LA LETTERATURA SIRIACA PRIMITIVA
[1]
CAPITOLO VIII
di René Lavenant
Estratto da "Le antiche chiese
orientali:
storia e letteratura"
Paolo Siniscalco, Michel van Esbroeck
Città Nuova, 2005
- Introduzione
- Il siriaco
- Gli scritti precristiani
- Edessa
- I primi testi della letteratura siriaca
- L’Impero persiano
- Ai confini dell’impero: Efrem di Nisibi (306-373)
- Il Liber Graduum
- Verso la «grande lacerazione»
- Bibliografia
Introduzione
L’obiettivo di queste pagine, come il titolo stesso indica, non è quello di
delineare pur a grandi linee un panorama di tutta la letteratura siriaca.
Altri l’hanno già fatto e ci sembra superfluo ripetere questo tipo di
esposizione
[2]. Ci limiteremo invece al periodo
precedente le grandi lacerazioni, sorte in seguito alle controversie
cristologiche, per tentare di individuare il carattere originale di questa
letteratura, Vogliamo sottolineare i rapporti con l’ambiente religioso e
socio-culturale entro cui essa è fiorita, prima che le dispute dottrinali,
dando origine a tradizioni divergenti se non antagoniste, rendessero confusa
l'immagine di un cristianesimo ricco invece di una sua originalità ben
rimarcata.
D’altra parte, proprio a questa radice del cristianesimo siriaco indiviso
vogliono ricollegarsi le differenti tradizioni, quando ciascuna di esse
rivendica l’esclusività di un patrimonio che è invece un bene comune.
Il siriaco
Tale patrimonio è costituito e trasmesso tramite il dialetto aramaico di
Edessa, o siriaco. Si tratta di uno dei tre dialetti orientali
[3] derivato dall'aramaico imperiale, che
fu la lingua franca dell'Impero achemenide, dal Nilo all’indo. Sostituito
dal greco, divenuto lingua ufficiale in seguito alle conquiste di
Alessandro, l’aramaico continuò ad evolversi, diversificandosi in molti
dialetti, orientali e occidentali, secondo le regioni e gli ambienti
culturali.
Con il declino della dominazione ellenistica sulla Mesopotamia, i dialetti
locali ebbero modo di svilupparsi e di giungere al livello di lingua
letteraria,
Per quanto riguarda il siriaco, fu grazie al cristianesimo che poté
affermarsi come lingua di un’immensa letteratura, le cui opere si situano
tra il II e il XIII secolo.
Il consolidamento definitivo della lingua avvenne nel IV secolo, all’epoca
della revisione della prima versione siriaca dell’AT, la Peshitta.
Da questo momento il siriaco diventa, con una certa approssimazione, la
medesima lingua usala ad Edessa, a Nisibi, fino in Persia. La separazione
tra Chiese siro-orientali e siro-occidentali
[4], dovuta alle controversie
cristologiche del V secolo, non introducono cambiamenti a livello di lingua,
ma provocano differenze nella pronuncia delle vocali
[5].
Per quanto riguarda la scrittura, oltre all'alfabeto detto
estranghelo, dei più antichi manoscritti, comparve nell’VIII secolo un
nuovo tipo più compatto, il serto, usato ai giorni nostri nelle
comunità siro-occidentali. Qualche secolo dopo i siro-orientali adottarono
un’altra scrittura derivata dall’estranghelo detta scrittura caldea o
nestoriana.
La conquista araba nel 636 impose l’arabo alle regioni conquistate e provocò
quindi la graduale scomparsa del siriaco come lingua parlata. All'inizio del
IX secolo il siriaco è ormai una lingua morta, scritta e parlata solamente
negli ambienti colti, così come il latino nell'Europa del Medio
Evo e del Rinascimento.
[6]
Gli scritti precristiani
Come abbiamo detto, il siriaco divenne una lingua letteraria grazie al
cristianesimo. Precedentemente alle prime opere cristiane abbiamo tuttavia
quattro scritti, che può essere interessante esaminare, pur rapidamente.
Inizieremo con La sapienza di Ahiqar, un testo sapienziale
che presenta punti di contatto con l'AT. Vedremo quindi due testi pagani, il
primo dei quali contiene un’allusione a Cristo, il secondo attribuisce a un
pagano di Harran alcune profezie su Cristo. Infine, un testo di carattere
storico, tratto dagli archivi di Edessa, che testimonia la presenza di una
comunità cristiana nella città.
Ahiqar
[7]
Questo personaggio, di cui sembra provata la storicità, è l’eroe di un
antico racconto di origine babilonese, tradotto in aramaico nel VI secolo
a.C. Ahiqar fu un vizir o scriba assiro che godette i favori di Sennacherib
(704-681 a.C.) e di Assarhaddon (681-669 a.C.). A causa di un complotto
tramato da Nadan, suo nipote e figlio adottivo, smanioso di succedergli,
Ahiqar perde il favore del suo signore ed è condannato a morte, ma è salvato
in extremis dal boia, che lo nasconde presso di sé avendolo
sostituito con un altro condannato. Dopo la supposta morte di Ahiqar, il re
dell’Egitto si sente più libero di creare difficoltà contro il re della
Siria, gli impone folli pretese che nessun inviato assiro riesce a
soddisfare.
Si rivelano più che mai indispensabili la saggezza e la capacità politica di
Ahiqar. È venuto il momento, per il salvatore di Ahiqar, di farlo uscire dal
suo nascondiglio e di presentarlo al re, che lo reintegra nel suo rango.
Ahiqar va in Egitto, risponde abilmente a tutte le richieste egiziane e al
proprio ritorno ottiene dal re di poter infliggere a Nadan la pena suprema.
Prima ancora di essere affidato ai carnefici, costui vede il proprio corpo
gonfiare e scoppiare, come giusta punizione della sua condotta criminosa.
Questo racconto è posto tra due serie di massime, consigli ed esortazioni
rivolte a Nadan da parte di Ahiqar, La prima serie ha lo scopo di
perfezionare l'educazione del giovane e renderlo idoneo a succedere al
proprio padre adottivo nei suoi alti incarichi presso il re. Nella seconda
Ahiqar trae insegnamenti dall'indegno comportamento di Nadan, preludio del
terribile castigo che ricadrà su di luì.
Tale opera, che si ispira al libro biblico dei Proverbi, a sua volta è stata
utilizzata dal Siracide e dal redattore della versione greca del libro di
Tobia, che presenta Ahiqar come il nipote di quest’ultimo
[8]. Un frammento lacunoso della versione
aramaica risalente al V secolo è stato scoperto negli archivi della colonia
militare giudaica di Elefantina. La versione siriaca è forse una traduzione
diretta del testo aramaico, eseguita all'inizio della nostra era. Questo
testo interessa non soltanto per la straordinaria fortuna di cui ha goduto
in Oriente e in Occidente, ma anche per i dati geografici, storici e
filologici che contiene e che si ritroveranno come sfondo di numerosi
racconti di martiri e di fondazioni monastiche.
Sappiamo quale fortuna avranno successivamente tali generi letterari.
Lettera di Mara Bar Serapione
[9]
Si tratta, qui, di una testimonianza umana ricca di accenti patetici. Mara
Bar Serapione, originario di Samosata e prigioniero, in qualche luogo, dei
romani, indirizza al figlio da cui è separato una lettera per invitarlo a
perseguire con zelo infaticabile
l'acquisizione della scienza, per esortarlo al disprezzo dei
beni di questo mondo e alla forza d’animo davanti alle avversità.
L’autore di questa toccante lettera era uno stoico, pagano, o credente in un
Dio unico? Non ci sono certezze, a questo riguardo. Non si può escludere che
i
copisti cristiani, trascrivendo la lettera, abbiano volutamente omesso i due
punti del plurale sul termine siriaco indicante Dio, per far apparire
monoteista il nostro autore. D’altronde, questa lettera contiene
un’allusione chiara a Cristo, là dove evoca la morte inflitta dai giudei al
saggio re «che aveva instaurato nuove leggi».
’
Nessuna notizia precisa riguardante avvenimenti contemporanei permette di
datare tale testo con esattezza. Non ci sono elementi per farlo risalire
all'occupazione romana di Samosata nel 72, né per farlo slittare oltre il IV
secolo. La prigionia di Mara Bar Serapione potrebbe datarsi piuttosto nella
seconda metà del III secolo, al tempo del flusso e riflusso delle armate
sasanidi e romane. Sarebbe insomma la vicenda di un nativo del luogo - e con
lui, quanti altri! - abbandonato nelle mani del conquistatore o, meglio, del
predone di turno.
Baba di Harran
[10]
Questo personaggio viene presentato da uno scrittore cristiano anonimo come
un profeta pagano precedente la nostra era, che lasciò alcune profezie su
Cristo.
Il carattere artificiale dell'insieme, accentuato dalle reminiscenze
bibliche (Ad es. Lc 2,34 e Mc 13,2), sembra evidente. Sicuramente siamo di
fronte a testi costruiti o rimaneggiati con uno scopo apologetico contro il
paganesimo ancora ben presente ad Harran.
