Santo Stefano Harding
Thomas Merton
OCSO
[1]
Estratto dal sito
“https://www.vitanostra-nuovaciteaux.it”
Associazione Nuova Citeaux - 28 gennaio 2023
16 luglio
Santo Stefano Harding,
terzo Abate di Citeaux, fondatore dell’Ordine cistercense
Manrique, l’annalista dei cisterciensi delineò un’impegnativa analogia tra i
primi tre padri dell’Ordine e le tre persone della SS. Trinità (Manrique "Annales
Cistercienses" vol.
1, p. 6). San Roberto era la fonte e il padre dell’ideale cisterciense;
Sant’Alberico soffrì perché esso potesse vivere; Santo Stefano possedette
l’energia e la carità e, certo, il genio consumato necessario per mettere
questo ideale in pratica nella fondazione di uno dei grandi ordini
contemplativi nella chiesa. Quest’opera di diffusione era più che
corrispondente in una vaga analogia all’opera della Spirito Santo. Era la
reale opera dello Spirito di Dio in e attraverso Stefano. Non è certamente
un’invenzione dire che lo Spirito d’amore viveva e operava nell’anima di
questo grande santo con una speciale chiarezza e intensità. Abbiamo diversi
documenti di sua mano estremamente importanti che esprimono il suo genio,
ogni linea dei quali respira uno spirito di carità apostolica e
contemplativa che ricorda quella della chiesa primitiva con la sua
sottolineatura del concetto base dell’unità mistica in Cristo. Non che gli
scritti di Stefano siano quelli di un mistico speculativo come san Bernardo,
lungi da questo. Erano tutti pratici, ma infine l’amore è pratico, e il
misticismo non è nient’altro che amore. La spiritualità di santo Stefano
allora è il misticismo dell’amore in azione, amore che sacrifica se stesso
per gli altri (invece di parlare o magnificare poeticamente il sacrificio)
amore che opera per condurre gli altri in unità, e soprattutto amore che
rompe il silenzio solo per parlare di fatti, non per parlare di se stesso,
dell’Amore in astratto con la A maiuscola. Per questo S. Stefano quando
prende la penna in mano scrive della Regola e di come osservarla alla
lettera e nello spirito. Per lui amare Cristo significa fare la volontà di
Cristo, e la volontà di Cristo per dei benedettini contemplativi è la Regola
di san Benedetto. La volontà di Dio per S. Stefano e i suoi compagni del XII
secolo era il ristabilire una vita integralmente monastica nella chiesa per
mezzo di una stretta osservanza della Regola di san Benedetto. I Cistercensi
non erano soli. Lo Spirito di Dio era all’opera in quell’età con una
speciale intensità nell’XI e XII secolo, per accendere forti fiamme di amore
contemplativo e preghiera e penitenza. I Camaldolesi, i Vallombrosani, i
Certosini, gli ordini di GrandMont e le Congregazioni di Tiron e Savigny
stavano tutte per risorgere in quei giorni insieme ai cisterciensi. Tutti
loro avevano ideali di grande altezza e purezza; nessun o di loro avrebbe
raggiunto una simile ampiezza di diffusione, e nessuno avrebbe avuto
influenza su tante anime, e nessuno in verità avrebbe avuto un effetto così
potente sul corso della storia cristiana e anche politica, come i
cistercensi. Tutto questo era, naturalmente, ampiamente dovuto alla
magnetica influenza di san Bernardo di Clairvaux. Ma nella misura in cui san
Bernardo era un propagatore dell’ordine e un fondatore di monasteri
cistercensi, egli stava solo costruendo sulle solide fondamenta gettate dal
santo formato e addestrato per la vita cistercense: Stefano Harding, il
terzo abate di Citeaux.
Santo Stefano era, si dice, figlio di genitori nobili, nell’Inghilterra del
sud. Sia vero o no sappiamo che da fanciullio venne per esservi educato al
priorato di Scherborne in Dorset. Sembra sia nato circa dieci anni prima
della conquista normanna (cioè verso circa il 1056) e si dice che lasciò
l’Inghilterra dopo un’insurrezione contro i conquistatori. Passò in Scozia,
o forse in Irlanda, per continuare gli studi.
Fr Dalgairns nella sua
Vita
inglese del santo, deduce che santo Stefano fosse già disgustato dalla vita
benedettina come l’aveva vista a Scherborne e avesse abbandonato il pensiero
della sua vocazione. In ogni caso lo troviamo poi a frequentare la scuola di
Parigi e lì, secondo Guglielmo di Malmesbury, ricevette definitivamente una
chiamata a consacrarsi in qualche modo più vicino e più perfettamente a Dio
(G. di Malmesbury,
De Gestis Regum Anglorum,
PL 179, 1287)
“Divini amoris stimulos accepit)
(PL 185, 1257-70) (Ricevette lo sprone dell’amore divino).
