Agostino pastore e dottore
Estratto da
“Introduzione allo studio dei Padri della Chiesa”
–
Michel Spanneut – Queriniana 2009
Agostino s’inserisce nell’età d’oro della patristica pur essendole
posteriore e benché sia tutt’altra cosa. Quando diventa vescovo, nel 395 - e per
trentacinque anni -, tutti i Cappadoci hanno abbandonato la scena; se ne va
Teodosio, l’ultimo imperatore dell’unità, e Ambrogio lo segue dopo due anni. Il
vescovo di Milano ha accolto ‘paternamente’, con una benevolenza «proprio
episcopale», il brillante professore ancora irretito nel manicheismo; ha
predicato in sua presenza e lo ha battezzato. Ma quando scompare, Agostino è
solamente agli inizi della redazione delle
Confessioni e deve ancora produrre la quasi totalità della sua
opera. Unico tra i grandi, Gerolamo accompagna per venticinque anni, nella sua
«vecchiaia che si sta spegnendo», il vescovo di Ippona che tratta appunto da...
‘giovane’.
L’Africano, ad ogni modo, è ben diverso dai Padri greci e da quei
Latini che vivono della loro eredità. Si forma soprattutto da solo, a contatto
con la filosofia pagana e sulla base della tradizione latina elabora, grazie
alla fecondità della sua intelligenza e della sua vita spirituale, una teologia
personale, la più ricca mai conosciuta dall’Occidente.
La conversione (386) e le
Confessioni (397)
Il cammino verso una fede ardente
Agostino nasce il 13 novembre 354 a Tagaste, in Numidia (Souk-Ahras
della moderna Algeria). La madre cristiana, Monica, e il padre, pagano fino alla
vigilia della morte, costituiscono una famiglia di modesta borghesia: un
patrimonio piuttosto esiguo, ma grandi ambizioni per il loro figlio. A Madaura e
poi a Cartagine il ragazzo segue gli studi di retorica, rallentati dalla
mancanza di denaro e privi del debito prolungamento in un centro intellettuale
rinomato. Un’infarinatura di greco, che non approfondirà più. La sua filosofia
sarà quella di un autodidatta. A diciott’anni diventa padre di Adeodato e per
quindici anni rimane fedele alla sua compagna. In questa vita un po’ leggera
lascia che la sua fede sonnecchi, sempre però conservando il nome di Cristo nel
segreto del suo cuore. Un’opera profana, oggi perduta, l’Ortensio
di Cicerone, gli richiama alla mente «l’immortalità della sapienza» e risveglia
in lui l’inquietudine di Dio: «Avevo cominciato ad alzarmi per tornare verso di
Te». Ha diciannove anni e inizia l’insegnamento della retorica. La sua ambizione
lo porta a Tagaste, a Cartagine per nove anni, a Roma e infine nel 384 a Milano,
dove, scelto dal famoso prefetto Simmaco, è anche l’oratore ufficiale della
corte. Durante tutto questo tempo è attratto dal manicheismo. Ma l’incontro con
Fausto, vescovo manicheo di Milevi e teorico della setta, aggrava, pur senza
giungere alla rottura, le riserve che gli venivano suggerite progressivamente e
dal materialismo del sistema e dalla sicurezza assoluta di quella fede. A Milano
ascolta le prediche di Ambrogio che lo «incanta per la dolcezza del suo
discorso» e per la sua esegesi spirituale dell’Antico Testamento.
Dopo una crisi di scetticismo scopre anche la spiritualità di Dio e
sente sempre, in fondo al cuore, «saldamente ancorata la fede in Gesù Cristo».
Ecco che lo raggiungono la madre, gli amici Alipio, Nebridio e certamente il
ricco Romaniano. Oh!, non si creda che venga allestita la scena per
un’illuminazione improvvisa. Con il concorso di Monica rimanda la madre di
Adeodato per fare meglio carriera, si fidanza con una ragazza del suo ambiente
e, in attesa che questa raggiunga l’età da marito, prende un’altra compagna...
