SAN COLOMBANO
Regola
Per i monaci
Testo estratto dal libro “San Colombano – LE OPERE” – Ed. Jaca Book
(La divisione del testo in 10 capitoli proviene dai manoscitti di Bobbio, conservati presso la Biblioteca Nazionale di Torino, mentre i manoscritti conservati a San Gallo hanno una suddivisione in 14 capitoli, indicati tra parentesi
)
Incominciano i capitoli della regola.
I. L’obbedienza
II. Il silenzio
III. Il cibo e la bevanda
IV. La povertà e il dovere di vincere la cupidigia
V. Il dovere di vincere la vanità
VI. La castità
VII. L'ufficio divino
VIII. Il discernimento
IX. La mortificazione
X. La perfezione del monaco
Incomincia la regola dei monaci dell’abate san Colombano.
Innanzitutto ci viene insegnato ad amare Dio con tutta il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze, e il prossimo come noi stessi Seguono le opere.
I. L’OBBEDIENZA
Alla prima parola del superiore tutti coloro che ascoltano si alzino per obbedire: infatti l’obbedienza è offerta a Dio, dal momento che Gesù Cristo nostro Signore dice: Chi ascolta voi ascolta me. (II) Se dunque qualcuno udendo la parola non si alza all’istante, è da giudicare disobbediente. Chi poi contraddice incorre nella colpa dell’orgogliosa insubordinazione, e perciò non solo è reo di disobbedienza, ma aprendo ad altri la porta della contestazione, dev’essere ritenuto causa di rovina per molti. (III) È poi da considerare disobbediente anche chi mormora, poiché non osserva di buon animo l’obbedienza. Pertanto si rifiuti la sua prestazione, finché non si costati la sua buona volontà. Qual è il limite fino al quale deve spingersi l’obbedienza? Essa è comandata, non v’è dubbio, fino alla morte. Cristo, infatti, per noi obbedì al Padre fino alla morte, come egli stesso ci lascia intendere per bocca dell'Apostolo: Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio,· ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Pertanto gli obbedienti, veri discepoli di Cristo, nulla devono ricusare, per quanto sia duro e arduo, ma devono accogliere ogni ordine con fervore e gioia. Se l’obbedienza non sarà tale, non sarà gradita a Dio, il quale dice: Chi non porta la propria croce, e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo, mentre del vero discepolo afferma: Dove sono io, la sarà anche il mio servo.
II. IL SILENZIO (IV)
Si stabilisce che la regola del silenzio debba essere osservata con grande diligenza, poiché è scritto: Frutto della giustizia sono il silenzio e la pace. Per non cadere quindi nella colpa della loquacità occorre tacere, a meno che si tratti di vere necessità; infatti, secondo la Scrittura, nel molto parlare non manca la colpa.
Perciò il Salvatore dice: In base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato. A ragione saranno condannati coloro che, potendolo, non vollero dire cose giuste, ma preferirono parlare, con garrula loquacità, di cose cattive, sconvenienti, empie, vane, ingiuriose, malsicure, false, polemiche, offensive, turpi, inventate, blasfeme, aspre e piene di raggiri, Di queste e simili cose si deve dunque tacere, e parlarne con cautela e con riflessione, onde evitare che le denigrazioni o le superbe contestazioni degenerino in una loquacità deplorevole.
III. IL CIBO E LA BEVANDA (V)
Il cibo sia parco; lo si consumi alla sera, rifuggendo la sazietà e, nel bere, l’ubriachezza: esso sostenti senza nuocere. Sia costituito da ortaggi, legumi, farina impastata con acqua, assieme a una piccola pagnotta, perché non sia aggravato il ventre né appesantita la mente. Coloro che desiderano i premi eterni devono curarsi soltanto di ciò che è veramente utile e vantaggioso; pertanto ci si deve moderare sia nelle necessità materiali che nella fatica. Questo infatti è il vero discernimento: conservare integra la possibilità del progresso spirituale macerando la carne con l’astinenza; ma se l'astinenza oltrepasserà la misura, sarà non una virtù bensì un vizio: la virtù infatti custodisce e comprende molti beni. Si deve perciò digiunare tutti i giorni, così come tutti i giorni ci si deve ristorare; e mentre ogni giorno ci si deve nutrire, si deve gratificare il corpo poveramente e parcamente; infatti si deve mangiare ogni giorno, dato che ogni giorno si deve progredire, pregare, lavorare e leggere.
