IL MONASTERO DI BOSE E IL SUO RESPIRO ECUMENICO

 

Fratel Guido Dotti

 Scuola di cultura monastica – Monastero san Benedetto – Milano

21 febbraio 2011

Estratto dal sito della Conferenza Italiana Monastica Benedettine: www.benedettineitaliane.org

 

Stasera vorrei dirvi qualcosa di come viviamo, e come vediamo, l’ecumenismo a partire dalla nostra vicenda monastica a Bose. È fondamentale, mi sembra, chiarire fin da subito che essere una comunità composta di fratelli e sorelle non tutti cattolici, ma anche di altre confessioni cristiane, non è stata una scelta deliberata, programmata prima, ma è stata piuttosto un riconoscere, magari con perplessità e con fatica, ciò che ci è sembrato un dono del Signore, un’opportunità che ci veniva data, e che, come tutti i doni in ambito cristiano, impegnativo. C’è questo paradosso: la grazia ha un “prezzo da pagare”. Il dono ci viene dato per grazia, gratuitamente, ma una volta che è stato affidato, come i talenti, viene fatto fruttificare, e poi dobbiamo rendere conto di che cosa ne abbiamo fatto.

Questo per dirvi che la nostra vicenda, che ha ormai più di quarant’anni, è nata in anni in cui forse il desiderio dell’unità delle chiese e le speranze che si aprivano sull’ecumenismo erano un po’ più vivaci di oggi, anni in cui c’erano più attese. Il pontificato di papa Giovanni XXIII e l’apertura del Concilio e i documenti che man mano il Concilio tirava fuori avevano saputo ridestare non solo all’interno della Chiesa cattolica, ma anche all’interno delle altre chiese, una passione, un desiderio, e avevano fatto confluire anche quello che era un cammino ecumenico delle altre chiese cristiane. Quindi in un certo senso siamo nati in un clima che favoriva certe cose, ma entro certi limiti.

Per noi è stato subito chiaro, una volta decisi di iniziare, nonostante che non eravamo tutti cattolici – parlo come se fossi stato presente fin dall’inizio, ma sono arrivato solo quattro anni dopo; vi dico quello che mi hanno detto allora, che poi ho potuto verificare - una volta accettato questo dono impegnativo, dovevamo chiarirci bene che cosa volevamo fare di questo nostro essere una comunità ecumenica. È stato chiaro che da un lato la nostra vocazione primaria era quella monastica, ritrovare una forma di vita monastica che fosse leggibile, che fosse comprensibile, con un linguaggio che parlasse alla Chiesa, al nostro mondo contemporaneo, e nello stesso tempo, tener conto di come il monachesimo era stato uno dei luoghi anche di divisione, soprattutto rispetto alle chiese della Riforma. In alcuni periodi, in alcune zone, si era fatta “piazza pulita” della vita religiosa, in particolare della vita monastica. Solo a partire della seconda metà del secolo XIX la vita religiosa, la vita monastica, hanno cominciato a trovare qualche possibilità di “diritto di cittadinanza” all’interno delle chiese della Riforma.

Per noi, il primo approccio formale è stato quello di dire che noi non siamo una comunità nuova che è slegata rispetto alle chiese dei singoli membri, ma che ogni fratello, ogni sorella, rimane fedele alla chiesa che l’ha rigenerato in Cristo attraverso il battesimo. Questo significa prendere sul serio quello che le nostre chiese hanno stabilito sul riconoscimento reciproco del battesimo. Voi sapete che normalmente, quando un cristiano battezzato e appartenente a una chiesa storica, riconosciuta, cambia di confessione – è perfino improprio usare il termine “conversione” – quindi, quando un battezzato passa ad un’altra confessione, non gli è richiesto di essere ribattezzato. Proprio perché nonostante le differenze anche molto profonde, anche a livello ecclesiologico, il battesimo che si confessa, secondo il Nuovo Testamento, è che uno solo è il Signore, uno solo il battesimo, una sola è la fede. Quindi per noi ciascun membro della Comunità rimane radicato in Cristo attraverso quella chiesa che l’ha rigenerato in Cristo e l’ha educato fino al momento del suo arrivo in Comunità.

