I CANONICI REGOLARI
San Crodegango e la sua regola
Estratto da “L’Europa di Cluny”, di
Ivan Gobry, Città Nuova 1999
Vi è una distinzione
tra canonici secolari, il cui Capitolo, nominato dal vescovo, ha la funzione
essenziale di cantare l’ufficio divino nel coro della cattedrale, e canonici
regolari, religiosi sottomessi a una regola e che dividono il loro tempo tra la
vita contemplativa e il ministero parrocchiale. Questa distinzione si affermò
con lentezza e non si definì che nell’XI secolo.
Del pari, la
distinzione canonica tra monaci, votati alla vita contemplativa e obbedienti a
una vocazione laicale, e canonici, votati ad una vita mista e obbedienti ad una
funzione clericale, non era ben definita tra l’VIII e il X secolo. Molti monaci
si dedicavano al ministero pastorale e molte comunità di canonici conducevano
una vita di tipo monastico. Le loro sedi si chiamavano del resto monasteri, e i
loro superiori portavano il nome di abati o priori.
Il primo ad istituire
una regola per i canonici fu un franco, san Crodegango. Nato nel 712 nel
Brabante, era di famiglia nobile; studiò prima alla scuola abbaziale di
Saint-Trond, dove acquisì una scienza profana ed ecclesiastica che lo fece
presto emergere. Non aveva che venticinque anni quando Carlo Martello lo nominò
suo cancelliere, e poco dopo suo primo ministro. Vivendo alla corte come un
asceta, assiduo alle funzioni liturgiche, benefattore dei poveri, decise di
entrare nel clero. Il re Pipino lo nominò nel 742 vescovo di Metz
[1]:
aveva trent’anni. Egli conservò del resto la sua funzione politica che adempì
con la stessa perfezione della sua funzione episcopale.
Nel 748 Crodegango
fondò, sulle rovine dell’antico monastero di Saint-Pierre, la celebre abbazia di
Saint-Pierre et Saint-Étienne di Gorze, dove introdusse la liturgia romana e il
canto gregoriano. Estese poi la disciplina romana all’insieme della sua diocesi,
e creò nella sua città episcopale una scuola di musica sacra divenuta in breve
tempo così famosa che Roma stessa gli chiese dei cantori. Nel 753 Pipino lo
mandò come ambasciatore presso papa Stefano. Egli convinse il pontefice a
lasciare Roma per sottrarsi alla persecuzione di Astolfo, re dei longobardi: lo
condusse prima all’abbazia di Saint-Maurice nel Vallese, poi presso Pipino, che
lo ospitò a Saint-Denis. Il papa conferì a Crodegango i titoli di arcivescovo
delle Gallie e di legato pontificio per il regno dei franchi, ed egli partecipò
nel 754 al famoso concilio di Quierzy-sur-Oise, dove si decise la guerra contro
il re longobardo e la donazione dei territori che sarebbero diventati lo “Stato
Pontificio”[2].
Fu nel corso di quello stesso concilio che il papa chiese al re dei franchi, che
aderì di tutto cuore, di adottare per tutta l’estensione del suo regno la
liturgia romana, con l’esclusione della liturgia gallicana. I vescovi e i leudi
[3]
ratificarono questa convenzione.
Prima di decidere
definitivamente la sua spedizione in Italia, Pipino prese la precauzione
d’interpellare ancora una volta Astolfo sulle sue intenzioni. Gli inviò
un’ambasceria con a capo Crodegango che era anche latore di un messaggio del
papa; ma questo passo non ebbe successo. Negli anni che seguirono, san
Crodegango presiedette tre concili: Verneuil (755), Compiègne (757), Attigny
(765). Morì il 6 marzo 766 e fu inumato nel monastero di Gorze.
La principale opera a
cui resta legato il nome di san Crodegango è la regola dei canonici. Volendo
portare la riforma nel clero della sua città episcopale, ci tenne a cominciare
dal suo Capitolo cattedrale, e lo sottopose alla vita comune. Fece quindi
costruire presso la chiesa cattedrale un edificio abbellito da un chiostro e
scrisse una regola divisa in trentaquattro articoli
[4].