Dopo essersi interessato per un po’ di tempo allo stoicismo scopre le
Enneadi di
Plotino, tradotte da Mario Vittorino, che gli rivelano, con il carattere
negativo del male, una sorta di teologia del Verbo e dell’aldilà, poi completata
ed elevata dai dati cristiani. Si sente intellettualmente scosso, ma resiste per
debolezza. Legge infine le lettere di Paolo, che proclamano il Verbo incarnato,
la salvezza come dono di Dio e l’umiltà. Incontra anche la celebre
Vita di Antonio.
Alcuni fatti rafforzano l’effetto delle letture: alcune conversioni, come quella
dell’illustre retore Mario Vittorino, un neoplatonico appunto. Agostino viene
investito da ogni parte. Alla fine, nel giardino della sua residenza,
nell’agosto del 386, una voce canta: «Prendi e leggi; prendi e leggi». Apre s.
Paolo
(Rm
13,13) e «tutte le tenebre del dubbio furono dissipate». «Infatti avevi
convertito a Te il mio essere al punto che non cercavo più né moglie né tenevo
più ad alcuna speranza del mondo, passando ormai su quel metro della fede».
Rinuncia alla carriera, si ritira con gli amici, a Cassiciaco,
nella proprietà di un altro amico, dove discute, riflette, scrive. Prepara il
battesimo che riceve dalle mani di
Ambrogio durante la veglia pasquale del 387 (24-25
aprile). Riprende la strada per l’Africa, ma a Ostia muore la madre. La partenza
viene rimandata per l’autunno del 388. Si ritrova infine a Tagaste dove con i
suoi amici conduce una vita di ‘ozio’ filosofico e religioso. Ma lui, che
fuggiva le città episcopali la cui sede era vacante, passa per Ippona nel 391 e
il popolo se ne impossessa per farlo ausiliare del vecchio vescovo Valerio: «Fui
preso, ordinato sacerdote e attraverso questo gradino giunsi all’episcopato»,
nel 395.
Agostino ha già un’opera al suo attivo. Ha iniziato verso il 380
con un trattato perduto
Sul bello e l’ordinato. Al soggiorno di Cassiciaco sono annessi
alcuni scritti prevalentemente filosofici:
Contro gli Accademici scettici,
La vita felice, L’ordine. La vena filosofica continua ad essere
feconda a Tagaste e oltre:
L’immortalità dell’anima, La quantità dell’anima, Il libero arbitrio,
dove Agostino presenta un primo stato del suo pensiero su questo problema
piuttosto diverso dalle sue posizioni successive;
Il maestro, in cui per sempre riconoscerà la priorità al «maestro
interiore» e discute con il figlio sedicenne sul valore del linguaggio per la
scienza. Ma affronta anche il tema de
La vera religione, ove mostra il peso della ragione di fronte
all’autorità della fede sotto la guida di Dio, questione che riprende in
L’utilità di credere,
composto poco dopo e, più tardi, contro i manichei e nel trattato
su
La Trinità.
