Beato Paolo Giustiniani – Vita ed opere
A cura di Eugenio Massa
Estratto da “Bibliotheca Sanctorum – Vol. 6”, Città
Nuova Editrice, 1965
GIUSTINIANI,
Paolo, fondatore dei
Camaldolesi di
Montecorona, beato.
Sommario:
I. Vita e azione. - II. Produzione letteraria, III. Culto.
I.
Vita
e
azione.
Tommaso, poi fra Paolo, nacque a
Venezia nel 1476, dalla famiglia dei Giustiniani che in quel secolo aveva
dato un Bernardo alla cultura e un s. Lorenzo alla Chiesa. Cresciuto fra
buoni precettori, nel 1492, cominciò a frequentare l’università di Padova,
secondo la moda dei giovani aristocratici della sua città, ma senza
impegnarsi in programmi precisi. Seguì i corsi di filosofia e teologia, ma
con un certo distacco, mentre continuava a fare il petrarchista, dando un
contributo di sonetti e canzoni al « dolce stil novo » veneto. Intorno ai
vent’anni accarezzò momentaneamente l’idea di monacarsi in S. Giustina.
Verso la fine degli studi padovani la sua formazione letteraria lo porta
all’umanesimo di salvezza di Seneca e Cicerone, con punte di più espressa
evidenza in periodi d’infermità che gli impongono prolungati soggiorni
montani (1504-1505). La nuova esperienza porta a orientamenti imprevisti;
poco alla volta il G. abbandona le forme pure della poesia e della scienza.
Alla cultura presenta esigenze di realtà intima, che trovano risposte
egualmente intime ed esistenziali in quella filosofia teologica della vita
ch’è propria di alcune correnti patristiche, e che presto cancellano
qualsiasi interesse alla teologia scientifica degli scolastici aristotelici
che, così come viene insegnata a Parigi o a Padova, crea dei dottori, ma non
una cultura di vita; perfeziona l’intelletto (se pure non si vuole imputarle
costruzioni arbitrarie), ma non tutto l’uomo nella sua integrità di pensiero
e di sentimento. Per il G. l’uomo integrale si attua «effettualmente» in
quell’amore contemplativo, la cui « vera filosofia » sgorga dalle S.
Scritture, all’interiorità delle quali è affidata l’intima conoscenza di
Dio.
La documentazione più importante di questa evoluzione è contenuta nelle
Cogitationes
quotidiane de amore Dei
(1506) e negli appunti di viaggio in Terra Santa (estate 1507), dove
riprende da capo lo studio delle « sacre pagine » partendo dalle
Institutiones di Cassiodoro e dai commenti di s.
Girolamo e di altri antichi maestri. Parallelamente a questa evoluzione
intellettuale, si svolge una crisi di vocazione. Nella casetta di Murano, a
partire dal giugno 1506, egli inizia una specie di solitudine, confacente —
come poi dirà — a un sapiente antico più che a un cristiano. Poi tenta di
rendere più interiore e cristiana la sua solitudine con un accordo che gli
consenta di vivere « solo » al centro del paesaggio biblico, ospite del
convento francescano di Betlemme. Una simbiosi che non può avere successo:
nel convento francescano e nella Betlemme del 1507 non può trovare i libri e
gli amici che l’accompagnino nell’ideale di solitaria operosità esegetica
geronimiana.
Tornato in patria nei primi mesi del 1508, si scioglie sempre più dai
vincoli civili e familiari, concentrandosi nella meditazione della Bibbia e
degli autori cristiani, da Origene a s. Bernardo. La meditazione frutta i
Commenti al Genesi del 1509, e, soprattutto, un
programma: studiare S. Scrittura e letteratura patristica, vivendo da
eremita con alcuni amici consacrati allo stesso scopo. Nel proposito gli
sono compagni il grecista G. B. Egnazio e il filosofo-diplomatico V.
Quirini, che, nel frattempo, alla conoscenza del greco aggiunge quella
dell’ebraico. Il loro ideale è ancora marcato da un aristocratico sentimento
di personalità e di indipendenza. Vogliono vivere
more monachorum,
ma senza farsi monaci, per garantire la loro libertà. In tali termini
trattano con la badia di Praglia, ma senza concludere: temono di dover
incrinare la loro solitudine studiosa collaborando all’istruzione dei
numerosi giovani che ivi si raccolgono. Poi decidono di provare con l’eremo
di Camaldoli, probabilmente su consiglio degli amici di S. Michele di
Murano.
