L'ENIGMA DIDACHÈ
Le dimensioni del problema
Capitolo estratto da "Didachè – Insegnamento degli apostoli", di
Giuseppe Visonà, Paoline Editoriale Libri 2000
Quello della
Didachè è il tipico caso di una vicenda che
nasce apparentemente semplice e lineare per rivelarsi poi incredibilmente
complessa e intricata. La forza con cui questa operetta - 204 righe, meno di
cinque fogli di un codice manoscritto - irruppe nel 1883 sulla scena degli studi
del cristianesimo delle origini fu determinata anche dalle modalità della sua
fortuita ricomparsa dopo secoli di eclissi, frammista a venerandi documenti del
primitivo cristianesimo in un codice di una biblioteca del patriarcato greco di
Gerusalemme a Costantinopoli
[1], ove lo stesso
scopritore, il metropolita Filoteo Bryennios, non l’aveva subito riconosciuta
[2] per il documento che
la tradizione dei Padri più volte ricordava come
Dottrina (Didachè) degli apostoli e che
Clemente Alessandrino, intorno al 200 d.C., pareva citasse addirittura come
Scrittura ,[3] ma che da allora si
era volatilizzata.
Dunque, si poteva
pensare a un reperto intatto del passato che, scavalcando il revisionismo dei
secoli, ci riportava d’emblée sulla scena del nascente cristianesimo,
magari a quella comunità primitiva i cui membri «erano assidui nell’ascoltare la
didachè (l'insegnamento) degli apostoli » (At 2,42), o alle direttive
che, sempre secondo gli Atti, gli stessi apostoli avrebbero emanato in occasione
del cosiddetto primo concilio di Gerusalemme, nel 48-49 d.C.
[4].
Né meno rilevante era lo specifico contenuto della Didachè, che da subito
fu classificata come il prototipo del genere letterario della “Costituzione
ecclesiastica” o “Ordinamento ecclesiastico”
[5],
quel genere, cioè, che raccoglie le prescrizioni di ordine morale, rituale e
disciplinare volte a regolare la vita della Chiesa e che sarà destinato a un
notevole sviluppo (letteratura canonistica o canonico-liturgica) in parallelo
alla sempre maggiore
articolazione della organizzazione ecclesiastica
[6].
Insomma, la
Didachè
sarebbe stata lo statuto, la regola della Chiesa primitiva, con la non
indifferente peculiarità di portarci, per la prima volta, dietro il velo di
quella istituzionalizzazione ecclesiastica che nel corso del II secolo aveva
trasformato il cristianesimo originario in “cattolicesimo”, cioè in una
istituzione gerarchicamente ordinata, distinta in chierici e laici, con al
vertice il vescovo, successore degli apostoli, depositario della tradizione
apostolica e garante dell’ortodossia. Mentre, infatti, la tradizionale
documentazione canonistica (a partire dal 200 circa, con la cosiddetta
Tradizione
apostolica attribuita a Ippolito di Roma
[7]) legittimava questa
architettura ecclesiastica a struttura piramidale che dapprima fissava funzioni
e prerogative del vescovo per digradare poi progressivamente, attraverso i vari
ministeri, fino ai comuni fedeli laici, la
Didachè mostrava di
avere come unico referente la comunità in quanto tale, cui sono demandati anche
il controllo e il discernimento delle funzioni ministeriali. Ma se ai vescovi
(assieme ai diaconi) era dedicato un unico, fugace, cenno verso la fine dello
scritto (15,1-2), le vere autorità spirituali della comunità apparivano essere
apostoli, profeti e maestri (o dottori), ministri itineranti dai tratti
spiccatamente carismatici, ma scomparsi nella successiva nomenclatura delle
costituzioni ecclesiastiche. Dunque, poteva esclamare il primo illustre
commentatore del nostro scritto, « la
Didachè ha finalmente fatto luce! »
[8], mostrandoci
quell’immagine di una Chiesa dei carismi che sarebbe stata obnubilata dalla
Chiesa-apparato. Di più, le indicazioni relative a profeti che sceglievano di
stabilirsi nella comunità (13,1), assieme all’invito a eleggere e a non
disprezzare i vescovi, destinati a svolgere
le
mansioni dei profeti (15,1-2), avrebbero fotografato, per così dire, la fase di
transizione tra due ecclesiologie, imperniate rispettivamente su un ministero
carismatico profetico itinerante e su uno istituzionale elettivo residente
[9]. Con questo, come si
può ben intuire, la
Didachè
veniva trascinata sul terreno insidioso del dibattito sullo sviluppo storico del
cristianesimo primitivo, subendone anche i pesanti risvolti e condizionamenti
confessionali.