IV. LA POVERTÀ E IL DOVERE DI VINCERE LA CUPIDIGIA (VI)
I monaci, per i quali, a causa di Cristo, il mondo è crocifisso ed essi al mondo, devono guardarsi dalla cupidigia: è ovvio infatti che sia riprovevole per loro, non solo avere il superfluo, ma anche desiderarlo; a loro non si chiedono i beni, ma la volontà. Avendo lasciato tutto, per seguire Cristo Signore portando ogni giorno la croce del timore, essi hanno i loro tesori la cielo. Poiché dunque sono destinati ad avere molto in cielo, sulla terra devono accontentarsi del poco strettamente necessario, sapendo che la cupidigia è una lebbra per i monaci che imitano i figli dei profeti, per il discepolo di Cristo è tradimento e causa di perdizione, e, per i tentennanti seguaci degli apostoli, è persino morte, Perciò la spogliazione e il disprezzo delle ricchezze è la prima perfezione dei monaci; la seconda è la purificazione dai vizi; la terza - la perfezione delle perfezioni - è il continuo attaccamento a Dio e l’amore incessante per le realtà divine, che segue alla dimenticanza delle realtà terrene.
Stando così le cose, abbiamo bisogno di poco, secondo la parola del Signore, anzi di una cosa sola. Poche infatti sono le cose veramente necessarie, delle quali non si può fare a meno; si potrebbe perfino dire che sia una sola, cioè il cibo nel senso letterale della parola, Abbiamo invece bisogno della purezza del cuore, dono della grazia di Dio, al fine di poter spiritualmente capire in che cosa consistano quei pochi doveri di carità, che sono stati indicati a Marta dal Signore.
V. IL DOVERE DI VINCERE LA VANITÀ (VII)
Quanto sia pericolosa la vanità ci è dimostrato dalle brevi parole del Salvatore, il quale ai suoi discepoli esultanti per cose vane disse: Io vedevo Satana cadere dal cielo come la folgore. E ai Giudei che cercavano di giustificarsi, una volta disse: Ciò che è esaltato tra gli uomini è detestabile davanti a Dio. Da tali esempi, e da quello del tristemente celebre fariseo che si dichiarava giusto, si può concludere che la vanità e l’orgogliosa esaltazione di sé distruggono ogni cosa buona.
Infatti i meriti del fariseo, superbamente vantati, andarono perduti, mentre i peccati del pubblicano, accusati, furono perdonati. Non escano dunque dalla bocca del monaco parole smisurate, perché non vada in fumo la sua smisurata fatica.
VI. LA CASTITÀ (VIII)
La castità del monaco si giudica dai suoi pensieri; a lui invero il Signore dice, come ai discepoli che lo accostavano per ascoltarlo: Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel tuo cuore. Si deve temere che, Colui al quale il monaco è consacrato, mentre ne scruta il volto, trovi nel suo cuore qualcosa di abominevole, per paura che, secondo le parole di san Pietro, abbiano forse gli occhi pieni di disonesti desideri. A che giova la verginità del corpo, se manca quella del cuore? Dio infatti è spirito e dimora nello spirito e nel cuore che vede incontaminati, in cui non ci sono pensieri lussuriosi, non macchia alcuna di impurità, non sozzura di peccato.