Della missione esplorativa è incaricato il Giustiniani, che trascorre
nell’eremo il luglio e l’agosto 1510. Ivi analizza la natura del luogo,
redigendo un rapporto degno, della migliore tradizione veneta, e ottiene un
concordato. Ma il soggiorno veneziano porta all’esploratore anche elementi
imprevisti: il convincimento che non si può essere religioso d’animo e non
di abito (come scriverà nel 1520 nella lettera-trattato agli eremiti che
vivono senza regola). La solitudine, contraria alla socievolezza della
natura umana, può essere attuata solo con l’aiuto della grazia e in una
specie di « altra » società che la Chiesa offre con le sue istituzioni.
D’altra parte, per avere valore assoluto, oltre che totale, la rinunzia al
mondo dev’essere impegnativa (cioè pubblica) e definitiva.
Decisa la vocazione, parte da Venezia nell’Avvento del 1510 e riceve l’abito
camaldolese nel giorno di Natale. Sono i momenti più fervidi: ma gli amici
verranno? Nell’attesa egli offre a loro l’esperienza del suo tirocinio con
lettere e diari voluminosi, che costituiscono improvvisi capolavori di
letteratura intima nell’atmosfera dell’accademismo umanistico.
Purtroppo la vocazione degli amici veneti vacilla. L’Egnazio esita, mentre
G. Contarini e N. Tiepolo ostacolano la decisione del Quirini. Per
difenderla il Giustiniani raccoglie tutti i materiali che può dalla
patristica e dalla teologia medievale: tra lettere e appunti un completo
carteggio di teologia eremitica, che arricchisce anche negli anni
successivi, con le lettere di invito alla perfetta solitudine, e con i
Memoriali (uno del 1517 a Leone X) in difesa
del diritto, per qualsiasi religioso, di passare alla più perfetta vita
dell’eremo, anche senza il consenso dei superiori.
Nell’agosto 1512 il Giustiniani fa la sua professione solenne insieme
all’amico Quirini, col quale si trova a capo d’una riforma camaldolese,
occasionata dal disagio di cui soffriva l’eremo per colpa dei cenobiti e
della curia generalizia. Salvo il fatto che trascorre la vita qua e là,
servito da cuochi e segretari, senza praticare né la vita cenobitica né
quella eremitica, il generale Pietro Delfino è uomo buono ed onesto: ma
proprio per questo si lascia raggirare da
factotum né buoni né onesti. All’arrivo del
Giustiniani e del Quirini, esperti di affari e di diritto, gli eremiti
credono di aver trovato dei buoni difensori. Ed essi non se lo fanno dire
due volte. Formati all’aristocraticismo repubblicano di Venezia, vedono la
soluzione di ogni difficoltà nell’effettivo funzionamento dell’istituto
democratico del capitolo, implicante l’abolizione di quella specie di
« principato » religioso ch’è il
generalato a vita. Per loro iniziativa un capitolo di riforma può radunarsi
in Firenze nell’apr. 1513. Le tesi del Giustiniani e del Quirini vi
trionfano, e Leone X favorisce in ogni modo l’applicazione integrale dei
deliberati.
Alla morte del Quirini, nel 1514, la costituzione camaldolese è risanata, ma
la vita di Camaldoli non ancora. Occorrerebbero regole scritte, complete e
omogenee: ma non ci sono. Le redige il Giustiniani nel 1516, dopo aver
studiato a fondo le tradizioni e i documenti del passato e, di tanto in
tanto, le revisiona e completa.
