IL MONASTERO DI BOSE E IL SUO RESPIRO ECUMENICO
Fratel Guido Dotti
21 febbraio 2011
Estratto dal sito della Conferenza Italiana Monastica Benedettine:
www.benedettineitaliane.org
Stasera vorrei dirvi qualcosa di come viviamo, e come
vediamo, l’ecumenismo a partire dalla nostra vicenda monastica a Bose. È
fondamentale, mi sembra, chiarire fin da subito che essere una comunità
composta di fratelli e sorelle non tutti cattolici, ma anche di altre
confessioni cristiane, non è stata una scelta deliberata, programmata prima,
ma è stata piuttosto un riconoscere, magari con perplessità e con fatica,
ciò che ci è sembrato un dono del Signore, un’opportunità che ci veniva
data, e che, come tutti i doni in ambito cristiano, impegnativo. C’è questo
paradosso: la grazia ha un “prezzo da pagare”. Il dono ci viene dato per
grazia, gratuitamente, ma una volta che è stato affidato, come i talenti,
viene fatto fruttificare, e poi dobbiamo rendere conto di che cosa ne
abbiamo fatto.
Questo per dirvi che la nostra vicenda, che ha ormai più
di quarant’anni, è nata in anni in cui forse il desiderio dell’unità delle
chiese e le speranze che si aprivano sull’ecumenismo erano un po’ più vivaci
di oggi, anni in cui c’erano più attese. Il pontificato di papa Giovanni
XXIII e l’apertura del Concilio e i documenti che man mano il Concilio
tirava fuori avevano saputo ridestare non solo all’interno della Chiesa
cattolica, ma anche all’interno delle altre chiese, una passione, un
desiderio, e avevano fatto confluire anche quello che era un cammino
ecumenico delle altre chiese cristiane. Quindi in un certo senso siamo nati
in un clima che favoriva certe cose, ma entro certi limiti.
Per noi è stato subito chiaro, una volta decisi di
iniziare, nonostante che non eravamo tutti cattolici – parlo come se fossi
stato presente fin dall’inizio, ma sono arrivato solo quattro anni dopo; vi
dico quello che mi hanno detto allora, che poi ho potuto verificare - una
volta accettato questo dono impegnativo, dovevamo chiarirci bene che cosa
volevamo fare di questo nostro essere una comunità ecumenica. È stato chiaro
che da un lato la nostra vocazione primaria era quella monastica, ritrovare
una forma di vita monastica che fosse leggibile, che fosse comprensibile,
con un linguaggio che parlasse alla Chiesa, al nostro mondo contemporaneo, e
nello stesso tempo, tener conto di come il monachesimo era stato uno dei
luoghi anche di divisione, soprattutto rispetto alle chiese della Riforma.
In alcuni periodi, in alcune zone, si era fatta “piazza pulita” della vita
religiosa, in particolare della vita monastica. Solo a partire della seconda
metà del secolo XIX la vita religiosa, la vita monastica, hanno cominciato a
trovare qualche possibilità di “diritto di cittadinanza” all’interno delle
chiese della Riforma.
Per noi, il primo approccio formale è stato quello di dire
che noi non siamo una comunità nuova che è slegata rispetto alle chiese dei
singoli membri, ma che ogni fratello, ogni sorella, rimane fedele alla
chiesa che l’ha rigenerato in Cristo attraverso il battesimo. Questo
significa prendere sul serio quello che le nostre chiese hanno stabilito sul
riconoscimento reciproco del battesimo. Voi sapete che normalmente, quando
un cristiano battezzato e appartenente a una chiesa storica, riconosciuta,
cambia di confessione – è perfino improprio usare il termine “conversione” –
quindi, quando un battezzato passa ad un’altra confessione, non gli è
richiesto di essere ribattezzato. Proprio perché nonostante le differenze
anche molto profonde, anche a livello ecclesiologico, il battesimo che si
confessa, secondo il Nuovo Testamento, è che uno solo è il Signore, uno solo
il battesimo, una sola è la fede. Quindi per noi ciascun membro della
Comunità rimane radicato in Cristo attraverso quella chiesa che l’ha
rigenerato in Cristo e l’ha educato fino al momento del suo arrivo in
Comunità.
Attualmente, la stragrande maggioranza di noi è cattolica,
e questo, perché siamo in Italia, dove la maggioranza dei cristiani è
cattolica; però abbiamo alcuni fratelli della chiesa della Riforma: sono
tre, tra i quali c’è fratel Matthias, che vi ha parlato la settimana scorsa.