L’insieme dei testi attesta che quel Capitolo conduceva una vita sia clericale
che monastica.
Il progetto stesso è
nettamente clericale. Crodegango lo spiega nel preambolo: se il vescovo e il suo
clero, dice, vivessero nell’osservanza dei canoni del concilio di Nicea, non vi
sarebbe bisogno di nessuna regola nuova; ma poiché il clero di Metz e della sua
diocesi è caduto nel rilassamento, è necessario che sia sottomesso a nuovi
canoni. E incomincia col dar loro consegne concernenti tutti i pastori di anime:
essere assidui all’ufficio divino, ma anche obbedire al vescovo; evitare
processi e liti; non dare scandalo; prendersi cura dei fedeli loro affidati.
Tuttavia, l’insieme
degli articoli assume poi un aspetto nettamente monastico. Il primo raccomanda
la pratica di tutte le virtù, di cui la prima è l’umiltà. Il secondo è ispirato
alla regola di san Benedetto: i chierici avranno un rango, che viene definito in
base alla loro anzianità di ordinazione; i più giovani dovranno inchinarsi
davanti ai più anziani, alzarsi quando passano e, se necessario, cedere loro il
posto; egli aggiunge che essi, quando si rivolgono la parola, devono far sempre
precedere al nome dell’interlocutore il suo titolo.
Il terzo articolo
tratta della clausura: i chierici dormiranno nello stesso edificio, ognuno nella
propria cella; nessuna donna vi avrà accesso e nemmeno alcun laico, salvo che
questi ne riceva il permesso esplicito dal vescovo o dall’arcivescovo; tutti
prenderanno i pasti in comune nello stesso refettorio. Il quarto articolo regola
il sonno e il silenzio notturno: dopo aver cantato compieta, essi torneranno
alla loro cella osservando il silenzio fino a prima, quando si leggeranno le
istruzioni del vescovo e si riceveranno gli ordini e le reprimende. L’articolo
nove, completamente monastico, impone il lavoro manuale, tanto in comune che
individuale; il decimo parla dei viaggi, durante i quali nessun chierico deve
abbandonare gli obblighi inerenti al proprio stato; l’undicesimo li incita ad
agire per la gloria di Dio, il dodicesimo all’indulgenza verso i confratelli, il
tredicesimo proibisce loro di immischiarsi nelle liti.
L’articolo quattordici
affronta l’argomento dei sacramenti.
I chierici si
confessano due volte all’anno, al vescovo o al suo delegato; quelli che saranno
in stato di grazia riceveranno ogni domenica il Corpo e il Sangue di Cristo;
prescrizione che dimostra come la maggior parte di quei chierici non fossero
sacerdoti; o forse quelli che lo erano non celebravano abitualmente il Santo
Sacrificio.
L’articolo quindici
riguarda le pene. I chierici criminali, che abbiano commesso omicidio,
fornicazione, adulterio, furto, riceveranno prima una punizione corporale; poi
saranno mandati in esilio o in prigione, per il tempo che piacerà al vescovo.
Quando questi li avrà richiamati, saranno ammessi alla pubblica penitenza:
resteranno prosternati davanti alla porta della chiesa, diranno l’ufficio in
piedi davanti a quella porta intanto che i confratelli lo cantano nell’interno e
ciò fino a che il vescovo finalmente li riconcilii. Vi è, in questa
prescrizione, un ritorno alle pratiche della Chiesa antica. L’articolo sedici
scomunica chi abbia avuto relazione con uno scomunicato. Il diciassettesimo
legifera sulle mancanze veniali: orgoglio, arroganza, disobbedienza, maldicenza,
infrazioni alla regola; il colpevole è prima ammonito davanti a uno o due
testimoni; se recidivo, viene rimproverato pubblicamente; se si ostina, viene
scomunicato. Gli articoli diciotto e diciannove contemplano le colpe minori.