La vocazione non era chiara o ben definita: era giusto un’urgenza, un dolore
interiore persistente, un tendere a qualcosa che non poteva del tutto
definire. Tutto sommato poteva essere sintetizzata come una forte
consapevolezza di non essere nel posto che Dio gli aveva destinato e
lasciando Parigi cominciò a visitare i santuari di vari santi nella terra di
Champagne e Burgundia, e là fece amicizia con un altro pio viaggiatore come
lui. I due decisero di andare insieme in pellegrinaggio a Roma. S. Stefano e
il suo amico Pietro, in seguito anche lui venerato come santo sotto il nome
di S. Pron (una corruzione di Pietro) intrapresero questo difficile viaggio
mantenendo il silenzio per tutto il tempo tranne che per la quotidiana
recitazione del salterio; non c’era alcuna difficoltà compresa nei loro
viaggi che potesse dissuaderli da questo. Il dettaglio sul loro assoluto
silenzio può forse essere stato un’esagerazione, ma il salterio quotidiano,
che è anche un poco straordinario in ogni caso, è attestato in documenti
primitivi, particolarmente nella contemporanea Vita di san Pron di un monaco
cistercense (PL 185, 1257-70)
Ritornando da Roma in Burgundia Stefano e Pron si fermarono al monastero
recentemente fondato di Molesmes, del quale abbiamo ragione di credere che
avessero sentito parlare prima, dal momento che il monastero divenne
rapidamente famoso in Burgundia. Comunque al loro scoperta di san Roberto e
della sua fervente comunità è a volte rappresentata come una completa
sorpresa e quasi un caso. Qualunque sia stata la realtà si unirono entrambi
alla comunità e trovarono in essa la pace che avevano così a lungo cercato —
almeno trovarono questa pace per un certo tempo. Manrique incidentalmente
relaziona senza alcun fondamento che l’amico di santo Stefano (non conosceva
il nome o la storia di san Pron) aveva provato a dissuaderlo dall’entrare
nel monastero e si era allontanato da lui quando egli aveva trascurato
questo consiglio (PL 185, 111261) Manrique ignorava completamente i fatti
narrati lella vita di san Pron scoperta a quel tempo.
È difficile dire a qual preciso stadio dello sviluppo di Molesme santo
Stefano si unì alla comunità. La
Vita
di san Pron ci dice che Pron passò parte del suo noviziato in un priorato
dipendente da Molesme. In questo caso Molesme era già molto avanti sulla via
della prosperità, al tempo in cui egli vi entrò. D’altra parte l’opinione
abituale è che santo Stefano divenne un membro della comunità nel momento
della purezza del suo primo fervore, cioè poco dopo l’allontanamento da
Colan che avvenne nel 1075.
Alla fine, naturalmente, il monastero si riempì di cavalieri convertiti,
uomini di pietà sincera, ma convenzionale, che non conoscevano altro che gli
usi di Cluny e non erano pronti ad accettare nient’altro che fosse in
conflitto con questi criteri familiari di Molesme, da una comunità fervente
di monaci ferventi e contemplativi caduti al livello di un monastero
cluniacense ordinario.
Guglielmo di Malmesmury, che è la migliore autorità contemporanea per
l’informazione su Stefano Harding, lo rappresenta come il primo ad aver
mosso la riforma a Molesme. Fu lui a iniziare e dominare le conversazioni in
cui la minoranza fervente in quella comunità si lamentava l’un con l’altro
che la Regola letta ogni giorno in capitolo non fosse osservata nella loro
vita quotidiana. Fu Stefano che, insieme ad Alberico, pose la questione
davanti a san Roberto.
S. Stefano, secondo Guglielmo di Malmesbury (PL 189, 1287) con modestia ma
fermamente avanzò una serie di argomenti che attaccavano la vera essenza
degli usi cluniacensi negando che essi fossero un’interpretazione valida del
pensiero di san Benedetto; e certamente tutti i documenti primitivi sono
concordi nell’affermare che i riformatori di Molesme consideravano che gli
Usi di Cluny avessero talmente distorto la lettera e lo spirito della regola
che
era impossibile seguirli e d essere un vero benedettino.
In altre parole, osservare gli Usi di Cluny significava violare almeno lo
Spirito della Regola di san Benedetto. Santo Stefano fu, naturalmente un
membro importante della delegazione che accompagnò san Roberto da Ugo il
legato della santa sede nel 1097, e ottenne l’approvazione ufficiale per
lasciare Molesme e iniziare una nuova fondazione, con la motivazione che era
impossibile iniziare a Molesme una riforma con successo.