Attualmente, la stragrande maggioranza di noi è cattolica, e questo, perché siamo in Italia, dove la maggioranza dei cristiani è cattolica; però abbiamo alcuni fratelli della chiesa della Riforma: sono tre, tra i quali c’è fratel Matthias, che vi ha parlato la settimana scorsa. E da qualche anno abbiamo una monaca ucraina, ortodossa, della chiesa del Patriarcato di Mosca. Poi, hanno vissuto con noi alcune altre persone, ma non come membri della Comunità, tra le quali un metropolita ortodosso del Patriarcato di Costantinopoli, un amico di vecchia data della Comunità, che è stato uno degli osservatori al Concilio Vaticano II e rappresentante di Costantinopoli a Ginevra, al Consiglio ecumenico delle chiese. Quando è andato in pensione ha chiesto di poter venire a vivere con noi; aveva 76-77 anni, faceva il monaco esattamente come noi; tornato in Grecia per festeggiare Pasqua e le grandi feste, si è poi ammalato e ha voluto venire a salutarci per Natale, ha trascorso l’ultimo Natale da noi e poi, ritornato in Grecia, è mancato nel mese di febbraio di cinque anni fa.

Questo per dirvi che c’è nel nostro atteggiamento ecumenico e nel nostro modo di porci il desiderio di essere una presenza di chi ha ricevuto dal Signore questo dono inatteso ed inaspettato, e che cerca di farlo fruttare per l’insieme delle chiese, lavorando e pregando anche per l’unità della Chiesa. Questo non è il nostro “quarto voto”; non è una missione specifica, un compito particolare: semplicemente, è parte della nostra vita. Così, in fondo, l’ecumenismo è stato letto dal Magistero della Chiesa cattolica, a partire dal Vaticano II, in questi termini. L’Enciclica Ut unum sint di Giovanni Paolo II è molto esplicita. Non è un di più che si aggiunge alle varie attività, ma è qualcosa che fa parte ontologicamente della Chiesa. La Chiesa cattolica, nella quale sussiste la Chiesa di Cristo, ha in sé questo anelito alla ritrovata unità dei cristiani: è la preghiera che il Signore ha rivolto al Padre all’Ultima Cena. Non si tratta di moda: é la testimonianza del Vangelo, l’annuncio della Buona Novella che il Signore ci ha dato. Ci ha detto che la prima caratteristica per essere riconosciuti come suoi discepoli è l’amore che abbiamo gli uni per gli altri: “Da questo riconosceranno che siete i miei discepoli.”

È un po’ in questa ottica che ci siamo messi. La nostra Regola è molto chiara, e dice:

“Fratello, Sorella, tu provieni da una chiesa cristiana, non sei entrato in Comunità per rifare una chiesa che ti soddisfa, alla tua propria misura; tu appartieni a Cristo, attraverso la chiesa che ti ha generato a Lui con il battesimo. Riconoscerai perciò i suoi pastori, riconoscerai i suoi ministeri nella loro diversità, e cercherai di essere sempre segno di unità.”

Poi continua:

“Guardati dal criticare meschinamente, con amarezza e senza amore le chiese. Nella Chiesa non amare un’astrazione, una visione troppo personale, ma la comunità vivente, in cui Dio attende il tuo impegno e il tuo ministero.”

Si ribadisce:

“La Comunità non è confessionale, ma è fatta di membri che appartengono alle diverse confessioni cristiane. Ogni membro deve trovare nella comunità lo spazio per la sua confessione di fede e l’accettazione della sua spiritualità.”

Questo vuol dire anche uno sforzo nell’edificazione quotidiana della comunità. In questo senso possiamo dire che l’ecumenismo – e la Regola lo dice da un’altra parte – è “l’opera di ogni giorno” della comunità. Intraprendiamo delle iniziative, partecipiamo a delle attività più specificamente ecumeniche, ma in realtà il nostro percorso ecumenico, proprio perché non è un’attività in più, o un’attività tra le tante, ma la risposta di ciò che noi siamo, individualmente e come comunità, diventa qualcosa che passa nel quotidiano di ogni giorno, e quindi la struttura, la vita, il modo di pregare insieme, l’organizzazione stessa della comunità tiene conto del fatto di non essere tutti di una stessa confessione cristiana.

Questo a volte non è facile: è facile in teoria, un protestante battezzato vive in comunità e rimane protestante, e il cattolico vive in comunità e rimane cattolico e ciascuno rimane obbediente anche alla propria confessione di fede, alla propria chiesa, che può chiedergli delle cose ben precise. Per esempio, a noi cattolici può sembrare che la nostra chiesa ci chiede troppo, mentre ai protestanti, le loro chiese non chiedono molto; ci può sembrare che possano fare come vogliono. Se si guarda la Chiesa ortodossa, si vede che essa chiede ancora di più di quello che chiede la Chiesa cattolica, e via dicendo. Ma non è una questione di dover fare o di chiedere di fare di più o di meno. È una questione di obbedienza a una chiesa che storicamente è andata strutturandosi in un modo diverso, e che concepisce in modo diverso anche l’appartenenza. La fedeltà ha a che fare con la fede trasmessa, coltivata, custodita, e che ci ha portati a questa vita monastica, che abbiamo voluto come una vita che si rifà al monachesimo primitivo, ai primi secoli del monachesimo quando – guarda caso – le chiese non erano ancora divise, o almeno non troppo, perché già dal Concilio di Macedonia la Chiesa copta e quella armena presero un'altra strada. Sostanzialmente, durante il primo millennio, c’era l’unità, e l’unica forma di vita religiosa, sia in Occidente che in Oriente, era il monachesimo.