In prossimità del suo battesimo aveva già avviato un dialogo con la ragione sui
grandi problemi metafisici e sulla sua vita cristiana: i
Soliloqui,
il cui carattere personale annuncia il capolavoro, le
Confessioni
Il bilancio della prima tappa sotto lo sguardo di Dio
Le
Confessioni, composte dal 397 al 401, nei primi nove libri,
coronati dal decimo, riferiscono la vita di Agostino fino alla morte della
madre: la sua miseria di uomo senza Dio e la sua lenta risalita verso la
presenza adorata. Ma non si tratta né di un racconto né di un diario né di una
raccolta di ricordi. Più che un documento storico è una lunga preghiera, in cui
l’autore si intrattiene con Dio su quei trentaquattro
anni, in cui medita il suo itinerario spirituale e in cui rivive la sua ricerca
personale di Dio confessata nell’avversione dell’uomo e proclamata nella
onnipotenza misericordiosa che indefettibilmente gli fa grazia e lo rivela. Nell’
«abisso della coscienza umana» tenta di cogliere il
riflesso di Dio spento dalla concupiscenza, fino alla restaurazione
dell’immagine nel nuovo incontro: «Ci hai fatti per te e il nostro cuore è
inquieto finché non riposa in te» (1,1,1). L’uomo-Agostino non è se stesso se
non quando è portato oltre se stesso dalla presenza di Dio, che è «più intimo di
ciò che v’è di più intimo, e più alto di ciò che v’è di più alto». Dio è dentro
di lui, ma il peccato disperde l’uomo al di fuori, lo attarda al segno
nell’indifferenza del senso, lo arresta
all’opera d’arte nell’ignoranza dell’artista. È «all’interno», «nell’eterno
interno» che Agostino ritrova Dio. Si tratta di una costante del suo cammino e
della sua originalità. Già nei
Soliloqui
chiede al Dio «sempre lo stesso, che io mi conosca, che io Ti conosca. È tutta
la preghiera». Sa ammirare il cosmo, ma è interessato solo all’uomo per trovare
Dio. Più tardi, nei
Trattati sul Vangelo di Giovanni, spiega a lungo: «Rientra nel tuo
cuore [...]. Là è l’immagine di Dio».
Mentre i Greci studiavano la fede piuttosto nel suo oggetto, che
proiettavano al di là e al di fuori, Agostino passa attraverso il mistero di sé,
«la grande questione», per giungere al mistero di Dio. In questa linea, nel
corso dei primi nove libri delle
Confessioni esamina soggettivamente l’adesione progressiva di una
persona umana, di un ‘io’, all’oggetto della fede. Nel libro X presenta la sua
condizione personale nel 400: «Chi sono ora, non più chi ero». Celebra il tempo
ritrovato nei «vasti palazzi della memoria», della durata, il dono di Dio e la
risposta dell’uomo sempre imperfetta. Precisa allora che si sta confessando
«anche ai suoi lettori», ai suoi «testimoni», «compagni di povertà» e «compagni
di strada», come dirà più tardi, e che se ne aspetta non una curiosità morbosa,
bensì dei «cuori fraterni», che cercano con lui, con lui piangono il peccato e
cantano la grazia. Sono volti insieme verso Dio in un amore reciproco, che è
amore di Dio. Consacra infine i libri XI-XIII ai primi capitoli della
Genesi, che
stabiliscono il vero legame dell’uomo con Dio nella creazione, figura della
Chiesa e testimone della gloria futura.
La riflessione filosofica e teologica ad ogni istante rallenta il
cammino, moltiplica le pagine austere e a volte ardue. Ma questo approfondimento
è essenziale al progetto di Agostino: il pero saccheggiato gratuitamente dal
ragazzetto illustra i misfatti e i rischi della libertà umana. Lo studio
psicologico è molto approfondito, anche per delle emozioni che a noi appaiono
banali, come quella di aver pianto a teatro. Queste analisi fanno delle
Confessioni la preda degli psicanalisti d’ogni genere. Ma il
dialogo sincero e modesto tra un uomo e il suo Dio - «con me solo davanti a Te»
-, scritto in una lingua elegante, costituisce, con la
Volgata, il più bel monumento del latino cristiano e uno dei
classici della letteratura occidentale.
I tentativi comunitari e la
Regola di sant’Agostino
La ricerca comunitaria
Quando Agostino inizia le
Confessioni, nel 397, sta meditando a un’altra opera, molto più
breve, molto meno seducente, ma che esercita, in un campo totalmente diverso,
un’influenza fondamentale. Si tratta di una regola di vita comune. Agostino si
converte all’interno di una comunità di amici e, fin dall’inizio del suo
colloquio con Dio, celebra l’amicizia, che è un
Leitmotiv di tutta la sua opera: «L’amicizia è dolce per l’amabile
nodo che unifica molte anime».