Con le
Regulae Camaldulenses
si conclude il primo decennio del Giustiniani camaldolese. Un decennio
fecondo per l’Ordine, ma non per la sua persona. La sua solitudine aveva uno
scopo preciso: un
otium di meditazione e di lavoro sulle
Sacre Scritture ed i Padri. Invece l’otium non si attua né come lavoro né come
« riposo » in Dio. L’eremo di Camaldoli gli chiede continuamente di
rinunziare alla solitudine per i confratelli: e lui compie il dovere della
carità. Ha accettato per ubbidienza prima il sacerdozio poi il maggiorato:
ma rifiuta il tradimento definitivo della sua vocazione. Nella vita secolare
di Venezia poteva vivere da solitario: ma nell’eremo è lacerato giorno per
giorno dagli ingranaggi dell’istituzione ed egli non è disposto a idolatrare
le istituzioni per trascurare il problema divino della sua salvezza nella
vocazione. L’unico maestro e l’unica regola è Cristo: lo ha scritto nel
Solum Christum
sequi debemus,
premonastico, e lo scriverà nell’opuscolo su
Cristo unica
dottrina e disciplina di vita spirituale, posteriore al 1520. Chiede, quindi,
e ottiene da Leone X una licenza per lasciare Camaldoli, e vivere solitario
o istituire nuovi romitori in Italia o nelle Indie. Non la utilizza subito:
ma la rinnova accuratamente di tempo in tempo. Compiuto l’ultimo servizio
della carità per l’eremo (le
Regole), non esita più, rinunzia al
maggiorato e abbandona la cella traditrice di Camaldoli. È il 15 settembre
1520.
Alcuni l’accusano di infedeltà, altri di viltà e d’egoismo, ma sono tutti
immediatamente smentiti dai fatti. Fra i monti dell’Umbria e delle Marche il
Giustiniani incontra qua e là romiti « salvatichi » o, comunque,
sant’uomini, bisognosi del rifugio d’una vita comune e l’appello della
Provvidenza non lo trova sordo. In poche settimane rinunzia a sparire
silenziosamente nelle Indie, e si mette al servizio di vocazioni indifese
per cui organizza veri romitori, in vera povertà, in vera solitudine di
grotte naturali fra i monti. Istituisce per i suoi confratelli quanto aveva
chiesto alla riforma di Leone X: fedeltà agli ideali primitivi d’una regola,
rigore estremo di solitudine e assoluta assenza di attività esteriori,
comprese quelle della cura d’anime.
Con tutto ciò il Giustiniani non intende in alcun modo costituire una nuova
compagnia: vuole semplicemente attuare la genuina disciplina di s. Romualdo.
In questo senso sollecita e ottiene il riconoscimento della dipendenza dei
nuovi romitori dalla congregazione di Camaldoli; ma il capitolo ravennate
del 1525 respinge la convenzione già sottoscritta dal visitatore delegato:
cosi, senza volerlo, il Giustiniani si trova a capo d’una nuova
Congregazione Benedettina Camaldolese proprio lui, che a Leone X aveva
chiesto l'unificazione di tutte le famiglie benedettine.
In quanto ad occupazioni, la nuova Congregazione non gliene dà meno di
quella camaldolese, e sovente il Giustiniani deve abbandonare le grotte per
le vie di Roma e le anticamere di Adriano VI o di Clemente VII. Ma le
condizioni di spirito e di fatto sono ben diverse. A Camaldoli subiva odio,
lotte ed affari contrari alla pace dell’eremo: qui dirige un lavoro di
incremento e di sviluppo all’interno d’un ideale eremitico concordemente
inteso da lui e dai confratelli. Nella nuova situazione la sua solitudine
non lamenta ferite. Del resto, proprio in questi anni egli conosce gli
scritti integrali di s. Pier Damiani, e nota, certamente a sua pace, come
fosse pronto a lasciare l’eremo per i monasteri delle Gallie, bisognosi di
pace e riforma, colui che aveva lasciato il cardinalato per la cella di
Fonte Avellana. Ne imita l’esempio anche quando, nel 1525 e 1527, accorre a
Camaldoli per difendere contro i cenobiti quei solitari che gli serbano
stima e affetto.
In uno dei frequenti viaggi a Roma, per gli interessi della Compagnia, il
Giustiniani
si trova a subire gli orrori del
sacco (1527). Imprigionato e torturato insieme a s. Gaetano da Thiene,
riacquista la libertà attraverso lunghe peripezie: con eguale gioia aveva
già superato la prigionia di Macerata nel 1522 in difesa dei suoi romiti.
Nella primavera del 1528, dopo un viaggio a Viterbo, presso Clemente VII, il
Giustiniani è colpito dalla peste. Guarisce, ma troppo presto si mette di
nuovo in cammino alla volta di Roma, per ricevere il monastero e i romitori
del Soratte, offerti da G. M. Giberti, su consiglio di G. P. Carafa e di s.