Uno scritto degli Archivi di Edessa
[11]
Nella
Cronaca di
Edessa - la cui redazione definitiva risale ai VI secolo -, si
trova inserito, trascritto tale e quale, il racconto redatto, sembra, da un
testimone oculare dell'inondazione che nel novembre del 201 d.C. devastò la
città di Edessa. Sono ricordati, oltre le 2000 e più vittime che perirono,
annegate durante il sonno, i danni provocati al palazzo reale, ai negozi e
alle case dei privati, così come alla chiesa dei cristiani.
Possiamo qui fare due osservazioni. In primo luogo, pur lasciando
intravedere che il cristianesimo, a quell’epoca, era ancora ai margini della
vita ufficiale, questa relazione dimostra per lo meno che all’inizio del III
secolo esisteva ad Edessa una comunità cristiana organizzata, con un proprio
luogo di culto. Inoltre il ricorso a periti e a geometri per la
ricostruzione della città, le misure adottate dal re Abgar e autenticate da
un atto notarile per fronteggiare nel futuro il ripetersi di una simile
catastrofe e circoscriverne i disastri, tutto questo indica come a Edessa
agisse una amministrazione veramente degna di questo nome.
Edessa
[12]
Edessa aveva ereditato l'amministrazione dei seleucidi, che l’avevano
istituita nel 302 a.C. Quando, 170 anni più tardi, nel 132 essi
abbandonarono la Mesopotamia per ritirarsi a ovest dell’Eufrate, la città
poté affermarsi come il centro religioso e letterario della reazione
aramaica contro l'ellenismo. Governata ormai da una dinastia autoctona, essa
favorì di buon grado il fiorire di una letteratura che si esprimesse nella
lingua locale.
Il cristianesimo trovò subito un ambiente culturale particolarmente
favorevole ad esprimere il messaggio evangelico con i simboli e le categorie
mentali dell’Antico e del Nuovo Testamento.
Anche se il greco era ancora largamente conosciuto e compreso, la lingua e
la letteratura aramaica erano portati a preferire la visione simbolica e
sintetica della realtà, propria della fede cristiana, all’approccio
analitico e speculativo del pensiero greco
[13].
Infine, la posizione geografica di Edessa, posta all’incrocio di tutte le
vie di commercio tra i paesi mediterranei, l’est della Mesopotamia e la
Persia, lascia pensare che la sua evangelizzazione abbia avuto inizio molto
presto. *
Alla ricerca delle origini
Come molte Chiese d’Oriente e di Occidente, anche la Chiesa di Edessa volle
rivendicare un’origine apostolica. Essa cercò addirittura di collegarsi a
Gesù stesso. Eusebio di Cesarea riferisce di aver trovato negli archivi
della città un documento, di cui ha lasciato la traduzione greca
[14] in cui si trovano due lettere. L’una
è del re di Edessa Abgar V a Gesù, in cui gli chiede dì venire ad Edessa per
guarirlo dalla sua malattia. L’altra è di Gesù, che gli risponde e che non
può acconsentire alla richiesta, ma dice che gli manderà uno dei propri
discepoli per guarirlo. Il documento riferisce ancora che dopo l'Ascensione
l’apostolo Tommaso inviò ad Abgar Taddeo, uno dei settanta discepoli, che si
recò ad Edessa e mediante l’imposizione delle mani, in nome di Gesù, guarì
non soltanto il re, ma anche molti altri malati. Il re gli permise perciò di
predicare il Vangelo.
Tale racconto fu ripreso e ampliato con altri elementi leggendari nello
scritto intitolato
Dottrina di
Addai
[15]
ritenuto generalmente del V secolo. L’evangelizzatore di
Edessa non si chiama più, qui, Taddeo, ma Addai, che appare come un
personaggio storico. Si tratta di uno solo, o di due distinti personaggi? La
questione è dibattuta.
In secondo luogo nella
Dottrina di
Addai non si parla più di una risposta scritta bensì orale, da
parte di Gesù all'inviato di Abgar, il segretario o scriba Hanan. Altro
particolare leggendario: Hanan dipinge il ritratto di Gesù e lo porta ad
Abgar, che lo riceve con gioia e lo colloca nel posto più degno dei suo
palazzo.
Un ulteriore ampliamento è dato dal lungo discorso di Addai, che narra il
ritrovamento della Croce a Gerusalemme e traccia un resoconto fedele, anche
se incompleto, della situazione dei cristianesimo a Edessa nel IV secolo.
Il successore di Addai è Aggai che prima di morire chiede al
proprio successore, Palut di andare ad Antiochia
e dì farsi ordinare da Serapione (200 d.C.). Il racconto sottolinea che
Serapione stesso era stato ordinato da Zefirino, vescovo di Roma e
successore di Pietro.
Malgrado II carattere leggendario, il testo contiene tuttavia, oltre al
riferimento storico dell'ordinazione di Palut, un particolare che potrebbe
essere autentico. Quando Addai giunge a Edessa prende alloggio presso un
mercante giudeo chiamato Tobia, certo un personaggio ricco e influente,
visto che è lui a introdurre il missionario cristiano presso il re.
Conoscendo la violenta polemica anti-giudaica che si sarebbe sviluppata ben
presto nella comunità cristiana siriaca, è difficile pensare che questo
dettaglio sia stato inventato in seguito.
Questo, insieme ad altre considerazioni (che non è il caso qui di rilevare),
ci porta a cercare le origini del cristianesimo siriaco nel territorio a est
di Edessa, nella provincia di Adiabene, dove si trovavano fiorenti comunità
giudaiche di lingua siriaca. Fu senza dubbio all'interno di questo ambiente
che il cristianesimo fece i suoi primi adepti e l’influenza di questi
giudeo-cristiani segnò dunque profondamente i primi scritti della
letteratura siriaca.
Passando da questo racconto leggendario alle testimonianze storiche della
presenza di una comunità cristiana a Edessa, vediamo che esse non risalgono
oltre il II secolo. Riassumendo i dati esposti dal P.I. Ortiz de Urbina
[16], vediamo, in ordine cronologico: 1)
l'Iscrizione
di Abercio (seconda metà del sec II), che contiene
un’allusione sulla presenza di una comunità cristiana nell'Osroene, cioè
nella regione di Edessa. Abbiamo una conferma di ciò in Eusebio di Cesarea
(HE V, 23,4), là dove riporta che sotto il pontificato di papa Vittore I la
Chiesa di Osroene fece pervenire a Roma il proprio parere sulla questione
pasquale. 2) Il testo della
Cronaca di
Edessa riguardante l'inondazione del 201, di cui si è parlato
sopra
[17]. 3) Giulio Africano (†240 ca.) nella
sua opera intitolata
Kestoi o
Ricami
[18] dice di avere incontrato alla corte
di Abgar IX, re di Edessa (176-213), un certo filosofo parto chiamato
Bardesane, esperto nel tiro
dell’arco. 4) Lo stesso Bardesane, nel suo
Libro delle
leggi dei paesi (di cui si parlerà più avanti), dà una
testimonianza esplicita della
presenza dei cristiani ad Edessa, in Siria e persino nell'Impero
partico e in Persia
[19].
Vediamo dunque come tutti questi scritti - soprattutto l’ultimo, quello di
Bardesane - testimonino l’esistenza di comunità cristiane radicate,
organizzate e capaci di affermare con la testimonianza della vita, la
superiorità della loro fede nei confronti delle deviazioni morali
dell’ambiente circostante. Molti decenni furono necessari per arrivare a
tale maturazione e perciò è verosimile far risalire l’inizio
dell’evangelizzazione di Edessa alla fine del I secolo o, al più, all’inizio
del II.
I PRIMI TESTI DELLA LETTERATURA SIRIACA
La
Peshitta
dell’Antico Testamento
«Il più antico monumento della letteratura siriaca è indubitabilmente la
versione dell’Antico Testamento». Nonostante le incertezze riguardanti la
sua genesi e il suo sviluppo, sono oggi acquisiti alcuni elementi. La sua
origine è da ricercarsi nell’ambiente giudaico o giudeo-cristiano
dell’Adiabene, la provincia situata a est di Edessa, le cui comunità
giudaiche mantenevano ben consolidati rapporti con la Palestina
[20].
L’opera fu realizzata a tappe ed è frutto del lavoro di più traduttori. Lo
stile di ciascun libro, o gruppo di libri, manifesta chiaramente tale
diversità. Un problema dibattuto per lungo tempo riguarda il testo su cui si
è basata la traduzione. Sembra ormai appurato che non si possa più parlare,
oggi, di un’influenza di poco significato dei Settanta sul primitivo testo
della
Peshitta.
Secondo alcuni studiosi, qualsiasi affermazione contraria è priva di
significato, altri specialisti, e non dei minori, come A, Baumstark e A,
Vööbus, hanno formulato l'ipotesi secondo cui la
Peshitta
sarebbe una sorta di Targum, cioè una traduzione parafrasata, comprendente
elementi haggadici. Al contrario, studi recenti hanno mostrato che, malgrado
la presenza di numerosi punti di contatto con la tradizione esegetica
giudaica, il testo che il traduttore aveva sotto gli occhi era il testo
massoretico, o per lo meno un testo molto vicino.