L’articolo venti è
dedicato al modo di vivere. I chierici hanno l’obbligo di prendere i pasti nel
refettorio comune; questi pasti, durante i quali si fa una lettura, sono
rigorosamente regolati nel corso dell’anno: da Pasqua a Pentecoste, due pasti al
giorno con carne, salvo il venerdì; dalla Pentecoste a san Giovanni Battista,
anche due pasti ma con carne soltanto al secondo; da san Giovanni a san Martino,
sempre due pasti, ma astinenza il mercoledì e il venerdì; da san Martino a
Natale, un solo pasto il lunedì, il mercoledì e il venerdì, con astinenza in
questi due ultimi giorni. Per ragioni di salute, il vescovo può accordare delle
dispense. Gli articoli seguenti sono di complemento a questi: il ventunesimo
regola l’ordinamento della tavola, il ventiduesimo e il ventitreesimo la natura
delle vivande e delle bevande; il ventiquattresimo obbliga tutti i chierici al
servizio di cucina, salvo l’arcidiacono e il primicerio
[5].
Gli articoli dal
venticinque al ventisette tracciano i doveri di coloro che sono investiti di
alcuni compiti: arcidiacono, primicerio, cellerario, portinaio; il seguente
tratta degli infermi e dei malati; il ventinovesimo dell’abbigliamento e del
riscaldamento, il trentesimo e il trentatreesimo delle feste liturgiche.
Gli articoli trentuno e
trentadue affrontano la questione della proprietà che, più di ogni altra,
differenzia il secolare dal monaco. Ora, essi tengono i chierici in uno stato
intermedio; da un lato infatti si ingiunge loro di non conservare nulla in
proprio e di far dono dei loro beni alla Chiesa, dall’altro è permesso loro di
conservare l’usufrutto di quei beni, in particolare per spenderlo in elemosine,
e di disporre del proprio mobilio. Ma le elemosine stesse sono regolamentate, ed
è raccomandato di evitare di farne beneficiare altri ecclesiastici, salvo che
per onorari di messe.
L’ultimo articolo si
rivolge al clero delle altre chiese; gli si impone di venire due volte al mese
ai capitoli della cattedrale, per ricevervi le istruzioni del vescovo.
Il concilio di
Aix-la-Chapelle, convocato da Ludovico il Pio nell’816, e che, come abbiamo
visto, codificò la vita monastica sotto l’influenza di san Benedetto d’Aniane,
si occupò anche di legiferare sulla vita ecclesiale. Fu promulgato un testo
intitolato
Canones
o
Instituta Patrum, un insieme di testi patristici e conciliari
concernenti la vita del clero. Vi si trovano riferimenti a san Girolamo e a
sant’Agostino, san Gregorio Magno e sant’Isidoro di Siviglia, ma anche degli
estratti dalla regola di san Crodegango. Rileviamo in essa per la prima volta
una distinzione tra monaci e canonici: questi sono certamente tenuti alla
perfezione evangelica, ma autorizzati a mangiare carne, a usare indumenti di
lino, a possedere dei beni in proprio e delle rendite ecclesiastiche.
Questa legislazione,
male applicata a causa delle agitazioni politiche che scossero la pace della
Chiesa, trovò tuttavia numerosi luoghi dove fu adottata. Il Dereine
[6]
nomina le città episcopali di Lione, Limoges (817), Tournai (818), Auxerre
(819), Paderborn (822), Langres (834), Le Mans (835); poi Nevers, Arezzo, Autun,
Spira, Rouen, Verdun, Macon, Narbona, Digione, Losanna, Asti, Bergamo. Come si
vede dal fatto che nomina Digione, non furono soltanto i Capitoli delle
cattedrali a dotarsi di una regola relativa alla vita dei canonici, ma anche
quelli delle collegiate sorte un po’ dappertutto. Si devono aggiungere alcuni
casi importanti come Saint-Pierre d’Iseure (Isodrum),
presso Moulins, dall’814, fondato dal conte Ildebrando; Saint-Loup di Troyes
(verso l’841), divenuto Notre-Dame, riedificato sul sepolcro del grande vescovo
san Lupo, che aveva allontanato Attila dalla città episcopale, dotato in seguito
da Carlo il Calvo e bruciato dai normanni nell’889; Saint-Laurent di Chalon
(873), che era stato fondato nel VII secolo dal beato Grato, vescovo di Chalon.