Fu, però, l’indagine storico-letteraria a rivelare come
le cose non fossero così semplici, e fosse illusorio pensare di aver ritrovato
uno scritto intatto nel suo stato nascente.
Da una parte, infatti, la
Didachè si rivelò essere un’opera composita,
cioè non uscita di getto nel suo stato attuale, ma frutto della riorganizzazione
di materiali precedenti e anzi, secondo più di uno studioso, risultato di
successive integrazioni e/o interpolazioni. Questo già scomponeva i problemi di
fondo (luogo, data, composizione) perlomeno su due stadi, quello di una
tradizione (l’insieme dei materiali
preesistenti) e quello di una
redazione
(la composizione nella forma finale), ma con in mezzo una infinita possibilità
di variazioni, tutte esplorate.
Dall’altra, come accade sovente in questi casi, la
scoperta di un nuovo testo portò all’individuazione di diverse sue sopravvivenze
prima non identificabili. In particolare si scoprì che il libro settimo della
più nota e ponderosa opera della letteratura canonico-liturgica, le
Costituzioni apostoliche (circa 380 d.C.), non era che una
riproposizione dell’intera
Didachè, con numerose varianti oltreché con evidenti ritocchi e
manipolazioni. Materiali didachistici affiorarono in altri scritti del medesimo
filone: la
Costituzione
ecclesiastica degli apostoli, l'Epitome dei canoni dei santi apostoli,
la latina
Doctrina apostolorum, sempre con recensioni che presentavano
elementi di diversità rispetto al testo dell’unico codice H; anche i frammenti
di tradizione diretta venuti alla luce - in un papiro greco e nelle versioni
copta ed etiopica - facevano intuire l’esistenza di recensioni testuali diverse:
insomma, si cominciò a dubitare della bontà, inizialmente mai discussa, del
testo di H, un codice che del resto, come appare dalla sottoscrizione, il
copista Leone aveva terminato di trascrivere martedì 11 giugno 1056. Acquisito
che la contaminazione di documenti è un tratto distintivo della letteratura
canonico-liturgica
[10], nulla permetteva di
escludere che nella
Didachè
di H non avessimo che l’esito di una secolare stratificazione di tradizioni
normative della Chiesa antica, in cui identificare il nucleo primigenio poteva
risultare impresa disperata.
Sia come sia, la
Didachè, da chiave di accesso alle stanze
segrete del cristianesimo primitivo, diventò, anche nei titoli delle ricerche,
un «enigma»
[11]. Cominciando dal
titolo, non c’è elemento della
Didachè
che non sia stato sezionato e conteso, ma - paradossalmente - l’imbarazzante
dilatazione della bibliografia sulla nostra opera non ha portato chiarezza in
proporzione
[12]. Di fatto, su tutte
le questioni cruciali
[13] a tutt’oggi le
contrapposte interpretazioni sono difese e argomentate, cosi come le diverse
opzioni critiche hanno trovato applicazione nelle varie edizioni
[14]. Anche le
interpretazioni complessive della
Didachè hanno
delineato scenari completamente diversi, tanto da indurre uno dei recenti
editori a una rassegnata costatazione: « Più o meno ogni tentativo di soluzione
sta a sé e si costituisce i suoi propri criteri per la presunta distinzione
delle fonti»
[15]. Anche la rassegna di
Vokes si chiude con un
non liquet: preso atto
dei diversi esiti interpretativi e che ogni tipo di datazione è stata proposta,
non è possibile, a detta dello studioso, essere più precisi che affermare che la
Didachè
è stata composta «prima della fine del II secolo»
[16].