A proposito del nome
Peshitta,
«la Semplice» attribuita a questa versione dopo il IX secolo, sì è pensato
che sia stato dato per distinguerlo dalla siro-esaplare, versione del VII
secolo, condotta sul testo greco dei Settanta contenuto nelle
Esapla
di Origene, Oggi si è sempre più convinti che il termine significhi versione
comune, o
Vulgata,
come la versione latina di san Girolamo
Taziano e il
Diatessaron
Il
Diatessaron
o «Vangelo armonizzato» è il nome greco di un testo che armonizza
ingegnosamente i quattro Evangeli in un solo testo. È la forma unica e la
più antica del testo evangelico utilizzato per quasi tre secoli dalla
cristianità siriaca, fino al suo divieto imposto dal vescovo di Edessa
Rabbula (†435). Inoltre, da questo testo derivarono rimaneggiamenti in
arabo, neerlandese, italiano e persiano e il suo influsso è presente in
moltissime altre versioni bibliche.
Il suo autore, Taziano, dice di essere «nato nel paese degli Assiri», cioè a
est di Edessa, forse nell’Adiabene, verso il 120, Giunto a Roma verso il
150, si converte al cristianesimo, senza dubbio sotto l'influenza del suo
maestro, il filosofo, apologeta e martire san Giustino (†165).
Spirito intransigente, inclina ben presto verso l'eresia, specie verso
l’encratismo, che lo porta a equiparare il matrimonio alla fornicazione. Si
distacca dalla Chiesa di Roma e verso il 175-180 ritorna in Mesopotamia. Da
questo momento si perdono completamente le sue tracce.
«L’opera che ha reso celebre Taziano è il suo
Diatessaron»
[21].
Sfortunatamente è in gran parte perduto. Ciò che ne rimane si trova nella
versione armena del commento ad esso di sant’Efrem (†373). Questa versione,
dopo una prima pubblicazione nel 1876 a cura di Moesinger, fu riproposta più
completa nel 1953-54 da Dom Louis Leloir
[22]. Lo stesso nel 1963 pubblicò alcuni
frammenti in siriaco, scoperti poco prima. In seguito, altri
folia
sono stati scoperti e pubblicati.
Taziano padroneggiava perfettamente il greco, pur essendo il siriaco la sua
lingua materna. Lo prova la sua
Qratio ad
graecos scritta all’epoca della conversione. Proprio partendo
da ciò si pone il problema della lingua originale del
Diatessaron,
cosi come del luogo in cui venne scritto.
Su queste due questioni rispondiamo con Dom L. Leloir: «Allo stato attuale
delle nostre conoscenze, non è possibile determinare se il
Diatessaron
fu scritto in Oriente o in Occidente, se la lingua in cui fu scritto fosse
il siriaco o il greco. Purtuttavia, l’origine siriaca pare la più
probabile».
Nel
Diatessaron
sembrano presenti, assieme ad altre, le influenze dell’encratismo. Taziano
ha cercato di minimizzare tutto ciò che nel testo evangelico si riferisce al
matrimonio, che per lui è equivalente alla prostituzione. Uguale sorte tocca
all’uso del vino.
Uno dei tratti caratteristici del cristianesimo siriaco primitivo è proprio
l'ascetismo spinto a forme estreme, che giunge alle volte fino alla condanna
del matrimonio. Dobbiamo però ricordare che autori come Afraate ed Efrem,
pur tenendo in altissima considerazione la verginità e la continenza, non
cadono in questi eccessi e difendono la legittimità del matrimonio.
La
Vetus Syra
È la versione chiamata anche «I Vangeli separati», per distinguerla dai
«Vangeli armonizzati», o
Diatessaron.
Di essa esistono due recensioni scoperte nel secolo scorso, l’una da W.
Cureton, donde ha preso il nome di Curetoniana; l'altra da Agnes Smith Lewis
e Margaret Dunlop Gibson, detta Sinaitica, essendo stata conservata nel
monastero di Santa Caterina del Sinai. Pare che la Curetoniana sia una
revisione della Sinaitica.
La datazione della
Vetus Syra
rimane incerta, anche se oggi siamo sicuri che è posteriore al
Diatessaron,
di cui ha subito l'influenza. Secondo le più recenti valutazioni i modelli
su cui sono state copiate le due recensioni della
Vetus Syra
devono appartenere al IV secolo, dopo la formazione dei grandi modelli del
testo greco. Per quanto riguarda i due manoscritti, questi sono del V
secolo.
La
Vetus Syra
comprendeva anche gli
Atti degli
Apostoli e il
Corpus
paolino, di cui però non sono pervenuti i manoscritti. Tale
versione non pare essere mai stata utilizzata per il culto, neppure da
Afraate o da Efrem.
La
Peshitta
del Nuovo Testamento
Si tratta di una versione che non è una nuova traduzione del testo greco, ma
una revisione della
Vetus Syra,
per renderla più vicina al testo greco. Sembra che questo lavoro di
revisione sia durato fino all’inizio del V secolo, Da quel momento soppiantò
la
Vetus Syra
e il
Diatessaron,
e divenne il testo di base per tutte le Chiese della Siria. Essa mantiene
tuttavia, qua e là, tracce delle antiche versioni, come testimoniano alcuni
manoscritti e sue citazioni, presenti in autori posteriori.
La
Peshitta
del Nuovo Testamento comprendeva in origine 22 libri. Mancavano le lettere
cattoliche minori (2 e 3 Giovanni, 2 Pietro, Giuda) e l'Apocalisse, che
furono tradotti solo nel VI secolo. Anche in seguito un certo numero di
versetti isolati, o pericopi, rimasero mancanti, come l’episodio
dell’adultera (Gv
7,53-8, 11), o
Lc
22, 17-18,
At
8, 27; 15, 34; e 28, 29. Nelle edizioni a stampa tali passi furano presi da
versioni posteriori.
Si è creduto per lungo tempo che la
Peshitta
del Nuovo Testamento fosse l'opera del grande vescovo di Edessa Rabbula che,
come si è detto, aveva bandito l'uso del
Diatessaron
nella liturgia. Tale attribuzione è considerata oggi poco verosimile, anche
se Edessa con la sua famosa Scuola, avrebbe potuto essere il centro di
diffusione di tale versione nella sua forma definitiva
Bardesane ( 154-222)
[23]
Con Taziano, Marcione e Mani, Bardesane si pone, nel II-III secolo, come una
delle figure significative del cristianesimo edesseno.
Nato l'11 luglio 154 da genitori appartenenti alla nobiltà che viveva presso
la corte di Abgar VIII, ricevette conseguentemente l'educazione accurata di
cui godeva la gioventù nobile del tempo. Insieme alla letteratura greca, la
filosofia e l'astrologia, era insegnata anche la pratica delle arti
marziali, come il tiro all'arco. Non sappiamo come egli arrivò ad
abbracciare il cristianesimo. Vi contribuiremo forse in qualche modo la sua
naturale curiosità intellettuale e la sua propensione per una
sorta di sincretismo. Diventato maestro a sua volta, si circondò di allievi
e si gettò nella polemica anti-marcionita.
Dal 216 la sua vita mutò radicalmente, quando Caracalla pose fine
all'indipendenza di Edessa, Come oppositore politico e come pensatore geloso
della propria libertà, Bardesane dovette espatriare. È verosimile la
tradizione che parla della sua vita errante, come propagatore del
cristianesimo in Armenia.
Bardesane morì nel 222. Non conosciamo il luogo e le circostanze della sua
morte. Ignoriamo anche la sorte del suo o dei suoi figli. È certo invece che
il gruppo dei discepoli, disperso nel 216 all'epoca della partenza del
maestro, si costituì più avanti in setta gnostica che si manterrà viva
almeno fino all'VIII secolo.
Si è tentato più volte di delineare la personalità di Bardesane e di
definire il suo pensiero. Si è visto in lui, volta a volta, uno gnostico, un
astrologo, un filosofo influenzato dallo stoicismo e ancora,
un sincretista scettico. L’incertezza nasce
innanzitutto dalla scomparsa dei suoi 150
Inni o Poemi,
che egli compose per favorire la diffusione delle proprie idee tra il popolo
di Edessa. Ne rimangono solo due citazioni, riportate dal suo grande
avversario, Efrem di Nisibi
(†373). L’altra opera, il
Libro delle
leggi dei paesi,
che si presenta come l'esposizione delle sue idee, non
appartiene alla sua mano. Si tratta della trascrizione fatta dal discepolo
Filippo di un dialogo che Bardesane avrebbe avuto con un marcionita,
l'astrologo Avida.
Anche se Filippo ha cercato, come vuole qualcuno, di cancellare certi
elementi di carattere dualistico e gnostico, si può tuttavia individuare in
quest’opera un sistema abbastanza coerente. È presente innanzitutto una
cosmogonia dove convergono la speculazione giudaica sui primi capitoli della
Genesi e l’astrologia caldea. Alla triade formata dagli elementi
primordiali, dal moto degli astri e dal corso del mondo, retta,
rispettivamente, dalla libertà, dal destino e dalla natura, corrisponde
nell'uomo la triplice divisione dello spirito, dell’anima e del corpo. Lo
spirito viene da Dio ed è principio di libertà, mentre l’anima viene dalle
sfere planetarie attraversate dallo spirito nella sua discesa ed è
sottomessa al destino, che è retto dagli astri. Infine il corpo è composto
dai quattro elementi.
