Regola di Abelardo
Estratto da “Abelardo ed Eloisa –
Epistolario”
a
cura di Ileana Pagani – Utet 2013
Il
testo originale è completo di ben 548 note.
[1] Dopo aver
risposto come ci è stato possibile ad una parte della tua richiesta, ora,
con l’aiuto di Dio, dobbiamo dedicarci ad esaudire i desideri tuoi e delle
tue figlie spirituali a proposito della parte che resta. Secondo l’ordine
della vostra richiesta ci resta, infatti, da scrivervi e consegnarvi una
forma di istruzione quasi una regola della vostra condotta di vita, affinché
dal testo scritto vi venga una norma di comportamento più certa che dalla
consuetudine. Fondandoci, dunque, in parte su buone consuetudini, in parte
sulla testimonianza delle Scritture e in parte sul sostegno della ragione,
abbiamo deciso di raccogliere insieme tutti questi insegnamenti per poter
decorare con essi quel tempio spirituale di Dio che siete voi, come
ornandolo di belle pitture, e, partendo da un certo numero di elementi
incompleti, creare un opuscolo, per quanto ci è possibile, completo. Nel far
ciò ho deciso di imitare il pittore Zeusi
e di operare nel tempio spirituale come
egli stabilì di fare in quello materiale. Come racconta, infatti, Tullio
nella sua Retorica, gli abitanti di Crotone si rivolsero a lui perché
decorasse di bellissime pitture un tempio che veneravano con grandissima
devozione. Per riuscire a farlo nel modo migliore, egli si scelse tra il
popolo cinque bellissime vergini perché gli stessero intorno mentre
dipingeva ed egli, guardandole, nel dipingere imitasse la loro bellezza. È
probabile che si sia fatto così per due ragioni: perché, come ricorda il
citato dottore, quel pittore aveva raggiunto il più alto grado di perizia
nel raffigurare donne e, in secondo luogo, perché l’immagine di una
fanciulla è considerata naturalmente più elegante e squisita della figura
virile. Il filosofo sopra menzionato dice che furono da lui scelte più
vergini, perché
non credeva che fosse possibile trovare in una sola fanciulla tutte
le membra ugualmente perfette e non credeva che dalla natura fosse mai stata
concessa a nessuno una tale perfezione di bellezza da avere tutte le membra
ugualmente belle, così che essa nel creare i corpi non ha prodotto nulla che
sia perfetto in ogni parte, quasi che riversando in uno solo ogni attrattiva
non ne avesse più da donare agli altri.
[2] Così anche noi,
per dipingere la bellezza dell’anima e per raffigurare la perfezione della
sposa di Cristo, nella quale voi possiate cogliere la vostra bellezza o
bruttezza, come nell’immagine allo specchio di una vergine spirituale tenuta
sempre davanti agli occhi, ci siamo proposti di regolare la vostra condotta
di vita sulla base di molti insegnamenti dei santi e delle migliori
consuetudini dei monasteri, scegliendo ogni elemento man mano che viene alla
memoria, e raccogliendo come in un mazzo di fiori ciò che ritengo adatto
alla santità della vostra norma di vita, considerando ciò che è stato
stabilito non solo per le monache ma anche per i monaci. Come, infatti,
siete a noi unite nel nome e nella professione di continenza, così vi
convengono quasi tutti le norme per noi stabilite. E tra queste scegliendone
numerose, come ho detto, quasi fossero fiori con i quali ornare i gigli
della vostra castità, descriveremo, dunque, la vergine di Cristo con cura
molto maggiore di quella che Zeusi impiegò per dipingere l’effigie
dell’idolo. Egli ritenne che fosse sufficiente avere cinque vergini da usare
come modello; invece noi, disponendo dell’esuberante ricchezza degli
insegnamenti dei Padri, e fiduciosi nell’aiuto di Dio, non disperiamo di
lasciarvi un’opera più perfetta, con la quale possiate giungere ad
eguagliare il destino e la raffigurazione delle cinque vergini sagge, che il
Signore vi propone nel Vangelo come rappresentazione delle vergine di
Cristo. E grazie alle vostra preghiere speriamo di realizzare il nostro
proposito. Vi saluto in Cristo, spose di Cristo.