Alcuni criteri
In realtà, come vedremo, le cose non stanno proprio
così
[17], e il margine di
scetticismo può essere drasticamente ridotto. Nondimeno, proprio l’accertamento
del carattere composito della
Didachè
ha provocato l’allargamento e la frammentazione dello spettro di riferimento
degli studi critici. Si sono infatti determinati due tipi di approccio al nostro
scritto: il primo, di carattere
analitico,
si è concentrato sui singoli elementi di tradizione presenti nell’opera, non
impegnandosi però in un pronunciamento sulle sue coordinate complessive
[18], nulla impedendo che
un elemento anche molto arcaico fosse mantenuto o inglobato in una fase
successiva o che comunque potesse essere cronologicamente anche distante dalla
fase redazionale ultima
[19]. Si considera,
inoltre, la possibilità che ciascuna delle riconosciute sezioni della
Didachè possa aver avuto un suo proprio
processo di formazione
[20], per cui viene a
cadere un principio di “proprietà transitiva”, che permetterebbe di estendere
all’insieme dell’opera i dati riscontrati nelle sue componenti: l’unico elemento
unificante sarebbe il livello della redazione finale, la cui identificazione,
però, è assolutamente controversa.
Un secondo tipo di approccio, di carattere
sintetico, ha invece cercato
un’interpretazione complessiva della
Didachè che, previa la ricostruzione del
processo di costituzione del testo, allineasse e giustificasse le varie
componenti in un disegno - e perciò in un’epoca e in un ambiente - ben
individuato. Qui la responsabilità dell’interprete è grande, perché molte
componenti della
Didachè
sono passibili di letture diverse
[21] proprio in relazione
a un’opzione interpretativa di fondo che dovrebbe essere stata ricavata dal
testo medesimo, col rischio sempre presente di innescare il circolo vizioso
[22].
Il procedimento è, appunto, rischioso, come dimostrano
gli esiti contrastanti, anche perché ancora il carattere composito dell’opera
fornisce la pratica scappatoia di attribuire a interventi secondari o a
interpolazioni successive quei dati che non si armonizzano col quadro
interpretativo generale proposto. Nondimeno è una via praticabile, purché si
rispettino alcuni criteri cui hanno cercato di ispirarsi anche le nostre scelte:
sono da scartare le soluzioni troppo elaborate (quali illustreremo più avanti),
che pretendono - e hanno bisogno - di spiegare a intarsio ogni singolo versetto
della
Didachè,
mostrando in occasione di quale fase di riflessione o dibattito o crisi della
comunità si è addivenuti ad aggiungere un inciso o a espungere un vocabolo,
oppure leggendo ogni minima variazione sintattica o stilistica come segno di un
intervento secondario: se non per altro, queste teorie sono da scartare perché
indimostrabili. Parimenti non sono da accogliere quelle soluzioni che richiedono
di forzare il testo tràdito (in pratica, quello di H) affermando, per esempio,
che un dato versetto o periodo doveva originariamente trovarsi in un altro punto
del testo, in cui va ricollocato; oppure decidendo che un passo doveva avere in
origine un’altra forma, in cui va reintegrato, sempre che non vada espunto come
glossa introdotta nel testo da un copista
[23]. È buona norma che,
in presenza di un’attestazione della tradizione diretta, solo motivi molto
fondati consentano di intervenire sul testo. Diversamente è meglio conservare
l’omogeneità di una recensione, pur col dubbio che abbia patito contaminazioni,
piuttosto che creare un ibrido, frutto di valutazioni caso per caso, col rischio
dell’arbitrarietà.
Se nella
Didachè è legittimo distinguere un livello di
tradizione da uno di redazione, nondimeno va affermato con forza che il peso e
il baricentro dell’opera sono nettamente spostati verso la tradizione, per cui
ciò che proviene dallo strato originario della
Didachè prevale su quanto può essere stato
successivamente introdotto o manipolato. In proposito mi pare decisivo il
confronto con scritti di genere affine che hanno utilizzato la
Didachè, come le
Costituzioni apostoliche: le modifiche
introdotte nei luoghi paralleli
[24]
ci danno la misura di
come sarebbe la
Didachè
se veramente avesse subìto tarde revisioni. Dunque la recensione del codice H è
una buona e antica recensione, che fornisce una solida base per la ricostruzione
del testo.