VII. L'UFFICIO DIVINO
Quanto alla sinassi, cioè alla distribuzione dei salmi e delle preghiere secondo la misura canonica, vanno fatte alcune distinzioni, perché in proposito ci sono tradizioni diverse. Bisogna quindi che anch’io ne scriva facendo le debite differenze in base al tipo di vita e al succedersi delle stagioni. L’ufficio non deve infatti essere sempre di uguale lunghezza, dato l’alternarsi delle stagioni: è bene che sia più lungo nelle notti lunghe, più breve in quelle brevi. Pertanto, come facevano anche i nostri anziani, dal 24 giugno, quando la durata della notte incomincia ad allungarsi, anche l'ufficio inizia a diventare gradatamente più lungo; si parte da dodici ‘cori', il minimo fissato per la notte del sabato e per quella della domenica, e si va via via aumentandone il numero fino all'inizio dell’inverno, cioè il 1° novembre: allora si cantano venticinque salmi antifonali, ognuno dei quali è sempre collocato al terzo posto, e quindi preceduto da due salmi cantati, così che nelle due notti suddette si cantano tutti i salmi del salterio, mentre nelle altre notti, per l’intera durata dell’inverno, si conserva la misura di dodici ‘cori’.
Al termine dell’inverno, nel corso della primavera, gradualmente, settimana per settimana, si tolgono tre salmi, sicché solo dodici salmi antifonali rimangono per le notti ‘sante’, corrispondenti ai trentasei salmi dell’ufficio quotidiano invernale; ventiquattro invece per tutta la primavera e l’estate fino all'equinozio autunnale, cioè il 24 settembre, quando la sinassi viene celebrata come all’equinozio di primavera, cioè il 25 marzo, dato che l'ufficio a poco a poco cresce e decresce alternativamente.
La veglia deve quindi essere proporzionata alle nostre forze, soprattutto perche il nostro Salvatore ci comanda di vegliare e pregare in ogni tempo, e Paolo ci ammonisce di pregare incessantemente. Ma siccome si deve osservare la misura delle preghiere canoniche — per le quali ci si riunisce tutti insieme a pregare in ore determinate, dopo di che ognuno deve pregare nella propria cella — i nostri anziani hanno assegnato tre salmi a ciascuna delle ore diurne, alternate con il lavoro; ai salmi hanno aggiunto le invocazioni in cui si intercede innanzitutto per i nostri peccati, poi per tutto il popolo cristiano, successivamente per i sacerdoti e per gli altri membri del popolo santo consacrati a Dio, quindi per chi fa l’elemosina e per la pace tra i re, e da ultimo per i nemici, affinché Dio non imputi loro come peccato il fatto che ci perseguitano e ci calunniano, perché non sanno quello che fanno. All’inizio della notte si cantano dodici salmi e altrettanti a mezzanotte; per mattutino ne sono prescritti due volte dieci e due volte due per i periodi in cui, come si è detto, le notti sono brevi; un numero maggiore, come già detto, viene sempre assegnato alle veglie delle notti del sabato e della domenica, nelle quali in un solo ufficio si arrivano a cantare di seguito settantacinque salmi.
Tutto ciò vale per la sinassi comune. Ma la vera tradizione della preghiera, come ho precisato, varia in rapporto a quanto si può fare senza stancarsi dal voto pronunciato al riguardo: in rapporto all’eccellenza della capacità di ciascuno, oppure secondo le disposizioni spirituali, tenuto conto delle necessità, o di quanto il tipo di vita rende possibile. Si deve dare anche spazio al fervore di ciascuno, se è libero e solo; prendere in considerazione ciò che richiede il suo livello d’istruzione, e quanto a ciascuno permette il tempo libero concessogli dalla sua condizione, l’ardore del suo zelo, la natura del suo lavoro, e anche i vari gradi di età.