L’arrivo dei monaci a Citeaux e la natura dei nuovi luoghi, nei boschi
acquitrinosi appartenenti al visconte di Baume sono stati sufficientemente
descritti nelle vite di s. Roberto e S. Alberico (29 aprile e 26 gennaio)
Stefano Harding fu fatto sottopriore della nuova comunità. Alberico era il
priore e il primo abate fu ovviamente san Roberto, il direttore la cui
reputazione e influenza li avevano dall’inizio attirati alla vita religiosa.
Dopo la partenza di san Roberto, costretto dall’obbedienza alla santa sede a
tornare a Molesme, che in sua assenza era caduto in uno stato di agitazione,
santo Stefano divenne priore sotto Alberico e abbiamo tutte le ragioni per
credere che fu durante il suo priorato che santo Stefano si occupò dei
problemi di liturgia e di Usi monastici che alla fine sistemò, una volta per
tutte nelle sue magistrali Consuetudini (PL 166).
Il fatto che il 1109, data della sua elezione come abate, come successore di
S, Alberico, sia anche la data della sua edizione della Bibbia, significa
che santo Stefano aveva passato molto del suo tempo come priore su questo
lavoro di revisione e correzione del testo della Scrittura. Per i dettagli
di questo lavoro indirizziamo il lettore al
Compendium della storia dell’ordine astercense
(n.59).
Vogliamo soltanto osservare che questo lavoro di revisione e correzione che
fu apprezzato come uno dei lavori più magistrali dagli studiosi biblici del
Medio Evo è una rivelazione interessante della spiritualità di santo
Stefano. Indica la sua preoccupazione che i suoi monaci studiassero e
conoscessero la S. Scrittura nel suo testo autentico e il più puro possibile
ed è la prova che santo Stefano era nemico dell’approssimazione e della
trascuratezza nelle cose spirituali. Anche se studi di questo genere erano
estranei all’ideale cistercense Santo Stefano non esitò a gettarsi in questo
lavoro eccessivamente intellettuale, quando si trattava della formazione
spirituale dei suoi monaci.
Lo zelo che spinse santo Stefano alla revisione del testo della Volgata non
è senza relazione con un’altra riforma per la quale egli è anche più famoso:
la sua estrema semplificazione della Liturgia e dell’architettura
ecclesiastica (A. Dimier,
S. Stefano Harding et ses idées sur l’art,
Coll 1927, 178-192) Ma anche qui si esprimeva lo stesso ardente desiderio di
solidità e verità nelle cose spirituali. E in primo luogo dobbiamo renderci
conto che tutte le riforme monastiche del tempo tendevano verso la stessa
direzione. Sano Stefano non era affatto solo nella sua rivoluzione
liturgica, ma di tutti i riformatori fu il più intransigente e il più
drasticamente completo.
Basteranno poche parole per dare un’idea dell’estensione della sua
rivoluzione. Dobbiamo solo dare un’occhiata alla basilica di Cluny, con i
suoi bassorilievi, le sue statue, le sue vetrate colorate, i mosaici, gli
intarsi; immensi candelieri d’oro e cristallo che pendono dal soffitto;
l’altare è coperto con splendidi panni e i vasi dell’altare sono di oro
puro, decorati con gioielli preziosi. Le vesti dei ministri sono splendenti,
con abiti d’oro o risplendenti di sete e velluto. Gioielli brillano sulla
mitra e sul pastorale. L’organo e altri strumenti musicali accompagnano il
coro, e i monaci alle grandi feste sono abbigliati splendidamente. Tutto
questo lusso rappresenta un’immensa spesa. Naturalmente i monaci credevano
che tutto fosse per la gloria di Dio. Ma tutte queste cose non è vero che
innalzano il cuore a Dio’ Anche se la risposta a una simile domanda era
necessariamente vera, c’era una considerazione d’importanza molto più
grande. Quanti uomini consacrati a Dio nutrivano il loro sguardo con questo
sfarzo mondano, con il pretesto che li aiutava a pregare, ed erano ciechi
davanti ai mendicanti stracciati e morti di fame alla porta della Basilica,
e ai servi in campagna, sudici e sottomessi, spezzati dalla povertà e dalla
servitù. Oh, è vero, Cluny fece molto per i poveri, ma per san Bernardo
finché c’era un solo uomo che soffriva la fame non c’erano scuse che
giustificassero il a gettar via monete in gioielli e in oro per gli altari
di Dio, perché simili doni non sarebbero mai piaciuti al Signore che venne
sulla terra e morì perché noi potessimo imparare la carità (Bernardo,
Apologia, 12).