[3] Abbiamo deciso
che il trattato che abbiamo steso per istruirvi sia diviso in tre parti per
descrivere e rafforzare la vostra osservanza, e delineare come va celebrato
l’ufficio divino; in esse io ritengo consistano i principi fondamentali
della vita monastica e cioè vivere in castità, vivere senza proprietà, e
osservare in particolar modo il silenzio. Questo è cingere i fianchi,
rinunciare a tutto, guardarsi dalle parole inutili, secondo l’insegnamento
della regola evangelica che proviene dal Signore.
[4] La continenza è
quella pratica della castità esortandoci alla quale l’Apostolo dice: «La
donna senza marito, come la vergine, si dà pensiero delle cose del Signore,
per essere santa sia nel corpo che nello spirito». In tutto il corpo, dice,
non in un solo membro, affinché un suo membro non si abbandoni alla lascivia
nei fatti o nelle parole. Ella è santa nello spirito quando il consenso non
macchia la sua mente, né la gonfia la superbia, come le cinque vergini fatue
che rimasero fuori della porta, mentre andavano a cercare i venditori
d’olio. Mentre esse bussavano invano alla porta ormai chiusa e gridavano:
«Signore, Signore, aprici», lo Sposo in persona rispose loro con parole
terribili: «In verità vi dico: non vi conosco».
[5] In secondo
luogo, dopo esserci spogliati di tutto, noi seguiamo nudi Cristo nudo, come
fecero i santi apostoli, quando per lui non solo mettiamo da parte i beni
terreni o l’affetto delle parentele carnali, ma anche la nostra stessa
volontà, per vivere non secondo il nostro volere, ma per essere governati
dagli ordini del nostro superiore e per Cristo sottometterci totalmente a
colui che ci governa in nome di Cristo, come fosse Cristo. Il Signore
stesso, infatti, disse loro: «Chi ascolta voi, ascolta me e chi disprezza
voi, disprezza me». E se questi — non sia mai! —, pur governando bene, si
comporta male, non dovrà essere disprezzata la parola di Dio
per i difetti di un uomo, di uno qualsiasi dei quali Cristo stesso
ordina: «Fate dunque e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite
secondo le opere loro». Egli stesso descrive con cura questa conversione
spirituale dal mondo a Dio, dicendo: «Chiunque non rinunzierà a tutto ciò
che possiede non potrà essere mio discepolo», e ancora: «Se uno viene a me e
non odia il padre e la madre, e la moglie e i figli, e i fratelli e le
sorelle, ed anche la sua anima, non può essere mio discepolo». Questo odiare
il padre e la madre ecc. significa non voler seguire gli affetti delle
parentele carnali, come odiare anche la sua anima significa non voler
seguire la propria volontà, comandamento che egli dà anche altrove quando
dice: «Se uno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso e prenda la sua
croce e mi segua». Così, infatti, ci avviciniamo e andiamo dietro di lui,
cioè seguiamo, imitandolo, lui che dice: «Non sono venuto a fare la mia
volontà, ma quella di colui che mi ha mandato», come se dicesse: a fare
tutto per obbedienza.
[6] Che cos’è
infatti «rinnegare se stesso» se non mettere da parte gli affetti carnali e
la propria volontà e sottomettersi non al proprio ma all’altrui volere? E di
certo in tal modo uno non riceve da altri la sua croce ma la prende lui
stesso, così che per mezzo suo il mondo sia per lui crocefisso e lui per il
mondo, quando, con il voto spontaneo della propria professione religiosa, si
interdice i desideri mondani e terreni, il che significa non seguire la
propria volontà. Cosa desiderano, infatti, gli uomini legati alla carne se
non realizzare i propri desideri? E che cos’è il piacere terreno se non il
compimento della propria volontà, anche quando facciamo quello che vogliamo
a costo di enormi sacrifici o pericoli? E cos’è prendere la croce, cioè
patire qualche tormento, se non fare qualche cosa contro la nostra volontà,
per quanto questo possa apparirci facile e utile? Per questo un altro Gesù,
di gran lunga inferiore, nell’Ecclesiastico ci ammonisce dicendo: «Non
andare dietro alle tue passioni, allontanati dalla tua volontà. Se
accontenti l’anima tua nelle sue cupidigie, farà di te la gioia dei tuoi
nemici».