E da qualche anno abbiamo una monaca ucraina, ortodossa, della chiesa del
Patriarcato di Mosca. Poi, hanno vissuto con noi alcune altre persone, ma
non come membri della Comunità, tra le quali un metropolita ortodosso del
Patriarcato di Costantinopoli, un amico di vecchia data della Comunità, che
è stato uno degli osservatori al Concilio Vaticano II e rappresentante di
Costantinopoli a Ginevra, al Consiglio ecumenico delle chiese. Quando è
andato in pensione ha chiesto di poter venire a vivere con noi; aveva 76-77
anni, faceva il monaco esattamente come noi; tornato in Grecia per
festeggiare Pasqua e le grandi feste, si è poi ammalato e ha voluto venire a
salutarci per Natale, ha trascorso l’ultimo Natale da noi e poi, ritornato
in Grecia, è mancato nel mese di febbraio di cinque anni fa.
Questo per dirvi che c’è nel nostro atteggiamento
ecumenico e nel nostro modo di porci il desiderio di essere una presenza di
chi ha ricevuto dal Signore questo dono inatteso ed inaspettato, e che cerca
di farlo fruttare per l’insieme delle chiese, lavorando e pregando anche per
l’unità della Chiesa. Questo non è il nostro “quarto voto”; non è una
missione specifica, un compito particolare: semplicemente, è parte della
nostra vita. Così, in fondo, l’ecumenismo è stato letto dal Magistero della
Chiesa cattolica, a partire dal Vaticano II, in questi termini. L’Enciclica
Ut
unum sint
di Giovanni Paolo II è
molto esplicita. Non è un di più che si aggiunge alle varie attività, ma è
qualcosa che fa parte ontologicamente della Chiesa. La Chiesa cattolica,
nella quale sussiste la Chiesa di Cristo, ha in sé questo anelito alla
ritrovata unità dei cristiani: è la preghiera che il Signore ha rivolto al
Padre all’Ultima Cena. Non si tratta di moda: é la testimonianza del
Vangelo, l’annuncio della Buona Novella che il Signore ci ha dato. Ci ha
detto che la prima caratteristica per essere riconosciuti come suoi
discepoli è l’amore che abbiamo gli uni per gli altri: “Da questo
riconosceranno che siete i miei discepoli.”
È un po’ in questa ottica che ci siamo messi. La nostra
Regola è molto chiara, e dice:
“Fratello, Sorella, tu provieni da una chiesa cristiana, non sei entrato in
Comunità per rifare una chiesa che ti soddisfa, alla tua propria misura; tu
appartieni a Cristo, attraverso la chiesa che ti ha generato a Lui con il
battesimo. Riconoscerai perciò i suoi pastori, riconoscerai i suoi ministeri
nella loro diversità, e cercherai di essere sempre segno di unità.”
Poi continua:
“Guardati dal criticare meschinamente, con amarezza e
senza amore le chiese. Nella Chiesa non amare un’astrazione, una visione
troppo personale, ma la comunità vivente, in cui Dio attende il tuo impegno
e il tuo ministero.”
Si ribadisce:
“La Comunità non è confessionale, ma è fatta di membri che
appartengono alle diverse confessioni cristiane. Ogni membro deve trovare
nella comunità lo spazio per la sua confessione di fede e l’accettazione
della sua spiritualità.”
Questo vuol dire anche uno sforzo nell’edificazione
quotidiana della comunità. In questo senso possiamo dire che l’ecumenismo –
e la Regola lo dice da un’altra parte – è “l’opera di ogni giorno” della
comunità. Intraprendiamo delle iniziative, partecipiamo a delle attività più
specificamente ecumeniche, ma in realtà il nostro percorso ecumenico,
proprio perché non è un’attività in più, o un’attività tra le tante, ma la
risposta di ciò che noi siamo, individualmente e come comunità, diventa
qualcosa che passa nel quotidiano di ogni giorno, e quindi la struttura, la
vita, il modo di pregare insieme, l’organizzazione stessa della comunità
tiene conto del fatto di non essere tutti di una stessa confessione
cristiana.
Questo a volte non è facile: è facile in teoria, un
protestante battezzato vive in comunità e rimane protestante, e il cattolico
vive in comunità e rimane cattolico e ciascuno rimane obbediente anche alla
propria confessione di fede, alla propria chiesa, che può chiedergli delle
cose ben precise. Per esempio, a noi cattolici può sembrare che la nostra
chiesa ci chiede troppo, mentre ai protestanti, le loro chiese non chiedono
molto; ci può sembrare che possano fare come vogliono. Se si guarda la
Chiesa ortodossa, si vede che essa chiede ancora di più di quello che chiede
la Chiesa cattolica, e via dicendo. Ma non è una questione di dover fare o
di chiedere di fare di più o di meno. È una questione di obbedienza a una
chiesa che storicamente è andata strutturandosi in un modo diverso, e che
concepisce in modo diverso anche l’appartenenza. La fedeltà ha a che fare
con la fede trasmessa, coltivata, custodita, e che ci ha portati a questa
vita monastica, che abbiamo voluto come una vita che si rifà al monachesimo
primitivo, ai primi secoli del monachesimo quando – guarda caso – le chiese
non erano ancora divise, o almeno non troppo, perché già dal Concilio di
Macedonia la Chiesa copta e quella armena presero un'altra strada.