Pertanto diversa deve essere la valutazione della perfezione nel raggiungimento dell’unico ideale della preghiera, dal momento che essa deve alternarsi con il lavoro e non può prescindere dalle circostanze. In tal modo, sebbene sia varia la durata dello stare in piedi o del cantare, si cercherà di realizzare sempre con
uguale perfezione la preghiera del cuore e la costante attenzione dell'anima a Dio. Vi sono del resto alcuni cristiani che mantengono il numero canonico di dodici salmi, tanto nelle notti brevi quanto nelle notti lunghe; però osservano questa misura in quattro tempi nel corso della notte, cioè all’inizio e a metà della notte, al canto del gallo, e all’aurora. Questo ufficio, come sembra breve a certuni in inverno, così lo si trova alquanto pesante e faticoso d’estate, quando le frequenti levate nelle notti brevi causano, più che stanchezza, una schiacciante fatica. Ma nelle santissime notti della domenica e del sabato, a mattutino si ripete per tre volte lo stesso numero di salmi, cioè trentasei. La moltitudine di coloro che seguono questa norma e la santità della loro vita fecero preferire a molti tale numero canonico, nel quale trovano soave gaudio, così come anche il resto della loro osservanza: tra di loro non si trova invero alcuno estenuato dalla regola. E sebbene siano così numerosi che, si dice, mille padri vivono sotto un solo archimandrita, si tramanda che, dalla fondazione del cenobio, non si vide mai alcuno screzio tra due monaci. E ciò non potrebbe certamente avvenire se Dio non vi dimorasse, il quale dice: Abiterò in mezzo u loro e con loro camminerò, e sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Ben a ragione, dunque, crebbero e ogni giorno, grazie a Dio, crescono coloro in mezzo ai quali Dio abita; per i loro meriti sia concesso anche a noi di essere salvati dal Signore, nostro salvatore. Amen.
VIII. IL DISCERNIMENTO (IX)
Quanto sia necessario ai monaci il discernimento lo si comprende dall’errore di molti e lo dimostra la rovina di alcuni. Hanno incominciato senza discerni mento e, vivendo senza sani criteri di moderazione, non riuscirono a condurre a termine un’esistenza degna di lode. Infatti, come l'errore incombe su coloro che camminano senza seguire una strada, così coloro che vivono senza discernimento inevitabilmente cadono nell’eccesso, il quale è sempre il contrario delle virtù che stanno in mezzo tra due eccessi opposti. Il rischio di oltrepassare la misura è reale, dal momento che, lungo il sentiero diritto della moderazione, i nemici pongono intoppi che inducono al male e pietre d`inciampo che fanno cadere in errori d’ogni sorta. Si deve perciò pregare incessantemente Dio implorando che doni la luce del vero discernimento per illuminare questo cammino circondato da ogni parte dalle densissime tenebre del mondo, affinché i suoi veri adoratori possano, attraversando tali tenebre, arrivare a Lui senza cadere in errore. La discrezione trae il suo nome da discernere, per il fatto che essa discerne, in noi, tra il bene e il male, ed anche tra mezzi e fine. Entrambi, cioè il bene e il male, sono dall’inizio separati come la luce e le tenebre, dopo che, ad opera del diavolo, incominciò il male a esistere per il corrompersi del bene, ma con Dio che prima illumina e poi separa. Così il pio Abele scelse il bene e l’empio Caino cadde nel male. (XI) Tutto quello che Dio creò era buono; il male fu seminato in seguito dal diavolo con perfida astuzia e con la subdola persuasione della sua pericolosa ambizione.
Quali sono dunque questi beni? Evidentemente quelli rimasti integri e intatti cosi come sono stati creati, quelli che Dio solo creò e che, secondo l’Apostolo, predispose perché noi camminassimo in essi; sono le opere buone nelle quali siamo stati creati in Cristo Gesù; vale a dire la bontà, l'integrità, la pietà, la giustizia, la verità, la misericordia, la carità, la pace che dona salvezza, la gioia spirituale con il frutto dello Spirito, Tutte queste cose, con i loro frutti, sono buone. Quelle ad esse contrarie sono cattive: cioè la malizia, la corruzione, l’empietà, l’ingiustizia, la menzogna, l’avarizia, l’odio, la discordia, l’amarezza con i molteplici frutti che ne derivano. innumerevoli sono gli effetti prodotti dai due contrari, il bene e il male. Il primo male, quello che si allontana dalla bontà e integrità originarie, è l’orgoglio della prima caduta; ad esso si oppone l’umile stima di una pia bontà che riconosce e glorifica il suo Creatore: questo è il primo bene di una creatura fornita di ragione. Tutto il resto si è poi sviluppato gradatamente nelle due direzioni in una sterminata selva di nomi. Stando così le cose, con ferma determinazione si devono custodire i beni, con l'aiuto di Dio, che dev'essere implorato sempre, tanto nei momenti favorevoli quanto in quelli sfavorevoli, perché non ci si inebri di vanità nel primo caso e non si cada nella disperazione nel secondo.