Vediamo qui un tentativo di conciliare la dottrina cristiana e le concezioni
astrologiche dell’ambiente culturale di Edessa. Il fine di Bardesane fu
quello di mostrare come l’uomo non sia interamente sottomesso al destino e
che, anche se dal corpo viene la possibilità del male, è non di meno la
volontà che gli dà l'impulso. Per quanto riguarda la sua cristologia, se il
carattere più evidente è quello del docetismo, gli altri elementi che la
compongono non costituiscono una sintesi coerente. In effetti, in questo
campo rimangono molte ambiguità.
Detto questo, Bardesane non fu però quello gnostico che alcuni polemisti o
eresiologi hanno creduto di vedere in lui. Sembra piuttosto che siano stati
i suoi successori, i daisaniti, ad aver radicalizzato in senso dualista il
pensiero del loro maestro. A quel punto però incorse lui stesso,
inevitabilmente, nella condanna che colpì coloro che si presentavano come
gli eredi del suo pensiero.
Se valutiamo il pericolo mortale per la fede cristiana rappresentato dalle
diverse gnosi, con le cristologie aberranti che implicavano, comprendiamo
meglio l’ostilità accanita di cui fu oggetto la figura di Bardesane da parte
di Efrem, come pure la scomparsa totale delle sue opere. Tutto ciò ha senza
dubbio contribuito a creare come un alone di mistero intorno a una
personalità che continua ad affascinare.
Le
Odi di Salomone
Scoperta
nel 1904 da Rendel Harris, la collezione dei 42 inni raccolti sotto il nome
dì Salomone non era del tutto sconosciuta in precedenza, dal momento che,
oltre alle citazioni sparse in diverse opere, cinque di tali odi si trovano
nella
Pistis Sophia, scritto gnostico del sec. III-IV pervenutoci nella
versione copta.
Gli studi e
le discussioni sviluppatisi immediatamente dopo la scoperta dell’opera hanno
cercato di risolvere gli interrogativi che conferiscono a questi testi un
alone di mistero.
Ciò che
colpisce immediatamente è il sapore arcaico della teologia sottesa alla
profusione di simboli e di immagini, talvolta singolari o contraddittori,
che fluiscono dalla bocca del poeta per cantare la sua gioia di essere
battezzato e la sua unione mistica con Cristo risorto.
Basandosi
sull’uso di certi termini e di certe immagini che si ritrovano in altri
scritti, molti studiosi banno definito questa teologia come gnostica. A tale
critica è possibile obiettare, a ragione, che, contrariamente a questi altri
scritti, le
Odi non contengono quella teologia dualista che è l’elemento
fondamentale di ogni gnosticismo eterodosso. Al contrario, se c’è
gnosticismo, questo è perfettamente ortodosso. Seguendo le affermazioni di
J. Daniélou, si potrebbe piuttosto parlare di «strutture di ciò che noi
indichiamo come teologia giudeo-cristiana, utilizzate sia dagli gnostici sia
dagli ortodossi»
[24].
Il
carattere giudeo-cristiano delle
Odi
si manifesta innanzitutto nella loro dottrina trinitaria, dove il Nome
indica il Verbo, e dove lo Spirito Santo è visto al femminile. Ugualmente
sono significativi altri temi, come la discesa del Figlio, tenuta nascosta
agli angeli, la Chiesa preesistente, la concezione e la maternità verginali
di Maria. Ma i due temi più importanti di questa teologia arcaica sono la
discesa di Cristo agli inferi, descritta nell’Ode
42, l’ultima della raccolta, e il ritorno al paradiso grazie al battesimo,
di cui le
Odi sviluppano un interessante tipologia.
Numerosi
elementi del rito battesimale ricchi di simbolismo sono d’altronde ancora
oggi in uso nelle Chiese siriache, in particolare il rito dell’unzione con
l'olio, cui un’opera gnostica come gli
Atti di
Tommaso attribuiscono una funzione essenziale nell'iniziazione
battesimale, come vedremo più avanti.
I temi cui
abbiamo ora accennato si
ritroveranno più tardi incisivamente sottolineati in Efrem di
Nisibi (†373). Non dobbiamo perciò basarci esclusivamente sul tipo di
teologia presente nelle
Odi
per attribuire
loro una datazione molto antica. Il III secolo sembra essere
la data più comunemente accettata. La lingua originale e l'ambiente in cui
le Odi
vennero concepite sono stati l’oggetto di molte ipotesi e discussioni. Dopo
aver ipotizzato il greco, oggi si è piuttosto a favore del siriaco, a motivo
delle somiglianze con l'innologia siriaca posteriore.
Quanto
all'ambiente, l’ipotesi di una matrice giudaica non è più sostenuta da
nessuno. L'ambiente edesseno, interamente bilingue e molto permeabile alle
differenti correnti che si riversavano nel cristianesimo di Edessa del
II-III secolo sembra invece essere del tutto plausibile
Gli
Atti di Tommaso
Questo
apocrifo, la cui lingua originale è molto probabilmente il siriaco, risale
ai primi decenni del III secolo e potrebbe venire dalla Scuola di Bardesane.
In 13
episodi l’autore narra le vicende e il martirio dell'apostolo Tommaso in
India, dove fu inviato da Cristo per predicare il Vangelo. L’apostolo compie
là numerosi miracoli e conversioni, preceduti e seguiti da avvenimenti dove
il meraviglioso rivaleggia con il fantastico più sfrenato.
La
caratteristica essenziale tuttavia non risiede tanto in questi elementi,
quanto piuttosto, in primo luogo, nell’encratismo, che appare chiaramente
fin dal primo episodio. Vi è rappresentato Cristo che, con le sembianze di
Tommaso, appare alla figlia del re indiano e al suo sposo la sera delle loro
nozze, per esprimere la totale condanna del matrimonio per convincerli che
la paternità e la maternità sono una degradazione. In secondo luogo è
attribuita una grande importanza, nel rito del battesimo, all’unzione
mediante l’olio, visto già come sigillo di per sé sacramentale
[25].
Il nono episodio di questo racconto contiene un lungo e bel poema,
l'Inno
dell’anima, detto anche
Canto della
perla, ricco di tutto un simbolismo esoterico e gnostico.
L’eroe, un giovanetto, figlio del re, è mandato dai genitori alla ricerca
della propria anima, simbolizzata in una perla custodita da un terrificante
serpente. Egli discende in Egitto, simbolo di questo basso mondo che gli è
estraneo. Colpisce con un sortilegio il serpente, s’impadronisce della perla
e, dopo essersi spogliato del travestimento che era stato costretto ad
indossare per non essere riconosciuto come straniero dalla gente del posto,
prende la strada del ritorno verso il regno del padre, la sua patria
celeste.
Prima di giungere a destinazione ecco che vede venire verso di lui, tenuto
disteso da due tesorieri, il meraviglioso vestito di luce mandato dai suoi
genitori. Si riconosce in esso come in uno specchio, se ne riveste e risale
verso il padre a cui porta la perla. Abbiamo in questo poema, una perfetta
illustrazione di ciò che la gnosi definisce «conoscenza di sé», conoscenza
insieme di ciò che si era originariamente, di ciò che si è diventati
quaggiù, e di ciò che si sarà oppure di ciò che si ridiventerà.
L'IMPERO PERSIANO
[26]
Siamo rimasti fin qui nell’area e nell'ambiente del cristianesimo di Edessa.
Vi erano, oltre a questa, nel II secolo — e lo si è visto attraverso la
testimonianza di Bardesane — comunità cristiane nell’impero partico e in
Persia. Tali comunità si collegano tradizionalmente a un discepolo di Addai,
Mari, considerato come il fondatore della Chiesa di Seleucia-Ctesifonte. In
quale data Mari sarebbe venuto a Ctesifonte, capitale dell’allora Impero
partico? Fondandosi su considerazioni di geografia locale, il J-M. Fiey
colloca l’arrivo del missionario cristiano tra la fine del I secolo e
l’inizio del II, dunque grosso modo nello stesso periodo in cui Addai
evangelizzava Edessa
[27]. Occorre tuttavia attendere fino al
336 per veder apparire, con Afraate, il Saggio persiano, il primo scrittore
siriaco dell'Impero persiano.
Nel frattempo l'Impero partico era scomparso per far posto, a partire dal
226, alla dominazione sasanide. Dopo un periodo di radicamento e di crescita
senza storia sotto la dinastia panica degli arsacidi, la Chiesa persiana
conobbe una forte espansione dovuta, sembra, all'arrivo massiccio di
popolazioni che i sovrani sasanidi avevano deportato dalle regioni
conquistate, tra cui si contavano numerosi cristiani, e anche alcuni
vescovi.
La presenza di popolazioni di origini etniche e di mentalità differenti pose
alla comunità cristiana seri problemi di ordine interno: rivalità nazionali,
contrasti sulle influenze reciproche, conflitti di giurisdizione tra sedi
episcopali confinanti, competizione per la supremazia su tutte le Chiese
persiane: problemi tipici di una Chiesa cristiana in piena espansione, in
una situazione politica perturbata.
