Il Concilio di Aquisgrana e la Regola dei Canonici

Jerome Bertram FSA

Estratto e tradotto da "The Chrodegang Rules - The Rules for the Common Life of the Secular Clergy from the Eighth and Ninth Centuries" - Ed. Routledge - Gruppo Taylor & Francis 2017

 

Il programma di consolidamento e di riforma iniziato da Pipino fu portato avanti con ininterrotto zelo dai suoi successori Carlo il Grande e Ludovico il Pio, sempre in stretta comunicazione con il Papa e sotto la notevole influenza dell'Inghilterra. Come sottolinea Giles Brown, non dobbiamo pensare che Carlo Magno stesse iniziando una nuova riforma, ma solo continuando un processo già esistente: “Non c'è stato un Rinascimento carolingio... perché non c'è stata la lunga notte buia che lo ha preceduto". Come sempre, il mantenimento di un elevato standard di condotta del clero era visto come la chiave per ravvivare l'intera Chiesa, e una successione di sinodi o concili locali preparò la strada per i concili definitivi di Aquisgrana nell'816-17. Anche in Inghilterra, al di fuori del controllo diretto dei Carolingi, le comunità di clero erano ben radicate prima delle prime guerre danesi. Dom David Knowles riteneva che i legati papali nel 786-7 avessero effettivamente portato con sé in Inghilterra la Regola di Crodegango, anche se non esiste un'autorità specifica a riguardo (Knowles 1949, p. 139 sq.). Di sicuro portarono venti capitoli di Adriano 1, tra cui la regola che tutti i canonici dovevano vivere "canonicamente" (Hadden e Stubbs (1871), iii, 450, c. 4; cfr. Deanesly 1925). Ci sono prove che la vita comunitaria veniva vissuta a Canterbury all'inizio del IX secolo, quando l'arcivescovo Wilfred confermò alcuni privilegi per i sacerdoti, i diaconi e il clero, tra cui il diritto di possedere e lasciare in eredità proprietà, ma insistendo sul fatto che dovevano frequentare regolarmente il coro della cattedrale, mangiare insieme nel refettorio e dormire nel dormitorio.

Sul continente, anche se non ci sono prove dirette dell'uso della Regola di Crodegango al di fuori di Metz, ci sono certamente accenni al suo utilizzo, ad esempio a Strasburgo (Semmler 1973, p. 244, n.). Che fossero a conoscenza o meno di Crodegango, certamente il clero in molte zone conduceva già una sorta di vita comune, ritenuta un'istituzione di grande antichità. Carlo Magno inviava regolarmente degli inviati (missi) per ispezionare il comportamento del clero, con l'istruzione di verificare che vivessero "canonicamente". Entro l'802 l'imperatore insisteva sul fatto che tutti i consacrati a Dio dovevano seguire lo stile di vita "regolare" (cioè la Regola di San Benedetto) o quello "canonico". I sacerdoti solitari, e soprattutto i sacerdoti erranti, dovevano essere costretti a far parte di comunità di una o dell'altra forma. Tuttavia è prevista la presenza di "sacerdoti di campagna", che avrebbero potuto vivere in comunità solo con chierici minori ma non con altri sacerdoti (de Clercq 1937, pp. 218-24). Nell'813 si tennero cinque concili regionali, ad Arles, Reims, Magonza, Chalons e Tours, tutti riguardanti la disciplina ecclesiastica e tutti giunti più o meno alle stesse conclusioni sulla necessità di imporre la vita comunitaria al clero. Questi seguono il precedente stabilito da Pipino e Carlo Magno, preoccupati di sostenere la moralità, "per la pace e la rettitudine di tutto il popolo, per l'onore del re e per il beneficio comune" (MGH Cap. I, 305, citato in McKitterick 1977, pp. 7-11). Una delle disposizioni di Magonza prevede che nessuno venga tonsurato al di sotto dell'età e contro la sua volontà, ma senza definire quale fosse l'età giusta: (MGH Concilia II, p. 267) non c'è motivo di supporre che chi avesse sette o otto anni fosse considerato incapace di prendere una tale decisione. Tutti e cinque i concili riferirono a un concilio generale ad Aquisgrana nel settembre 813, che coincise con l'incoronazione di Luigi a imperatore (de Clercq 1937, p. 245 sgg.).