[7] Ma quando così
rinunciamo completamente sia alle nostre cose che a noi, allora, rifiutata
ogni proprietà, iniziamo veramente quella vita apostolica che mette tutto in
comune, secondo come sta scritto: «E la moltitudine dei credenti aveva un
cuore solo e un’anima sola, né vi era chi dicesse suo quello che possedeva,
ma tutto era fra loro comune. E si distribuiva a ciascuno secondo il suo
bisogno». I bisogni non erano, infatti, uguali in tutti e perciò non si dava
a tutti nella stessa misura, ma a ciascuno secondo la necessità. Il cuore
era uno nella fede, perché si crede col cuore. L’anima era una perché,
grazie all’amore, la loro volontà era la stessa, poiché ciascuno desiderava
per l’altro quello che voleva per sé, e non cercavano il proprio vantaggio
ma quello degli altri, e tutto veniva da tutti giudicato in base all’utilità
comune, mentre nessuno cercava o desiderava i propri interessi ma quelli di
Gesù Cristo. In caso contrario non si vive senza proprietà, perché essa
consiste più nel desiderio di avere che nel possesso.
[8] La parola oziosa
e superflua è uguale alla loquacità. Perciò Agostino nel libro I delle
Ritrattazioni dice: «Sia lungi da me considerare loquacità quando si dicono
cose necessarie, quale che sia il numero e l’ampiezza dei discorsi». Perciò
per bocca di Salomone è detto: «Nella loquacità non mancherà il peccato. Chi
invece frena le sue labbra è molto prudente». Occorre, dunque, essere molto
cauti là ove non manca il peccato, e con tanta maggiore cura bisogna
affrontare questo morbo quanto più esso è pericoloso e difficile da evitare.
Per far fronte a questo pericolo san Benedetto dice: «In ogni momento i
monaci devono applicarsi con zelo al silenzio». Applicarsi con zelo al
silenzio è certo più che stare in silenzio. Lo zelo è, infatti, applicazione
intensa dell’animo a fare qualche cosa. Invero noi facciamo molte cose con
negligenza o contro voglia, mentre non pratichiamo nulla con zelo senza
averne la volontà e l’intenzione.
[9] Considerando con
attenzione quanto sia difficile e utile tenere a freno la lingua, l’apostolo
Giacomo dice: «Tutti manchiamo infatti in molte maniere. Se uno non manca
nel parlare è un uomo perfetto», e ancora: «Ogni specie di bestie e di
uccelli e di serpenti e di altri animali può essere domata ed è stata domata
dalla specie umana». Ma nello stesso tempo egli, considerando quale alimento
al male ci sia nella lingua e quale mezzo di distruzione di ogni bene, così
dice prima e dopo: «La lingua, piccolo membro, ma fuoco quanto grande,
quanto grande foresta incendia! Universo d’iniquità, male che non si può
reprimere, pieno di veleno mortale». Ma cosa c’è di più pericoloso del
veleno e di più temibile? Come, dunque, il veleno annienta la vita così la
loquacità distrugge completamente la vita religiosa. Perciò lo stesso
apostolo in un passo precedente dice: «Se uno crede di essere religioso,
senza tenere a freno la lingua, ma ingannando il suo cuore, la religione di
costui è vana». Perciò anche nei Proverbi sta scritto: «Come una città
smantellata e priva di mura così è l’uomo che parlando non sa dominare il
suo spirito». E proprio questo considerava con attenzione quel vecchio che,
quando Antonio gli chiese a proposito dei loquaci confratelli che si erano
uniti a lui lungo il cammino: «Hai trovato con te dei buoni confratelli,
padre?», rispose: «Sono buoni certo, ma la loro casa non ha porte. Chiunque
vuole entra nella stalla e slega l’asino». La nostra anima, infatti, è come
legata alla mangiatoia del Signore e si nutre in essa per così dire
ruminando la meditazione sacra; ma da questa mangiatoia essa si scioglie e
con i suoi pensieri vaga qua e là per il mondo intero, a meno che non la
trattenga il vincolo del silenzio. Le parole introducono, infatti,
nell’anima l’intellezione affinché essa volga la propria attenzione a ciò di
cui ha intelligenza e aderisca ad esso mediante il pensiero. Ma con il
pensiero parliamo con Dio, così come con le parole parliamo con gli uomini.