Questa crescita preoccupò la potente casta sacerdotale dei magi e suscitò la
loro gelosia. Così, quando Costantino pubblicò l’editto di Milano che
concedeva alla Chiesa dell'Impero romano oltre alla tolleranza anche uno
statuto giuridico privilegiato, i cristiani dell’Impero persiano dovettero
apparire come nemici interni, come traditori, almeno in potenza se non di
fatto. Non ci fu bisogno d’altro perché, verso il 340, i magi fomentassero
una persecuzione che durò 40 anni e che in certe regioni, come l'Adiabene,
fu molto sanguinosa. Se aggiungiamo poi a questo clima di violenza endemica
il pericolo più insidioso e ancor più reale delle dottrine di Marcione, di
Valentino, del manicheismo e del giudaismo, quest’ultimo ben introdotto in
quell'epoca presso la corte, avremo un’idea del contesto socio-politico e
religioso in cui visse e lottò Afraate.
Afraate (inizio sec. IV-345ca)
[28]
Il nome di Afraate non ricorre mai nei tre manoscritti della British
Library: Add. 14619, 17182 e Or 1017 (sec. V-VI) che contengono le sue
opere. Vi è chiamato una volta il «Saggio persiano», e due volte «Mar
Giacomo». Il nome di Afraate compare per la prima volta nel lessico
siriaco-arabo di Bar Bahlul (†963).
L’identità dello scrittore è dunque rimasta lungamente avvolta nel mistero.
Ugualmente ignoriamo le date precise della sua vita. Nacque senza dubbio tra
il 260 e il 275 e morì poco dopo il 345. Fece parte dei «Bnay (bnât) qyâmâ»,
espressione siriaca che si traduce con «Figli (Figlie) del Patto». Né
eremiti né monaci, costoro erano asceti che, pur vivendo nel mondo, erano
votati al celibato. Afraate, come indica chiaramente la sua opera, fu
insignito di una dignità elevata nella comunità. Con molta probabilità fu
vescovo, anche se non ne siamo del tutto certi.
Il nome dì Giacomo fu senza dubbio da lui adottato al momento del suo
ingresso negli ordini sacri. Nacque di qui la confusione con Giacomo di
Nisibi, fatta dalla traduzione armena (fine sec. V).
La sua opera comprende 23 Dimostrazioni di cui le prime 22 sono
disposte in acrostico, e la XXIII è un sommario dell’insieme. La parola
siriaca che noi traduciamo abitualmente con «Dimostrazione» deriva dalla
radice verbale «mostrare». Questa traduzione non soddisfa, perché connota
una logica deduttiva, estranea al tipo di pensiero dell’autore. Una
traduzione recente di rutta l’opera (cf. Bibliografia infra) propone
«Esposizioni», che rappresenta già un miglioramento, ma resta ancora troppo
segnato dal modo di pensare occidentale. Altre traduzioni, come «lettere» -
infatti il testo si presenta in forma di risposte a un interlocutore -
oppure «omelie», «discorsi», «capitoli», «trattati», ecc, si riferiscono a
termini siriaci usati da Afraate stesso per caratterizzare il testo. Tutto
ciò, per sottolineare la difficoltà di definire il genere letterario.
Gli argomenti trattati, invece, sono nettamente definiti. Le prime dieci
«Esposizioni» sviluppano temi dogmatici e ascetici e furono scritti, secondo
la testimonianza stessa di Afraate, nel 337. Si rivolgono innanzitutto ai
«Figli (Figlie) del Patto». Le undici seguenti si collocano nel 344, e la
ventitreesima nel 345, cioè all'inizio della persecuzione provocata da
Sapore II. In questo secondo gruppo di testi, Afraate sviluppa soprattutto
la polemica contro le norme pratiche della religione giudaica, il cui
abbandono aveva suscitato inquietudine in alcuni fedeli che provenivano dal
giudaismo. La quattordicesima «Esposizione» è una sorta di lettera sinodale
indirizzala ai vescovi e ai fedeli della Chiesa di Seleucia-Ctesifonte per
condannare gli svariati abusi commessi da pastori indegni.
La comunità dei «Figli (Figlie) del Patto», a cui sono indirizzate le
«Esposizioni», è senza dubbio di origine o di tradizione giudaica. Il Saggio
persiano di origine pagana sembra aver fatto parte di quei proseliti che
conoscevano a fondo l'Antico Testamento e i commentari rabbinici. Il suo
pensiero segue in tutto la tradizione, lontano dalle argomentazioni
filosofiche della filosofia neo-platonica o aristotelica. Vuole essere,
secondo le sue stesse parole, «discepolo delle Sante Scritture». Nelle sue
«Esposizioni» analizza il testo scritturistico secondo i metodi ermeneutici
della haggada della Torah orale. Nella sua pagina si ritrovano così
molti temi derivati dai Talmûds e dal Midrâsh. Per questo sarebbe errato
voler giudicare la teologia di Afraate, come la sua cristologia, secondo i
concetti della dogmatica post-nicena. Ad esempio egli ignora i concetti di
natura e di persona. Accostandosi al mistero non si limita ad una sola
prospettiva, esaustiva di ogni significato, ma piuttosto giustappone i
differenti e talora opposti aspetti di una verità di fede, usando un
linguaggio ricco di immagini, pregnante e suggestivo, È in questo senso che
si può parlare del carattere semitico del pensiero di Afraate.
Per quanto riguarda invece i modelli retorici presenti ad Afraate nella
redazione delle «Esposizioni», qui egli dipende in realtà dal giudaismo
detto “ellenistico”, distinto da un giudaismo di carattere più puramente
semitico. Inoltre, alcuni procedimenti letterari da lui utilizzati risentono
di vecchi modelli mesopotamici, passati più tardi nella retorica
ellenistica. Tutto ciò manifesta, in conclusione, il “carattere ibrido”
della sua matrice culturale.
«Quest’opera così originale e così interessante non ebbe seguito».
L’«Esposizione» 23 si colloca nel 345, quattro anni dopo il 17 aprile del
341, che segna l’inizio della sanguinosa persecuzione suscitata da Sapore II
e destinata a durare per un mezzo secolo, fino al 399.
Durante questo periodo, a parte racconti di martiri e formule liturgiche,
non viene alla luce alcuna opera letteraria. Bisogna attendere fin verso la
metà del V secolo perché si presenti, con Narsai (399-502), uno scrittore e
un teologo degno di questo nome. Ma in quel momento la Chiesa di Persia avrà
definitivamente optato per il nestorianesimo e per le controversie
cristologiche, impegnandosi così in una via ben diversa da quella aperta dal
Saggio persiano.
AI CONFINI DELL’IMPERO: EFREM DI NISIBI (306-373)
[29]
Efrem di Nisibi, il più conosciuto tra i Padri siriaci, al momento stesso
della morte godette di una celebrità che lo ha posto al livello dei più
famosi Padri greci. Molto presto sono apparse le traduzioni delle sue opere
in greco e in armeno, poi, lungo i secoli, in latino, arabo, copto, slavo
ecc. Nella gran massa di tutti questi testi e versioni posti sotto il nome
del grande dottore, la critica ha cercato di stabilire l’elenco delle opere
autentiche, sia correggendo le attribuzioni errate, sia scartando le
composizioni di falsificatori che utilizzarono il nome di Efrem per far
passare alla posterità le loro mediocri produzioni. Non è uno dei minori
meriti dell’editore moderno dell’opera di Efrem, Dom Edmund Beck o.s.b.
(†1991 ) quello di aver compiuto, oltre all’edizione critica dei testi,
anche questo lavoro di discernimento.
Analogo lavoro si è dovuto intraprendere con i numerosi testi - soprattutto
greci e siriaci - che vogliono fornirci la biografia autentica di Efrem.
Continuamente rimaneggiata, nel corso dei secoli questa si è appesantita
nelle sue redazioni successive, di elementi leggendari mutuati sui modelli
in uso nell’agiografia greca e siriaca.[30]
La prima di queste biografie, contenuta nella Historia Lausiaca
scritta nel 419/420, dunque solo 46 anni dopo la morte di Efrem, giunge
persino a descrivere il suo itinerario spirituale secondo gli schemi della
spiritualità dotta di Evagrio Pontico. È un solo esempio delle aggiunte
posteriori che hanno contribuito non poco a creare un’immagine abbastanza
deformata del dottore siriano.
Gli avvenimenti certi della sua vita si riducono a poca cosa. Nato verso il
306 a Nisibi, città crocevia ai confini degli imperi romano e persiano e
quindi aspramente contesa, Efrem vi trascorse i primi 57 anni della sua
vita. Fu battezzato durante la giovinezza, quindi visse in un primo tempo a
contatto con i quattro primi vescovi di Nisibi, che lo formarono alla vita
ascetica. È quasi certo che abbia fatto parte, come Afraate, della
confraternita dei «Figli del Patto» e che sia stato ordinato diacono. Senza
dubbio Efrem iniziò nella sua città natale a insegnare, cioè a commentare le
Scritture, «anche se non è sicuro che sia stata fondata una Scuola teologica
dal vescovo Giacomo, l’indomani del concilio di Nicea».
Il santo dottore non avrebbe probabilmente abbandonato Nisibi, se la città,
sempre esposta agli attacchi degli eserciti persiani, non fosse stata ceduta
nel 363 dall’imperatore Gioviano (363-364) in cambio della pace. Dopo
qualche tempo Efrem dovette espatriare con altri esuli e si stabilì a
Edessa. Solo allora scoprì il diffondersi delle dottrine eretiche e delle
sette che proliferavano nella città diventata la sua nuova patria: ariani,
marcioniti, manichei, discepoli di Bardesane, per non citare che i più
conosciuti. A Edessa proseguì la sua attività nell’insegnamento, «il che
spiega come il suo nome sia rimasto legato alla fondazione della celebre
Scuola teologica dei Persiani».