I Concili maggiori di Aquisgrana furono convocati qualche anno dopo, quello dell'816 per il clero e quello dell'817 per i monaci. Il Concilio si riunì per la prima volta nell'agosto dell'816, fece una pausa di un mese (per dare tempo alla stesura del documento) e si riunì nuovamente a settembre per acclamare e approvare i decreti. I testi e i canoni scelti per comporre questi decreti, noti come Institutio Canonica (IC), servono a rafforzare la legislazione esistente, non a creare nuove disposizioni. Solo l'intervento personale dell'imperatore sul cibo e sulle bevande è veramente originale - e questo sarà l'ambito più attaccato nei secoli successivi (de Clercq 1958, pp. 12-13).

A causa della varietà delle fonti, il decreto di Aquisgrana utilizza una varietà di titoli per il superiore: l'autorità ultima è il praelatus, di solito un vescovo, che nomina un praepositus o un prior, qui tradotti rispettivamente come "prevosto" o "superiore". Non c'è alcun riferimento alla carica di primicerio, così spesso menzionata da Crodegango. In realtà non c'è alcuna prova che i compilatori dell'Istituto siano stati influenzati da Crodegango, nonostante l'opinione comune della maggior parte degli storici. Gli unici echi verbali (non ci sono citazioni dirette) si hanno quando entrambi i testi citano lo stesso originale, di solito la Regola di San Benedetto. Sebbene San Crodegango utilizzi la Regola benedettina molto più di quanto non faccia Aquisgrana, c'è almeno un punto in cui Aquisgrana la cita più di quanto non faccia Crodegango (la disposizione per la luce nel dormitorio, IC 136, RB 22), dimostrando di avvicinarsi a San Benedetto in modo indipendente. Laddove le disposizioni sono simili, si tratta di luoghi comuni della legislazione canonica (come l'uso del dormitorio e del refettorio, o la custodia della clausura); in molti punti le regole di Aquisgrana differiscono notevolmente da quelle di Crodegango, e ci sono molte aree trattate da Crodegango che ricevono poca o nessuna considerazione nella Regola successiva. L'esame del testo fa dubitare della fiduciosa affermazione di Morhain secondo cui "l'opera di Aix la Chapelle rimane un magnifico omaggio reso dai più qualificati rappresentanti dell'episcopato di tutto l'Impero all'opera del vescovo di Metz" (Morhain 1948, p. 183). Sembrerebbe strano che i vescovi di Aquisgrana fossero davvero all'oscuro dell'opera di Crodegango, ma mostrano ben poche prove di tale consapevolezza. (Naturalmente, se si accetta che la "Regola più lunga" sia anteriore all'816, come comunemente si afferma, il decreto di Aquisgrana deve chiaramente derivare da essa, ma come intendiamo dimostrare nel capitolo 4. la Regola più lunga deve risalire ad almeno quarant'anni dopo).

La regola

Il documento si apre con un prologo che descrive il processo attraverso il quale la Regola è stata redatta e lo scopo che si prefiggeva. Si percepiva che i superiori delle comunità stavano venendo meno ai loro doveri nei confronti dei sudditi e dei poveri e che anche il clero che viveva in quelle comunità aveva bisogno di una riforma. Sebbene lo stile di vita comunitario fosse evidentemente accettato come norma, non esisteva uno standard condiviso con cui regolarlo. Ciò implica che la Regola di Crodegango era sconosciuta, o almeno ignorata, dai Padri conciliari, certamente non accettata come autorevole.

L'Imperatore sollecitò quindi il Concilio a far redigere una selezione, sia dai Padri che dai canoni esistenti dei passati concili ecclesiastici, che potesse fungere da guida per la corretta condotta dei superiori e dei subordinati nella vita clericale. A questo scopo diede loro accesso alla Biblioteca imperiale. Il documento che ne risultò fu accolto con acclamazione dall'Imperatore e dall'intero Consiglio. Ad esso si accompagnava una Regola per le donne che vivevano secondo i canoni, facendo una distinzione tra queste "canonichesse" e le vere monache che seguivano la Regola di San Benedetto. (Si può ragionevolmente supporre che con queste canonichesse fossero incluse alcune mogli di ecclesiastici ordinati e che si erano separate dai loro mariti al momento dell'ordinazione al suddiaconato).

