Beato Paolo Giustiniani – Vita ed opere

A cura di Eugenio Massa

Estratto da “Bibliotheca Sanctorum – Vol. 6”, Città Nuova Editrice, 1965

 

GIUSTINIANI, Paolo, fondatore dei Camaldolesi di Montecorona, beato.

Sommario: I. Vita e azione. - II. Produzione letteraria, III. Culto.

 

I. Vita e azione. Tommaso, poi fra Paolo, nacque a Venezia nel 1476, dalla famiglia dei Giustiniani che in quel secolo aveva dato un Bernardo alla cultura e un s. Lorenzo alla Chiesa. Cresciuto fra buoni precettori, nel 1492, cominciò a frequentare l’università di Padova, secondo la moda dei giovani aristocratici della sua città, ma senza impegnarsi in programmi precisi. Seguì i corsi di filosofia e teologia, ma con un certo distacco, mentre continuava a fare il petrarchista, dando un contributo di sonetti e canzoni al « dolce stil novo » veneto. Intorno ai vent’anni accarezzò momentaneamente l’idea di monacarsi in S. Giustina. Verso la fine degli studi padovani la sua formazione letteraria lo porta all’umanesimo di salvezza di Seneca e Cicerone, con punte di più espressa evidenza in periodi d’infermità che gli impongono prolungati soggiorni montani (1504-1505). La nuova esperienza porta a orientamenti imprevisti; poco alla volta il G. abbandona le forme pure della poesia e della scienza. Alla cultura presenta esigenze di realtà intima, che trovano risposte egualmente intime ed esistenziali in quella filosofia teologica della vita ch’è propria di alcune correnti patristiche, e che presto cancellano qualsiasi interesse alla teologia scientifica degli scolastici aristotelici che, così come viene insegnata a Parigi o a Padova, crea dei dottori, ma non una cultura di vita; perfeziona l’intelletto (se pure non si vuole imputarle costruzioni arbitrarie), ma non tutto l’uomo nella sua integrità di pensiero e di sentimento. Per il G. l’uomo integrale si attua «effettualmente» in quell’amore contemplativo, la cui « vera filosofia » sgorga dalle S. Scritture, all’interiorità delle quali è affidata l’intima conoscenza di Dio.

La documentazione più importante di questa evoluzione è contenuta nelle Cogitationes quotidiane de amore Dei (1506) e negli appunti di viaggio in Terra Santa (estate 1507), dove riprende da capo lo studio delle « sacre pagine » partendo dalle Institutiones di Cassiodoro e dai commenti di s. Girolamo e di altri antichi maestri. Parallelamente a questa evoluzione intellettuale, si svolge una crisi di vocazione. Nella casetta di Murano, a partire dal giugno 1506, egli inizia una specie di solitudine, confacente — come poi dirà — a un sapiente antico più che a un cristiano. Poi tenta di rendere più interiore e cristiana la sua solitudine con un accordo che gli consenta di vivere « solo » al centro del paesaggio biblico, ospite del convento francescano di Betlemme. Una simbiosi che non può avere successo: nel convento francescano e nella Betlemme del 1507 non può trovare i libri e gli amici che l’accompagnino nell’ideale di solitaria operosità esegetica geronimiana.

Tornato in patria nei primi mesi del 1508, si scioglie sempre più dai vincoli civili e familiari, concentrandosi nella meditazione della Bibbia e degli autori cristiani, da Origene a s. Bernardo. La meditazione frutta i Commenti al Genesi del 1509, e, soprattutto, un programma: studiare S. Scrittura e letteratura patristica, vivendo da eremita con alcuni amici consacrati allo stesso scopo. Nel proposito gli sono compagni il grecista G. B. Egnazio e il filosofo-diplomatico V. Quirini, che, nel frattempo, alla conoscenza del greco aggiunge quella dell’ebraico. Il loro ideale è ancora marcato da un aristocratico sentimento di personalità e di indipendenza. Vogliono vivere more monachorum, ma senza farsi monaci, per garantire la loro libertà. In tali termini trattano con la badia di Praglia, ma senza concludere: temono di dover incrinare la loro solitudine studiosa collaborando all’istruzione dei numerosi giovani che ivi si raccolgono. Poi decidono di provare con l’eremo di Camaldoli, probabilmente su consiglio degli amici di S. Michele di Murano.