Sostanzialmente, durante il primo millennio, c’era l’unità, e l’unica forma
di vita religiosa, sia in Occidente che in Oriente, era il monachesimo.
Poi nell’Occidente si iniziava con i Canonici e poi altre
forme di vita religiosa, gli ordini mendicanti, eccetera; mentre
nell’Oriente si è mantenuta come unica forma di vita religiosa il
monachesimo, anche se poi oggi si trovano, e non da oggi, monasteri, sia
maschili che femminili, in cui si fa un po’ di tutto.
È chiaro che il primo luogo in cui la Comunità di Bose si
è trovata a dover fare i conti con questo suo essere non tutti cattolici è
stata la liturgia, e in particolare la liturgia delle Ore. Perché la Messa,
l’eucaristia, non è qualcosa che sia a disposizione di una singola comunità.
L’eucaristia si riceve da una chiesa attraverso dei ministri ordinati per
questo, e non è qualcosa che possiamo inventare noi. Mentre invece la
liturgia delle Ore, tradizionalmente, è sempre stata il luogo della
creatività, anche di ogni singola comunità. Un esempio banalissimo si trova
nella Regola di Benedetto. Benedetto scrive dodici capitoli per parlare di
uno schema per la liturgia delle Ore, quali salmi cantare a quali ore, come
fare, e poi finisce dicendo: “Se, però, l’abate pensa di fare in modo
diverso, faccia pure; basti che si recitino tutti i salmi in una settimana.”
È appunto la liturgia delle Ore che riflette di più
l’identità della comunità raccolta in preghiera davanti al Signore. Questo
lo sperimentiamo al livello di orari, di ritmi, di melodie, di modalità. Noi
abbiamo preso questa sfida e dono bellissimo di non essere tutti cattolici
per strutturare una liturgia delle Ore secondo la grande tradizione
occidentale – siamo occidentali in un paese occidentale – ma che tenga conto
del fatto che siamo di chiese diverse.
Allora abbiamo impostato questo lavoro – uno dei primi
lavori, e tale continua ad essere. Nei prossimi mesi uscirà una nuova
edizione della nostra preghiera dei giorni. Abbiamo strutturato una liturgia
delle Ore in tre grandi momenti, cioè mattino, mezzogiorno e sera, anche
questo è secondo una delle tradizioni più antiche; siamo passati dalle
“sette volte al giorno” agli usi della prima tradizione, che si rifaceva
alla preghiera ebraica al mattino, a mezzogiorno e a sera: Lodi, Ora media e
Vespro, per vivere tutta la giornata davanti al Signore. Abbiamo impostata
la preghiera della giornata da un lato basata sulla salmodia; è molto simile
alla liturgia delle Ore del breviario romano. C’è un’introduzione, un inno,
la salmodia, una lettura breve dall’Antico Testamento alla mattina e
dall’Apostolo alla sera, il responsorio breve, la proclamazione del Vangelo,
un momento di silenzio, preghiera di contemplazione alla mattina e di
intercessione alla sera, un’orazione, il Padre nostro e la benedizione.
Come vedete, lo schema è fondamentalmente latino; dove
abbiamo fatto tesoro del fatto che non siamo tutti cattolici è stato nella
scelta degli inni, e nella scelta delle preghiere di contemplazione e di
intercessione, in cui abbiamo attinto o direttamente dalla Scrittura che è
comune a noi tutti, protestanti e cattolici, prendendo brani o ispirandoci a
racconti biblici e trasformandoli in preghiere, oppure attingendo a
tradizioni diverse e adattando alcune preghiere da corali luterani, da
preghiere di contemplazione ortodosse, in modo che nella sua struttura si
vede chiaramente che è una liturgia “latina”, cioè, anche se è in italiano,
è una liturgia occidentale; ma nello stesso tempo, e questo abbiamo
sperimentato nel corso degli anni, qualunque cristiano di qualunque
confessione, che viene e si unisce alla nostra preghiera, può farlo senza
dover sconfessare nulla della sua confessione di appartenenza.
Per questo, per la preghiera comunitaria abbiamo dovuto
rinunciare ad alcune tradizioni, magari più devozionali, piuttosto che di
tradizione monastica, che non ci avrebbero consentito una preghiera
comunitaria dello stesso tipo; un esempio classico è il Rosario. Questo
rimane più che lecito per i fratelli e sorelle cattoliche che vi siano
abituate e lo vogliono usare, e lo possono benissimo nella loro preghiera
personale, ma non è pensabile una recita comunitaria, perché creerebbe
problemi per chi non lo sente inerente al proprio cammino di fede, alla sua
formazione; non perché avrebbe qualcosa contro, ma si sentirebbe un po’
spiazzato nei riguardi della chiesa che l’aveva generato e formato.