Il Prologo è seguito da una lunghissima catena di testi patristici e conciliari. Nonostante l'offerta dell'imperatore di "una grande abbondanza di libri", viene utilizzata solo una gamma limitata di fonti. Vengono selezionati estratti dagli scritti di sant'Isidoro di Siviglia (560-636 circa), dai suoi Libri Sententiarum, Libro 3, capitoli 33-47; e dal De Ecclesiasticis Officiis, Libro 2, capitoli 1-15, con solo qualche omissione. Altri capitoli, dal Libro 1, capitoli 19-23, sono incorporati più tardi nella Regola stessa. Da San Girolamo (342-420 circa) sono tratti estratti dal suo commento all'Epistola a Tito e dalle sue lettere a Oceano (compresa una spuria), Nepoziano, Paolino, Rustico ed Eliodoro. Sant'Agostino (354-430) contribuisce con la maggior parte del suo famoso Discorso sui pastori e con l'insieme di due sermoni sulla vita comune del clero. San Gregorio Magno (540-604 circa) è rappresentato solo attraverso l'oscuro scrittore spagnolo Taio (nato nel 646), che ha compilato i suoi Libri Sententiarum con frammenti delle opere più note di San Gregorio, la Pastorale e la Morale sul Libro di Giobbe. Tutti gli estratti utilizzati nell’Institutio Canonica (IC) provengono dal Libro 2, capitoli 32-44, di Taio. San Prospero d'Aquitania (390-455 circa) è di nuovo rappresentato solo dall'opera spuria De Vita Contemplativa, in realtà da attribuire a Giuliano Pomerio (fl. 484-97 circa); di questa sono utilizzati solo il Libro 1, capitoli 13-22, e il Libro 2 capitoli 9-14.

Da questa curiosa selezione, l'autore ha tratto un utile manuale per il clero, e in particolare per i suoi superiori. Inizia con la descrizione di Isidoro degli otto gradi dell'Ordine Sacro allora riconosciuti (IC 1-8): Facchino, Lettore, Esorcista, Accolito, Suddiacono, Diacono, Sacerdote e Vescovo, prima di esaminare criticamente i Vescovi. San Girolamo, commentando San Paolo, ci dice come devono essere scelti e come devono vivere (IC 10-11), sostenuto da Sant'Agostino (IC 12) e San Gregorio (IC 13-14). Isidoro torna poi ad esaminare il caso particolare dei prevosti delle comunità di chierici e come devono governare i loro sudditi (IC 15-16, 18, 20, 21-2, 25). In questo è aiutato da San Gregorio (IC 17, 21, 24) e dallo pseudo-Prospero (IC 19). Tutti e tre tornano sulla questione dei vescovi e sul loro eventuale comportamento scorretto (IC 26-38).

Interviene poi una selezione di Canoni Conciliari (IC 39-93). Questi derivano da concili sia locali che generali, da Nicea in poi, e devono essere stati tratti dalla raccolta di canoni inviata da Papa Adriano I a Carlo Magno nel 774, la cosiddetta “Dionisio-Hadriana”. Sono per lo più destinati all'esame dei vescovi, per indirizzarli su come controllare il loro clero. Presumibilmente i canoni selezionati sono quelli che i Padri conciliari ritenevano non venissero osservati e che dovevano essere ricordati al clero e ai suoi superiori. I canoni sono particolarmente preoccupati per il problema del clero errante, che lascia le proprie diocesi e si presenta in altre senza controllo episcopale. Ci sono anche preoccupazioni per il comportamento dei chierici, la continenza, la sobrietà, il digiuno e il distacco dalle ambizioni mondane, così come per le possibili cause legali e per il mantenimento dell'ordine e del rispetto dovuti. Vale forse la pena di notare che viene citato un solo canone sulla continenza, il famoso canone 3 di Nicea (IC 38), che proibisce alle donne di vivere nelle case dei chierici, tranne che per i parenti più stretti: ciò implica che l'incontinenza non era un problema comune tra i chierici all'inizio dell'VIII secolo, anzi, il contrario, dato che si vide la necessità di includere un canone che metteva in guardia dall'essere troppo orgogliosi della propria verginità (IC 67). Ovviamente i padri conciliari erano molto più preoccupati per il clero che vagava da un luogo all'altro. Tuttavia scelgono due canoni che proibiscono al clero di frequentare le case pubbliche (IC 60, 90), altri due che proibiscono di banchettare nelle chiese (IC 59, 80) e uno che dice di non saccheggiare i beni del vescovo alla sua morte (IC 88).