Il gruppo, profano o religioso, in tutte le tappe della sua vita,
come ha fatto notare il Padre de Beer, svolge un ruolo importante. Già nel furto
delle pere Agostino sottolinea fortemente, come una circostanza peraltro
aggravante, «la comunità (consortium)
di coloro con i quali l’ho commesso». Quando più tardi insegna a Cartagine,
costituisce un autentico
club
di amici, ricco di scambi, nell’atmosfera manichea. Parecchi si ritrovano a
Milano, dove deliberatamente mettono in comune con altri il loro tempo libero e
i loro beni materiali. Qui la comunità si cristianizza, nella conversione
simultanea di Alipio e di Agostino, per sfociare nel ritiro filosofico di
Cassiciaco, che diventa tutto un mormorio di salmi. Evodio s’era unito ad essi.
«Stavamo insieme, decisi ad abitare insieme per un santo proposito». L’Africa
pare presentare le migliori condizioni per questo servizio comune. Agostino
mette a disposizione la sua casa di Tagaste. Alipio, il «preposito», elabora nel
395, dopo una ricerca metodica, un
Regolamento di monastero (Ordo monasterii), rivisto dal suo
maestro. Intanto Agostino pensa di fondare un «monastero di fratelli» a Ippona.
Quando il vescovo Valerio se lo aggrega, l’ausiliare mette come condizione di
non lasciare i suoi fratelli: avrà il suo recinto nel giardino della casa
vescovile. Possidio, il biografo contemporaneo di Agostino, precisa che questi
laici vivevano nello spirito della comunità apostolica di Gerusalemme.
Nel 396, assumendo la direzione della diocesi, Agostino a poco a
poco e non senza difficoltà sottomette il suo clero alla «Regola degli
Apostoli»: comunione dei beni nella castità e in un ascetismo adattato alle
possibilità di ciascuno. Si allontanò dai suoi fratelli laici per non turbare il
loro raccoglimento con le sue attività pastorali. Ma dietro loro richiesta,
verso il 397, codificò il loro modo di vita.
La Regola
di sant’Agostino
Questa
Regola
(Praeceptum)
o
Istruzione,
accompagnata peraltro da nove testi di argomento analogo, il tutto elaborato
almeno nell’atmosfera agostiniana, se dubbia rimane l’autenticità letterale,
avrebbe conosciuto un successo strepitoso. Essa registra e tiene a battesimo la
lunga ricerca comunitaria di Agostino, come le
Confessioni
trasformano in preghiera la sua travagliata ricerca di Dio. Assume praticamente
gli usi della vita romana con l’ozio filosofico praticato a Cassiciaco. Le sue
esigenze ascetiche sono rigorose ma flessibili, e vengono rese idonee alle forze
di ciascuno. Mantiene naturalmente la sacra Scrittura, soprattutto il salterio,
che esprimeva allora
in modo eccellente il fervore dei giovani convertiti.
Uno dei documenti affini introduce anche la preoccupazione di una traduzione
esatta ed elegante. Il «preposito» si potrà fare aiutare da un prete nei
problemi scritturistici. In uno scritto datato 401,
L’attività dei monaci, spesso vicino alla
Regola nell’espressione, Agostino esige dai suoi fratelli di
Cartagine, accanto alla preghiera, un lavoro intellettuale, pastorale o manuale,
e nuovamente allude alla comunità degli Apostoli.
Agostino mette nel cuore della propria
Regola i due
testi degli
Atti degli
Apostoli relativi alla comunità di Gerusalemme: da una parte,
unità «di cuore e di anima» che include la condivisione totale (4,32-36), il che
costituisce il fondamento e lo spirito, con valore universale; attorno alla
messa in comune, d’altra parte, alcune pratiche religiose che esprimono, secondo
le circostanze, questa unità in Dio (2,42-47). Quando Agostino aveva dovuto
giudicare la regola di Alipio, trovandola troppo pratica, si dice che avesse
fatto aggiungere all’inizio: «Prima di ogni cosa, amiamo Dio e il prossimo».