Che contrasto con tutto questo era la chiesa cistercense. Le mura erano
spoglie di qualsiasi scultura, pittura e mosaico. Per due secoli i Capitolo
Generali avrebbero fulminato penitenze severe contro gli abati che si
fossero persuasi ad accettare doni di vetrate colorate nelle chiese
dell’ordine. Lungi dall’esser decorato con tappeto o arazzi, o anche con
fiori, il santuario era completamente spoglio. Certo, l’altare stesso, fuori
del tempo della Messa, si presentava con l’aspetto che oggi ha solo il
Venerdì santo. Era completamente spoglio. Non vi era sopra nulla, salvo un
crocifisso. Da ogni lato dell’altare stavano due ampi candelieri di rame o
di legno, alti abbastanza perché le candele raggiungessero il livello die
piedi dell’Immagine di Cristo sulla croce; ma i portacandele stessi, bisogna
notare, non stavano sull’altare, ma sul pavimento del santuario, da ciascuna
parte di esso. Nel santuario vi era anche una piscina, o bacino necessario
per svuotar ei vasi usati nelle funzioni liturgiche, come per esempio la
bacinella per lavarsi le mani. Dietro la credenza vi era anche un
armarium,
o armadietto, dove si teneva i l calice e i vari libri e le altre cose
necessarie per la Messa. Non c’era tabernacolo sull’altare, ma almeno dal 13
secolo nelle chiese cistercensi prevalse l’uso di riservare la sacra Ostia
in un ciborio sospeso con una colomba dorata che pendeva dal soffitto della
chiesa direttamente sull’altare (Cf. Fulgence Schneider,
L’ancienne messe cistercienne,
Koeningshoeven 1929, VII, 264).
Qual era il motivo di una simile rigidezza? Perché i cistercensi dovevano
arrivare fino all’eccesso di avere vesti di lino liscio, tutte senza colore
e senza decorazioni? Perché questa esagerata semplicità? Santo Stefano
avrebbe risposto in primo luogo che i monaci contemplativi non hanno bisogno
di pitture o statue per innalzare i cuori a Dio e molto meno di vetrate
colorate e sfarzosi vasi d’altare. Queste cose potrebbero essere d’aiuto per
gente che vive tra le distrazioni del mondo, ma per monaci che vivono in un
raccoglimento abituale, potrebbero essere piuttosto motivo di distrazione
mantenendo la mente lontana da Dio in una quantità di dettagli curiosi e
volgari. D’altra parte è un fatto di esperienza che la semplicità delle
prime chiese cistercensi che ancora sopravvive e di un genere che innalza il
cuore a Dio con singolare efficacia con la virtù della reale assenza di
dettagli e curiosità.
Il motivo è che l’armonia e l’interrelazione di semplici blocchi in muratura
disposti nel più perfetto equilibrio architettonico offrono allo sguardo una
bellezza molto più spirituale che la molteplicità die colori e il
dispiegarsi di una gioielleria che molto spesso era usata in qualcosa che
rasentava la volgarità. I primi cistercensi comunque, non entravano in
speculazioni su queste cose. Le loro motivazioni principali erano la povertà
e la semplicità. Essi cercavano di osservare il Vangelo e la Regola alla
lettera, e questo era tutto.
Non appena fu eletto abate santo Stefano iniziò a mostrare di essere un
riformatore anche più rigido e intransigente di sant’Alberico, anche se
questo santo abate non era mai stato in nessun modo amante dei compromessi.
Comunque sembra che sant’Alberico non avesse posto alcuna obiezione quando
il duca Odo di Burgundia, uno dei primi e più grandi benefattori del Nuovo
Monastero, volle venire a tenere là la sua corte.
D’altra parte quando Ugo, che successe a Odo come duca, dopo che suo padre
morì in crociata nella Terra Santa, annunciò la sua intenzione di venire al
monastero e tenere là la sua corte santo Stefano lo informò cortesemente che
non sarebbe stato il benvenuto. Generalmente si pensa che questo fatto fu
preso dal duca come un insulto e che ebbe il suo peso nel suo ritirare il
suo aiuto al monastero. Sappiamo di fatto che sotto santo Stefano Citeaux
attraversò la sua prova più cruciale dalla fondazione. Dio evidentemente
voleva mettere alla prova il suo grande santo e i suoi compagni nel crogiolo
di una reale privazione e porre il sigillo della sua approvazione e
sull’Ordine; per questo non vi era segno più sicuro che una buona impresa
fosse voluta da Dio che il fatto che si scontrasse con opposizioni e
difficoltà, malgrado la buona volontà e le preghiere di coloro che la
intraprendevano.