Il testo passa ora a selezionare brani dei Padri riguardanti la vita del clero ordinario. Estratti dalle lettere di san Girolamo (IC 94-8) spiegano il significato dello stato clericale e come si differenzia da quello dei monaci. In effetti, sembra che il clero abbia la possibilità di possedere beni, ma non necessariamente di vivere in comunità, mentre i monaci hanno il voto di una stretta comunità di beni e vivono separati dal mondo. Tuttavia Girolamo ritiene che il clero debba dare esempio di frugalità e di vita semplice. Altri capitoli di sant'Isidoro (IC 99-101) descrivono il clero in termini piuttosto generali, e san Gregorio (tramite Taio) parla della cura pastorale (IC 102-5). Lo pseudo-Prospero interviene poi sulla povertà clericale (IC 106-11): è molto più categorico di san Girolamo sul fatto che i chierici non dovrebbero idealmente possedere nulla e, se sono così deboli di spirito da non poter rinunciare a tutti i loro beni, allora non devono aspettarsi di ricevere alcun sostegno dalla Chiesa. A sostegno di questa tesi ci sono i due lunghi e sconclusionati sermoni di sant'Agostino (IC 112-13), che consistono in gran parte in resoconti di come i vari ecclesiastici di Ippona abbiano rinunciato a tutte le loro proprietà per vivere con il loro vescovo. Werminghoff commenta che questi ultimi due autori sono incoerenti con la Regola di Aquisgrana che segue, e si chiede se siano un'aggiunta, ma la tradizione manoscritta è unanime, e Prospero è citato più di una volta nel testo della Regola. Agostino doveva ovviamente essere incluso, dato che era noto che viveva in comunità con il suo clero: la domanda più scottante è perché qui non si parla affatto della cosiddetta Regola di Sant'Agostino. La risposta è sicuramente che essa era considerata applicabile solo ai monaci o alle monache, non al clero pastorale. Nel secondo Concilio di Aquisgrana, nell'817, il documento equivalente per i monaci e le monache è la Concordia Regularum di Benedetto di Aniane, che in effetti cita la Regola di Sant'Agostino come parallelo alla Regola di Benedetto cap. 52 (La chiesa del monastero). Il primo redattore (benedettino) della Concordia commenta che la citazione è certamente tratta dalla lettera di Agostino alla sorella per consigliarle la vita religiosa che conduceva con le compagne, ma che Benedetto di Aniane stesso fu il primo a trasporla in forma maschile. Pochi agostiniani moderni sarebbero d'accordo con questa affermazione, ma è chiaro che al tempo dei concili di Aquisgrana, sebbene fosse conosciuta, non era considerata rilevante per il clero.

Segue un nuovo inizio, con un nuovo prologo e la rubrica Regula Canonicorum, la Regola per i canonici. Sebbene continui la moderna numerazione dei paragrafi, è evidente che ci troviamo di fronte a un testo autonomo, la vera e propria Regola di Aquisgrana in contrapposizione ai suoi documenti di supporto. Si tratta di trentadue capitoli, di lunghezza variabile, che descrivono lo stile di vita da osservare tra il clero secolare dell'Impero.

Un lunghissimo capitolo iniziale (IC 114) è quasi interamente composto da citazioni del Nuovo Testamento, volte a chiarire la distinzione tra la vocazione del monaco, che è quella di praticare una perfetta abnegazione e in particolare di rinunciare a ogni proprietà privata, e la vocazione comune di ogni cristiano a praticare la carità, la frugalità e l'osservanza dei Comandamenti. E la nota distinzione tra i precetti del Vangelo, i detti di Nostro Signore che stabiliscono la norma della vita cristiana, e i consigli, i suggerimenti offerti a coloro che sono disposti a dare di più. La Regola di Aquisgrana sottolinea che seguire i Precetti è ancora una via stretta e rigorosa, e non è affatto facile. Chi non è monaco non può consolarsi pensando di non avere uno standard elevato da rispettare. Questo tema continua nel capitolo successivo (IC 115), in cui si afferma che la vita dei Canonici, che non sono monaci, "eccelle tutte le altre istituzioni". Un capitolo sui beni della Chiesa (IC 116) sottolinea l'importanza di essere scrupolosi nel rendere conto del denaro affidato alla Chiesa. Questi fondi sono destinati al sostentamento del clero, oltre che dei poveri, e quindi l'integrità nell'amministrarli è ancora più vitale. In tutto questo non c'è alcun parallelo nella Regola di Crodegango, ma il capitolo 114 dipende strettamente dall'Epistola 157 di Agostino (PL 33, 674-93).

Dalle risorse della Chiesa, la Regola rivolge ora la sua attenzione alle vere e proprie comunità dei canonici. Inizia con la recinzione stessa (IC 117), specificando che ci deve essere un forte muro che circonda i dormitori, i refettori e gli altri edifici domestici, con una sola porta. In questo concorda implicitamente con la Regola di Crodegango (RC 27), anche se senza citazioni verbali. I due capitoli successivi parlano dei membri della comunità e della discrezione necessaria per sceglierli (IC 118-19). I prevosti non devono ammettere troppi canonici, né limitarsi ad ammettere solo i membri della familia della Chiesa. Questi ultimi sembrano essere i giovani chierici, figli di canonici già sposati, che sarebbero stati la fonte naturale di reclutamento. L'implicazione è che i canonici potrebbero essere reclutati anche in età adulta e che i membri di tutte le classi dovrebbero essere considerati allo stesso modo.