È chiaro che quando si cerca una convergenza che non sia
sincretismo, che non sia attaccare qua e là delle aggiunte, ma che abbia una
sua unità, e che sia espressione di ciò che la Comunità è, bisogna essere
disposti a rinunciare a qualcosa di non essenziale, per poter invece
condividere ciò che è invece essenziale. Questo è un cammino che continuiamo
a fare e quindi ci aiuta il fatto di avere ospiti che sono di un’altra
confessione, anche se in gran parte sono cattolici. È chiaro che se arriva
un ortodosso, o un gruppo di ortodossi, per condividere la nostra preghiera,
non riconosce la preghiera come “sua”, nel senso che essa non ha le
apparenze esterne di una liturgia ortodossa, ma può riconoscere un sostrato
comune in una forma che è occidentale.
Nella vita fraterna nostra c’è uno sforzo quotidiano,
quando ci sono decisioni da prendere, orientamenti da scegliere, di tenere
sempre presente l’altro. È chiaro che in una comunità che ha un regime
capitolare, tra tutti i fratelli e le sorelle professe, da un punto di vista
solo numerico, i cattolici hanno sempre la maggioranza qualificata, sempre
di più di due terzi, quindi si potrebbe prendere qualsiasi tipo di
decisione, e imporla sui non cattolici. Ma, si capisce che non si fa una
comunità di confessioni diverse, per poi fare comandare un gruppo
confessionale sugli altri, anche se si tratta del gruppo che rappresenta la
maggioranza numerica. In quel caso si può semplicemente formare all’inizio
una comunità di soli cattolici, evitando così tali problematiche.
Per noi è stato forse lo sforzo più costante, ma anche più
arricchente, quello di cercare di risalire, soprattutto là dove ci troviamo
divisi, alle origini, cioè tornare a quando le chiese non erano ancora
divise, e poi chiederci come mai le nostre varie chiese abbiano prese vie
diverse, in base a quale istanza di desiderio di essere fedeli al Vangelo,
alla tradizione; perché una differenza, magari agli inizi piccola, si è
andata allargando sempre di più, e a volte si è molto lontani dagli “altri”
perché appena partiti da vicini abbiamo cominciato a costruire il seguito
della nostra tradizione in contrasto polemico con essi. Se si cerca di
salire alle fonti, e anche alle fonti della divisione, se si vuole, si
scopre che da un lato c’era comunque un anelito ad essere discepoli del
Signore. Che poi questo desiderio sia stato distorto in un modo o nell’altro
non è per noi ormai da capire fino in fondo. Uno dei trucchi più semplici in
un qualsiasi conflitto, tra singole persone oppure tra nazioni, è quello di
mettere di mezzo la religione. C’entra magari al cinque per cento, ma è una
questione talmente carica di emotività, di passione interiore, che tu le
puoi attribuire l’ottanta per cento di quello che invece sono solo una
matassa di calcolini più meschini. Troviamo spesso che cosiddette “tensioni
religiose” in un paese mascherano tensioni di altri tipi, sociali, politiche
ed economiche ben più profonde e importanti.
L’aver quotidianamente questo allenamento a tener sempre
conto della posizione dell’altro: non vuol dire scendere a compromessi,
oppure accontentare una volta gli uni e poi una volta gli altri, ma cercare,
e lo ripeto, di capire il perché di quest’altra posizione, il perché questo
è ferito da quest’altro gesto, e allora plasmare, modificare, certe cose in
modo che non si ferisce più l’altro. Io rinuncio a qualche cosa per fare
capire quello che veramente mi sta a cuore: invece di fare tre passi avanti
da solo, ne facciamo insieme uno e mezzo.
Accanto alla nostra vita fraterna c’è anche il ministero
dell’ospitalità, che ci consente di avere degli orizzonti di ecumenismo che
si allargano sempre di più. D’altronde il concetto che ho detto all’inizio,
cioè che non si tratta di un “quarto voto”, di una scelta precisa e
teologica, ma è un’obbedienza e un dono, ha il significato che abbiamo messo
l’attenzione su quello che è possibile fare insieme, e soprattutto sul fatto
che la ricchezza dell’essere insieme ci porta a conoscere i tesori delle
altre chiese indipendentemente dal fatto che ci sia un fratello o una
sorella di quella specifica chiesa.