La fede di Stefano era abbastanza uguale alla prova della povertà. Un’antica
storia ci dice come un giorno, quando in monastero non c’era più cibo, e non
c’erano nemmeno soldi, l’abate diede a un monaco tre penny e gli disse di
prenderli e andare a Vézelay e spenderli acquistando tre carichi di cibo[2].
Quando il monaco chiese come avrebbe dovuto fare per portare a termine un
affare così difficile, santo Stefano gli disse di aver fede in Dio. Il
monaco andò al mercato con i suoi tre pennies, ma non dovette nemmeno
spenderli perché incontrò un uomo che, consapevole della situazione dei
monaci, lo introdusse alla conoscenza di un uomo che era moribondo e che
aveva alcuni beni; questi sul letto di morte era felice di assicurarsi la
salvezza con un atto di carità cambiando testamento e facendo dei monaci di
Citeaux i suoi beneficiari.
La povertà e i bisogni più atrici dei suoi monaci non potevano mai essere
per Stefano una ragione per scendere a compromesso con i suoi principi
morali. Una volta quando un fratello che era stato inviato fuori a mendicare
per il cibo in un momento di estrema necessità ritornò con due muli carichi
di provviste, santo Stefano lo rispedì indietro da dove veniva con il suo
carico intatto, nella misura in cui apprese che erano dono di un sacerdote
che aveva ottenuto la sua posizione con la simonia.
I primi cistercensi comunque erano forniti del dono della fortezza e i loro
disagi erano per loro una fonte di una più dolce consolazione, più dolce di
quella che avessero mai conosciuto prima. Una domenica di Pentecoste a
Citeaux i monaci cantavano in coro con un trasporto di gioia che era anche
più intenso perché erano venuti a sapere che in casa non c’era niente da
mangiare, e non ci sarebbe stato pranzo, e cosa ancora più grande, a nessuno
importava. Il Pane degli Angeli era tutto ciò che essi desideravano. Per il
resto lo Spirito Santo si sarebbe preso cura di loro e lo fece. Quando
uscirono dalla loro semplice chiesa di legno trovarono che un benefattore
aveva portato ampio rifornimento di cibo al cancello del monastero.
Cassiano dice che se vogliamo avere la mente pulita e libera dalle
distrazioni quando siamo in preghiera dobbiamo prender l’abitudine di
controllare i nostri pensieri e immaginazione al di fuori del tempo della
preghiera e dobbiamo vuotare le nostre menti anche prima di iniziare a
pregare (Cassiano Conf 9, 3
Quales orantes volmus inveniri, tales nos ante orationis tempuspraeparare
debemus)
Altrimenti la reale lotta con le distrazioni sarà in se stessa una
distrazione insopportabile. Santo Stefano era famoso per un piccolo gesto
che aveva acquisito come abitudine per ricordarsi di questo entrando in
chiesa. A notte, uscendo dal chiostro, dopo la lettura comune in coro per
compieta, era abituato a toccare lo stipite della porta con le mani, e
quando qualcuno gli chiedeva perché, diceva che era per lasciare tutte le
sue preoccupazioni e pensieri alla porta della chiesa.
Col passar degli anni Citeaux aveva perso parecchi dei suoi monaci. Lenain
calcola che in diciassette o diciotto erano morti dalla prima fondazione, e
in questo caso, dal 1112 sarebbero rimasti solo in tre o quattro. (Lenain,
Essai de l’Histoire de l’Ordre de Citeaux,
Parigi 1696).
Ma in ogni caso, la critica quasi universale e la calunnia diretta contro i
riformatori di Citeaux aveva reso il Nuovo Monastero così poco attraente per
i postulanti che essi stavano ben lontano dalla porta. Alla fine anche le
forti convinzioni di Santo Stefano Harding erano un po’ scosse da questo
stato di cose. Dopo tutto si stava rendendo conto del fatto che i suoi
critici non erano solo i malcontenti di Molesme. Molti uomini saggi e
prudenti e assolutamente degni di stima erano dell’opinione che la riforma
cistercense non poteva essere la volontà di Dio, dal momento che era così
ampiamento al di là delle forze di uomini normali. Era allora
un’esagerazione? Il diavolo aveva approfittato del suo innato fervore e del
suo idealismo per prenderlo in trappola? Il fatto che nessuna vocazione
venisse al monastero dava a Stefano una motivazione molto costringente per
credere che dio non favorisse la riforma. Poteva anche aver permesso che
continuassero critiche e povertà, ma se il Nuovo Monastero era la sua
volontà sicuramente avrebbe provveduto alla sua sopravvivenza, scegliendo
anime che venissero a condurre la sua austera vita di preghiera e di
penitenza.