Questa volta colloca in testa alla
Regola
la carità dello Spirito, che porta alla comunione materiale. Allo stesso modo,
dopo aver enumerato i precetti, in una preghiera finale ricorda lo spirito di
carità e di libertà che deve animare tutto. Solo in questo spirito trovano senso
le prescrizioni concrete, poco numerose e adattabili alle circostanze. L’Amore è
la ragion d’essere del monastero e dà testimonianza. D’altronde con il tempo la
Regola
sembra inscriversi ne
La
Città di Dio. I monasteri sono come i punti di ancoraggio
dell’Amore, in cui la città di Dio tende a rendersi visibile tra gli uomini.
Sono anche segni di unità nella Chiesa una, ma non sono i luoghi esclusivi della
santità, ideale universale.
L’influsso della
Regola, accompagnata da molte altre che sorgono in Occidente tra
il V e il VII secolo, in particolare quella di Benedetto da Norcia nel VI, è
tanto più vasto in quanto si applica sia agli uomini che alle donne. Il testo è
scritto al femminile in un documento capitale (Lettera
211) e a volte s’è creduto, fino ai nostri giorni, che la
Regola fosse
originariamente destinata a delle monache piuttosto che alla comunità di Ippona.
Comunque, già durante la vita di Agostino esistettero delle ‘Agostiniane’,
soprattutto contemplative, che s’occupavano però dell’infanzia abbandonata.
D’altra parte Agostino organizzò il suo clero in comunità, esperienza che
avevano tentato Eusebio di Vercelli trent’anni prima e poi Ambrogio.
Sull’esempio di Ippona i vescovi della Chiesa latina tenderanno sempre di più a
condurre la vita in comune con il loro clero attorno alla cattedrale. È
l’origine dei Canonici regolari, poi delle Canonichesse. La
Regola,
flessibile e ricca di un’esperienza molteplice, svilupperà progressivamente
anche il suo ramo monastico, illustrato durante il Medioevo dai molto influenti
Eremiti di S. Agostino (1256), dalle Suore eremite di S. Agostino e da istituti
prevalentemente apostolici, come i Trinitari dell’Ordine della Mercede o i
Serviti. La vocazione educativa e ospedaliera, discretamente presente fin dagli
inizi, assunse un’estensione straordinaria nel mondo femminile. La
Regola che
consta in tutto di duecentoquarantasei righe nell’edizione critica del Padre
Verheijen, assicura
urbi et
orbi una permanenza di Agostino che dura tuttora.
Sono omessi questi capitoli:
Pastore e dottore (396-419). La Trinità
Gli ultimi anni: città della terra e città di Dio
Il volto di Agostino
L’uomo
Attraverso la nostra esposizione e i documenti, Agostino è apparso senza dubbio
nella sua avvincente bellezza. La sua personalità merita che vi si dedichi una
pausa. Il figlio di Monica è un’anima tenera. La sua pietà filiale risalta
ancora alla fine della vita, quando Giuliano di Eclano si permette di tirare in
ballo sua madre: è forse l’unica volta che la sua polemica si incattivisce. Le
sue relazioni di giovinezza sono tutte affettuose: la morte di un amico, di cui
non ci ha lasciato il nome, gli ispira pagine stupendamente romantiche. Lungo la
sua carriera allaccia nuove relazioni, di cui la corrispondenza attesta la
solidità. La sua responsabilità lo tormenta fino all’angoscia: «Il Vangelo è per
me fonte di terrore», scrive. Chi conterà le lacrime che egli versa in ogni
circostanza?
Quest’anima sensibile è profondamente onesta. Rispetta l’avversario nella
discussione, fino a dichiarare Pelagio dotto e santo. Ne riporta i testi con
rigore, senza facilitarsi il compito. Confessa, in certe affermazioni, un
margine di incertezza. Sottolinea che ha mutato opinione sul rapporto della
grazia con la fede. Al termine de
La
Trinità chiede al Signore di «essere indulgente» se in essa «c’è
qualcosa di mio» e non fa parte della dottrina comune della Chiesa.