Della missione esplorativa è incaricato il Giustiniani, che trascorre nell’eremo il luglio e l’agosto 1510. Ivi analizza la natura del luogo, redigendo un rapporto degno, della migliore tradizione veneta, e ottiene un concordato. Ma il soggiorno veneziano porta all’esploratore anche elementi imprevisti: il convincimento che non si può essere religioso d’animo e non di abito (come scriverà nel 1520 nella lettera-trattato agli eremiti che vivono senza regola). La solitudine, contraria alla socievolezza della natura umana, può essere attuata solo con l’aiuto della grazia e in una specie di « altra » società che la Chiesa offre con le sue istituzioni. D’altra parte, per avere valore assoluto, oltre che totale, la rinunzia al mondo dev’essere impegnativa (cioè pubblica) e definitiva.

Decisa la vocazione, parte da Venezia nell’Avvento del 1510 e riceve l’abito camaldolese nel giorno di Natale. Sono i momenti più fervidi: ma gli amici verranno? Nell’attesa egli offre a loro l’esperienza del suo tirocinio con lettere e diari voluminosi, che costituiscono improvvisi capolavori di letteratura intima nell’atmosfera dell’accademismo umanistico.

Purtroppo la vocazione degli amici veneti vacilla. L’Egnazio esita, mentre G. Contarini e N. Tiepolo ostacolano la decisione del Quirini. Per difenderla il Giustiniani raccoglie tutti i materiali che può dalla patristica e dalla teologia medievale: tra lettere e appunti un completo carteggio di teologia eremitica, che arricchisce anche negli anni successivi, con le lettere di invito alla perfetta solitudine, e con i Memoriali (uno del 1517 a Leone X) in difesa del diritto, per qualsiasi religioso, di passare alla più perfetta vita dell’eremo, anche senza il consenso dei superiori.

Nell’agosto 1512 il Giustiniani fa la sua professione solenne insieme all’amico Quirini, col quale si trova a capo d’una riforma camaldolese, occasionata dal disagio di cui soffriva l’eremo per colpa dei cenobiti e della curia generalizia. Salvo il fatto che trascorre la vita qua e là, servito da cuochi e segretari, senza praticare né la vita cenobitica né quella eremitica, il generale Pietro Delfino è uomo buono ed onesto: ma proprio per questo si lascia raggirare da factotum né buoni né onesti. All’arrivo del Giustiniani e del Quirini, esperti di affari e di diritto, gli eremiti credono di aver trovato dei buoni difensori. Ed essi non se lo fanno dire due volte. Formati all’aristocraticismo repubblicano di Venezia, vedono la soluzione di ogni difficoltà nell’effettivo funzionamento dell’istituto democratico del capitolo, implicante l’abolizione di quella specie di « principato » religioso ch’è il generalato a vita. Per loro iniziativa un capitolo di riforma può radunarsi in Firenze nell’apr. 1513. Le tesi del Giustiniani e del Quirini vi trionfano, e Leone X favorisce in ogni modo l’applicazione integrale dei deliberati.

Alla morte del Quirini, nel 1514, la costituzione camaldolese è risanata, ma la vita di Camaldoli non ancora. Occorrerebbero regole scritte, complete e omogenee: ma non ci sono. Le redige il Giustiniani nel 1516, dopo aver studiato a fondo le tradizioni e i documenti del passato e, di tanto in tanto, le revisiona e completa.