Il suo ministero di diacono gli permise di introdurre nella liturgia i suoi
inni contro le eresie e - cosa del tutto straordinaria per l’epoca - di
farli eseguire da un coro di vergini, senza dubbio membri come lui della
confraternita dei «Figli (Figlie) del Patto». Per quanto riguarda la sua
attività caritativa e sociale, questa ebbe certamente molte occasioni di
svilupparsi, soprattutto al momento della carestia del 373, l’anno della sua
morte.
Una tradizione molto posteriore, d’origine monastica, ha voluto presentare
Efrem come un monaco anacoreta. In realtà è molto poco verosimile che il
diacono di Edessa abbia potuto condurre una vita eremitica assolvendo il
doppio compito dell’insegnamento e del servizio alla comunità. Poté dunque
praticare la vita anacoretica solo per brevi periodi.
Benché Efrem abbia goduto di una celebrità, come abbiamo detto sopra, pari a
quella dei grandi dottori della Chiesa greca, l’insieme della sua opera è
rimasta inedita quasi fino al sec. XVIII. Si possono trovare due motivazioni
per questo fatto apparentemente sorprendente. Primo, la prevalenza della
teologia di lingua greca, con il suo carattere speculativo e analitico
rafforzato dalle controversie teologiche, lasciava poco spazio a una visione
simbolica e sintetica come quella di Efrem. Anche la stessa Scuola di
Edessa, dal V secolo (come vedremo in seguito) si dedicò a tradurre in
siriaco una quantità considerevole di opere dei Padri greci. Si produsse
allora una svalutazione del pensiero dello scrittore siriaco. Il che spiega
forse il motivo per cui andò perduta gran parte o la totalità del testo
siriaco di certe opere, conservatesi solo in versione armena. Secondo, la
conquista islamica, che ebbe luogo nella prima metà del VII secolo e che
impose l’egemonia araba, provocò la scomparsa progressiva della lingua e
della cultura siriaca.
L’insieme del corpus di Efrem è stato pubblicato, nel corso degli
anni 1742, 1743, 1746 da Giuseppe Simone Assémani, coadiuvato da Stefano
Evodio Assémani e dal gesuita Pietro Mobarak. Esso occupa 6 volumi in
folio, i primi tre contenenti l’Efrem greco, i tre seguenti l’Efrem
siriaco, il tutto accompagnato da una traduzione latina. Non torneremo qui
sugli errori di questa edizione, già tante volte segnalati.
Nel corso del XIX secolo furono pubblicate altre opere, a partire dai
manoscritti della British Library. Ma anche molte di queste edizioni
lasciavano a desiderare dal punto di vista critico. Divenne indispensabile
una riedizione che soddisfacesse tutte le esigenze della critica moderna.
Questo lavoro fu compiuto tra il 1955 e il 1979 da Dom Edmund Beck, che «ha
rieditato criticamente in 38 volumi del CSCO praticamente tutta l’opera
poetica di Efrem Siro, comprese le opere dubbie e apocrife».
L’opera di Efrem viene divisa abitualmente secondo i generi letterari:
1 - Opere in prosa: a) Opere polemiche. Sotto il titolo generale di
Confutazioni in prosa queste comprendono opere polemiche contro Mani,
Marcione e Bardesane. Malgrado la loro difficoltà questi testi costituiscono
«una delle maggiori fonti per la conoscenza delle dottrine marcionite,
bardesanite e manichee nelle comunità della Mesopotamia del IV secolo»
[31]. b) Commenti biblici. I più
importanti riguardano la Genesi, l’Esodo e il Diatessaron. Benché
tradizionalmente si colleghi Efrem alla Scuola di Antiochia, dobbiamo
escludere ogni tipo di imitazione diretta dei modelli greci. Uguale
osservazione vale per l’esegesi rabbinica, di cui troviamo numerose tracce
nei commenti e negli inni. Dato il suo antigiudaismo
[32], sembra più verosimile affermare che
se ci fu imitazione questa avvenne soltanto attraverso le comunità cristiane
che da tempo avevano acquisito e assimilato i metodi dei commentari
giudaici.
2 - Omelie metriche (in versi di 7 + 7 sillabe). Sono indicate genericamente
con il nome siriaco di Memra (plurale Memre). Un gran numero
di queste composizioni sono andate perdute e molte di quelle pervenute non
sono autentiche. Si considerano autentiche: a) sei Mentre sulla fede;
b) Mentre su Nicomedia composte in occasione del terremoto del 358.
Possiamo collegare a questi Memre quello De Domini nostro e
l'Epistola a Publio.
3 - Inni.
È la parte più importante dell’opera di Efrem pervenutaci. È anche quella
che mostra con maggiore chiarezza il suo genio di poeta teologo. Non è
provato che le origini di queste composizioni poetiche debbano essere
cercate in Bardesane, anche se la grande diffusione dei suoi inni hanno
spinto Efrem ad adottare il medesimo modello. «Per quanto riguarda la
struttura, Efrem talora forse inconsapevolmente riprende antichi generi
letterari mesopotamici, come quello della “disputa di prevalenza”, di cui
esistono esempi già in lingua sumerica».
Dopo la morte di Efrem, gli inni - dei quali più di quattrocento sono a noi
pervenuti - sono stati suddivisi in 9 volumi: Sulla natività, Sul
digiuno, Su Nisibi (Carmina Nisibena), Sulla Chiesa e sulla Verginità, Sulla
fede, Sulle dottrine e Sul Paradiso, Sui confessori e Sui defunti.
I Carmina Nisibena, nonostante il titolo, appartengono al periodo
nisibeno solo per i primi 21 inni, mentre gli altri 56 sono del periodo
edesseno. Si datano del periodo nisibeno gli inni sul Paradiso. Al
contrario, gli Inni contro le dottrine erronee e gli Inni sulla
fede che combattono i marcioniti, i bardesaniti, i manichei, gli
astrologi e gli ariani, così come gli Inni sulla Chiesa e sulla
Verginità, si collocano nel periodo edesseno
[33].
Efrem ha raccolto nella sua opera una triplice eredità. Innanzitutto
l’eredità culturale mesopotamica. Ciò risulta evidente dall’uso del genere
letterario conosciuto con il nome di «disputa di prevalenza», che mette in
scena due avversari in una sorta di duello oratorio, in cui ciascuno cerca
di provare la propria superiorità sull’altro. Troviamo infatti in Efrem
circa una mezza dozzina di poemi in cui si affrontano, ad esempio, Satana e
la Morte, nel LII inno dei Carmina Nisibena, o il matrimonio e la
verginità.
In secondo luogo Efrem ha largamente attinto alla tradizione giudaica, prima
di tutto sicuramente all’Antico Testamento, ma anche alla letteratura
post-biblica, Targûm e Midrâsh. Come si è detto, questa eredità non gli è
pervenuta direttamente, ma attraverso le tradizioni delle scuole esegetiche
che nelle comunità cristiane della Mesopotamia l’avevano da lungo tempo
assimilata.
Infine, pur non conoscendo il greco, Efrem ha subito l’influenza delle opere
scritte in quella lingua. Ne conobbe forse alcune tramite l’ausilio di
traduzioni. Ad esempio ricorda i differenti punti di vista degli autori
greci sulla natura dell’anima. Ugualmente, si è individuata nelle sue opere
l’influenza del pensiero stoico.
L’originalità del genio di Efrem consiste nella sintesi da lui operata di
tutti questi differenti apporti, per giungere ad esprimere il mistero
cristiano in una visione simbolica. La parola chiave intorno a cui
costruisce questa visione è la parola siriaca di origine persiana raza,
che significa segreto, mistero, simbolo e anche, secondo il contesto,
sacramento. Efrem vuole in ogni modo evitare di avvicinarsi al mistero
tramite definizioni o schemi teologici, che possono essere pericolosi e
perfino mortali per la fede cristiana. Questo era vero soprattutto per la
polemica contro gli ariani, il cui errore consisteva nel cercare di
elaborare una definizione razionale della generazione del Figlio da parte
del Padre. Efrem, ponendo la realtà divina come al centro di un cerchio,
contempla tale realtà senza cercare di rinchiuderla in una visione immobile
e statica. La sua visione simbolica «propone invece in modo paradossale una
serie di opposti e li pone in punti differenti della circonferenza. Unendo
le coppie di opposti le une alle altre si ottiene una visione
fondamentalmente dinamica». Gli stessi simboli presi dalla Bibbia sono usati
in modo da non poterli dissociare gli uni dagli altri, in quanto simboli che
rivelano il mistero di Cristo.
Per questo modo di procedere possono accedere a una simile comprensione
globale solo coloro che a una perfetta conoscenza dell’Antico e del Nuovo
Testamento aggiungono uno sguardo illuminato dalla fede. Così, a proposito
del Paradiso, questo sguardo permette al credente «di inglobare il paradiso
primordiale all’interno, allo stesso tempo, di una topografia sacra e di una
teoria salvifica, che lo fanno corrispondere al Paradiso escatologico
restaurato da Cristo e anticipato sacramentalmente dalla Chiesa».