Nell’autocritica delle sue opere si corregge spesso: «Su questa verità, avevo
opinioni inesatte». Questa rettitudine è il riflesso di una profonda umiltà,
acquisita a prezzo di dura lotta. Abbiamo visto che idea avesse dell’episcopato
e del suo ufficio pastorale. In questo spirito strappò a tutti i vescovi
cattolici riuniti in colloquio la promessa delle loro dimissioni nel caso in cui
i donatisti, in quell’incontro organizzato, avessero avuto ragione. Nei suoi
scritti si giudica sempre inferiore all’argomento: «Nella gran quantità di cose
che ho detto, non oso affermare di aver detto alcunché che fosse degno di questa
ineffabile e sovrana Trinità». E che stupenda modestia di fronte alle sprezzanti
smargiassate di Gerolamo!
Se
l’irritabile biblista era un filologo molto più esperto, l’intelligenza del
vescovo era molto più vasta e più profonda. Anche Agostino sapeva polemizzare
passo per passo, con il rischio di ridurre i problemi. Ma il più delle volte la
sua mente agile trascende il dibattito immediato. Pieno di immaginazione,
Agostino dissemina qualsiasi riflessione di intuizioni inattese che fanno, per
esempio, il fascino e la ricchezza della sua esegesi. Speculativo, è
sovranamente a suo agio nell’astrazione in ogni campo, a volte troppo per i
nostri gusti. Inventivo e geniale, è capace delle visioni più ampie e dei grandi
sistemi: lo ha dimostrato ne
La Città di Dio.
Ma il pensiero di Agostino non scade mai ad esercizio cerebrale. È quasi sempre
alle prese con l’errore e sempre tragicamente ossessionato dalla verità.
Agostino è innanzitutto un’anima profondamente religiosa, l’inseguitore di un
Dio «cercato per essere trovato con più dolcezza». L’oggetto studiato diventa
spesso, per lui, l’oggetto contemplato, come nel colloquio di Ostia con Monica
diventa preghiera comune. La ricerca sfocia in preghiera, come nel trattato
La
Trinità.
L’artista
Infine, egli è un artista. S’è visto come abbia lasciato un trattato su
La
musica, incompiuto, come avesse composto un trattato su
Il
vello, purtroppo andato perduto. È innamorato della bellezza che
invoca in ogni circostanza, anche nella sua
Regola monastica.
Le omelie sono spesso semplici, benché Agostino moltiplichi le antitesi e le
formule atte a colpire. Tecnico del verbo, maestro dell’assonanza e
dell’allitterazione, imprime alla sua frase un ritmo di volta in volta vivo o
pesante. La ripetizione è sapientemente calcolata. In particolare ama allineare
le frasi brevi, facendo dell’ultima parola di una frase la prima della seguente:
Là noi riposeremo e vedremo;
vedremo e ameremo;
ameremo e loderemo.
E sarà così in eterno.
In
queste concatenazioni ha una marcata
predilezione per il movimento ternario: «O eterna (1) verità (2), e vera (2) carità
(3) e cara (3) eternità (1)». La Trinità ispira simbolicamente o sostanzialmente
le tappe di questi sviluppi. Artificio, si dirà, ed è vero. Preziosità di
un’arte di decadenza? Può essere. Ma il ticchettio delle parole in Agostino,
lungi dall’essere un «gingillo di vacuità sonora», è al servizio di una dottrina
e di una preghiera, di cui egli orchestra tutte le armoniche. Se a volte è
esagerato, spesso contribuisce a rendere il pensiero ossessivamente presente,
come in quell’inno immortale alla Bellezza - di nuovo! - che sta al centro delle
Confessioni, caleidoscopio di tutte le sfaccettature della sua
arte (si veda alla fine del capitolo).