Abbiamo poi un altro capitolo che tratta del reddito dei chierici (IC 120). Citando ancora una volta lo pseudo-Prospero, la regola distingue tra coloro che hanno un reddito privato, che hanno diritto solo a cibo, bevande e a una parte delle offerte libere, e coloro che non hanno nulla, e che quindi avranno bisogno di uno stipendio dai fondi della chiesa. Qui il principio è più o meno lo stesso di Crodegango (RC 31), secondo cui chi ha proprietà può tenerle finché non si aspetta di essere sostenuto anche dalla Chiesa, mentre chi è povero, per nascita o per scelta, può attingere ai fondi della Chiesa. Le offerte libere (eleemosynas) che sono condivise anche tra i chierici che possiedono proprietà devono essere quelle che oggi si chiamano “remunerazione per le Messe” o "contributo per la stola", i doni offerti con la richiesta di preghiere, che sono menzionati anche da Crodegango (RC 32).

Un approccio molto diverso da quello di Crodegango si riscontra nella fornitura di cibo e bevande. Mentre la Regola più antica prevede una scala graduata di bevande a seconda dell'anzianità e raziona il cibo in termini vaghi (RC 22-3), il Consiglio di Aquisgrana insiste sul fatto che tutti i canonici devono ricevere la stessa quantità senza favoritismi (IC 121). L'unica variazione consentita è quella da casa a casa, a seconda della prosperità del quartiere. In un lungo e complicato capitolo (IC 122) il Consiglio, dopo l'intervento personale dell'Imperatore, suggerisce che in una situazione ideale ogni canonico dovrebbe ricevere cinque pinte di vino al giorno, da compensare con birra se il vino non è sufficiente. In caso di disaccordo sulle quantità, l'Imperatore ha previsto pesi e misure standard, che si trovano in ogni città, provincia e miniera. Questa gargantuesca concessione di vino avrebbe portato a molti commenti negativi nel corso dell'XI secolo, non da ultimo da parte di Pier Damiani.

Come per risollevarci da questo capitolo baccanale, il successivo ci ricorda che il prevosto ha il compito di nutrire le menti e i corpi dei suoi sudditi (IC 123). A questo scopo è prevista una riunione quotidiana del Capitolo e ci viene ricordata l'importanza di un dormitorio e di un refettorio comuni, con letture e servizio reciproco. Qui vengono riassunte le conclusioni di Crodegango (RC 3, 8, 24), ma ancora una volta senza nemmeno un'eco verbale del testo della matrice.

Due capitoli sull'abbigliamento (IC 124-5) non danno istruzioni dettagliate, ma si preoccupano di mettere in guardia i canonici contro le tendenze contrastanti a vestirsi alla moda o a fingersi monaci. L'implicazione è che esiste una forma riconosciuta di abbigliamento clericale e che questa deve essere indossata, senza ostentazione né di raffinatezza né di squallore. Inoltre, è evidente che i canonici sono tenuti a procurarsi i propri abiti. Tutto ciò differisce notevolmente da Crodegango, che prevede che i suoi canonici siano regolarmente dotati di un abito uniforme (RC 29).

Cinque capitoli sull'Ufficio divino (IC 126-130) sono ripresi alla lettera da sant'Isidoro, sugli Uffici ecclesiastici (libro 2, capitoli 19-23). Parlano delle tre ore diurne di Terza, Sesta e Nona, dei Vespri, della Compieta, delle Veglie e del Mattutino, senza dare indicazioni specifiche ma fornendo il motivo per cui questi momenti del giorno e della notte devono essere scanditi dalla preghiera. Il commento sardonico di sant'Isidoro sugli eretici curiosi, che pensano che la notte sia stata creata per dormire, è senza dubbio rivolto ai pigri contemporanei. La terminologia è sempre difficile: per "Veglie" si intende senza dubbio il lungo ufficio notturno poi chiamato "Mattutino", mentre "Mattutino" nell'uso precedente sembra riferirsi o al breve saluto gioioso dell'alba poi chiamato "Lodi" o alla prima delle quattro ore del giorno, "Prima", nel qual caso le Lodi sono state incluse nel termine "Veglie". Certamente al tempo del Concilio di Aquisgrana, e anche a quello di sant'Isidoro, l'Ufficio divino completo di un servizio notturno e sette diurni era ben consolidato (cfr. RB 16). Cassiano ci racconta come nel suo monastero di Betlemme sia stato celebrato per la prima volta un ufficio mattutino supplementare (Istituzioni monastiche, libro 3, capitolo 4) e Isidoro fa riferimento a questo passo, ma i commentatori hanno discusso in modo inconcludente se si riferisse alle Lodi o alle Prime.