Poi nell’Occidente si iniziava con i Canonici e poi altre forme di vita religiosa, gli ordini mendicanti, eccetera; mentre nell’Oriente si è mantenuta come unica forma di vita religiosa il monachesimo, anche se poi oggi si trovano, e non da oggi, monasteri, sia maschili che femminili, in cui si fa un po’ di tutto.

È chiaro che il primo luogo in cui la Comunità di Bose si è trovata a dover fare i conti con questo suo essere non tutti cattolici è stata la liturgia, e in particolare la liturgia delle Ore. Perché la Messa, l’eucaristia, non è qualcosa che sia a disposizione di una singola comunità. L’eucaristia si riceve da una chiesa attraverso dei ministri ordinati per questo, e non è qualcosa che possiamo inventare noi. Mentre invece la liturgia delle Ore, tradizionalmente, è sempre stata il luogo della creatività, anche di ogni singola comunità. Un esempio banalissimo si trova nella Regola di Benedetto. Benedetto scrive dodici capitoli per parlare di uno schema per la liturgia delle Ore, quali salmi cantare a quali ore, come fare, e poi finisce dicendo: “Se, però, l’abate pensa di fare in modo diverso, faccia pure; basti che si recitino tutti i salmi in una settimana.”

È appunto la liturgia delle Ore che riflette di più l’identità della comunità raccolta in preghiera davanti al Signore. Questo lo sperimentiamo al livello di orari, di ritmi, di melodie, di modalità. Noi abbiamo preso questa sfida e dono bellissimo di non essere tutti cattolici per strutturare una liturgia delle Ore secondo la grande tradizione occidentale – siamo occidentali in un paese occidentale – ma che tenga conto del fatto che siamo di chiese diverse.

Allora abbiamo impostato questo lavoro – uno dei primi lavori, e tale continua ad essere. Nei prossimi mesi uscirà una nuova edizione della nostra preghiera dei giorni. Abbiamo strutturato una liturgia delle Ore in tre grandi momenti, cioè mattino, mezzogiorno e sera, anche questo è secondo una delle tradizioni più antiche; siamo passati dalle “sette volte al giorno” agli usi della prima tradizione, che si rifaceva alla preghiera ebraica al mattino, a mezzogiorno e a sera: Lodi, Ora media e Vespro, per vivere tutta la giornata davanti al Signore. Abbiamo impostata la preghiera della giornata da un lato basata sulla salmodia; è molto simile alla liturgia delle Ore del breviario romano. C’è un’introduzione, un inno, la salmodia, una lettura breve dall’Antico Testamento alla mattina e dall’Apostolo alla sera, il responsorio breve, la proclamazione del Vangelo, un momento di silenzio, preghiera di contemplazione alla mattina e di intercessione alla sera, un’orazione, il Padre nostro e la benedizione.

Come vedete, lo schema è fondamentalmente latino; dove abbiamo fatto tesoro del fatto che non siamo tutti cattolici è stato nella scelta degli inni, e nella scelta delle preghiere di contemplazione e di intercessione, in cui abbiamo attinto o direttamente dalla Scrittura che è comune a noi tutti, protestanti e cattolici, prendendo brani o ispirandoci a racconti biblici e trasformandoli in preghiere, oppure attingendo a tradizioni diverse e adattando alcune preghiere da corali luterani, da preghiere di contemplazione ortodosse, in modo che nella sua struttura si vede chiaramente che è una liturgia “latina”, cioè, anche se è in italiano, è una liturgia occidentale; ma nello stesso tempo, e questo abbiamo sperimentato nel corso degli anni, qualunque cristiano di qualunque confessione, che viene e si unisce alla nostra preghiera, può farlo senza dover sconfessare nulla della sua confessione di appartenenza.

Per questo, per la preghiera comunitaria abbiamo dovuto rinunciare ad alcune tradizioni, magari più devozionali, piuttosto che di tradizione monastica, che non ci avrebbero consentito una preghiera comunitaria dello stesso tipo; un esempio classico è il Rosario. Questo rimane più che lecito per i fratelli e sorelle cattoliche che vi siano abituate e lo vogliono usare, e lo possono benissimo nella loro preghiera personale, ma non è pensabile una recita comunitaria, perché creerebbe problemi per chi non lo sente inerente al proprio cammino di fede, alla sua formazione; non perché avrebbe qualcosa contro, ma si sentirebbe un po’ spiazzato nei riguardi della chiesa che l’aveva generato e formato.