Di fronte a un’impressione di disorientamento della
critica, direttamente proporzionale alla messe di studi sulla
Didachè, conviene ulteriormente precisare che,
pur con la giusta riserva e le dovute cautele, sono possibili pronunciamenti
anche netti, ancorché equilibrati, che perlomeno alla
Didachè diano una fisionomia
[25]. Infine, ma è la cosa
più importante, per seguire le oscillazioni e le sottigliezze della critica non
dobbiamo perdere di vista la
preziosità della
Didachè, per la quale si continuano a
disegnare scenari suggestivi e impegnativi che la pongono prima ancora del
Vangelo di Marco
[26], o tra i testi che
avrebbero influenzato il Vangelo di Giovanni
[27] e la l Corinzi
[28], o ne fanno il
testimone della perduta fonte dei vangeli Sinottici
[29] o del proto-Matteo
aramaico
[30]. Essa «è
contemporanea degli apostoli», afferma perentoriamente l’editore forse più
autorevole
[31]. Insomma,
direttamente o indirettamente, la
Didachè
affonda le radici negli strati più profondi delle origini cristiane, là dove è
ancora viva e fluida la tradizione su Gesù, è ancora vitale il legame con la
spiritualità, l’etica e la liturgia giudaiche, e dove ancora risuona l’eco
diretta dell'eucharistia
protocristiana e dell’annuncio ispirato dei profeti cristiani.
N.d.r. del sito: ho riportato quasi tutte le note
contenute nel libro
[1]
II codice fu portato a Gerusalemme fin dal 1887. È catalogato come
Hierosolymitanus 54 e viene comunemente indicato con la sigla H. La
Didachè vi compare ai fogli 76'-80', dopo l'Epistola di
Barnaba, la Prima e Seconda lettera ai Corinzi di
Clemente Romano e prima delle Lettere di Ignazio di Antiochia
(nella recensione lunga). Per maggiori ragguagli sul manoscritto e sul
suo contenuto si vedano Rordorf-Tuilier, 102-110 e Niederwimmer, 53-36;
per un riesame recente cfr. R.E. Aldridge, The Lost Ending of the
"Didachè”, VigChr 53 (1999) 2-4.
[2]
Bryennios aveva segnalato il codice fin dal 1873, attirando l’attenzione
in particolare sul testo dell'Epistola di Barnaba, ma solo dieci
anni dopo, appunto nel 1883, pubblicò a Costantinopoli l'editio
princeps della Didachè.
[3]
In realtà, come vedremo, anche la presunta citazione di Did. 3,5
come Scrittura negli Stromati di Clemente è diventata
problematica.
[4]
Cfr. At 15,22-31. La tesi che indicava nella
Didachè la più antica catechesi cristiana in diretta connessione
col “decreto apostolico" del 48-49 era stata sostenuta, nella prima fase
della ricerca, da A. Seeberg (cfr.
Der Katechismus der Urchristenheit, Leipzig 1903;
Die Beiden Wege und das Aposteldekret, Leipzig 1906) ed è stata ripresa di recente da S. Dockx,
Date et origine de la Doctrine des Apôtres
aux Gentiles, in S.
Dockx (ed.),
Chronologies
néotestamentaires et vie de
l'Église primitive.
Recherches
exégétiques, Leuven
1984, 369-390, che valorizza la coincidenza tra il titolo e
l'espressione di At 2,42, come pure il fatto che in At 15,22-31 si parli
di una lettera che gli apostoli inviano ad Antiochia, sulla cui area a
tutt’oggi si appuntano i maggiori consensi come ambiente dirigine della
Didachè: il nucleo di quest’ultima, dunque (e non la
Didachè
nella forma attuale), sarebbe un documento uscito dall’ambiente
apostolico gerosolimitano e indirizzato ai gentili di Antiochia.
C.N. Jefford, dal canto suo, pensa a una diretta influenza del “decreto
apostolico" su
Did. 6 (cfr.
An
Ancient Witness to the Apostolic Decree of Acts 15?,
in
Proceedings: Eastern Great Lakes and Midwest Biblical Societies
10 [1990] 204-213;
Tradition and Witness
in Antioch: Acts 15 and Didache 6, in E.V.
McKnight [ed.],
Perspectives on Contemporary New Testament Questions,
Lewiston 1992,75-89).
[5]
In ted.:
Kirchenordnung;
in ingl.:
Church order.