Gaetano. Proprio in cima al monte di Roma ricade nel male, e muore, appena
cinquantaduenne, la sera del 28 giugno.
II.
Produzione
letteraria.
Il Giustiniani poté completare o
rivedere poche delle sue opere; in compenso conservò e raccolse in
manoscritti tutte le sue carte, comprese le minute, le note e le schedine,
importanti, queste ultime, perché, come dice l’autore, contengono la
spiegazione delle opere composte o la trama dialettica di quelle che non
poté redigere a causa dei suoi impegni per le Congregazioni camaldolese e
romualdina.
a) Del periodo premonastico il
Giustiniani
conservò, esortato da Paolo Canal, le
Cogitationes
quotidiane de amore Dei
(1506), i tre commenti al
Genesi (Genesis
historia; Genesis litterales questiones;
Genesis spiritalis
expositio) del 1509, documenti del viaggio in
Terra Santa (1507), un gruppo di lettere in ricordo degli amici di gioventù,
brevi composizioni (come il
Solum Christum
sequi debemus)
con molteplici frammenti (come il
De nostri temporis
philosophantibus), note di lettura e di pensiero, ecc.
Pregò il nipote Francesco Contarini di distruggere le poesie lasciate in
Venezia al momento della partenza per Camaldoli: non sembra però che il
nipote abbia eseguito la consegna, se i Canzonieri del « dolce stil nuovo »
veneto comprendono sonetti e canzoni del Giustiniani.
b) Del periodo camaldolese i frutti
più interessanti dal punto di vista letterario, oltre che religioso, sono
gli scritti epistolari sulla vocazione eremitica diretti agli amici di
Venezia (1510-1512). Dal punto di vista storico il
Libellus e il memoriale sulla riforma degli
Ordini monastici (1513) propongono a Leone X molte idee originali e vigorose
(rapporti con le Chiese cristiane d’Oriente; modo di trattare i popoli delle
terre da poco scoperte; riforma degli studi ecclesiastici, con l’abolizione
della teologia aristotelica e delle discipline giuridiche canoniche; l’uso
del volgare; la semplificazione del Breviario; l’eliminazione delle
superstizioni dal culto popolare e rituale; l’unificazione degli Ordini
monastici Benedettini; la riforma degli Ordini religiosi con la revisione
delle regole; la pratica dei concili; la riforma della curia papale, dei
cardinali e dei vescovi, ecc.).
I materiali contro il b. Amadeo, il Savonarola, il Meleto, il Biondi e altri
eretici offrono interessi più teologici che storici. Il Giustiniani
preferisce la meditazione spirituale alla teologia speculativa, e quando fa
della teologia dogmatica applica unicamente il metodo positivo: in questo
senso brillano le note sul culto delle immagini e sugli antropomorfismi
biblici, la
Silloge dogmatica
neo testamentaria,
la
Questio de
demonibus e il frammento dell’opuscolo sulla
Madonna, dove dichiara espressamente di discutere solo quello che trova
esplicitamente affermato dalle S. Scritture: « cetera vero... plus minusve
fidei merentur ». Tuttavia ricorre più ampiamente alla tradizione patristica
ed ecclesiastica quando discute temi teologici non formulati da lui con
particolari delimitazioni programmatiche, come si può vedere anche nei
materiali per l’opuscolo
De Origenis erroribus
e nel trattatello
De Ioannis Cassiani erroribus
(1514).
Nel campo della teologia spirituale il Giustiniani ha costruito, giorno per
giorno, una serie di note estravaganti e di soliloqui ordinabili in
splendida
catena sui
Salmi, mentre negli opuscoli tratta
De conversione (1511),
De evangelice
doctrine perfectione
(1511),
De XII gradi de obedientia
(1513),
De servanda etiam cum inimicis charitate (1517),
De oratione (1518),
De divina proprie
preferendo voluntate
(1518). Nel 1513 cerca di dare forma teorica ai concetti dell’amore e della
cognizione di Dio, nonché al loro rapporto (l’amore di Dio non segue ma
precede la conoscenza): ma il trattato che ne deriva
(De Dei cognitione
et amore),
incompleto e rimasto allo stato di minuta, sembra ripetere l’intenzione
delle
Cogitationes
quotidiane de amore Dei,
scritte, come l’autore dichiara, non per esprimere concetti già concepiti,
ma per stimolare il raccoglimento e la meditazione del pensiero, e, al pari
delle
Cogitationes, costituisce un documento di vita
spirituale più che il frutto speculativo sistematico d’una teoria.