È chiaro che quando si cerca una convergenza che non sia sincretismo, che non sia attaccare qua e là delle aggiunte, ma che abbia una sua unità, e che sia espressione di ciò che la Comunità è, bisogna essere disposti a rinunciare a qualcosa di non essenziale, per poter invece condividere ciò che è invece essenziale. Questo è un cammino che continuiamo a fare e quindi ci aiuta il fatto di avere ospiti che sono di un’altra confessione, anche se in gran parte sono cattolici. È chiaro che se arriva un ortodosso, o un gruppo di ortodossi, per condividere la nostra preghiera, non riconosce la preghiera come “sua”, nel senso che essa non ha le apparenze esterne di una liturgia ortodossa, ma può riconoscere un sostrato comune in una forma che è occidentale.

Nella vita fraterna nostra c’è uno sforzo quotidiano, quando ci sono decisioni da prendere, orientamenti da scegliere, di tenere sempre presente l’altro. È chiaro che in una comunità che ha un regime capitolare, tra tutti i fratelli e le sorelle professe, da un punto di vista solo numerico, i cattolici hanno sempre la maggioranza qualificata, sempre di più di due terzi, quindi si potrebbe prendere qualsiasi tipo di decisione, e imporla sui non cattolici. Ma, si capisce che non si fa una comunità di confessioni diverse, per poi fare comandare un gruppo confessionale sugli altri, anche se si tratta del gruppo che rappresenta la maggioranza numerica. In quel caso si può semplicemente formare all’inizio una comunità di soli cattolici, evitando così tali problematiche.

Per noi è stato forse lo sforzo più costante, ma anche più arricchente, quello di cercare di risalire, soprattutto là dove ci troviamo divisi, alle origini, cioè tornare a quando le chiese non erano ancora divise, e poi chiederci come mai le nostre varie chiese abbiano prese vie diverse, in base a quale istanza di desiderio di essere fedeli al Vangelo, alla tradizione; perché una differenza, magari agli inizi piccola, si è andata allargando sempre di più, e a volte si è molto lontani dagli “altri” perché appena partiti da vicini abbiamo cominciato a costruire il seguito della nostra tradizione in contrasto polemico con essi. Se si cerca di salire alle fonti, e anche alle fonti della divisione, se si vuole, si scopre che da un lato c’era comunque un anelito ad essere discepoli del Signore. Che poi questo desiderio sia stato distorto in un modo o nell’altro non è per noi ormai da capire fino in fondo. Uno dei trucchi più semplici in un qualsiasi conflitto, tra singole persone oppure tra nazioni, è quello di mettere di mezzo la religione. C’entra magari al cinque per cento, ma è una questione talmente carica di emotività, di passione interiore, che tu le puoi attribuire l’ottanta per cento di quello che invece sono solo una matassa di calcolini più meschini. Troviamo spesso che cosiddette “tensioni religiose” in un paese mascherano tensioni di altri tipi, sociali, politiche ed economiche ben più profonde e importanti.

L’aver quotidianamente questo allenamento a tener sempre conto della posizione dell’altro: non vuol dire scendere a compromessi, oppure accontentare una volta gli uni e poi una volta gli altri, ma cercare, e lo ripeto, di capire il perché di quest’altra posizione, il perché questo è ferito da quest’altro gesto, e allora plasmare, modificare, certe cose in modo che non si ferisce più l’altro. Io rinuncio a qualche cosa per fare capire quello che veramente mi sta a cuore: invece di fare tre passi avanti da solo, ne facciamo insieme uno e mezzo.

Accanto alla nostra vita fraterna c’è anche il ministero dell’ospitalità, che ci consente di avere degli orizzonti di ecumenismo che si allargano sempre di più. D’altronde il concetto che ho detto all’inizio, cioè che non si tratta di un “quarto voto”, di una scelta precisa e teologica, ma è un’obbedienza e un dono, ha il significato che abbiamo messo l’attenzione su quello che è possibile fare insieme, e soprattutto sul fatto che la ricchezza dell’essere insieme ci porta a conoscere i tesori delle altre chiese indipendentemente dal fatto che ci sia un fratello o una sorella di quella specifica chiesa.