Noi all’inizio, fino a quando non erano ancora arrivati
quel metropolita e quella monaca, eravamo cattolici e protestanti; tutti
occidentali, si può dire. Ma fin da subito, uno dei primi lavori che abbiamo
fatto, quando ancora non avevamo la casa editrice, è stato quello di
tradurre e pubblicare dei testi di spiritualità ortodossa. Perché abbiamo
sempre pensato che le ricchezze evangeliche di testimonianza, di
spiritualità, le ricchezze di vita interiore delle altre chiese le possiamo
condividere, anche prima di condividere la mensa eucaristica. Chissà quando
la potremo condividere? Perché non dipende da noi, dipende dalle nostre
chiese. Mentre, invece, un santo possiamo “condividere” benissimo; che non
sia canonizzato, pazienza! Non è canonizzato, perché è propriamente un santo
di un’altra chiesa, ma credete che gli ortodossi non abbiano fatto tesoro di
una figura come san Francesco? E perché non possiamo noi fare tesoro di una
figura come Serafino di Sarov? D’altronde, queste sono anche cose che ci
possono cambiare in meglio, arricchendo la nostra vita spirituale già
adesso.
Se voi pensate, in fondo, la sofferenza per la divisione
delle chiese, adesso la stiamo sperimentando di più, perché stanno
aumentando le presenze di cristiani non cattolici anche nel nostro paese.
Prima, generalmente in Italia - forse non in una grande città come Milano –
si poteva incontrare qualche luterano, un valdese, ma la stragrande
maggioranza era cattolica. Adesso a Torino e cintura i romeni sono 90.000,
per l’ottanta per cento ortodossi. Un tempo, che cosa voleva dire,
interessarsi di ecumenismo? Oppure sperare che nelle nostre chiese ci
rendesse possibile la comunione sacramentale insieme? Voleva dire, al
massimo, che se si fosse realizzato quello, andando in vacanza in Grecia,
non avrei dovuto cercare una chiesa cattolica, ma sarei potuto andare a
Messa in una chiesa qualunque.
Mentre, invece, il fare tesoro di quello che è stata la
tradizione, le figure, la spiritualità, la comprensione del Vangelo delle
altre chiese, di questo posso beneficiare restando a casa, andando in giro;
questo arricchisce la mia fede. Questo abbiamo vissuto, e lo viviamo ora
negli scambi con gli ospiti che vengono. E in questo senso, da ormai un bel
po’ di anni, dal 1993, subito dopo la caduta del muro di Berlino,
organizziamo dei convegni di spiritualità ortodossa. Avevamo iniziato con i
russi, scelto ogni anno una figura di spiritualità russa e il suo tempo;
venivano metropoliti, studiosi, anche monaci, soprattutto dalla Russia. A un
certo punto, cominciavano a venire degli ortodossi greci; e abbiamo
cominciato a scoprire che tra di loro, greci e russi non parlavano mai. Non
avevano dei luoghi dove parlare.
Ci hanno chiesto: perché fate sempre tematiche russe?
Perché non fare delle tematiche anche per noi bizantini? E così abbiamo
cominciato a fare convegni “a due atti” – tre giorni su una figura di
spiritualità greca, un giorno di pausa, e tre giorni sulla spiritualità
russa. Venivano degli ospiti di cui alcuni si fermavano per tutta la
settimana, alcuni che venivano solo per i greci e alcuni solo per i russi.
Poi abbiamo preso il coraggio a due mani, patrocinati dal Patriarca di
Costantinopoli per la sessione greca e dal Patriarcato di Mosca per la
sessione russa, e così siamo andati avanti per un po’ di anni. Poi abbiamo
detto: proviamo a parlarne con quelli che vengono, e poi decidiamo. E
abbiamo detto: perché non fare un’unica sessione, non più su una figura, o
su un periodo storico, ma su un tema spirituale, visto nella prospettiva
ortodossa, dove “ortodosso” vuol dire Costantinopoli, Mosca, Romania,
Bulgaria, Antiochia, l’Egitto, eccetera?
Per cui, da quattro anni facciamo il convegno su delle
tematiche – il primo anno, su Cristo trasfigurato, poi sulla notte
spirituale, sulla solitudine e la comunione – in modo che sia concentrato in
quattro giorni, tutti gli ospiti vengono a tutto il convegno, e si parlano
anche tra di loro, e non solo con noi. Si scoprono molto simili e anche con
delle diversità, anche tra loro ortodossi; i cattolici che vengono conoscono
un mondo ortodosso molto più variegato di quello che possono immaginare, che
non è solo greco; vengono dalla Libia, dalla Siria, da Antiochia. È un mondo
culturalmente arabo, ma che è stato cristiano prima che ci fosse l’Islam. È
un altro approccio rispetto a quello del mondo ex sovietico, o greco.
Sono soprattutto studiosi che vengono, ortodossi dagli
Stati dell’America, dall’Australia, ancora un’ortodossia diversa; vengono
degli ortodossi discendenti da comunità di fuorusciti russi che dopo la
rivoluzione si erano trasferiti in Francia, come i discepoli di Evdokimov.