E allora, mentre da una parte prestiamo attenzione alle parole degli uomini,
è inevitabile che dall’altra veniamo distratti, e non possiamo prestare
attenzione contemporaneamente a Dio e agli uomini.
[10] Non devono
essere evitate solo le parole oziose, ma anche quelle che sembrano possedere
una qualche utilità, perché è facile passare dalle parole necessarie alle
oziose e dalle oziose alle dannose. Come dice Giacomo: «La lingua è male che
non si può reprimere», e quanto più è piccola e sottile, rispetto alle altre
membra, tanto più è mobile e, mentre le altre si stancano muovendosi, essa
si affatica quando non si muove e per lei è gravoso il riposo. E quanto più
essa è in voi sottile e flessibile per la morbidezza del vostro corpo, tanto
più è mobile e pronta alle parole e si mostra evidente vivaio di ogni
malizia. L’Apostolo, notando che questo è un vostro vizio tipico, proibisce
assolutamente alle donne di parlare in chiesa, e non permette loro di fare
domande neanche su argomenti che riguardano Dio se non a casa al marito.
Inoltre, sia quando studiano che quando fanno qualsiasi altra cosa, le
assoggetta particolarmente al silenzio, poiché al proposito così scrive a
Timoteo: «La donna ascolti l’istruzione in silenzio, con totale
sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare, né di dettar legge
all’uomo, ma deve stare in silenzio». Ma se, a proposito del silenzio,
l’Apostolo ha preso questi provvedimenti per le donne laiche e coniugate,
cosa dovete fare voi? Spiegando ancora al medesimo Timoteo perché aveva dato
queste disposizioni, egli rimprovera alle donne di essere loquaci e di
parlare quando non è opportuno.
[11] Nel tentativo di
trovare, dunque, un qualche rimedio a questa sciagura così grande,
sottomettiamo totalmente la lingua ad un continuo silenzio almeno in questi
luoghi e momenti: nell’oratorio, nel chiostro, nel dormitorio, nel
refettorio durante tutti i pasti, e in cucina; e il silenzio sia da tutti
osservato in particolar modo dopo compieta. In questi luoghi e momenti, se è
necessario, usiamo i segni al posto delle parole. Si provveda con cura ad
insegnare e ad apprendere questi segni, per mezzo dei quali, se è proprio
necessario usare le parole, si inviti al colloquio in un luogo adatto e a
ciò destinato. Una volta detto rapidamente quanto necessario, si ritorni
alle occupazioni precedenti o si faccia ciò che è richiesto.
[12] L’eccesso di
parole e di segni non sia punito con indulgenza, e soprattutto quello delle
parole, nelle quali è insito il pericolo maggiore. Anche san Gregorio,
desiderando ardentemente rimediare a questo frequente e grave pericolo, così
ci istruisce nel libro VII del Commento morale: «Mentre non ci curiamo di
evitare le parole oziose, finiamo per cadere in quelle dannose. Di qui si
seminano provocazioni, nascono conflitti, si accendono le fiamme degli odi,
è spenta tutta la pace dei cuori. Perciò bene è detto per bocca di Salomone:
“Chi dà la stura all’acqua, è origine delle liti”; dare la stura all’acqua è
lasciare libera la lingua all’effluvio delle parole. Al contrario e con
significato positivo dice: “Acqua profonda dalla bocca dell’uomo”. E,
dunque, colui che dà la stura all’acqua è origine delle liti, perché chi non
frena la lingua distrugge la concordia. Perciò sta scritto: “Chi impone il
silenzio allo stolto, placa le ire”». Queste parole ci ammoniscono ad essere
severissimi in particolare nel correggere questo vizio, affinché non ne
venga in alcun modo rinviata la punizione con gravi rischi per la vita
religiosa. Infatti le malignità, le liti, le contese, e talora le
cospirazioni e le congiure, che da questo vizio germogliano, non fanno solo
vacillare l’intero edificio della vita religiosa ma lo distruggono. Una
volta invece che tale vizio sia sradicato, forse non vengono completamente
eliminati i cattivi pensieri, ma almeno cesseranno di corrompere gli altri.