Noi all’inizio, fino a quando non erano ancora arrivati quel metropolita e quella monaca, eravamo cattolici e protestanti; tutti occidentali, si può dire. Ma fin da subito, uno dei primi lavori che abbiamo fatto, quando ancora non avevamo la casa editrice, è stato quello di tradurre e pubblicare dei testi di spiritualità ortodossa. Perché abbiamo sempre pensato che le ricchezze evangeliche di testimonianza, di spiritualità, le ricchezze di vita interiore delle altre chiese le possiamo condividere, anche prima di condividere la mensa eucaristica. Chissà quando la potremo condividere? Perché non dipende da noi, dipende dalle nostre chiese. Mentre, invece, un santo possiamo “condividere” benissimo; che non sia canonizzato, pazienza! Non è canonizzato, perché è propriamente un santo di un’altra chiesa, ma credete che gli ortodossi non abbiano fatto tesoro di una figura come san Francesco? E perché non possiamo noi fare tesoro di una figura come Serafino di Sarov? D’altronde, queste sono anche cose che ci possono cambiare in meglio, arricchendo la nostra vita spirituale già adesso.

Se voi pensate, in fondo, la sofferenza per la divisione delle chiese, adesso la stiamo sperimentando di più, perché stanno aumentando le presenze di cristiani non cattolici anche nel nostro paese. Prima, generalmente in Italia - forse non in una grande città come Milano – si poteva incontrare qualche luterano, un valdese, ma la stragrande maggioranza era cattolica. Adesso a Torino e cintura i romeni sono 90.000, per l’ottanta per cento ortodossi. Un tempo, che cosa voleva dire, interessarsi di ecumenismo? Oppure sperare che nelle nostre chiese ci rendesse possibile la comunione sacramentale insieme? Voleva dire, al massimo, che se si fosse realizzato quello, andando in vacanza in Grecia, non avrei dovuto cercare una chiesa cattolica, ma sarei potuto andare a Messa in una chiesa qualunque.

Mentre, invece, il fare tesoro di quello che è stata la tradizione, le figure, la spiritualità, la comprensione del Vangelo delle altre chiese, di questo posso beneficiare restando a casa, andando in giro; questo arricchisce la mia fede. Questo abbiamo vissuto, e lo viviamo ora negli scambi con gli ospiti che vengono. E in questo senso, da ormai un bel po’ di anni, dal 1993, subito dopo la caduta del muro di Berlino, organizziamo dei convegni di spiritualità ortodossa. Avevamo iniziato con i russi, scelto ogni anno una figura di spiritualità russa e il suo tempo; venivano metropoliti, studiosi, anche monaci, soprattutto dalla Russia. A un certo punto, cominciavano a venire degli ortodossi greci; e abbiamo cominciato a scoprire che tra di loro, greci e russi non parlavano mai. Non avevano dei luoghi dove parlare.

Ci hanno chiesto: perché fate sempre tematiche russe? Perché non fare delle tematiche anche per noi bizantini? E così abbiamo cominciato a fare convegni “a due atti” – tre giorni su una figura di spiritualità greca, un giorno di pausa, e tre giorni sulla spiritualità russa. Venivano degli ospiti di cui alcuni si fermavano per tutta la settimana, alcuni che venivano solo per i greci e alcuni solo per i russi. Poi abbiamo preso il coraggio a due mani, patrocinati dal Patriarca di Costantinopoli per la sessione greca e dal Patriarcato di Mosca per la sessione russa, e così siamo andati avanti per un po’ di anni. Poi abbiamo detto: proviamo a parlarne con quelli che vengono, e poi decidiamo. E abbiamo detto: perché non fare un’unica sessione, non più su una figura, o su un periodo storico, ma su un tema spirituale, visto nella prospettiva ortodossa, dove “ortodosso” vuol dire Costantinopoli, Mosca, Romania, Bulgaria, Antiochia, l’Egitto, eccetera?

Per cui, da quattro anni facciamo il convegno su delle tematiche – il primo anno, su Cristo trasfigurato, poi sulla notte spirituale, sulla solitudine e la comunione – in modo che sia concentrato in quattro giorni, tutti gli ospiti vengono a tutto il convegno, e si parlano anche tra di loro, e non solo con noi. Si scoprono molto simili e anche con delle diversità, anche tra loro ortodossi; i cattolici che vengono conoscono un mondo ortodosso molto più variegato di quello che possono immaginare, che non è solo greco; vengono dalla Libia, dalla Siria, da Antiochia. È un mondo culturalmente arabo, ma che è stato cristiano prima che ci fosse l’Islam. È un altro approccio rispetto a quello del mondo ex sovietico, o greco.