Anche se fondate sullo studio positivo delle antiche tradizioni orali e
scritte dell’Ordine Camaldolese, le
Regulae
camaldulenses (1516) recano il timbro della
cultura e della spiritualità del Giustiniani. Approvate e rivedute dal
capitolo, furono stampate a Fontebuono, a cura dell’autore, nel 1520, e
costituiscono uno dei documenti più importanti dell’eremitismo latino.
c) Nel periodo romualdino, il
Giustiniani
esclude sempre più decisamente l’uso del latino e, pur proponendosi di
servire la Chiesa con una semplificazione del
Decretum Gratiani
(Decretum abreviatum,
iniziato e interrotto nel 1522) e con una tavola comparata dei testi
evangelici letti o mai letti nelle Messe, si dedica prevalentemente alla
teoria dell’« ozio » eremitico, come esige la sua funzione di fondatore
della Compagnia di S. Romualdo:
De vita christiana, religiosa et eremitica
(1521),
De preceptis et
consiliis evangelicis, De l’otio religioso (1522),
In quanti modi
habbia s. Paulo giovato alle humane creature. In questi e in altri numerosi
scritti egli rivela un’attitudine di particolare significato storico,
personale e generale. Il mondo va sossopra, e i nuovi Ordini religiosi
esprimono un orientamento della Chiesa nel prevalente impegno all’azione.
Come se nulla fosse, il Giustiniani pensa solo a organizzare l’« ozio »
dell’eremitismo più radicale. Una manifestazione di egoismo spirituale o di
insensibilità ecclesiastica? Né l’una né l’altra cosa, perché sovente il
Giustiniani si pone il problema dell’azione, che sente come grave obbligo di
carità, anche nei primi anni della vita camaldolese. Egli non la rifugge; al
contrario, cerca di attuarla nella forma più pura, più operosa e più
efficace, non solo per l’individuo o per la comunità eremitica, bensì per
tutta la società cristiana. Confrontiamo, egli dice, l’uomo attivo per
eccellenza, il predicatore, e l’uomo esclusivamente « ozioso », l’eremita.
Il predicatore esercita un’azione sopra un numero limitato di persone che
conoscono la sua lingua e l’ascoltano in quel momento e in quel luogo.
Secondo il Giustiniani, che rifiuta il formalismo umanistico e considera
bello solo lo scritto che nasce da verità di vita ed esprime bei pensieri,
l’eremita vive una teoria e, vivendo una teoria, è inevitabilmente
scrittore, indipendentemente da una previa formazione letteraria postulabile
solo da un’estetica formalistica. Orbene, con gli scritti l’eremita, più che
parlare, discorre con i lettori di tutti i luoghi, di tutti i tempi e
(mediante traduzioni) di qualsivoglia lingua; per di più è il naturale
maestro dei predicatori. Se il pensiero sgorga solo dalla vita, l’eremita è
il naturale scrittore di materie cristiane: è l’uomo più attivo che la
comunità cristiana possa desiderare. Nel
Libellus lamenta l’ignoranza teologica:
grave, totale. A chi ne attribuisce la responsabilità? Ai monaci e agli
eremiti che tradiscono la loro vocazione di maestri.
Nella lettera-trattato
Della vera felicità
al filosofo e poeta M. A. Flaminio (1525-1526) il Giustiniani ha l’occasione
di riprendere organicamente tutte le idee centrali del suo pensiero. La
cultura è vita, e la più alta sapienza non viene dalla Grecia e da Roma, ma
dalla Bibbia. La felicità è sapienza: ma sapienza amorosa ed « effettuale »
di Dio. Come si attua? Con l’abbandono di tutto ciò « che veramente non è »
e con l’adesione al solo « essere che è », a Dio: ma con una adesione totale
e coerente sino all’eremitismo.
In questo orizzonte il
Secretum meum mihi
(1524-1526) costituisce un’esperienza nuova nella storia della cultura e
della mistica. Lo studio critico del Giustiniani dovrà considerarlo come
prospettiva di tutte le altre sue opere, anche delle note di pensiero e di
lettura che portano l’eremita veneto fra le pagine degli autori che gli sono
maestri, da Origene a s. Bernardo e a Guglielmo di Saint-Tierry.