Tutto questo ci ha aperto nuove possibilità di scambi. Attraverso i nostri
convegni veniamo a conoscere molti monaci. Ogni anno i nostri novizi con il
loro Maestro vanno per una settimana in pellegrinaggio al Monte Athos. Ogni
tanto riusciamo ad andare in Egitto a visitare i monasteri copti. Tre anni
fa, sono stato richiesto e ho accettato di guidare un pellegrinaggio di una
trentina di monaci e monache benedettini trappisti dell’Africa francofona,
Benin, Senegal, Togo, eccetera; abbiamo visitato i monasteri copti. Alla
fine, la cosa più bella che mi hanno detto era: “Grazie, perché ci hai fatto
conoscere i nostri nonni!” “Nostri nonni” nella vita monastica, perché –
dicevano – noi abbiamo ricevuto il monachesimo dalla Francia, e quindi
dall’Occidente. Ma abbiamo scoperto che la Francia ha ricevuto il
monachesimo da Benedetto, e Benedetto l’ha ricevuto dall’Oriente: da Antonio
e da Pacomio. Poi, sono i nostri nonni come africani.” È vero che il
sudsahara e l’Egitto, culturalmente, tradizionalmente, sono realtà ben
diverse, ma vi assicuro che quando loro vedevano, per esempio, analogie con
le devozioni popolari tra la gente che frequenta i monasteri, a loro
sembrava di essere in Senegal.
Alimentiamo questi scambi, questi contatti, con la
Romania, con la Russia, con l’Egitto, con la Grecia; attualmente c’è un
nostro fratello che è riuscito a fare quaranta giorni in un monastero sull’
Athos, e adesso sta ad Atene ad approfondire la sua conoscenza del greco per
poter coltivare questi contatti. Abbiamo altri rapporti di scambio con la
Russia; ad uno dei nostri convegni è intervenuto due volte quello che allora
era il capo del dipartimento delle relazioni con l’estero del Patriarcato di
Mosca, e che adesso è il patriarca Kirill. Conosciamo da quando era giovane
monaco, studente a Oxford, quello che adesso è capo dello stesso
dipartimento, il metropolita Hilarione. Veniva come semplice monaco ai
nostri incontri; ora è l’equivalente del Segretario di Stato della Chiesa di
Mosca e in più Presidente del Consiglio per l’Unità.
Nascono così scambi e rapporti completamente inattesi. Con
il mondo protestante abbiamo più gli scambi a livello di facoltà teologiche
con singoli pastori, perché i protestanti non hanno una struttura
episcopale, ecclesiale, come la Chiesa cattolica. Ma quando delle facoltà di
teologia protestante collaborano con noi per fare insieme a Bose convegni di
spiritualità della Riforma, e portano i loro studenti, questo apre delle
prospettive diverse dal campo monastico, se volete. Ci sono anche degli
scambi con delle comunità come Grandchamps, una comunità di suore, tutte
protestanti, luterane e riformate, nata più o meno parallela con Taizé.
Negli ultimi anni c’è stata un’apertura assolutamente inattesa verso il
mondo Anglicano.
Avevamo chiesto di poter tradurre un suo libro
all’Arcivescovo di Galles, che poi è stato eletto Arcivescovo di Canterbury,
Primate della comunione Anglicana. Appena eletto, ci ha telefonato chiedendo
di poter fare da noi un ritiro prima della sua ufficiale intronizzazione.
Siamo diventati amici, e adesso viene quasi ogni anno, o con sua moglie o da
solo, per fare una settimana di ritiro con noi. L’ultimo giorno, facciamo un
pranzo di festa e una
collatio, alla quale partecipa
anche lui. Nella Comunione anglicana, una volta saputo che lui veniva da
noi, ci hanno chiesto di accogliere un incontro di tutti i vescovi che si
interessavano all’ecumenismo. Poi, tre anni fa, sono stato invitato come
ospite personale dell’Arcivescovo alla Conferenza di Lambeth, che è
l’incontro di tutti i vescovi della Comunione anglicana nel mondo che si
tiene ogni dieci anni.
Arrivato, mi trovo con un altro ospite personale, il p.
Timothy Radcliffe, già Maestro generale dei domenicani, che era venuto una
volta da noi per predicare gli esercizi. Dopo due giorni di ritiro sono
arrivate le delegazioni ecumeniche e il cardinal Kasper.
Questi legami che si sono intensificati con la Comunione
anglicana hanno fatto sì che dopo l’uscita recente del documento del Papa
sulla Comunione anglicana siano ripartiti i dialoghi teologici ufficiali tra
Chiesa cattolica e Chiesa anglicana, terza fase. A maggio di quest’anno
(2011) avremo presso di noi per dieci giorni come nostri ospiti quindici
teologi cattolici e quindici anglicani, che discutano su questi argomenti.