Con le Regulae Camaldulenses si conclude il primo decennio del Giustiniani camaldolese. Un decennio fecondo per l’Ordine, ma non per la sua persona. La sua solitudine aveva uno scopo preciso: un otium di meditazione e di lavoro sulle Sacre Scritture ed i Padri. Invece l’otium non si attua né come lavoro né come « riposo » in Dio. L’eremo di Camaldoli gli chiede continuamente di rinunziare alla solitudine per i confratelli: e lui compie il dovere della carità. Ha accettato per ubbidienza prima il sacerdozio poi il maggiorato: ma rifiuta il tradimento definitivo della sua vocazione. Nella vita secolare di Venezia poteva vivere da solitario: ma nell’eremo è lacerato giorno per giorno dagli ingranaggi dell’istituzione ed egli non è disposto a idolatrare le istituzioni per trascurare il problema divino della sua salvezza nella vocazione. L’unico maestro e l’unica regola è Cristo: lo ha scritto nel Solum Christum sequi debemus, premonastico, e lo scriverà nell’opuscolo su Cristo unica dottrina e disciplina di vita spirituale, posteriore al 1520. Chiede, quindi, e ottiene da Leone X una licenza per lasciare Camaldoli, e vivere solitario o istituire nuovi romitori in Italia o nelle Indie. Non la utilizza subito: ma la rinnova accuratamente di tempo in tempo. Compiuto l’ultimo servizio della carità per l’eremo (le Regole), non esita più, rinunzia al maggiorato e abbandona la cella traditrice di Camaldoli. È il 15 settembre 1520.

Alcuni l’accusano di infedeltà, altri di viltà e d’egoismo, ma sono tutti immediatamente smentiti dai fatti. Fra i monti dell’Umbria e delle Marche il Giustiniani incontra qua e là romiti « salvatichi » o, comunque, sant’uomini, bisognosi del rifugio d’una vita comune e l’appello della Provvidenza non lo trova sordo. In poche settimane rinunzia a sparire silenziosamente nelle Indie, e si mette al servizio di vocazioni indifese per cui organizza veri romitori, in vera povertà, in vera solitudine di grotte naturali fra i monti. Istituisce per i suoi confratelli quanto aveva chiesto alla riforma di Leone X: fedeltà agli ideali primitivi d’una regola, rigore estremo di solitudine e assoluta assenza di attività esteriori, comprese quelle della cura d’anime.

Con tutto ciò il Giustiniani non intende in alcun modo costituire una nuova compagnia: vuole semplicemente attuare la genuina disciplina di s. Romualdo. In questo senso sollecita e ottiene il riconoscimento della dipendenza dei nuovi romitori dalla congregazione di Camaldoli; ma il capitolo ravennate del 1525 respinge la convenzione già sottoscritta dal visitatore delegato: cosi, senza volerlo, il Giustiniani si trova a capo d’una nuova Congregazione Benedettina Camaldolese proprio lui, che a Leone X aveva chiesto l'unificazione di tutte le famiglie benedettine.

In quanto ad occupazioni, la nuova Congregazione non gliene dà meno di quella camaldolese, e sovente il Giustiniani deve abbandonare le grotte per le vie di Roma e le anticamere di Adriano VI o di Clemente VII. Ma le condizioni di spirito e di fatto sono ben diverse. A Camaldoli subiva odio, lotte ed affari contrari alla pace dell’eremo: qui dirige un lavoro di incremento e di sviluppo all’interno d’un ideale eremitico concordemente inteso da lui e dai confratelli. Nella nuova situazione la sua solitudine non lamenta ferite. Del resto, proprio in questi anni egli conosce gli scritti integrali di s. Pier Damiani, e nota, certamente a sua pace, come fosse pronto a lasciare l’eremo per i monasteri delle Gallie, bisognosi di pace e riforma, colui che aveva lasciato il cardinalato per la cella di Fonte Avellana. Ne imita l’esempio anche quando, nel 1525 e 1527, accorre a Camaldoli per difendere contro i cenobiti quei solitari che gli serbano stima e affetto.

In uno dei frequenti viaggi a Roma, per gli interessi della Compagnia, il Giustiniani si trova a subire gli orrori del sacco (1527). Imprigionato e torturato insieme a s. Gaetano da Thiene, riacquista la libertà attraverso lunghe peripezie: con eguale gioia aveva già superato la prigionia di Macerata nel 1522 in difesa dei suoi romiti.

Nella primavera del 1528, dopo un viaggio a Viterbo, presso Clemente VII, il Giustiniani è colpito dalla peste. Guarisce, ma troppo presto si mette di nuovo in cammino alla volta di Roma, per ricevere il monastero e i romitori del Soratte, offerti da G. M. Giberti, su consiglio di G. P. Carafa e di s. Gaetano. Proprio in cima al monte di Roma ricade nel male, e muore, appena cinquantaduenne, la sera del 28 giugno.