III.
Culto.
Secondo una
nota dello Zimmermann (II, p. 372), il Giustiniani fu onorato presso i
Camaldolesi, e, per un certo tempo, a Monte Corona fu oggetto di venerazione
il cranio creduto suo, più tardi fatto seppellire in un sepolcreto monastico
dal vicario generale di Perugia.
Da parte sua, la Congregazione dei Riti non ostacolò questo culto: solo nel
1681 essa fece ritirare immagini nimbate del Giustiniani, messe in
circolazione senza permesso. Benedetto XIV, poi, il 28 febbraio 1746
confermò varie decisioni concernenti la eventuale causa di canonizzazione
del Giustiniani prese dal capitolo generale dell’Ordine l’anno precedente.
Poco dopo comparve
un’Apologia per il
B. Paolo Giustiniani
(ora ms. 2272 della Bibl. Univers. di Padova), in difesa del culto del
Giustiniani.
Nei Menologi benedettini egli è commemorato il 28 giugno Anche il
bollandista V. de Buck (in
Acta SS., Suppl., Auct. Octobris, Parigi 1875, p. 19), attesta che il
Giustiniani « aliquo cultu apud Camaldulenses fruitur aut saltem fruitus est
».
Bibl.: 1)
Manoscritti: numerosissimi e complessi, sono studiati analiticamente in F..
Massa,
I manoscritti originali custoditi nell’eremo di Frascati, I,
serie B.
Paolo Giustiniani, Trattali, lettere e frammenti, a cura di
Eugenio Massa, Roma 19611; 19602. Nell'introduzione
della seconda ed. un primo ragguaglio dei mss. e dei testi del
Giustiniani conservati in altre biblioteche.
2) Edizioni:
Regulae camaldulenses, Fontebuono 1520;
Trattato di
ubedientia de don Paolo Giustiniani con una epistola del medesimo a M. Marc'
Antonio Flaminio,
Venezia 1535; Padova 1753;
Libellus ad Leonem
X, in
Annales Camaldulenses,
Venezia 1755-73, IX, pp.
612-719; alcune
Lettere in
Annales Camaldulenses, citt.,
Epistolicum commercium,
pp. 446 611, e in altre raccolte (cf. E. Massa,
I manoscritti originali,
ed. cit.,
passim) fra cui in H.
Jedin,
Contarini und Camaldoli, in
Archivio Italiano per la storia
della pietà,
II (1956), pp. 53-118;
Secretum meum mihi, Frascati 1941;
I trattati maggiori dell'amore di Dio, in E. Massa,
B. Paolo Giustiniani, Trattati, lettere e frammenti, Roma 19611;
19662.
3) Biografie: Lucas Hispanus,
Romualdina, Rua 1587; R. Fiori,
Vita del B. Paolo Giustiniani, Roma 1724; 1729; P. Lugano,
La congregazione camaldolese degli Eremiti di Montecorona,
Frascati 19082; J. Leclercq,
Un humaniste ermite: le bienheureux Paul Giustiniani (
1476-1528). Roma 1951. Per altre biografie manoscritte o
pubblicazioni minori cf. E. Massa,
I manoscritti, ed. cit., introduzione.
4) Studi: J.
Leclercq,
Seul avec
Dieu.
La vie érémitique d’après la doctrine du Bx. Paul Giustiniani, Parigi 1955; id.,
Le B. Paul Giustiniani et les ermites de son temps,
in
Problemi di vita religiosa in Italia nel Cinquecento
(=
Italia sacra, Studi e documenti di storia ecclesiastica, 2), Padova 1960,
pp. 225-39; id..
Le jugement du Bx. Paul Giustiniani
sur S. Pierre Damien, in
Rivista di storia della Chiesa
in Italia,
XI (1957), pp. 423-26; S. Tramontin,
Un programma di
riforma della Chiesa per il Concilio Lateranense V: il Libellus ad Leonem X, in
Venezia e i Concili, Venezia 1962, pp. 67-93; G. De Luca,
La storia della pietà nell'Umanesimo: il beato Paolo Giustiniani, in
Letteratura di pietà a Venezia dal '300 al '600, Firenze 1963, pp.
43-59.
Eugenio Massa
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11 gennaio 2022
a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net