Alla fine un altro dei monaci cadde ammalato e fu sul punto di morire. Santo
Stefano avvicinò questo fratello che giaceva sul letto di morte e con fede
semplice gli chiese in nome di Cristo, e in virtù di santa obbedienza, di
fargli sapere, dopo la sua morte, se il loro modo di vita era gradito a Dio.
Il fratello, con uguale semplicità promise di farlo se santo Stefano lo
avesse aiutato con la sua preghiera. Pochi giorni dopo la morte del monaco
Santo Stefano era al lavoro con i suoi monaci, e diede il segnale per
l’usuale pausa di riposo. Poi, allontanandosi un po’ dagli altri e
raccogliendo i suoi pensieri rinnovò la sua consapevole comunione con Dio.
Improvvisamente il monaco che era appena morto gli apparve davanti in un
fulgore di gloria e rivelò al suo Padre Abate che la vita cistercense era
certamente gradita a Dio e che era la sua volontà. Per questo la sua anima
era ora nella beatitudine celeste come ricompensa per i suoi sacrifici,
lavoro e preghiera a Citeaux, e a breve Dio avrebbe dato una conferma più
tangibile della sua approvazione mandando loro molte vocazioni. Avvenne
allora che al quindicesimo anno dalla fondazione di Citeaux il futuro san
Bernardo si presentò al cancello di legno dell’abbazia con i suoi trenta
compagni. Le annate magre erano finite. Da questo momento il favore di Dio
brillò sulla nuova fondazione in ogni cosa materiale e anche spirituale.
Forse la conversione del figlio di uno dei suoi amici più intimi, Tescellino
di Fontaines, ebbe qualche effetto per pacificare l’offeso Ugo duca di
Burgundia. Ma in ogni modo in breve tempo non solo Citeaux era fermamente
stabilita nel suo diritto, ma era in grado di fare la sua prima fondazione,
La Ferté. La chiesa de la Fertè fu consacrata nel 1113. Nel 1114 fu fondata
Pontigny, in un’ampia fertile valle nelle vicinanze di Auxerre. Nel 1115 san
Bernardo fu inviato a fondare a Clairvaux, mentre Morimondo, la quarta delle
abbazie delle origini che sarebbe servita come base dell’Ordine, venne alla
luce nello stesso anno.
Avendo consultato i superiori di queste quattro case Stefano stese il famoso
documento conosciuto come Carta di Carità (PL 166,117) Qui in poche
pagine di pensiero potente e conciso il grande abate stese le linee di base
secondo le quali si sarebbe sviluppato l’Ordine cistercense, e la primissimo
cosa che ebbe a dire fu che i monasteri provenienti da Citeaux e dipendenti
da Citeaux in tutta la realtà spirituale, dovevano essere legati insieme,
non semplicemente da legami sociali e utilità materiali, ma dalla carità
soprannaturale. L’oggetto della loro unione non è semplicemente il benessere
materiale di ciascuna comunità individuale; ancor meno sarebbe stato
permesso all’Ordine di degenerare in un sistema in cui la arciabbazia
portava avanti lo sfruttamento economico di un vasto territorio attraverso
le case da lei dipendenti. Al contrario, se dovevano esser connessi insieme
in un ordine ciò era sempre nella prospettiva del loro fine ultimo nella
vita: l’unione con Dio, la contemplazione in questo mondo, la vita di gloria
nell’altro. Ma qual è il mezzo principale che Dio ha dato loro per
raggiungere questo duplice fine? La Regola di san Benedetto.
Qual è la connessione tra la Carta Caritatis e la Regola di san
Benedetto? È qualcosa di aggiunto alla Regola? No, è
semplicemente un’applicazione pratica della regola per un gruppo particolare
di comunità religiose che costituisce un ordine. È un manifesto che dichiara
che tutte le case di quest’Ordine interpreteranno la Regola nello
stesso senso di Citeaux, che tutte faranno uso degli usi e costumi di
Citeaux, e degli stessi libri liturgici... Da nessuna parte in questo
documento troviamo una traccia di affermazioni bellicose del tipo che i
cistercensi hanno l’interpretazione migliore o più letterale della Regola.