Questo unico vizio ci raccomandava di fuggire l’abate Macario, quasi
ritenendo che ciò fosse sufficiente per la disciplina religiosa; sta scritto
infatti: «L’abate Macario, superiore di Scete, diceva ai confratelli:
“Fratelli, dopo la Messa fuggite dalla chiesa”. Gli rispose uno dei
confratelli: “Padre, dove dobbiamo fuggire ancora oltre questo deserto?”. E
Macario si pose un dito sulle labbra e disse: “Questo è ciò che dico di
fuggire”. Rientrato poi nella sua cella e chiusa la porta, sedeva solo».
Questa virtù del silenzio che, come dice Giacomo, rende l’uomo perfetto, e
della quale Isaia ha predetto: «Nutrimento della giustizia è il silenzio»,
fu praticata con tale fervore dai santi Padri che, come sta scritto, l’abate
Agatone tenne in bocca un sasso per tre anni finché alla fine non imparò a
stare in silenzio.
[13] Sebbene il luogo
non sia la salvezza, tuttavia esso contribuisce molto a far rispettare le
norme della vita religiosa e a meglio difenderle, e dal luogo derivano molti
aiuti o impedimenti alla devozione. Per questa ragione anche i figli dei
profeti che, come dice Gerolamo, a quanto leggiamo nel Vecchio Testamento,
erano monaci, si trasferirono nella solitudine del deserto e si costruirono
le loro capanne al di là del corso del Giordano. E, inoltre, Giovanni e i
suoi discepoli, che consideriamo i capostipiti del nostro modello di vita, e
poi Paolo, Antonio, Macario e quelli che in esso si distinsero, fuggendo la
confusione della vita secolare e il mondo pieno di tentazioni, trasferirono
nella quiete di un luogo solitario il lettuccio della loro contemplazione
per potersi dedicare a Dio più integralmente. E anche lo stesso Signore, che
era inaccessibile agli impulsi delle tentazioni, ammaestrandoci con il suo
esempio, quando si proponeva di compiere qualcosa d’importante cercava i
luoghi solitari e si allontanava dalla confusione della gente. Perciò il
Signore in persona ci ha reso sacro il deserto con il digiuno di quaranta
giorni, nel deserto ha nutrito le folle
e, quando cercava
una preghiera più pura, si separava non solo dalle folle ma anche dagli
apostoli. Egli istruì e designò gli apostoli stessi in un luogo isolato sul
monte, un luogo deserto esaltò con la gloria della sua trasfigurazione, su
un monte riempì di gioia i suoi discepoli riuniti con la manifestazione
della sua risurrezione, da un monte ascese al cielo, e compì in luoghi
deserti o isolati tutti gli altri suoi grandi miracoli. Anche a Mosè e agli
antichi egli apparve in luoghi deserti, attraverso il deserto condusse il
popolo alla terra promessa, nel deserto lo trattenne a lungo e gli consegnò
la legge, fece piovere la manna, sgorgare l’acqua dalla pietra, lo confortò
con frequenti apparizioni, e operò miracoli: tutto questo per insegnare
chiaramente quanto il suo desiderio di solitudine prediliga per noi
l’isolamento, perché in esso possiamo a lui dedicarci nella maniera più
pura.
[14] Inoltre egli,
descrivendo con cura in forma simbolica la libertà dell’onagro, che ama la
solitudine, e lodandola con forza, così parla al santo Giobbe: «Chi ha
mandato libero l’asino selvaggio e chi ha sciolto i suoi legami, a lui al
quale ho dato il deserto per casa e per rifugio la terra salmastra?
Disprezza la folla della città e non ode gli urli dell’esattore. Osserva
intorno a sé le montagne suoi pascoli ed esplora tutto ciò che è
verdeggiante». Come se dicesse chiaramente: chi lo ha fatto se non io?
Giacché l’onagro, che noi chiamiamo asino selvatico, è il monaco, che
sciolto dai vincoli delle cose terrene si è rifugiato nella tranquilla
libertà della vita solitaria e, fuggendo il secolo, nel secolo non è
rimasto. Perciò abita nella terra salmastra perché le sue membra sono secche
e aride per l’astinenza. Non ode le urla ma la voce dell’esattore, perché
concede al ventre non il superfluo ma il necessario. Chi infatti è esattore
tanto importuno ed esattore quotidiano come il ventre? Questi emette urla,
cioè una smodata richiesta, quando richiede cibi superflui e delicati, e in
ciò non deve essere assolutamente ascoltato. Le montagne suoi pascoli sono
la vita e gli insegnamenti dei più grandi, leggendo e meditando i quali noi
ci ristoriamo. E tutto ciò che è verdeggiante sono tutti gli scritti che
trattano della vita celeste e immarcescibile.