Sono soprattutto studiosi che vengono, ortodossi dagli Stati dell’America, dall’Australia, ancora un’ortodossia diversa; vengono degli ortodossi discendenti da comunità di fuorusciti russi che dopo la rivoluzione si erano trasferiti in Francia, come i discepoli di Evdokimov. Tutto questo ci ha aperto nuove possibilità di scambi. Attraverso i nostri convegni veniamo a conoscere molti monaci. Ogni anno i nostri novizi con il loro Maestro vanno per una settimana in pellegrinaggio al Monte Athos. Ogni tanto riusciamo ad andare in Egitto a visitare i monasteri copti. Tre anni fa, sono stato richiesto e ho accettato di guidare un pellegrinaggio di una trentina di monaci e monache benedettini trappisti dell’Africa francofona, Benin, Senegal, Togo, eccetera; abbiamo visitato i monasteri copti. Alla fine, la cosa più bella che mi hanno detto era: “Grazie, perché ci hai fatto conoscere i nostri nonni!” “Nostri nonni” nella vita monastica, perché – dicevano – noi abbiamo ricevuto il monachesimo dalla Francia, e quindi dall’Occidente. Ma abbiamo scoperto che la Francia ha ricevuto il monachesimo da Benedetto, e Benedetto l’ha ricevuto dall’Oriente: da Antonio e da Pacomio. Poi, sono i nostri nonni come africani.” È vero che il sudsahara e l’Egitto, culturalmente, tradizionalmente, sono realtà ben diverse, ma vi assicuro che quando loro vedevano, per esempio, analogie con le devozioni popolari tra la gente che frequenta i monasteri, a loro sembrava di essere in Senegal.

Alimentiamo questi scambi, questi contatti, con la Romania, con la Russia, con l’Egitto, con la Grecia; attualmente c’è un nostro fratello che è riuscito a fare quaranta giorni in un monastero sull’ Athos, e adesso sta ad Atene ad approfondire la sua conoscenza del greco per poter coltivare questi contatti. Abbiamo altri rapporti di scambio con la Russia; ad uno dei nostri convegni è intervenuto due volte quello che allora era il capo del dipartimento delle relazioni con l’estero del Patriarcato di Mosca, e che adesso è il patriarca Kirill. Conosciamo da quando era giovane monaco, studente a Oxford, quello che adesso è capo dello stesso dipartimento, il metropolita Hilarione. Veniva come semplice monaco ai nostri incontri; ora è l’equivalente del Segretario di Stato della Chiesa di Mosca e in più Presidente del Consiglio per l’Unità.

Nascono così scambi e rapporti completamente inattesi. Con il mondo protestante abbiamo più gli scambi a livello di facoltà teologiche con singoli pastori, perché i protestanti non hanno una struttura episcopale, ecclesiale, come la Chiesa cattolica. Ma quando delle facoltà di teologia protestante collaborano con noi per fare insieme a Bose convegni di spiritualità della Riforma, e portano i loro studenti, questo apre delle prospettive diverse dal campo monastico, se volete. Ci sono anche degli scambi con delle comunità come Grandchamps, una comunità di suore, tutte protestanti, luterane e riformate, nata più o meno parallela con Taizé. Negli ultimi anni c’è stata un’apertura assolutamente inattesa verso il mondo Anglicano.

Avevamo chiesto di poter tradurre un suo libro all’Arcivescovo di Galles, che poi è stato eletto Arcivescovo di Canterbury, Primate della comunione Anglicana. Appena eletto, ci ha telefonato chiedendo di poter fare da noi un ritiro prima della sua ufficiale intronizzazione. Siamo diventati amici, e adesso viene quasi ogni anno, o con sua moglie o da solo, per fare una settimana di ritiro con noi. L’ultimo giorno, facciamo un pranzo di festa e una collatio, alla quale partecipa anche lui. Nella Comunione anglicana, una volta saputo che lui veniva da noi, ci hanno chiesto di accogliere un incontro di tutti i vescovi che si interessavano all’ecumenismo. Poi, tre anni fa, sono stato invitato come ospite personale dell’Arcivescovo alla Conferenza di Lambeth, che è l’incontro di tutti i vescovi della Comunione anglicana nel mondo che si tiene ogni dieci anni.

Arrivato, mi trovo con un altro ospite personale, il p. Timothy Radcliffe, già Maestro generale dei domenicani, che era venuto una volta da noi per predicare gli esercizi. Dopo due giorni di ritiro sono arrivate le delegazioni ecumeniche e il cardinal Kasper.

Questi legami che si sono intensificati con la Comunione anglicana hanno fatto sì che dopo l’uscita recente del documento del Papa sulla Comunione anglicana siano ripartiti i dialoghi teologici ufficiali tra Chiesa cattolica e Chiesa anglicana, terza fase. A maggio di quest’anno (2011) avremo presso di noi per dieci giorni come nostri ospiti quindici teologi cattolici e quindici anglicani, che discutano su questi argomenti.