Cfr. ancor oggi, per es.,
P. Vielhauer,
Geschichte der
urchristlichen Literatur, Berlin-New
York 1975, 725: « Del resto, quanto al genere letterario della
Didachè
c’è accordo: la
Didachè
è una
Kirchenordnung, e precisamente la più antica del suo genere ».
Analogamente cfr. Wengst, 17-18: « Il raggruppamento in blocco di
prescrizioni per i vari ambiti della vita dei cristiani e della comunità
indica la
Didachè,
quanto alla
forma, come una
Kirchenordnung ».
[6]
Per un quadro generale si veda A. Faivre, La
documentation canonico- liturgique de l'Église ancienne, RevSR 54
(1980) 204-219 e 273-297. Faivre (ibi. 287-288) considera la
Didachè strettamente collegata al genere canonico-liturgico anche se
le riconosce la mancanza della “categorizzazione" specifica del genere
stesso, incentrata sui ministeri. Per una panoramica ancora più ampia e
complessiva sulle forme di autoregolamentazione della Chiesa nel primi
secoli si veda, dello stesso autore, Ordonner la fraternité: pouvoir
d'innover et retour à l'ordre dans l'Église ancienne, Paris 1992.
[7]
Cfr, ora Pseudo Ippolito, Tradizione apostolica. Introduzione,
traduzione e note a cura di E. Peretto (Collana di testi patristici,
133), Roma 1996. Sui problemi di questo controverso documento e della
letteratura omologa se ne veda l’ampia introduzione (5-91).
[8]
A. Harnack, Die Lehre der zwölf Apostel (TU, 1,1-2), Leipzig 1884,
Prolegomena, 94.
Lo
studioso contrappone la triade apostoli profeti dottori a quella
tipicamente cattolica formata da vescovi presbiteri diaconi. Per lui la
Didachè è un breve manuale di istruzione per paganocristiani. La
sua lettura della Didachè, molto influente, costituirà il perno
del suo classico studio sullo sviluppo del cristianesimo primitivo
(Die Mission und Ausbreitung des Christentums in den ersten drei
Jahrhunderien), uscito per la prima volta nel 1902.
[9]
Da ultimo cfr. Rordorf-Tuilier, 246: «La Didachè
rivela resistenza congiunta di un ministero itinerante di profeti e
dottori da una parte, e di una gerarchia sedentaria di “episcopi" e
diaconi dall'altra. Essa rappresenta, di conseguenza, una tappa
intermedia tra questa gerarchia sedentaria e questo ministero itinerante
in via di sparizione».
[10]
Esemplare il caso citato delle Costituzioni
apostoliche. Ma la stessa Tradizione apostolica non è che un
testo ricavato congetturalmente collazionando documenti posteriori e in
varie versioni.
[11] Cfr. F.E. Vokes, The Riddle of the Didache: Fact or Fiction, Heresy or
Catholicism?, London 1938; S. Giet, L'énigme de la Didachè,
Paris 1970.
[12]
Per una recente rassegna della ricerca sulla Didachè
cfr. J.A. Draper, The Didache in Modem Research: An OverView, in
The uDidache" in Modem Research, 1-42 (il volume
ripropone in traduzione inglese - laddove questa non fosse la lingua
originale di stesura - 16 saggi di vari specialisti, selezionati in un
arco di tempo tra il 1952 e il 1992); cfr. inoltre C.N. Jefford, The
Sayings of Jesus in the Teaching of the Twelve Apostles (Supplements
to Vigiliae Christianae, 11), Leiden 1989, 1-17 («A Review of Modern
Research», dedicata soprattutto alle tesi su data e luogo di origine e
distinta per scuole: francese, tedesca, anglo-americana); ma in tutti
gli studi di ampio respiro si troverà riepilogato lo stato della
ricerca. Anche la messa a punto di F.E. Vokes (Life and Order in an
Early Church: the Didache, in ANRW, II,27,1, Berlin-New York 1993,
209-233) esamina le sezioni della Didachè col taglio dello
status quaestionis, passando cioè in rassegna le diverse teorie via
via proposte. Per la bibliografia cfr. invece Niederwimmer, 273-293;
K.J. Harder - C.N. Jefford, A Bibliography of Literature on the
"Didache" in The “Didache" in Context, 368-382 (l’intero
volume raccoglie 17 saggi originali sulla Didachè); ora si veda
Rordorf-Tuilier, 213-220 (« Bibliographie depuis 1976»). Questa recente
seconda edizione (SCh 248bis, Paris 1998) della fondamentale edizione
Rordorf-Tuilier ha mantenuto il corpo della prima (1978) aggiungendovi
l’aggiornamento bibliografico e una rassegna analitica degli apporti
critici del ventennio tra le due edizioni (221-246).