Il Liber Graduum
[34]
Tale opera, che si è conosciuta dopo il 1926 al momento della sua edizione
ed è composta di 30 Memre o omelie, è anonima. Si ritiene comunemente che la
sua composizione risalga al IV secolo. «Essa costituisce una testimonianza
preziosa, per le tendenze dottrinali che esplicita, della spiritualità più
arcaica della Chiesa della Mesopotamia».
Il nucleo fondamentale di questa spiritualità è la distinzione tra due
categorie di fedeli, i “giusti” e i “perfetti”. I primi sono tenuti
all’osservanza dei “piccoli comandamenti” e la loro condotta si fonda su tre
precetti essenziali: il digiuno, la preghiera, l’elemosina. Occorre
aggiungere anche l’osservanza della “regola d’oro”. I “perfetti”, da parte
loro, praticano i precetti della rinuncia al matrimonio, alla famiglia e ai
beni di questo mondo, comprese le cariche e le dignità nella Chiesa. Le
virtù del “perfetto” sono un grande amore per tutti gli uomini fondato
sull’estrema umiltà. La sua preghiera e il suo digiuno sono continui.
La distinzione tra “giusti” e “perfetti” dipende da una differenza più
profonda, che riguarda la parte più o meno grande di Spirito ricevuto da
ciascuno. Mentre i “giusti” hanno ricevuto solo l’arra, cioè una parte
limitata dello Spirito, i “perfetti” invece l’hanno ricevuto in pienezza. La
vita spirituale è dunque composta da moltissimi “gradi”, secondo la quantità
di Spirito che ciascuno possiede. C’è tuttavia una tappa decisiva, quella in
cui il fedele riceve il battesimo nel fuoco e nello Spirito, cioè nella
pienezza dello Spirito. Si tratta di un battesimo «che fa entrare l’uomo
nella Chiesa celeste... e lo ristabilisce nella condizione in cui era Adamo
prima della caduta, liberandolo da ogni concupiscenza e restituendogli
l’accesso all’albero della vita».
Molti commentatori, tra i quali l’editore e traduttore dell’opera, hanno
creduto di rintracciare qui le tesi tipiche dell’eresia dei messaliani o
eutichiani. Oggi pare invece che si sia pervenuti a un parere se non
opposto, almeno molto sfumato. Effettivamente, se la distinzione tra
“giusti” e “perfetti” e tra Chiesa visibile e Chiesa invisibile portava i
messaliani a separarsi dalla grande Chiesa e a costituirsi in setta,
l’autore del Liber graduum, al contrario, «insiste sulla necessità,
per chi vuole pervenire alla Chiesa invisibile, di passare attraverso la
Chiesa visibile».
Infatti occorre piuttosto vedere in questa distinzione tra “giusti” e
“perfetti” «uno degli elementi fondamentali e permanenti della spiritualità
siriaca dalle origini fino ai grandi mistici nestoriani del VII e VIII
secolo».
Verso la «grande lacerazione»
[35]
Fino a questo momento siamo rimasti nell’ambiente di una cristianità siriaca
indivisa. Tuttavia, dopo la condanna di Nestorio al concilio di Efeso (431),
i germi di divisione erano già all’opera in seno alla cristianità di Edessa.
Con l’arrivo di numerosi emigrati dall’impero sasanide venne a crearsi nella
celebre Scuola dei Persiani, resa famosa da Efrem, un partito nestoriano
molto potente. Dapprima tale partito trovò in Rabbula, vescovo dal 411 della
città, un avversario accanito, ma il successore Ibas (457), autore della
famosa Lettera a Maris
[36], fu suo sostenitore. Ci è
pervenuto poco della produzione letteraria di Rabbula: due omelie, alcuni
testi canonici, alcune lettere e un frammento di lettera a san Cirillo, con
la risposta di quest’ultimo. Sappiamo che vietò l’uso del Diatessaron
nella liturgia a favore dei Vangeli separati.
Delle opere di Ibas, a parte la Lettera a Maris, non ci rimane
niente. Sappiamo però che fece parte di quel gruppo di giovani sacerdoti
trasferitisi da Nisibi alla Scuola di Edessa per intraprendere l’impresa
gigantesca di tradurre i Padri greci e autori come Eusebio di Cesarea, Tito
di Bostra, insieme ad autori profani. «Si rimane meravigliati della grande
quantità di testi che furono in questo modo tradotti, con tutto l’ardore e
l’entusiasmo che vi potevano infondere questi giovani strappati, per amore
dello studio, alle loro case e alla loro patria». Fu così che con l’aiuto di
due suoi discepoli Ibas tradusse le opere di Diodoro di Tarso (†394), di
Aristotele e soprattutto i Commentari di Teodoro di Mopsuestia
(†428), autore che la Chiesa di Persia adotterà nel 484 come esegeta
ufficiale e che onorerà con il nome di «Interprete», titolo attribuitogli
ancora oggi dai siro-orientali.
Dopo la morte di Ibas avvenuta nel 457, i suoi seguaci furono cacciati da
Edessa e si ritirarono in Persia
[37].
Nel frattempo, nel 451, il monofisismo era condannato a Calcedonia. I
vescovi siriaci, nella maggior parte, rifiutarono di aderire al concilio e
dettero vita alla Chiesa monofisita. Da quel momento tutta la cristianità
siriaca rimase separata dalla grande Chiesa e, in più, essa stessa si divise
in due Chiese rivali e spesso nemiche, ciascuna di esse vivendo ormai una
propria vita, ben presto con una sua gerarchia, suoi teologi e suoi
polemisti che sapranno anche validamente difendere e valorizzare i propri
sistemi cristologici.
Impegnandosi però in controversie teologiche, l’una e l’altra
privilegeranno, d’ora in poi, una elaborazione speculativa, trascurando in
questo modo gran parte di quella ricchezza che poteva loro venire da una
visione simbolica del mistero cristiano
[38].
Bibliografia
Lo strumento bibliografico di base, per ulteriori approfondimenti dei temi
trattati, è il Catalogue of Syriac Printed Books and Related Literature in
the British Museum, London 1962, curato da Cyril Moss.
In seguito si può consultare la rivista «Parole de l’Orient» (Université
Saint-Esprit, Kaslik, Libano):
per gli anni 1960-1970: PdO 4 (1973) 393-465;
per gli anni 1971-1980: PdO 10 (1981/2) 291-412;
per gli anni 1981-1985: PdO 14 (1987) 289-360;
per gli anni 1986-1990: PdO 17 (1992) 211-301,
Queste bibliografie, a cura di S.P. Brock, sono state raccolte in un volume
intitolato Syriac Studies. A Classified Bibliografy (1960-1990), PdO
(1996). In PdO 23 (1998) 241-350, sempre a cura di S.P. Brock, è uscito un
aggiornamento bibliografico Syriac Studies. A Classified Bibliography,
per gli anni 1991-1995.
[1]
La traduzione dal francese di questo testo è di Lella Scarampi.
N.d.R.: Il testo originale contiene molte altre note esplicativa che non
ho riportato.
[2]
Cf. P. Bettiolo, Lineamenti di
patrologia siriaca in A, Quacquarelli (ed.),
Complementi interdisciplinari di
Patrologia, Città Nuova, Roma 1989, pp. 503-603. Come pure H. Eaton
(ed.), Horizons in Semitic
Studies, Birmingham 1980, pp. 1-68.
[3]
I due altri dialetti sono, nella Bassa Mesopotamia, il
mandeo, utilizzato da una
setta battista dallo stesso nome all'inizio dell'era cristiana e, in
Babilonia, il giudeo-babilonese,
lingua del Talmud di Babilonia. Per quanto riguarda i dialetti
occidentali, vi si annoverano tra gli altri, in Arabia dei Nord, il
nabateo, in Palestina l'aramaico
biblico e quello dei targums.
Sono i due dialetti che a avvicinano maggiormente al galileo parlato da
Gesù e dagli apostoli. Infine, il
siro-palestinese (detto anche cristo-palestinese) in uso durante il
III e il IV secolo nelle comunità cristiane melchite della Palestina.
[4]
Per siro-occidentali si
intende la Chiesa siriana ortodossa, detta anche monofisita o giacobita,
dal nome del suo organizzatore, Giacomo Batadeo (†578), e la Chiesa
siriana cattolica, così come la Chiesa maronita interamente cattolica.
La Chiesa siro-orientale, da
parte sua, include anche un ramo cattolico, i Caldei, mentre i
siro-orientali non uniti a Roma, un tempo erano chiamati nestoriani e
oggi sono gli assiri. Sotto le denominazioni di «siro-malabaresi» e
«siro-malankaresi» si ritrovano le medesime suddivisioni nelle Chiese
siriache dell'India, Per una documentazione più completa, cf. R.
Roberson, The Eastern Christian
Churches. A Brief Survey, Edizioni «Orientalia Christiana», Roma
1999.
[5]
La pronuncia orientale è generalmente riconosciuta come più arcaica. La
grafia e la pronuncia delle vocali sono inoltre più complesse
di
quelle del siriaco occidentale.