Agostino ha sempre guidato il lettore verso il maestro interiore, collocato al
di sopra di tutto. È comunque un impareggiabile maestro di pensiero. Lo è stato
per il suo tempo: da ogni parte veniva sollecitato e i colleghi nell’episcopato
l’hanno spesso pregato di interrompere i suoi grandiosi progetti per rispondere
all’immediato da teologo di servizio. Nonostante le resistenze che ha provocato,
persino su quelli che gli resistevano, come Cassiano, esercita un’influenza
notevole, che continua in tutto il pensiero patristico dell’Occidente: Prospero
d’Aquitania, Fulgenzio di Ruspe, Cesario di Arles, nel quale la copia si
confonde a volte con il modello, Gregorio Magno, malgrado la sua forte
personalità, Isidoro di Siviglia, nonostante la sua erudizione. È praticamente
l’unico teologo del mondo latino fino al secolo XIII, quando la Scolastica,
senza assolutamente rinnegarlo, cerca piuttosto in Aristotele i suoi quadri
culturali. Riprende un posto molto importante a partire dal XVI secolo, con la
Riforma prima e poi con il giansenismo, allorché ispira anche un agostinismo
perfettamente ortodosso ma meno noto.
Agostino è la personalità più ricca e più seducente prodotta dal cristianesimo
occidentale.
«Bellezza così
antica e così nuova»
Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai! Sì, perché tu
eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme mi gettavo sulle belle forme
delle tue creature. Eri con me e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le
tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido
sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità;
diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e
sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace.
Quando mi sarò unito a te con tutto me stesso, non esisterà per me
dolore e pena dovunque. Sarà vera vita la mia vita,
tutta piena di te. Tu sollevi chi riempi; io ora, non essendo
pieno di te, sono un peso per me; le mie gioie, di cui dovrei piangere,
contrastano le afflizioni, di cui dovrei gioire, e non
so da quale parte stia la vittoria; le mie afflizioni maligne contrastano con le
mie gioie oneste, e non so da quale parte stia la vittoria. Ahimè! Signore, abbi
pietà di me! Vedi che non nascondo le mie piaghe. Tu sei medico, io sono malato;
tu sei misericordioso, io sono misero. Non è, forse, la vita umana sulla terra
una prova? Chi vorrebbe fastidi e difficoltà? Il tuo comando è di sopportarne il
peso [...]. Esecrabili le prosperità del mondo, una e
due e tre volte esecrabili per il desiderio della prosperità e l’asprezza
dell’avversità medesima e il pericolo che spezza la nostra sopportazione.
La vita umana sulla terra non è dunque una prova
ininterrotta?
Agostino,
Confessioni
10,27,38-28,39;
intr.,
trad., note e commenti di R. De
Monticelli, Garzanti, Milano 1990,
332-335.
Questa pagina ha ispirato Rénan nella sua «preghiera sull’acropoli»
(Revue
des deux mondes,
1° dicembre 1876,
483-487): «O nobiltà! O bellezza semplice e vera [...], giungo tardi
alla soglia dei tuoi misteri» (p. 483). «Tardi ti ho conosciuto, bellezza
perfetta» (p. 486).
Agostino qui fa giochi di destrezza con tutte le risorse dello stile
e della retorica: ripetizioni, antitesi, giochi di
parole, allitterazioni e assonanze, immagini, gruppi ternari. Ecco due altri
casi di questi movimenti ternari nelle
Confessioni:
«Evitavo il dolore
(1), il
disprezzo (2), l’ignoranza (3) [...]
Nelle tue creature [io cercavo] i diletti (1), i primati (2), le verità (3) così
precipitando nei dolori (1), nelle umiliazioni (2), negli errori (3)»
(1,20,31). «Alludo all’esistenza (1), alla conoscenza
(2) e alla verità (3). Io esisto (1), so (2) e voglio (3); esisto (1) sapendo
(2) e volendo (3), so (2) di esistere (1) e volere (3), voglio (3) esistere (1)
e sapere (2)» (13,11,12). Nel primo esempio si sarà notato come i tre elementi
si ritrovino quattro volte seguendo lo stesso ordine
sotto varianti o i loro contrari.
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4 Ottobre 2016 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net