Due capitoli appena composti (IC 131-2) danno istruzioni sul modo di celebrare l'Ufficio. L'istruzione di affrettarsi a recarsi in coro non appena si sente la campana riecheggia verbalmente il passo equivalente di San Benedetto, come ripetuto da San Crodegango (RB 43, RC 6), e la proibizione di portare un bastone d’appoggio in coro si trova anche in Crodegango, anche se formulata in modo diverso (RC 7). La lunga trattazione della disciplina durante la celebrazione dell'Ufficio e della presenza degli angeli ha poco in comune con il conciso capitolo di San Crodegango sullo stesso argomento (RC 7, RB 19), mentre sembra richiamare le severe disposizioni di Cassiano contro i pensieri e le parole oziose e cita l'autorità di Beda. Il capitolo sui lettori e i cantori (1C 133) sembra unico per questa Regola: l'argomento è trattato più diffusamente più avanti (IC 137).

Due lunghissimi capitoli sulla disciplina (IC 134-5) utilizzano la metafora familiare del medico e la raccomandazione evangelica di ammonire due o tre volte prima di punire (Mt 18,13-17). Le punizioni previste sono il digiuno a pane e acqua, la separazione dalla vita comunitaria, le punizioni corporali se in età adeguata, il carcere e infine l'espulsione dalla comunità, più o meno come nella Regola di Crodegango (RC 12-19). Nella sezione dedicata ai ragazzi, la Regola di Aquisgrana raccomanda che siano alloggiati separatamente dagli adulti, sotto stretta sorveglianza, mentre Crodegango suggerisce che condividano lo stesso dormitorio dei canonici più anziani (RC 3). Un capitolo sul dovere di tutti di venire a Compieta e sulla disposizione del dormitorio (IC 136) riecheggia le parole di San Benedetto (RB 22), compresa una frase sulla luce notturna che non è usata da Crodegango nel suo capitolo equivalente (RC 3), dimostrando che gli autori della Regola di Aquisgrana avevano accesso indipendente a San Benedetto. Un lungo capitolo sui cantori in chiesa (IC 137) cita sant'Isidoro sull'ufficio di cantore o salmista (De Ecclesiasticis Officiis, II, 12, PL 83, 792), l'unico "ordine" omesso negli estratti di Isidoro all'inizio della sequenza (IC 1-8).

Seguono i capitoli sui funzionari della comunità, a partire naturalmente dal superiore. Nella scelta di un sostituto per il governo dei canonici, i vescovi sono consigliati con parole strettamente legate ai consigli di San Benedetto sulla scelta del decano o del priore (RB 21), senza alcuna somiglianza con il capitolo equivalente di San Crodegango (RC 25). Il titolo di prevosto (praepositus) viene definito (IC 139) e si sottolinea che ha solo un'autorità delegata. Il titolo è usato da sant'Agostino (RA 7,1 che cita Ebrei 13,17), e anche da san Benedetto (RB 65), che non è entusiasta dell'istituto: i suoi avvertimenti contro i prevosti sono ripresi da Aquisgrana (IC 139). Il capitolo sul Cellerario (IC 140) cita nuovamente San Benedetto, indipendentemente da Crodegango (RB 31, cfr. RC 26). Sembra che il Cellerario sia qui responsabile dei servitori domestici, tratti dalla familia della Chiesa, e che questi includano i cuochi. Ecco quindi una differenza importante rispetto alla Regola di Crodegango, che insiste sul fatto che tutti debbano fare il proprio turno in cucina (RC 24).

Il capitolo successivo parla della necessità di una foresteria e del responsabile della foresteria, per prendersi cura dei poveri, sia degli indigenti locali che dei mendicanti erranti (IC 141). La foresteria non è parte integrante del monastero, come per San Benedetto, ma non deve essere lontana, in modo che i canonici possano visitarla e, almeno durante la Quaresima, prestare attenzione ai poveri. Ci sono echi di San Benedetto (RB 53), ma la situazione in una città è molto diversa da quella di un monastero rurale e la portata delle provvidenze per i poveri dovrà essere molto maggiore. Saranno coinvolte somme considerevoli di denaro, il che spiega il severo ammonimento contro l'appropriazione indebita di fondi. San Crodegango non include questa cura dei poveri nella sua regola canonica, ma il suo capitolo sui matricularii (RC 34) indica che si aspetta che vengano mantenute disposizioni adeguate per i poveri.