Tutto questo è un risvolto non cercato – ma anche i
convegni ecumenici sono nati per caso. Adesso abbiamo legami anche con la
Chiesa luterana svedese; a partire da un pastore che è venuto una volta, e
ha fatto venire anche il suo vescovo. Il vescovo era incantato, ha portato
dei giovani, e ha fatto fare un ritiro a dodici vescovi svedesi luterani a
Bose. Hanno portato il loro predicatore, ma hanno voluto fare da noi il
ritiro. Ospitiamo dialoghi bilaterali tra cattolici e altri discepoli di
Cristo, e il Consiglio ecumenico delle chiese.
Questo non cambia fondamentalmente la nostra vita; e di
nuovo non è per questo che ci siamo. Non siamo un centro che vuole sfornare
attività ecumeniche. Semplicemente cerchiamo di fare fruttificare i semi che
ci sono messi in mano. Così continuiamo le pubblicazioni, che trattano
argomenti di spiritualità ortodossa, anche testi di spiritualità
protestante, anglicana– tra l’altro, tre quattro volumi dell’Arcivescovo.
Matthias fa parte del gruppo di teologi francofoni, cattolici e riformati,
che periodicamente affrontano insieme delle tematiche, ma noi sentiamo
questo come qualcosa che alimenta il tessuto della nostra vita, che deborda
anche a beneficio della Chiesa. Ma innanzitutto è qualcosa che nutre noi, e
che troviamo consonante, corrispondente con la nostra vocazione; non è
qualcosa che ci distolga da quello che facciamo e viviamo, crediamo e
vogliamo testimoniare.
Ma anzi ci riporta alla nostra vocazione monastica che è
fondamentale, che non a caso è da sempre un possibile potenziale luogo
ecumenico. Proprio perché il monachesimo è una forma di vita evangelica che
precede la divisione delle chiese, e che è in sintonia con certe istanze
delle varie chiese, con l‘idea di una riforma della chiesa intesa come
maggior fedeltà al Vangelo. Questa istanza dovrebbe trovare nel monachesimo
un terreno fertile, e allora magari è colpa nostra se non lo trova, ma di
per sé il monachesimo si presta a questo. D’altronde, la vita monastica
nasce all’interno della Chiesa indivisa; diciamo che essa predispone tutto
perché si capisca che l’essenziale l’abbiamo in comune e non è diviso. Nel
corso della storia e ancora oggi magari trovate che i più agguerriti dei
nemici dell’ecumenismo sono i monaci; anche questo accade. Ma penso che sia
perché pensano di essere custodi di un’identità che deve essere anche
un’identità confessionale, e quindi sono l’ultimo baluardo. Ma questo, non a
caso, è qualcosa che ferisce, che blocca anche all’interno delle rispettive
chiese.
Ci sono alcuni monasteri del Monte Athos che hanno tolto
dai dittici dell’eucarestia il nome del Patriarca ecumenico, da cui in
teoria dipendono, perché lo trovano troppo aperto all’ecumenismo. Poi,
pensate che tutto il mondo ex sovietico deve digerire il fatto che il
termine stesso “ecumenismo” per loro era sgradito, perché era il modo
soft
con cui il regime
faceva passare delle possibili aperture; cioè le persone di chiesa potevano
andare all’estero solo se si faceva finta di essere ecumenici, persone
presenti soprattutto in Russia; meno negli altri paesi del blocco sovietico.
Erano infiltrate anche all’interno della chiesa, nella gerarchia stessa
della chiesa. Quelli che più si muovevano sul piano internazionale erano
quelli che avevano a che fare con il mondo ecumenico. E si capiva che con
questi, semplici fedeli, preti, monaci, c’era qualcosa che non andava;
“ecumenismo” era un termine “bruciato”.
Soltanto il tempo, la conoscenza, il sedimentarsi delle
nuove leve rendono possibile questo. La vita monastica quindi da un lato ha
delle potenzialità enormi di dialogo ecumenico, ma soprattutto
nell’ecumenismo vissuto. Se voi andate ospiti in un monastero, sia ortodosso
sia copto, per l’ottanta per cento delle cose vi troverete a casa vostra.
Come i monaci africani che hanno detto: “Ma questi sono i nostri nonni!”
Anche se ovviamente hanno anche molte cose completamente diverse, come la
gran lunghezza degli uffici, la modalità di fare la
lectio
divina, la struttura del monastero. Si respira un’aria
comune. Se ospitate monaci di altre confessioni nei vostri monasteri, loro
si ritrovano subito. Se mai, il problema grosso è quello della lingua, ma
non tutto il resto. Anzi è proprio “tutto il resto” che aiuta la lingua a
capire le cose.