[13]
Del tipo se la tradizione dei detti di Gesù attestata dalla
Didachè
dipenda dai Sinottici o risalga a una tradizione indipendente, o se
l'eucharistia dei cc. 9- 10 sia la liturgia sacramentale cristiana o un pasto rituale con
“azione di grazie”.
[14]
Per rimanere a una situazione già illustrata, l’edizione Rordorf-Tuilier
ha ridato piena fiducia alla recensione del codice H; l’edizione Wengst
ha invece recepito l’opzione di sfiducia, modificando in più punti il
testo accolto. Come vedremo, è difficile trovare due edizioni in cui la
Didachè
sia pubblicata con lo stesso titolo. Oltre agli studi, anche le edizioni
commentate, dopo quella monumentale di Audet (1958), si sono
moltiplicate in anni recenti, con le edizioni di Rordorf-Tuilier (1978,
19982), di Wengst (1984), di Schöllgen
(1991; 19922, sul testo Rordorf-Tuilier); né va dimenticato
l’ottimo commentario di Niederwimmer (1989,19932), che ha il
corrispettivo testuale in un testo di lavoro
(Arbeitstext) edito dal medesimo Niederwimmer in
The
"Didachè" in Context, 15-36 col titolo
Der Didachist und seine Quellen (il testo vero e proprio a 22-36). Invece A. Lindemann -
H. Paulsen,
Die Apostolischen Väter, Tubingen 1992, 4-21 riprendono senza correzioni
l’edizione F.X. Funk - K. Bihlmeyer
(Die Apostolischen Väter,
Tubingen 1970, 1-9), che sostanzialmente riproponeva la storica edizione
di Funk (1901).
Non abbiamo consultato
l’inedita tesi di J.A. Draper,
A Commentary
on the
Didachè in the Light of the
Dead Sea Scrolls and Related Documents, Cambridge
1983.
[15]
G. Schöllgen,
Die Didachè als Kirchenordnung.
Zur Frage des Abfassungszweckes und
seinen Konsequenzen für die Interpretation, JAC 29 (1986) 5-26,
qui 22
(=
The Didache as a Church Order; an Examination of the Purpose for the
Composition of the Didache and its Consequences for Interpretation,
in
The "Didache" in Modem Research, 43-71).
[16]
Vokes,
Life and Order,
231.
[17]
Vokes è stato un sostenitore della teoria di una
Didachè come finto-antica. Tuttavia anche la recente edizione di Schöllgen, per la parte relativa a luogo e data d'origine
della
Didachè, mantiene una linea prudenziale all'insegna
dell'incertezza (cfr. Schöllgen,
82-85).
[18]
Ad esempio, gli studi di Mazza sostengono che le preghiere eucaristiche
di
Did.
9-10 hanno il loro
habitat ideale nei primissimi anni dopo la morte di Gesù (e
comunque prima del concilio apostolico del 48-49) e che sono già
conosciute e utilizzate da Paolo nella 1 Corinti. Questo non comporta
che la
Didacbè
come tale risalga a quegli anni, bensì che il patrimonio liturgico da
essa tramandato sia appunto vetustissimo. Lo stesso vale per studi di
settore sul presunto carattere esseno della liturgia e delle osservanze
della
Didacbè
(Tuilier, Del Verme).
[19]
È il caso del citato Dockx,
Date et origine, che
situa il nucleo originario della
Didachè a ridosso della nascita della Chiesa, ma ritiene che la
redazione finale dell'opera vada posta almeno al III secolo. Dockx,
dunque, è tra coloro che pensano che la
Didachè com'è giunta in H sia andata soggetta a molteplici
revisioni e manipolazioni. Lo strato più antico risulterebbe dalle
sezioni 7,1; 8,2-3; 9,1-4; 10,1-3.5-7; 14,1.3; 15,1.
[20]
Questo, per esempio, negli studi di Riggs.