Una significativa variante di lettura della Regola di Aquisgrana si verifica in questo capitolo, dove la versione data da Mansi specifica che il guardiano dell'ostello per i girovaghi deve essere un canonico, "uno della congregazione", mentre questa disposizione è assente sia nel testo che nell'apparato dei Monumenta Germaniae Historica. In entrambi i casi, l'implicazione è che l'ostello è leggermente secondario rispetto alla vita dei canonici, almeno al di fuori del tempo di Quaresima.

Il capitolo sui malati (IC 142) ci dice di sfuggita che i Canonici hanno diritto ad avere un alloggio proprio, cosa che anche Crodegango concede a malincuore (RC 3). Tuttavia si deve prevedere un'infermeria, in particolare per coloro che non hanno mezzi propri sufficienti. Tuttavia, a differenza della Regola di Crodegango (RC 28), non viene nominato un infermiere specifico e tutti i canonici sono tenuti a prendersi cura dei malati.

I due capitoli successivi trattano del portinaio (IC 143-4) e della messa in sicurezza della recinzione. Il portinaio è descritto con parole che ricordano la Regola di San Benedetto (RB 66), ma come al solito senza indicare alcuna familiarità con quella di Crodegango (RC 27). Tuttavia, la disposizione secondo cui dopo la compieta il portinaio deve consegnare le chiavi al superiore si trova in Crodegango, ma non in San Benedetto. I canonici devono avere un comportamento moderato, sia all'interno che all'esterno della recinzione, e le donne non devono in nessun caso essere ammesse all'interno (IC 144). Questa disposizione è la stessa della Regola di Crodegango, ma mentre la prima regola non incoraggia nemmeno i laici a entrare nella clausura (RC 3), la Regola di Aquisgrana non prevede nulla del genere e anzi sembra prevedere che i servi e i cuochi laici siano una questione di abitudine.

L'ultimo lungo capitolo è un riassunto o sintesi di tutta la Regola precedente, pensato per essere memorizzato in modo che i canonici possano ricordarsi di tutte le disposizioni importanti della Regola che devono seguire. E l'unica parte che è stata precedentemente tradotta in inglese (Wulfstan, Homilies, Xa).

Segue la Regola per le canonichesse, con disposizioni simili a quelle per i canonici (infatti molti capitoli seguono più o meno lo stesso testo), anche se ci si aspetta che si mantengano più strettamente all'interno delle loro recinzioni.

L'intero testo, quindi, con la catena di letture patristiche e le due Regole, raggiunge una lunghezza considerevole. È accompagnato da una lettera circolare dell'Imperatore, indirizzata a tutti gli arcivescovi dell'Impero che non erano personalmente presenti al Concilio. Della lettera circolare esistono due manoscritti, quelli indirizzati agli arcivescovi Sichar di Bordeaux e Arno di Salisburgo. I testi sono molto simili, anche se nella copia di Arno mancano due paragrafi. L'imperatore spiega di aver mandato un inviato (missus) con una copia del testo e che gli arcivescovi devono convocare un sinodo provinciale e devono far leggere e spiegare l'intero documento. Si dovranno poi fare copie per ogni vescovo e prevosto, e l'inviato imperiale supervisionerà il tutto. Nella copia di Sichar l'imperatore ammette che durante la prima lettura ad Aquisgrana aveva notato che alcuni passaggi erano stati omessi. Avverte gli arcivescovi che manderà un altro inviato il prossimo primo di settembre per verificare il rispetto delle sue richieste. Poiché dice che così mette loro a disposizione, il primo invio del testo deve essere avvenuto nell'autunno dell'816. Il testo di Sichar contiene poi ulteriori informazioni sulle canonichesse e su come la Regola debba essere applicata nei loro confronti. Entrambe le copie si concludono con un severo ammonimento contro l'inosservanza e con la nota che sono allegati anche i pesi e le misure standard.

 