Tutto questo è un risvolto non cercato – ma anche i convegni ecumenici sono nati per caso. Adesso abbiamo legami anche con la Chiesa luterana svedese; a partire da un pastore che è venuto una volta, e ha fatto venire anche il suo vescovo. Il vescovo era incantato, ha portato dei giovani, e ha fatto fare un ritiro a dodici vescovi svedesi luterani a Bose. Hanno portato il loro predicatore, ma hanno voluto fare da noi il ritiro. Ospitiamo dialoghi bilaterali tra cattolici e altri discepoli di Cristo, e il Consiglio ecumenico delle chiese.

Questo non cambia fondamentalmente la nostra vita; e di nuovo non è per questo che ci siamo. Non siamo un centro che vuole sfornare attività ecumeniche. Semplicemente cerchiamo di fare fruttificare i semi che ci sono messi in mano. Così continuiamo le pubblicazioni, che trattano argomenti di spiritualità ortodossa, anche testi di spiritualità protestante, anglicana– tra l’altro, tre quattro volumi dell’Arcivescovo. Matthias fa parte del gruppo di teologi francofoni, cattolici e riformati, che periodicamente affrontano insieme delle tematiche, ma noi sentiamo questo come qualcosa che alimenta il tessuto della nostra vita, che deborda anche a beneficio della Chiesa. Ma innanzitutto è qualcosa che nutre noi, e che troviamo consonante, corrispondente con la nostra vocazione; non è qualcosa che ci distolga da quello che facciamo e viviamo, crediamo e vogliamo testimoniare.

Ma anzi ci riporta alla nostra vocazione monastica che è fondamentale, che non a caso è da sempre un possibile potenziale luogo ecumenico. Proprio perché il monachesimo è una forma di vita evangelica che precede la divisione delle chiese, e che è in sintonia con certe istanze delle varie chiese, con l‘idea di una riforma della chiesa intesa come maggior fedeltà al Vangelo. Questa istanza dovrebbe trovare nel monachesimo un terreno fertile, e allora magari è colpa nostra se non lo trova, ma di per sé il monachesimo si presta a questo. D’altronde, la vita monastica nasce all’interno della Chiesa indivisa; diciamo che essa predispone tutto perché si capisca che l’essenziale l’abbiamo in comune e non è diviso. Nel corso della storia e ancora oggi magari trovate che i più agguerriti dei nemici dell’ecumenismo sono i monaci; anche questo accade. Ma penso che sia perché pensano di essere custodi di un’identità che deve essere anche un’identità confessionale, e quindi sono l’ultimo baluardo. Ma questo, non a caso, è qualcosa che ferisce, che blocca anche all’interno delle rispettive chiese.

Ci sono alcuni monasteri del Monte Athos che hanno tolto dai dittici dell’eucarestia il nome del Patriarca ecumenico, da cui in teoria dipendono, perché lo trovano troppo aperto all’ecumenismo. Poi, pensate che tutto il mondo ex sovietico deve digerire il fatto che il termine stesso “ecumenismo” per loro era sgradito, perché era il modo soft con cui il regime faceva passare delle possibili aperture; cioè le persone di chiesa potevano andare all’estero solo se si faceva finta di essere ecumenici, persone presenti soprattutto in Russia; meno negli altri paesi del blocco sovietico. Erano infiltrate anche all’interno della chiesa, nella gerarchia stessa della chiesa. Quelli che più si muovevano sul piano internazionale erano quelli che avevano a che fare con il mondo ecumenico. E si capiva che con questi, semplici fedeli, preti, monaci, c’era qualcosa che non andava; “ecumenismo” era un termine “bruciato”.

Soltanto il tempo, la conoscenza, il sedimentarsi delle nuove leve rendono possibile questo. La vita monastica quindi da un lato ha delle potenzialità enormi di dialogo ecumenico, ma soprattutto nell’ecumenismo vissuto. Se voi andate ospiti in un monastero, sia ortodosso sia copto, per l’ottanta per cento delle cose vi troverete a casa vostra. Come i monaci africani che hanno detto: “Ma questi sono i nostri nonni!” Anche se ovviamente hanno anche molte cose completamente diverse, come la gran lunghezza degli uffici, la modalità di fare la lectio divina, la struttura del monastero. Si respira un’aria comune. Se ospitate monaci di altre confessioni nei vostri monasteri, loro si ritrovano subito. Se mai, il problema grosso è quello della lingua, ma non tutto il resto. Anzi è proprio “tutto il resto” che aiuta la lingua a capire le cose.