[21]
Ad esempio, nel c. 8 viene definita la prassi della
comunità, quanto alla preghiera e al digiuno, in contrapposizione a
quella degli « ipocriti»: l'individuazione di questa categoria dipende
dalla teoria complessiva sulla Didachè (e viceversa).
[22]
Esemplare il caso del titolo, in cui la scelta tra le varie possibilità
offerte dalla tradizione diretta e indiretta non è autoevidente, ma
strettamente correlata a come si interpreta il processo di formazione
dell'opera. Infatti, come abbiamo detto, è difficile trovare due
edizioni della Didachè con lo stesso titolo.
[23]
Avremo modo di esemplificare. Questo naturalmente non
impedisce di pensare a delle glosse: ci opponiamo al criterio che le usa
per eliminare gli elementi di disturbo alla scorrevolezza di una teoria.
[24]
In Did. 13,3-7 si dice di prendere le primizie di ogni cosa
(prodotti della terra, bestiame, beni) e di darle «secondo il
comandamento» ai profeti: «essi infatti sono i vostri grandi sacerdoti»
(13,3). La Didascalia, che pure è un testo antico, degli inizi
del III secolo, e della stessa area siriaca da cui presumibilmente
proviene la Didachè, scrive: «Allora (scil: sotto la legge
mosaica) vi erano primizie, decime, libagioni e doni, oggi invece vi
sono le offerte che vengono presentate al Signore Dio dai vescovi. Essi
infatti sono i vostri grandi sacerdoti » (9); anche le Costituzioni
apostoliche hanno sostituito i « profeti » con i « sacerdoti»
(7,29,1: SCh 336,60) e anzi hanno drasticamente tagliato tutta la
sezione della Didachè dedicata al ministero di apostoli e profeti
(7,28, ibi, 58-60).
Tutta la riproposizione della Didachè nel libro settimo delle
Costituzioni apostoliche si segnala per l'inserzione di precisazioni
circa le norme liturgiche e le funzioni ministeriali, tutti fenomeni che
dovrebbero essere almeno in parte rilevabili nella stessa Didachè
se fosse il risultato di una prolungata o tarda revisione.
[25]
Metterei qui l’opera di Rordorf (studi ed edizione) che
ha precise fisionomia e organicità, senza essere invasiva, quantunque
non possa pretendere di dirimere tutti i punti controversi della
Didachè. Ma si vedano anche le equilibrate considerazioni
riassuntive di Mattioli, immuni dal prurito di risolvere l’enigma
Didachè e interessate invece a coglierne il valore sostanziale (U.
Mattioli, Didachè. Dottrina dei dodici apostoli, Roma 1984,
96-102). Va da sé che il presente lavoro non intende soppiantare quello,
testé citato, pubblicato da Mattioli nella precedente serie della
collana patristica di questa Editrice, lavoro che rimane un apprezzato e
autonomo contributo alla ricerca sulla Didachè.
[26] Cfr. J.H. Walker, A pre-Marcan Dating for the Didache: Further
Thoughts of a Liturgist, in E. A. Livingstone (ed.), Papers on
the Gospels: Sixth International Congress on Biblical Studies,
Oxford 1980,403-411.
[27]
Cfr. B. Salvarani, L'eucaristia di "Didachè" IX-X
alla luce della teologia giovannea: un'ipotesi, in Rivista
biblica 34 (1986) 369-390.
[28]
Cfr. Mazza, qui sopra menzionato (nota 23).
[29]
Cioè di quella che viene chiamata fonte Q, che sarebbe
stata utilizzata da Matteo e Luca. Per Draper quella della Didachè
è una «comunità Q», dello stesso ambiente in cui, parallelamente, si è
formato il Vangelo di Matteo.
Cfr. J.A. Draper, Torah and Troublesome Apostles in the Didache
Community, in Novum Testamentum 33 (1991) 347-372. Vi
torneremo.
[30]
Cfr A. Tuilier, La "Didachè" et le problème synoptique in The
"Didache" in Context, 110-130.
Per Tuilier il vangelo utilizzato dalla Didachè è la stessa Q,
che non sarebbe altro che la traduzione greca dell'originario Matteo
aramaico.
[31]
Rordorf-Tuilier 21, nota 2.
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5 maggio 2019 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net