Autore

Tradizionalmente l'Istituto dei canonici è stato attribuito ad Amalario di Metz, che per il resto è noto solo come scrittore liturgico, ed è con il suo nome che il testo è stampato nella Patrologia Latina (PL 105, 816). L'autorità per questa attribuzione è la Cronaca di Ademaro, che afferma che l'imperatore ordinò di redigere una Regola per i canonici che fungesse da parallelo a quella di San Benedetto per i monaci, e ordinò ad Amalario il diacono di compilarla. È forse per la coincidenza che Amalario era nato nella diocesi di Crodegango che si è affermato con tanta sicurezza che l'Istituto imita la Regola di Crodegango. Tuttavia Albert Werminghoff ha contestato in modo convincente l'attribuzione, suggerendo invece che l'autore fosse Ansegiso di San Wandrille (Ndt: o Ansegiso di Fontanelle) (Werminghoff 1901-2, pp. 605-75). La sua prova fondamentale è che l'autore dell'Istituto apparentemente conosceva le opere di San Gregorio solo attraverso Taio di Saragozza, e che una copia di Taio esisteva nella biblioteca di San Wandrille. Ciò implica che Werminghoff dubitava che l'intero testo, compresa la lunga catena di riferimenti patristici e canonici, potesse davvero essere stato composto durante il mese di pausa del Concilio, o se non fosse più plausibile che l'Imperatore avesse chiesto ad Ansegiso di preparare un testo in anticipo. Le occasionali allusioni indirette alla Regola di San Benedetto sarebbero plausibili dalla penna di un monaco. Tuttavia, l'Istituto stesso ci dice chiaramente che l'imperatore offrì le strutture della sua biblioteca di palazzo per aiutarlo nella composizione, il che implica che sia stato effettivamente scritto ad Aquisgrana, nel qual caso l'esistenza di una copia di Taio a San Wandrille diventa irrilevante - e per di più non abbiamo modo di sapere quanto fossero comuni le copie di Taio. Un terzo candidato alla paternità è lo stesso San Benedetto di Aniane, che fu certamente il principale artefice della riforma monastica dell'817 e, secondo la sua Vita, fu anche incaricato dall'imperatore di contribuire alla riforma della vita dei canonici, per i quali "stabilì un modo specifico di vivere". La certezza è impossibile, tra i tre candidati, anche se il mio sentimento gravita ora verso Benedetto di Aniane. Tuttavia, van Waesberghe, dopo aver discusso su questi tre e altri candidati alla paternità del testo, rimane soddisfatto dell'attribuzione ad Amalario (van Waesberghe (1967), pp. 29-34).

 

Testi e manoscritti

Abbiamo seguito il testo critico stabilito da Werminghoff, facendo solo occasionalmente riferimento alle varianti di lettura conservate nel Mansi (MGH Legum, Sectio III, Concilia II pars i, pp. 307-421; Mansi XIV, 153-246). I manoscritti conosciuti sono settantatré, poiché il testo fu ampiamente copiato e rimase in uso per diversi secoli: Werminghoff ne elenca sedici del IX secolo, che costituiscono la base della sua edizione, ma altri risalgono addirittura al XV secolo. Prima di Werminghoff è stato stampato diciassette volte, a partire dal 1551 con Surius e Binius, e diverse edizioni successive di testi conciliari. L'edizione definitiva rimane quella dei Monumenta Germaniae Historica (MGH).

Ciò che si nota maggiormente nel testo dell’IC, rispetto alla Regola di Crodegango, è l'immensa superiorità dello stile in prosa, soprattutto nel Prologo. Il miglioramento dell'erudizione latina era, ovviamente, una caratteristica del nuovo stile imperiale di Carlo Magno, ed era chiaro che il rozzo e pronto latino di Crodegango non sarebbe andato bene. I cortigiani che circondavano l'imperatore si sfidavano a comporre versi latini e prosa, e a offrire i loro versi alla critica e alla correzione. Una dama di nome Fiducia, ad esempio, inviò alcuni versi al successore di Crodegango come vescovo di Metz, Angilramn, con il distico:

 

Me tetigit Carulus dominus de cuspide pinnae

Errore confecta scriptio nostra fuit.

 

“Il Sovrano Carlo mi toccò con il pennino della sua penna, perché i miei scritti erano pieni di errori" (McKitterick 1994, pp. 119-20). Gli inglesi, ovviamente, facevano questo genere di cose già due generazioni prima - San Bonifacio e i suoi corrispondenti si inviavano regolarmente versi di critica - ma ciò sarebbe stato decisamente al di là delle capacità di San Crodegango. Se i padri del concilio di Aquisgrana avevano copie del testo della Regola di Crodegango, avrebbero rabbrividito per le sue barbarie prima di riuscire a imitarne l'insegnamento. Questo spiega forse perché nell'Istituto dei canonici non ci sono citazioni della Regola precedente, anche se entrambe le regole legiferano in modo molto simile.

Nel nostro testo e nella nostra traduzione abbiamo messo in corsivo le citazioni di autori precedenti, i Padri della Chiesa, per mostrare la proporzione di materiale già pronto utilizzato nella Regola canonica vera e propria. Le citazioni della Scrittura sono tra virgolette, poiché spesso si trovano all'interno di citazioni patristiche (Ndt: Qui l'autore si riferisce ovviamente ai testi riportati nel libro citati).

 


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9 gennaio 2024                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net