A Santo Stefano non interessa il paragone con Molesme o Cluny. Non sta
cercando di eclissare competitori monastici. Il suo scopo nell'emettere
questo manifesto è di garantire la conservazione di quella pace e armonia e
concordia senza le quali la vita contemplativa sarebbe assolutamente
impossibile. Egli prevede che problemi e questioni riguardo alla Regola
sorgeranno necessariamente e vuole provvedere di mezzi per sistemarli senza
dispute non necessarie e custodendo l’osservanza letterale della Regola
contro le mitigazioni da una parte, e le severità eccentriche dall’altra. In
altre parole la Carta di Carità ci aiuta a proteggere e a favorire la
vita contemplativa nel nostro Ordine in primo luogo assicurando una vera
pace tra tutti i suoi membri, in secondo luogo garantendo che la Regola,
il mezzo per arrivare alla contemplazione dato da Dio a questo particolare
gruppo di monaci, dovrebbe esser mantenuta in tutta la sua purezza.
Oltre a questa interdipendenza spirituale le case dell’Ordine dovevano
mantenere la loro autonomia specialmente nella sfera economico e materiale.
Non si sarebbe mai presentato il caso di una casa madre che viva sul lavoro
dei monaci di una comunità figlia, eccetto naturalmente in caso di qualche
emergenza. La legislazione prevedeva che tutte le case avrebbero dovuto
contribuire all’aiuto di qualsiasi comunità fosse caduta in gravi difficoltà
economiche. Ma Santo Stefano mise a punto un congegno semplice e potente per
proteggere l’osservanza della Regola e degli Usi in queste case — un
sistema che andò avanti meravigliosamente bene per parecchi secoli;
certamente la prova più sicura dell’efficacia di questo sistema è il fatto
che il trascurarlo è stata una delle principali ragioni del declino
dell’ordine. L’autorità suprema dell’Ordine non era l’Abate di Citeaux, ma
il Capitolo Generale, i cui membri erano i Superiori di tutti i monasteri
dell’Ordine e che si incontrava annualmente a Citeaux nella Festa
dell’Esaltazione della Santa Croce. La questione principale per il capitolo
Generale era quella di approvare la legislazione che chiarificasse questioni
di osservanza regolare, ma soprattutto correggere tutte le deviazioni dalla
Regola e dagli Usi nelle diverse case dell’ordine, e punire i
trasgressori. Il Capitolo Generale fu anche autorizzato a scomunicare
l'Abate di Citeaux e tutta la sua comunità, se ne fosse sorta la necessità.
Il Capitolo Generale comunque non sarebbe mai stato in grado di funzionare
in modo corretto senza l’aiuto delle visite regolari annuali prescritte per
ogni casa, che dovevano essere compiute o dall’abate di Citeaux o dai Padri
Immediati delle diverse comunità, cioè dagli abati delle loro case madri.
Era sui risultati dei visitatori che il Capitolo Generale basava le sue
decisioni e la sua legislazione.
Con la fenomenale diffusione dell’Ordine Cisterciense nella prima metà del
XII secolo (51 case furono acquisite dall’ordine nel 1147 e alla morte di
san Bernardo nel 1153 c’erano 342 abbazie nell’Ordine, diffuso in
tutt’Europa, dalla Norvegia alla Spagna e dalla Francia all’Ungheria e anche
alla Palestina, sarebbe parso difficile portare avanti questo sistema di
visite con la regolarità desiderata. Al contrario comunque, uno sguardo agli
Statuti del Capitolo Generale per il XII e XIII sec mostrerà — dai dettagli
delle punizioni e correzioni imposte agli abati anche delle case più remote
— e specialmente in queste case — che le visite erano state condotte in
perfetto ordine e con tutti i loro desiderati effetti. I registri delle case
cistercensi in Inghilterra e Galles mostrano ampie testimonianze
dell'attività dei visitatori nella deposizione degli abati da parte dei
visitatori. Il Galles, essendo un territorio remoto e abbastanza selvaggio
possedeva un gruppo di monasteri cistercensi ampiamente reclutato tra gli
alpinisti del Galles, e queste case, a causa del loro isolamento e della
peculiarità dei loro abitanti erano una spina nel fianco dei Capitoli
Generali. Ma noi non sapremmo nemmeno questo se questi monasteri non fossero
stati costantemente e regolarmente visitati e se i problemi presenti in essi
non fossero stati affrontati prima del Capitolo e sommariamente corretti da
severe misure (David Knowles,
The Monastic Order in England
638-1658 (Cambridge University Press, 1940). Nell’anno 1188 leggiamo anche
di una discesa di visitatori speciali dall’Inghilterra, inviati dal Capitolo
Generale. E quando Giovanni abate di Fountaines, mancò di fare una visita
alla sua fondazione di Kysakloster in Norvegia fu severamente penalizzato
dal Capitolo Generale, anche se poteva avere una scusa per aver omesso la
visita a causa delle difficoltà politiche che avevano portato alla
soppressione del suo stesso monastero da parte di re Giovanni Lackland (Cf
Knowles).