Credo che ci sono allora queste grandi possibilità, e il rovescio è – come è frequente nel monachesimo – il pensare di dovere fare i “puri e duri”. Se si pensa così – e questo vale non solo in campo ecumenico, ma anche in campo cattolico – se si pensa di essere i soli bravi e migliori, è chiaro che tutti gli altri sembrano difettosi, sembra anzi che contaminano la nostra purezza immacolata, che non esiste, se siamo onesti con noi stessi. Se, invece, capiamo che siamo in un cammino comune verso una più forte radicalità del Vangelo, una presa sul serio della fede cristiana, e della sua testimonianza nel mondo di oggi, allora lì troviamo davvero la ricchezza dei tesori che sono gli altri. Conoscere come gli altri hanno conservato la fede, per esempio, sotto la dittatura comunista, nei paesi invasi nella marea musulmana del VI secolo, cosa significa conservare certe tradizioni nel mondo dell’immigrazione, nella diaspora, coinvolti in giro per il mondo.

Abbiamo fatto un convegno insieme al Consiglio ecumenico delle chiese sul martirio come opportunità ecumenica. Siamo partiti dal fatto che soprattutto nel XX secolo ci sono stati molti cristiani morti martiri, indipendentemente dalla loro confessione particolare. Si trovavano insieme greco cattolici e ortodossi nel gulag, oppure sotto il nazismo; c’è stata opposizione al nazismo sia da parte dei cattolici, che dei protestanti. Come fare tesoro di questo fenomeno allora, come opportunità ecumenica? riconoscere la “santità” dell’altro, nonostante la sua appartenenza a una chiesa che non è in piena comunione con la nostra. Abbiamo poi pubblicato gli atti solo in inglese, perché il convegno è stato sponsorizzato dal Consiglio ecumenico delle chiese in cui l’inglese è la lingua ufficiale. In questi atti sono stati presentati i fondamenti biblici e patristici del martirio. Poi, per aree geografiche, storiche, i martiri di Corea i martiri per la giustizia in America Latina, i martiri sotto il regime comunista, sotto quello nazista: sono venute fuori delle testimonianze straordinarie. E anche delle scoperte di iniziative preziosissime. Pensate che in Romania hanno preparato un martirologio comune dei cristiani morti sotto il comunismo; un martirologio fatto dalla Chiesa cattolica, dalla Chiesa ortodossa e dalla Chiesa protestante, pubblicato in un unico volume.

È chiaro che non è un atto formale di canonizzazione, però vuol dire che possiamo commemorare, anche se non celebrare, i nostri fratelli e sorelle nella fede, anche nelle altre confessioni, che, di fronte alla scelta di rinnegare la loro fede in Cristo in modi che sono diversi di quelli dei primi secoli della Chiesa, quando veniva chiesto di bruciare incenso agli dèi pagani, ma tuttavia si sono sentiti imporre di trasgredire i comandamenti evangelici di amore per il prossimo, di non uccidere, di non sopraffare l’altro e hanno saputo rendere testimonianza, indipendentemente, gli uni dagli altri e sovente insieme, sostenendosi vicendevolmente, gli uni gli altri in questa loro prova.

Anche a noi è venuta l’idea di un martirologio ecumenico, che abbiamo curato e pubblicato attorno al 2000, prendendo lo spunto da quell’accenno all’ecumenismo dei martiri che parla più forte delle divisioni nella Tertio millennio eunte di Giovanni Paolo II. Egli si augurava un futuro martirologio; noi abbiamo cominciato a lavorarci. Ma davvero quando si leggono, si conoscono delle vite come queste, le differenze confessionali vengono superate. Quando in un gulag a nessuno era data la possibilità di celebrare l’eucaristia, né la divina Liturgia, né la Messa cattolica, e invece c’era un prete che riusciva ad avere le specie sacre, non si rifiutava di comunicare tutti i cristiani presenti. Formalmente non si poteva, ma nessuno ha scomunicato chi aveva confessato di averlo fatto.

Si ricordano i prigionieri protestanti, che hanno fatto da muro per nascondere tre-quattro cattolici che celebravano insieme la Messa. Credo che nella misura in cui conosciamo queste realtà, ne veniamo a contatto, diventiamo responsabili. Questo non riguarda solo la Comunità di Bose, ma ogni cristiano. Se per un dono del Signore, che non è mai un caso, ti viene data anche questa possibilità, ti verrà chiesto anche conto di che cosa ne avrai fatto, di questo messaggio che ti è stato lanciato, della preghiera affinché tutti siano una cosa sola, come “Io e il Padre sono una cosa sola.”


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20 marzo 2022        a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net