Credo che ci sono allora queste grandi possibilità, e il
rovescio è – come è frequente nel monachesimo – il pensare di dovere fare i
“puri e duri”. Se si pensa così – e questo vale non solo in campo ecumenico,
ma anche in campo cattolico – se si pensa di essere i soli bravi e migliori,
è chiaro che tutti gli altri sembrano difettosi, sembra anzi che contaminano
la nostra purezza immacolata, che non esiste, se siamo onesti con noi
stessi. Se, invece, capiamo che siamo in un cammino comune verso una più
forte radicalità del Vangelo, una presa sul serio della fede cristiana, e
della sua testimonianza nel mondo di oggi, allora lì troviamo davvero la
ricchezza dei tesori che sono gli altri. Conoscere come gli altri hanno
conservato la fede, per esempio, sotto la dittatura comunista, nei paesi
invasi nella marea musulmana del VI secolo, cosa significa conservare certe
tradizioni nel mondo dell’immigrazione, nella diaspora, coinvolti in giro
per il mondo.
Abbiamo fatto un convegno insieme al Consiglio ecumenico
delle chiese sul martirio come opportunità ecumenica. Siamo partiti dal
fatto che soprattutto nel XX secolo ci sono stati molti cristiani morti
martiri, indipendentemente dalla loro confessione particolare. Si trovavano
insieme greco cattolici e ortodossi nel
gulag, oppure sotto il nazismo; c’è stata opposizione al
nazismo sia da parte dei cattolici, che dei protestanti. Come fare tesoro di
questo fenomeno allora, come opportunità ecumenica? riconoscere la “santità”
dell’altro, nonostante la sua appartenenza a una chiesa che non è in piena
comunione con la nostra. Abbiamo poi pubblicato gli atti solo in inglese,
perché il convegno è stato sponsorizzato dal Consiglio ecumenico delle
chiese in cui l’inglese è la lingua ufficiale. In questi atti sono stati
presentati i fondamenti biblici e patristici del martirio. Poi, per aree
geografiche, storiche, i martiri di Corea i martiri per la giustizia in
America Latina, i martiri sotto il regime comunista, sotto quello nazista:
sono venute fuori delle testimonianze straordinarie. E anche delle scoperte
di iniziative preziosissime. Pensate che in Romania hanno preparato un
martirologio comune dei cristiani morti sotto il comunismo; un martirologio
fatto dalla Chiesa cattolica, dalla Chiesa ortodossa e dalla Chiesa
protestante, pubblicato in un unico volume.
È chiaro che non è un atto formale di canonizzazione, però
vuol dire che possiamo commemorare, anche se non celebrare, i nostri
fratelli e sorelle nella fede, anche nelle altre confessioni, che, di fronte
alla scelta di rinnegare la loro fede in Cristo in modi che sono diversi di
quelli dei primi secoli della Chiesa, quando veniva chiesto di bruciare
incenso agli dèi pagani, ma tuttavia si sono sentiti imporre di trasgredire
i comandamenti evangelici di amore per il prossimo, di non uccidere, di non
sopraffare l’altro e hanno saputo rendere testimonianza, indipendentemente,
gli uni dagli altri e sovente insieme, sostenendosi vicendevolmente, gli uni
gli altri in questa loro prova.
Anche a noi è venuta l’idea di un martirologio ecumenico,
che abbiamo curato e pubblicato attorno al 2000, prendendo lo spunto da
quell’accenno all’ecumenismo dei martiri che parla più forte delle divisioni
nella
Tertio millennio eunte
di Giovanni Paolo II. Egli si augurava un futuro
martirologio; noi abbiamo cominciato a lavorarci. Ma davvero quando si
leggono, si conoscono delle vite come queste, le differenze confessionali
vengono superate. Quando in un
gulag
a nessuno era data la
possibilità di celebrare l’eucaristia, né la divina Liturgia, né la Messa
cattolica, e invece c’era un prete che riusciva ad avere le specie sacre,
non si rifiutava di comunicare tutti i cristiani presenti. Formalmente non
si poteva, ma nessuno ha scomunicato chi aveva confessato di averlo fatto.
Si ricordano i prigionieri protestanti, che hanno fatto da
muro per nascondere tre-quattro cattolici che celebravano insieme la Messa.
Credo che nella misura in cui conosciamo queste realtà, ne veniamo a
contatto, diventiamo responsabili. Questo non riguarda solo la Comunità di
Bose, ma ogni cristiano. Se per un dono del Signore, che non è mai un caso,
ti viene data anche questa possibilità, ti verrà chiesto anche conto di che
cosa ne avrai fatto, di questo messaggio che ti è stato lanciato, della
preghiera affinché tutti siano una cosa sola, come “Io e il Padre sono una
cosa sola.”
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