o addirittura mai;
—
piangere i propri peccati con frequenza e con sincerità e piangere anche
quelli degli altri;
—
piangere spesso con dolci lacrime al pensiero delle gioie celesti;
—
mai stancarsi di fare le opere buone;
—
attendere vigilanti il Signore che viene, nell’ora che non sappiamo;
—
sapere e credere che Dio è sempre presente davanti a noi;
—
non cominciare soltanto le opere buone, ma portarle a termine;
—
mai voltarsi indietro, ma dimentichi delle cose passate, protendersi sempre
verso cose nuove;
—
e, alla fine, dopo d’aver fatto tutto quello che Dio ci ha comandato,
giudicare noi stessi come servi inutili e, anche fossimo convinti di non
aver mai sbagliato (il che è difficilissimo), non ritenerci giustificati, ma
implorare incessantemente, con gemiti e lacrime più del cuore che degli
occhi, la misericordia del Signore, della quale tutti abbiamo bisogno.
Di tutto questo una cosa sola in modo particolare l’eremita deve avere
sempre davanti alla mente: quelli che desiderano veramente servire
l’Altissimo Dio Creatore devono costantemente fare tutto questo e tante
altre cose di questo genere, che qui sarebbe lungo descrivere, non per amore
di gloria o di umana stima, come fanno gli ipocriti, non per il solo piacere
insito nella virtù — così crediamo abbiano fatto anche i filosofi lontani
dal vero culto di Dio —; non per timore degli eterni castighi o per il
desiderio della felicità celeste —quello è servile, questo è mercenario —;
ma soltanto per puro, semplice ed ardentissimo amore di Dio Ottimo e
Massimo, in pieno abbandono alla sua volontà e ricercando in tutto la sua
gloria. Tutte queste cose e tantissime altre del genere sono insegnamenti
del Vangelo, dei Santi Apostoli e norme di perfezione cristiana e, poiché
veramente contengono la perfetta dottrina della vita religiosa, gli eremiti,
che hanno abbracciato lo stato della perfetta vita solitaria, devono con
sollecitudine meditarle e rimeditarle giorno e notte e poi, con efficacia,
metterle in pratica.
Ma dal momento che è difficile arrivare a far proprie queste proposte di
vita perfetta senza un regolamento esteriore di giusta disciplina, per
questo sono state proposte le presenti Costituzioni di vita eremitica. Siamo
convinti che non è descritto
in esse
il perfetto modello di vita religiosa, ma che
per mezzo di esse
possiamo raggiungere le norme più perfette, cioè quelle del Vangelo e degli
Apostoli.
Coloro che osserveranno diligentemente
queste norme
certamente arriveranno
a quelle altre più perfette;
mettendole in pratica,
senza dubbio otterranno la vita eterna
ed avranno la celeste felicità
in Cristo Gesù, nostro Signore,
al quale sia gloria, lode e
rendimento di grazie
per tutti i secoli dei secoli.
Amen.
[1]
È un dato costante della tradizione monastica più genuina che il
monaco declini, per quanto possibile, il ministero sacerdotale per
poter meglio conservare l'umiltà di spirito, la solitudine, il
silenzio e la purezza della vocazione monastica completa in se
stessa.
[2]
Cfr. Is 32, 17 Vg.
[3]
Cfr. Lc 12,35-40; Ap 16,15.
[4]
La flagellazione penitenziale, molto raccomandata da san Pier
Damiani, era uso comune nella vita religiosa fino a poco tempo fa.
[5]
Cintura molto ruvida, portata sulla pelle nuda per penitenza.
[6]
Assemblea della comunità monastica che si raduna nell’aula
capitolare (“Capitolo”).
[7]
Dei circa venti eremiti a Camaldoli, al tempo del beato Paolo a
volte vivevano cinque da reclusi. Il rapporto fra ali
aperti e i reclusi è quello di un servizio fraterno
reciproco.
[8]
Cfr. Mt 20,1-16.
[9]
Cfr. 1 Cor 7,31.
[10]
Cfr. Mt 7,31-33.
[11]
Tristega: letteralmente è un edificio a tre piani come l'arca di Noè
(cfr. Gen 6, 16). Negli eremi camaldolesi «tristega» è una stanza
adoperata per la refezione in comune quando si dispensa dal
silenzio, poche volte all'anno.
[12]
Sulla selvicoltura dei Camaldolesi si veda il saggio di G.
Cacciamani, L’antica foresta di Camaldoli, Camaldoli 1965.
[13]
At 1, 1.
[14]
Gv 14, 31.
[15]
Gv 14, 15.
[16]
Cfr.
Lc 14, 26.
In seguito non vengono più indicate le riferenze scritturistiche;
sarebbero troppo numerose.
Ritorno alla pagina sulla "Regola della vita eremitica"
Ritorno alla pagina iniziale "Regole monastiche e conventuali"
| Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto |
| Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia |
11 gennaio 2022 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net