Gli stessi argomenti sono stati sollevati per suggerire che la presenza al
Capitolo Generale è stata trascurata da molti abati, o era davvero
impossibile. Non nell’età d’oro dell’Ordine. Gli Abati che mancavano alla
presenza al Capitolo Generale ricevevano severe punizioni, e la maggior
parte di loro era così desiderosa di esse presente a Citeaux alla festa
dell’esaltazione della croce che a volte si legge di superiori che
intraprendevano lunghi e difficili viaggi malgrado la loro cattiva salute, e
che pure morivano sulla via per andare o per tornare dal Capitolo.
Fu anche sotto la diretta supervisione di Santo Stefano che fu compilato il
libro degli Usi o Consuetudini, tra gli anni 1120 e 1125. Il principale
interesse degli Usi è assicurare la perfezione del servizio del coro e delle
funzioni liturgiche in chiesa ed è questo che occupa il maggior spazio del
volume. In molte situazioni in cui la Regola non ha nulla di definito
da prescrivere, come i dettagli delle posizioni in coro durante gli Uffici e
la Messa conventuale, gli Usi cistercensi seguono gli usi di Cluny, che in
questa materia sono molto simili alle altre sistemazioni di usi monastici
conosciuti nel primo Medio Evo. Comunque in tutte le caratteristiche
importanti della vita monastica, specialmente nella celebrazione della santa
Messa e nella distribuzione delle attività durante la giornata gli Usi
cistercensi rappresentano una drastica semplificazione di tutto quello che
Cluny praticava e ammirava. Liturgicamente i cisterciensi continuarono a
basarsi sul rito Gallicano, specialmente quello della chiesa di Lione, ma i
loro riti erano immensamente semplificati e purificati dalle superfluità in
paragone con quelli di Cluny. Ma la differenza maggiore tra gli Usi di
Citeaux e quelli di Cluny sono quelle che riguardano il lavoro manuale, il
silenzio, il digiuno, l’astinenza e la povertà monastica.
Nel 1133 santo Stefano all’età di circa ottant’anni, e avendo completato il
suo lavoro, diede le dimissioni dall’ufficio abbaziale a Citeaux per passare
i suoi ultimi giorni in preparazione per l’eternità, occupato completamente
con Dio solo. I suoi fratelli abati molto malvolentieri acconsentirono alla
sua richiesta ed elessero un successore un uomo colto e apparentemente
capace, l’abate Guido delle Tre Fontane. Per qualche motivo Dio permise che
la loro scelta cadesse su un soggetto non buono e Guido dovette esser
deposto quasi subito. La causa è stata così gelosamente tenuta nascosta dai
padri dell’Ordine che nessuno è mai riuscito a scoprire che cosa fosse, ma
il nome di Guido è cancellato dalla lista degli Abati di Citeaux.
Raynardo, uno dei grandi legislatori della Citeaux primitiva, lo seguì
nell’incarico, ma santo Stefano non visse abbastanza per vedere i frutti
della fatica del suo abile e santo abate. Il patriarca di Citeaux morì il 28
marzo in grande pace e tranquillità. Praticamente la sua ultima parola fu un
gentile rimprovero ad alcuni monaci che pensavano non fosse più consapevole
e presente e che dichiararono al capezzale del suo letto che era un santo.
L’Ordine mise molto tempo a riconoscere ufficialmente la sua santità. A
parte l'ondata di entusiasmo che ha travolto tutte le case cistercensi e
portato alla canonizzazione di San Bernardo troviamo che i nostri padri dei
primi due secoli della storia dell’ordine si mostrarono singolarmente poco
desiderosi di intraprendere cause di canonizzazione anche per l’onore dei
nostri santi fondatori. San Roberto fu portato agli onori degli altari
largamente grazie agli sforzi di Molesme e altri santi canonizzati
cisterciensi ottennero questo riconoscimento nel Medio evo solo perché c’è
era il lavoro di secolari che promuovevano le loro cause. Comunque santo
Stefano fu finalmente ufficialmente annoverato fra i santi nel 1584, e nel
1625 il capitolo Generale gli diede una festa con dodici lezioni. Al
presente (1954) gode di una festa di alto rango nell’Ordine, quella di
sermone Maggiore con Ottava, celebrata il 16 luglio, data da Baronio nella
data della sua canonizzazione.
[1]
Thomas Merton,
In the Valley of wormwood. Cistercian blessed and Saints of the
Golden Age.
Nella Valle dell’Assenzio, Beati e santi cistercensi dell’età d’Oro
Santo Stefano Harding,
Cistercian Publications, n 233, 2013, p. 262-277.
[2]
Exordium Magnum, 1, 22.
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18 maggio 2025
a cura di Alberto "da Cormano"