II. Produzione letteraria. Il Giustiniani poté completare o rivedere poche delle sue opere; in compenso conservò e raccolse in manoscritti tutte le sue carte, comprese le minute, le note e le schedine, importanti, queste ultime, perché, come dice l’autore, contengono la spiegazione delle opere composte o la trama dialettica di quelle che non poté redigere a causa dei suoi impegni per le Congregazioni camaldolese e romualdina.

a) Del periodo premonastico il Giustiniani conservò, esortato da Paolo Canal, le Cogitationes quotidiane de amore Dei (1506), i tre commenti al Genesi (Genesis historia; Genesis litterales questiones; Genesis spiritalis expositio) del 1509, documenti del viaggio in Terra Santa (1507), un gruppo di lettere in ricordo degli amici di gioventù, brevi composizioni (come il Solum Christum sequi debemus) con molteplici frammenti (come il De nostri temporis philosophantibus), note di lettura e di pensiero, ecc. Pregò il nipote Francesco Contarini di distruggere le poesie lasciate in Venezia al momento della partenza per Camaldoli: non sembra però che il nipote abbia eseguito la consegna, se i Canzonieri del « dolce stil nuovo » veneto comprendono sonetti e canzoni del Giustiniani.

b) Del periodo camaldolese i frutti più interessanti dal punto di vista letterario, oltre che religioso, sono gli scritti epistolari sulla vocazione eremitica diretti agli amici di Venezia (1510-1512). Dal punto di vista storico il Libellus e il memoriale sulla riforma degli Ordini monastici (1513) propongono a Leone X molte idee originali e vigorose (rapporti con le Chiese cristiane d’Oriente; modo di trattare i popoli delle terre da poco scoperte; riforma degli studi ecclesiastici, con l’abolizione della teologia aristotelica e delle discipline giuridiche canoniche; l’uso del volgare; la semplificazione del Breviario; l’eliminazione delle superstizioni dal culto popolare e rituale; l’unificazione degli Ordini monastici Benedettini; la riforma degli Ordini religiosi con la revisione delle regole; la pratica dei concili; la riforma della curia papale, dei cardinali e dei vescovi, ecc.).

I materiali contro il b. Amadeo, il Savonarola, il Meleto, il Biondi e altri eretici offrono interessi più teologici che storici. Il Giustiniani preferisce la meditazione spirituale alla teologia speculativa, e quando fa della teologia dogmatica applica unicamente il metodo positivo: in questo senso brillano le note sul culto delle immagini e sugli antropomorfismi biblici, la Silloge dogmatica neo testamentaria, la Questio de demonibus e il frammento dell’opuscolo sulla Madonna, dove dichiara espressamente di discutere solo quello che trova esplicitamente affermato dalle S. Scritture: « cetera vero... plus minusve fidei merentur ». Tuttavia ricorre più ampiamente alla tradizione patristica ed ecclesiastica quando discute temi teologici non formulati da lui con particolari delimitazioni programmatiche, come si può vedere anche nei materiali per l’opuscolo De Origenis erroribus e nel trattatello De Ioannis Cassiani erroribus (1514).

Nel campo della teologia spirituale il Giustiniani ha costruito, giorno per giorno, una serie di note estravaganti e di soliloqui ordinabili in splendida catena sui Salmi, mentre negli opuscoli tratta De conversione (1511), De evangelice doctrine perfectione (1511), De XII gradi de obedientia (1513), De servanda etiam cum inimicis charitate (1517), De oratione (1518), De divina proprie preferendo voluntate (1518). Nel 1513 cerca di dare forma teorica ai concetti dell’amore e della cognizione di Dio, nonché al loro rapporto (l’amore di Dio non segue ma precede la conoscenza): ma il trattato che ne deriva (De Dei cognitione et amore), incompleto e rimasto allo stato di minuta, sembra ripetere l’intenzione delle Cogitationes quotidiane de amore Dei, scritte, come l’autore dichiara, non per esprimere concetti già concepiti, ma per stimolare il raccoglimento e la meditazione del pensiero, e, al pari delle Cogitationes, costituisce un documento di vita spirituale più che il frutto speculativo sistematico d’una teoria.