Pertanto si deve sempre stare in guardia da entrambi i pericoli, cioè da ogni eccesso, mediante una magnifica temperanza e un autentico discernimento, che è molto affine all'umiltà cristiana e apre la via della perfezione ai veri soldati di Cristo. Evidentemente si deve sempre discernere rettamente nei casi dubbi e in ogni circostanza distinguere equamente il bene dal male, tanto tra l’uno e l`altro se sono esterni a noi, quanto se sono in noi, tra corpo e anima, atti e abitudini, operosità e quiete, vita pubblica e vita privata. I mali da evitare sono, similmente, superbia, invidia, menzogna, corruzione, empietà, malvagia trasgressione della moralità, golosità, fornicazione, cupidigia, ira, tristezza, instabilità, vanagloria, orgoglio, maldicenza. I beni delle virtù da ricercare sono, altresì, umiltà, benevolenza, purezza, obbedienza, astinenza, castità, magnanimità, pazienza, gioia, stabilità, fervore, solerzia, vigilanza, silenzio. Tutto ciò, tramite la fortezza che rende capaci di sopportare e la temperanza che rende capaci di moderazione, è, per così dire, da mettere sui piatti della bilancia del discernimento per pesarvi le nostre azioni abituali, secondo la misura del nostro sforzo, nella continua ricerca di ciò che basta. Infatti, colui al quale ciò che è sufficiente non basta, ha senza dubbio oltrepassato la misura della discrezione, e tutto ciò che oltrepassa tale misura è chiaramente un vizio.
(XIII) Tra il poco e il troppo la giusta misura sta nel mezzo; essa sempre ci trattiene da ciò che eccede in un senso o nell’altro, in tutto procura sempre quanto è davvero necessario e tiene lontano dall'irragionevolezza di una volontà avida del superfluo. Questa misura della vera discrezione, che pesa con una bilancia precisa ogni nostro atto, non ci permetterà mai di deviare da ciò che è giusto, e, se la seguiamo sempre rettamente come guida, non ci lascerà cadere in errore. Si deve sempre stare in guardia dagli eccessi opposti, secondo quel detto: Non discostatevi né a destra né a sinistra; e si deve sempre procedere diritto seguendo la discrezione, cioè la luce che viene da Dio, dicendo molto spesso e cantando il versetto del salmista vittorioso: Dio mio, illumina le mie tenebre, poiché per te sarò liberato dalla tentazione. La vita sulla terra, in effetti è una tentazione.
IX. LA MORTIFICAZIONE (XIV)
La parte più importante della regola dei monaci è la mortificazione, che è loro comandata dalla Scrittura: Non far nulla senza consiglio. Se, dunque, non si deve fare nulla senza consiglio, in tutto lo si deve chiedere.,Anche Mosé raccomanda ciò: Interroga tuo padre e te lo farà sapere, i tuoi vecchi e te lo diranno.