Questo rinnovamento di
fervore farà sì che presto, in numerosi monasteri benedettini, la comunità
rilassata sarà rimpiazzata da una comunità fervente di canonici; o ancora, le
rovine lasciate dalle invasioni normanne o ungare daranno posto ad un sangue
nuovo, quello dei canonici regolari. La differenza fondamentale che esisterà
allora per quei numerosi monasteri sarà l’autorità del vescovo; le abbazie
esenti, che facevano riferimento solo all’autorità di Roma, non potevano, nei
momenti di decadenza, riceverne biasimo o aiuto per un rinnovamento; al
contrario, i canonici regolari, dipendenti solo dall’autorità episcopale,
trovarono nel fervore riformatore di santi vescovi, numerosi a quell’epoca, un
fecondo dinamismo.
La regola di Aquisgrana
fu applicata per più di due secoli, in modo peraltro ineguale e talvolta
fantasioso. È vero che essa era, in certi settori, più flessibile di quella di
san Crodegango; è il caso, in particolare, della proprietà individuale: il
canonico ha il diritto all’uso di una casa personale, purché sia nei confini
della città episcopale; può persino lasciarla in testamento. Può anche (ed è
questo il momento in cui appare il termine) godere di una prebenda, che è prima
un reddito individuale preso dalla mensa capitolare comune, poi una pensione
erogata su misura; da quel momento, i canonici laici aspireranno avidamente ai
posti in seno al Capitolo, e la vocazione di canonico perderà la sua purezza.
Il numero dei canonici
era, in ogni Capitolo, proporzionale sia alla popolazione della città episcopale
sia alla ricchezza della diocesi. Nel nord della Francia e nell’ovest della
Germania (quella regione tra il Reno e la Senna che aveva la massima importanza
nell’impero di Clodoveo e di Carlomagno), i capitoli contavano fino a cento
membri; al contrario, nelle piccole cattedrali del mezzogiorno e dell’Italia,
non superavano la ventina.
L’istituzione dei
Capitoli canonicali (retti cioè da una
regola)
fu all’origine di un ritorno all’insegnamento. Al principio il livello
intellettuale fu modesto, ma l’afflusso di alunni e l’onore della scuola locale
incitò i canonici ad associarsi colleghi sempre più dotti. Fu l’inizio della
gloria, specie delle scuole di Reims, Colonia, Liegi, Chartres, Laon, Parigi. Vi
si svilupperà anche, nello spirito di san Crodegango, il gusto della musica e
del canto liturgico. I Capitoli nati dalle riforme di Metz e di Aquisgrana
furono un vivaio di chierici che si distinsero, vescovi, fondatori di abbazie,
cardinali e persino papi.
[1] Stranamente, Hermant, nella sua Histoire dei Ordres religieux
(Rouen 1727), I, 206, fa consacrare Crodegango nel 743 da papa Stefano
II; ora, a quella data, il papa era ancora san Zaccaria: Stefano fu
eletto nel 752.
[2] Questo trattato stipulato a Quierzy-sur-Oise tra Pipino e
Stefano II è stato negato da molti storici ed è ancora assente nella
maggior parte dei dizionari. Il testo autentico è stato scoperto
dall’eminente paleografo italiano Carlo Troya (m. 1852) e pubblicato nel
Codex diplomaticus Longobardus.
[3]
Nota del curatore del sito: Leudo. Nell’età merovingica, chi era sotto
la protezione del re o del signore. Era detto anche vasso. (Fonte
Enciclopedia Treccani)
[4] Hermant, Histoire des
Ordres religieux, Rouen 1727,1, 207-216; Schmitz (W),
Sancti Chrodegangi Mettensis episcopi regula canonicorum, Hannover
1889.
[5] Questo titolo corrisponde a quello dell’attuale decano del
Capitolo.
[6]
Dictionnaire d'histoire et de
géographie ecclésiastiques, DHGE, XII, 366ss.
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16 luglio 2020 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net