Anche se fondate sullo studio positivo delle antiche tradizioni orali e scritte dell’Ordine Camaldolese, le Regulae camaldulenses (1516) recano il timbro della cultura e della spiritualità del Giustiniani. Approvate e rivedute dal capitolo, furono stampate a Fontebuono, a cura dell’autore, nel 1520, e costituiscono uno dei documenti più importanti dell’eremitismo latino.

c) Nel periodo romualdino, il Giustiniani esclude sempre più decisamente l’uso del latino e, pur proponendosi di servire la Chiesa con una semplificazione del Decretum Gratiani (Decretum abreviatum, iniziato e interrotto nel 1522) e con una tavola comparata dei testi evangelici letti o mai letti nelle Messe, si dedica prevalentemente alla teoria dell’« ozio » eremitico, come esige la sua funzione di fondatore della Compagnia di S. Romualdo: De vita christiana, religiosa et eremitica (1521), De preceptis et consiliis evangelicis, De l’otio religioso (1522), In quanti modi habbia s. Paulo giovato alle humane creature. In questi e in altri numerosi scritti egli rivela un’attitudine di particolare significato storico, personale e generale. Il mondo va sossopra, e i nuovi Ordini religiosi esprimono un orientamento della Chiesa nel prevalente impegno all’azione. Come se nulla fosse, il Giustiniani pensa solo a organizzare l’« ozio » dell’eremitismo più radicale. Una manifestazione di egoismo spirituale o di insensibilità ecclesiastica? Né l’una né l’altra cosa, perché sovente il Giustiniani si pone il problema dell’azione, che sente come grave obbligo di carità, anche nei primi anni della vita camaldolese. Egli non la rifugge; al contrario, cerca di attuarla nella forma più pura, più operosa e più efficace, non solo per l’individuo o per la comunità eremitica, bensì per tutta la società cristiana. Confrontiamo, egli dice, l’uomo attivo per eccellenza, il predicatore, e l’uomo esclusivamente « ozioso », l’eremita. Il predicatore esercita un’azione sopra un numero limitato di persone che conoscono la sua lingua e l’ascoltano in quel momento e in quel luogo. Secondo il Giustiniani, che rifiuta il formalismo umanistico e considera bello solo lo scritto che nasce da verità di vita ed esprime bei pensieri, l’eremita vive una teoria e, vivendo una teoria, è inevitabilmente scrittore, indipendentemente da una previa formazione letteraria postulabile solo da un’estetica formalistica. Orbene, con gli scritti l’eremita, più che parlare, discorre con i lettori di tutti i luoghi, di tutti i tempi e (mediante traduzioni) di qualsivoglia lingua; per di più è il naturale maestro dei predicatori. Se il pensiero sgorga solo dalla vita, l’eremita è il naturale scrittore di materie cristiane: è l’uomo più attivo che la comunità cristiana possa desiderare. Nel Libellus lamenta l’ignoranza teologica: grave, totale. A chi ne attribuisce la responsabilità? Ai monaci e agli eremiti che tradiscono la loro vocazione di maestri.

Nella lettera-trattato Della vera felicità al filosofo e poeta M. A. Flaminio (1525-1526) il Giustiniani ha l’occasione di riprendere organicamente tutte le idee centrali del suo pensiero. La cultura è vita, e la più alta sapienza non viene dalla Grecia e da Roma, ma dalla Bibbia. La felicità è sapienza: ma sapienza amorosa ed « effettuale » di Dio. Come si attua? Con l’abbandono di tutto ciò « che veramente non è » e con l’adesione al solo « essere che è », a Dio: ma con una adesione totale e coerente sino all’eremitismo.

In questo orizzonte il Secretum meum mihi (1524-1526) costituisce un’esperienza nuova nella storia della cultura e della mistica. Lo studio critico del Giustiniani dovrà considerarlo come prospettiva di tutte le altre sue opere, anche delle note di pensiero e di lettura che portano l’eremita veneto fra le pagine degli autori che gli sono maestri, da Origene a s. Bernardo e a Guglielmo di Saint-Tierry.