Sebbene a chi è duro di cuore sembri gravosa questa disciplina, che cioè un uomo debba sempre dipendere dalla bocca di un altro, tuttavia da tutti coloro che temono Dio sarà trovata soave e sicura, se la si osserva totalmente e non in parte: nulla infatti è più dolce della sicurezza della coscienza e nulla è più sicuro di un animo senza rimorsi; il che nessuno può darsi da sé, perché appartiene propriamente al giudizio di altri. È infatti libero dal timore del giudizio ciò che già è stato vagliato da colui cui tocca giudicare: su costui grava il peso del fardello dell’altro ed è lui a portare interamente la responsabilità che si è assunta. È maggiore - come sta scritto - la responsabilità di chi giudica che quella di chi è giudicato. Pertanto, chiunque chiederà sempre consiglio, se lo osserverà, non sbaglierà mai. Se sarà sbagliato il consiglio, la fede di chi crede e la fatica di chi obbedisce non sbaglieranno e non rimarranno privi della ricompensa che è dovuta a chi chiede consiglio. Se invece colui che avrebbe dovuto chiedere consiglio vaglierà qualcosa da se stesso, si renderà per ciò stesso colpevole di errore, proprio per aver presunto di giudicare, mentre avrebbe dovuto sottoporsi al giudizio. E anche se avrà operato rettamente, la sua azione sarà ritenuta cattiva, essendosi così allontanato dalla via giusta. Infatti, colui il cui dovere è solo di obbedire, non osa giudicare nulla da sé.
Stando così le cose, i monaci devono sempre guardarsi dalla orgogliosa libertà e imparare invece la vera umiltà obbedendo senza esitazione né mormorazione. E così, secondo la parola del Signore, sentiranno il giogo di Cristo soave e il suo carico leggero; diversamente, finché non avranno imparato l’umiltà di Cristo, non sentiranno la soavità del suo giogo né la leggerezza del suo carico. L’umiltà del cuore, infatti, è riposo per l’anima affaticata dai vizi e dalle prove ed è per essa l`unico conforto fra tanti mali; e quanto più il monaco si lascia avvincere da tale considerazione, al sicuro da tante esteriorità vane e caduche, tanto più nell'intimo gusta il sollievo e la pace, sicché anche quelle cose che sono amare gli diventano soavi, e quello che prima era ritenuto duro e arduo, lo sente agevole e facile. Anche la mortificazione, intollerabile per i superbi e i duri di cuore, è una consolazione per colui al quale piace solo ciò che è umile e dolce. Si deve però sapere che nessuno potrà conoscere questa gioia del martirio, né compiere perfettamente qualcos'altro di utile, presentandosene l'occasione, se non si sarà esercitato in ciò con somma diligenza, così da non essere trovato impreparato. Se infatti, accanto a questo impegno, vorrà seguire e coltivare qualche mira personale, ben presto ne sarà assorbito e, divenuto totalmente inquieto, non potrà sempre eseguire, con animo ben disposto, l’ordine ricevuto, Non può attendere a ciò, come conviene, chi è agitato e irriconoscente. La mortificazione comprende tre punti: non avere divisione nel proprio cuore; non lasciare che la lingua dica ciò che le piace; non andare in nessun luogo senza permesso.
È proprio della mortificazione dire sempre all'anziano, anche se comanda qualcosa di sgradito: Non come voglio io, ma come vuoi tu, secondo l’esempio del nostro Signore e Salvatore che afferma: Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà del Padre, colui che mi ha mandato.
X. LA PERFEZIONE DEL MONACO
Il monaco, in monastero, viva sotto l'autorità di un solo padre e insieme con molti fratelli, affinché impari da uno l’umiltà, da un altro la pazienza; uno gli insegni il silenzio, l’altro la mitezza; non faccia ciò che vuole, mangi ciò che gli è prescritto, non possieda se non ciò che ha ricevuto, compia il lavoro che gli è assegnato, sia sottomesso a chi non vorrebbe; si corichi stanco, sonnecchi camminando e sia costretto ad alzarsi quando non ha ancora finito di dormire; se è stato offeso, taccia; tema chi è preposto al monastero come un signore, ma insieme lo ami come un padre, creda che, qualunque cosa gli comandi, è per lui salutare; non osi giudicare una decisione di un anziano, lui il cui dovere è di obbedire e di compiere ciò che è stato comandato, secondo le parole di Mosé: Ascolta, Israele, con quel che segue.
FINE DELLA REGOLA.
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21 giugno 2014 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net