[6]
I cristiani siriaci di Turchia, Iraq e Iran parlano ancora oggi diversi
dialetti aramaici. Nonostante la denominazione generica di neo-siriaco
con cui vengono alle volte indicati, questi dialetti non derivano dal
siriaco classico, ma da altri dialetti parlati in queste regioni da
tempo immemorabile. I più noti sono il
soureth parlato in Iraq e in
Iran e il tourani, dialetto
dei cristiani siro-occidentali in uso lungo la frontiera nord-orientale
della Siria.
Cf. J. Rhétoré, Grammaire de la langue Soureth, Mossul 1012.
[7]
Studio e tr. fr.: F. Nau,
Histoire et Sagesse d'Aikar l'Assyrien, Paris 1909.
Studio, edizione e tr. ingl.: The
Story of Ahikar, by F.C. Conybeare - J. Rendel Harris - A. Smith
Lewis, Cambridge, 1913.
[8]
Cf. Tb 1,21-22.
[9]
Ediz. E tr.
Ingl.: W. Cureton, Spicilegium
Syriacum, London 1855, pp. 43-48.
[10]
A. Baumstark: Geschichte der
syrischen Literatur
(GSL) 11.
[11]
Ed. e tr. Lat.: I. Guidi,
Chronica Minora, CSCO 1,2 (1903).
[12]
Edessa: in siriaco Urbay, oggi Urfa in Turchìa, a 200 km circa a
nord-est di Aleppo, La città prese il nome da quello dell'antica
capitale della Macedonia, probabilmente in seguito al formarsi di una
colonia macedone. Furono i romani a creare nel 216 d.C, la provincia di
Osroene con Edessa capitale. Cf. J.-B. Segai, Edessa, the "Blessed
City", Oxford 1970.
[13]
Non fu cosi sul piano dei modelli retorici dove, al contrario, avvenne
una vera e propria osmosi tra le culture ellenica e semitica, dando
luogo a quello che fu definito un ambiente culturale "ibrido".
Cf. R. Murray, Some Rhetoricai
Pattern» in Early Syriac Literature, in
A Tribute to A. Vööbus,
Chicago 1977, pp, 109-131.
[14]
Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiatica, (HE) I, 1, 13, Sources
Chrétiennes (SC 31) (1952), pp. 40-45.
[15]
Testo e tr. ingl. G, Howard, The
Teachìng of Addai, Scholars Press Chico, California, 1981.
[16]
In "Gregorianum", 15 (1934)
82-91.
[17]
Ed. e tr. Lat.: I. Guidi,
Chronica Minora, CSCO 1,2 (1903).
[18]
Testo greco: J.K Vìeillefond,
Jules Africain. Fragments des Cestes, "Les Belles Lettres", Paris
1932, pp. 49-50.
[19]
Al contrario, l’affermazione attribuita a Bardesane (PS 2,607) che parla
dell’adesione di Abgar IX alla fede cristiana pare di dubbia
autenticità. Eusebio di Cesarea, che dà la traduzione greca di questo
passo del Libro delle leggi dei
paesi, non si pronuncia al riguardo (cf.
Praep. Evang. VI, 10,44, SC
266 [1980], 230).
[20]
Le fonti talmudiche forniscono interessanti dettagli geografici sulle
vie di comunicazione che collegavano le comunità giudee della diaspora
mesopotamica con la Terra Santa. Le iscrizioni trilingui della sinagoga
di Dura-Europos sull’Eufrate sono una conferma delle svariate
provenienze dei giudei che vi sostavano.
[21]
L, Leloir, Éphrem de Nisibe,
Commentaire de l'Évangile Concordant ou Diatessaron, SC 121 (1966),
p, 15.
[22]
CSCO 137, p. 145.
[23]
Lo studio fondamentale su Bardesane resta l'opera di H.J.W. Drijvers,
Bardesan of Edessa, Assen
1966. Il testo del Libro delle
leggi dei paesi è stato edito con una trad. lat. da F. Nau, in PS 2,
pp. 490-657.
[24]
Dictionnaire de la Bible Supplément [DBS] 6 (1960), p. 680.
[25]
Un punto questo che è stato sottolineato a proposito delle Odi di
Salomone.
[26]
Per notizie più complete, cf. J. Labourt,
Le Christianisme dans l'empire
perse sous la dynastie des Sassanides (224-632), Paris 1904.
Per una critica e una messa a punto dello scritto di Labourt, cf. J.-M.
Fiey, Jalons pour une histoire de
l'Église en Iraq, CSCO 310 (1970), pp. 1-99.
[27]
Cf. J.-M. Fiey, op. cit. pp.
52-44, Un’altra tradizione raccolta da Eusebio di Cesarea (HE III, 1 SC
31 [1952] 97), attribuisce 1’evangelizzaaione dell’Impero partico a san
Tommaso. Di fatto, nel IV secolo esisteva a Edessa una tomba che secondo
la tradizione conteneva i resti dell’apostolo. Cf. la testimonianza di
Egeria in SC 296 (1982), 202 e l’allusione di Efrem,
Carmina Nisibena 42, 1-2,
CSCO 240 (1963), p. 37.
[28]
Ed. e tr. lat.: D.J. Parisot, in PS 1 e 2, coll. 1-489; tr. fr. con
introd. e note; M,-J. Pierre,
Aphraate le Sage Persan, Les Exposés, vol. 1, SC 349 (1988); vol. 2,
SC 359 (1989). Questo capìtolo su Afraate si ispira per la maggior parte
all’Introduzione di M.-J. Pierre.
[29]
II testo che segue deve molto all’articolo di A. de Halleux,
Saint Ephrem le Syrien, in
RTL 14 (1983) 328-355. Si è tenuto presente anche l’opera di S.P. Brock,
The Luminous Eye, Placid Lectures, Roma 1985. Questo volume è stato
pubblicato in traduzione francese a cura di Didier Rance con il titolo
L'oeil de lumière, La vision
spirituelle de saint Ephrem, Abbaye de Bellefontaine 1991. Alle
pagine 339-348 vi si trova una buona, anche se non esaustiva,
bibliografia aggiornata sulla figura e l’opera di Efrem.
[30]
Occorre considerare come leggende e clichés agiografici, la nascita di
Efrem da un padre sacerdote degli idoli, il suo incontro con san
Basilio, il suo soggiorno in Egitto presso Padri del deserto, la sua
vita come eremita ecc. Possiamo notare a questo proposito che
l’appellativo di «Diacono di Edessa», attribuito tradizionalmente a
Efrem, proviene dall’ambiente cristiano ellenico. Di fatto, il santo
dottore ha trascorso a Edessa soltanto gli ultimi dieci anni della sua
vita.
Per maggiori dettagli cf. B. Outtier,
Saint Ephrem d’après ses biographes et ses oeuvres, PdO 4, 1/2
(1973) 11-33.
[31]
Sulla storia delle edizioni del corpus efremiano, cf. J. Malki,
Saint Ephrem le Syrien, un bilan
de l’édition critique, PdO 11 (1983) 3-88.
[32]
A proposito dell'antipatia di Efrem nei confronti dei giudei così si
esprime S.P. Brock, op. cit.,
p. 164, nota 1: «...alcuni epiteti che egli usa verso di loro appaiono
del tutto offensivi a un lettore contemporaneo, in particolare a un
lettore europeo... Collocati tuttavia nel loro proprio contesto e nella
tradizione a quei tempi in uso delle invettive, l’ostilità di Efrem
diventa più comprensibile, soprattutto se c'è qualcosa di vero
nell’ipotesi recentemente avanzata che egli fosse già a conoscenza delle
storie oscene che circolavano presso i giudei, secondo le quali Gesù era
il figlio di una prostituta e di un soldato romano, storie che ci sono
giunte nelle diverse recensioni del Toledoth Yeshu. In ogni caso Efrem
non si augurava certo di vederli votati alla Géhenna...» (segue una
citazione in cui Efrem chiede per loro perdono al Signore). Cf. A. de
Halleux, op. cit., p. 337.
[33]
Il ristretto quadro di una esposizione come la presente non consente di
parlare qui delle diverse versioni - armena, greca, araba, ecc. -
dell’opera di Efrem, data l’inesistenza di una edizione completa e
soddisfacente di tali versioni. Per questi problemi, cf.
ibid., pp. 338-343 e J. Malki
(cit. supra, n. 50).
[34]
La sostanza del presente capitolo è desunta da A. Guillaumont, Liber
graduum, in DSp 9 (1976),
pp 749-54.
Espressione ripresa dal titolo del capitolo VI dell'opera di J.-M. Fiey,
Jalons pour une histoire de
l'Eglise en Iraq, CSCO 310 (1970), pp. 1-99.
[36]
Testo greco e versione latina: Mansi, VII, coll. 241-249.
[37]
La Scuola di Edessa sarà definitivamente chiusa dall'imperatore Zenone
nel 489.
[38]
I mistici costituiscono un caso a parte. Il loro contatto con
l'indicibile li obbliga a utilizzare soprattutto un linguaggio
simbolico. Così, quando tentano di concettualizzare le loro esperienze,
il linguaggio si rivela totalmente inadeguato, oppure contraddice le
posizioni tradizionali delle loro Chiese, ciò che attira loro le
condanne da parte delle autorità ecclesiastiche, È ciò che avverrà per
il mistico sire-orientale dell'VIII secolo Giovanni di Dalyatha.
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28 novembre 2018 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net