 

III. Culto. Secondo una nota dello Zimmermann (II, p. 372), il Giustiniani fu onorato presso i Camaldolesi, e, per un certo tempo, a Monte Corona fu oggetto di venerazione il cranio creduto suo, più tardi fatto seppellire in un sepolcreto monastico dal vicario generale di Perugia.

Da parte sua, la Congregazione dei Riti non ostacolò questo culto: solo nel 1681 essa fece ritirare immagini nimbate del Giustiniani, messe in circolazione senza permesso. Benedetto XIV, poi, il 28 febbraio 1746 confermò varie decisioni concernenti la eventuale causa di canonizzazione del Giustiniani prese dal capitolo generale dell’Ordine l’anno precedente. Poco dopo comparve un’Apologia per il B. Paolo Giustiniani (ora ms. 2272 della Bibl. Univers. di Padova), in difesa del culto del Giustiniani.

Nei Menologi benedettini egli è commemorato il 28 giugno Anche il bollandista V. de Buck (in Acta SS., Suppl., Auct. Octobris, Parigi 1875, p. 19), attesta che il Giustiniani « aliquo cultu apud Camaldulenses fruitur aut saltem fruitus est ».

 

Bibl.: 1) Manoscritti: numerosissimi e complessi, sono studiati analiticamente in F.. Massa, I manoscritti originali custoditi nell’eremo di Frascati, I, serie B. Paolo Giustiniani, Trattali, lettere e frammenti, a cura di Eugenio Massa, Roma 19611; 19602. Nell'introduzione della seconda ed. un primo ragguaglio dei mss. e dei testi del Giustiniani conservati in altre biblioteche.

2) Edizioni: Regulae camaldulenses, Fontebuono 1520; Trattato di ubedientia de don Paolo Giustiniani con una epistola del medesimo a M. Marc' Antonio Flaminio, Venezia 1535; Padova 1753; Libellus ad Leonem X, in Annales Camaldulenses, Venezia 1755-73, IX, pp. 612-719; alcune Lettere in Annales Camaldulenses, citt., Epistolicum commercium, pp. 446 611, e in altre raccolte (cf. E. Massa, I manoscritti originali, ed. cit., passim) fra cui in H. Jedin, Contarini und Camaldoli, in Archivio Italiano per la storia della pietà, II (1956), pp. 53-118; Secretum meum mihi, Frascati 1941; I trattati maggiori dell'amore di Dio, in E. Massa, B. Paolo Giustiniani, Trattati, lettere e frammenti, Roma 19611; 19662.

3) Biografie: Lucas Hispanus, Romualdina, Rua 1587; R. Fiori, Vita del B. Paolo Giustiniani, Roma 1724; 1729; P. Lugano, La congregazione camaldolese degli Eremiti di Montecorona, Frascati 19082; J. Leclercq, Un humaniste ermite: le bienheureux Paul Giustiniani ( 1476-1528). Roma 1951. Per altre biografie manoscritte o pubblicazioni minori cf. E. Massa, I manoscritti, ed. cit., introduzione.

4) Studi: J. Leclercq, Seul avec Dieu. La vie érémitique d’après la doctrine du Bx. Paul Giustiniani, Parigi 1955; id., Le B. Paul Giustiniani et les ermites de son temps, in Problemi di vita religiosa in Italia nel Cinquecento (= Italia sacra, Studi e documenti di storia ecclesiastica, 2), Padova 1960, pp. 225-39; id.. Le jugement du Bx. Paul Giustiniani sur S. Pierre Damien, in Rivista di storia della Chiesa in Italia, XI (1957), pp. 423-26; S. Tramontin, Un programma di riforma della Chiesa per il Concilio Lateranense V: il Libellus ad Leonem X, in Venezia e i Concili, Venezia 1962, pp. 67-93; G. De Luca, La storia della pietà nell'Umanesimo: il beato Paolo Giustiniani, in Letteratura di pietà a Venezia dal '300 al '600, Firenze 1963, pp. 43-59.

 

Eugenio Massa


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11 gennaio 2022        a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net