[15] Per esortarci in
particolare a questo comportamento san Gerolamo così scrive al monaco
Eliodoro: «Considera il significato della parola monaco, cioè il tuo nome.
Cosa fai in mezzo alla folla, tu che sei solo?». Ancora Gerolamo,
distinguendo la nostra vita da quella dei chierici, scrive al prete Paolo
queste parole: «Se vuoi esercitare il ministero di prete, se forse ti attrae
il compito o l’onere dell’episcopato, vivi nelle città e nei castelli e
metti a profitto della tua anima la salvezza degli altri. Se vuoi essere
quello che dici, monaco, cioè solo, che fai nelle città che non sono certo
abitazione di uomini soli, ma di moltitudini? Ogni tipo di vita ha i suoi
iniziatori. E per venire alla nostra, vescovi e preti abbiano come esempi
gli apostoli e i seguaci degli apostoli, possedendo il cui rango, cerchino
di possederne anche i meriti. Noi invece abbiamo come iniziatori del nostro
modo di vita, i Paolo, gli Antonio, gli Ilarione, i Machario e, per tornare
alla scrittura, il nostro iniziatore Elia, Eliseo, guide dei profeti, che
abitavano nei campi e nel deserto e si costruivano capanne oltre il corso
del Giordano. Di costoro erano parte anche i figli di Rechab, che non
bevevano né vino né bevande fermentate, che abitavano in tende, che sono
lodati dalla voce di Dio per bocca di Geremia che dice che della loro stirpe
non mancherà mai un uomo che stia al cospetto del Signore». E, dunque, anche
noi, per poter essere in grado di stare più degnamente al cospetto del
Signore e di essere pronti a servirlo, costruiamoci capanne nel deserto,
affinché la numerosa presenza degli uomini non scuota il lettuccio della
nostra quiete, turbi il riposo, faccia sorgere tentazioni, trascini via la
mente dal suo santo proposito.
[16] Quando il
Signore ha guidato sant’Arsenio alla libera tranquillità di questa vita, in
una sola persona ha dato un esempio chiaro per tutti. Sta scritto infatti:
«Quando viveva ancora a palazzo, l’abate Arsenio pregò il Signore dicendo:
“Signore guidami alla salvezza”. E giunse a lui una voce che diceva:
“Arsenio, fuggi gli uomini e sarai salvo”. Ritiratosi a vita monastica egli
di nuovo pronunciò la stessa preghiera, dicendo: “Signore guidami alla
salvezza”. E udì una voce che gli diceva: “Arsenio, fuggi, stai in silenzio,
stai tranquillo; queste sono le radici del non peccare”». Istruito, dunque,
da quest’unica regola del precetto divino, non solo fuggì gli uomini, ma li
fece anche fuggire da sé. Un giorno il suo arcivescovo si recò da lui con un
giudice, chiedendogli un discorso di edificazione; egli ripose loro: «“Se ve
lo dirò, lo seguirete?”; essi promisero di seguirlo e allora disse loro:
“Ovunque sentirete parlare di Arsenio, non avvicinatevi”. L’arcivescovo lo
andò a trovare una seconda volta, ma prima mandò a vedere se gli avrebbe
aperto; Arsenio gli mandò a dire: “Se vieni ti aprirò, ma se aprirò a te,
aprirò a tutti e allora non potrò più starmene qui”. Ciò udito l’arcivescovo
disse: “Se la mia visita significa perseguitarlo, allora non mi recherò più
da quell’uomo santo”». E ad una matrona romana che era andata a visitare la
sua santità disse: «“Come hai osato intraprendere un viaggio per mare così
lungo? Non sai che sei una donna e non dovresti andartene in giro? O l’hai
fatto per tornare a Roma e dire che hai visto Arsenio, così che il mare
divenga una strada piena di donne che vengono da me?”. Ella rispose allora:
“Se Dio vorrà farmi ritornare a Roma, non permetterò che nessuno venga qui;
ma prega per me e ricordati sempre di me”. Ma egli le ripose così: “Prego
Dio che cancelli dal mio cuore il ricordo di te”. A queste parole ella se ne
andò turbata». Sta scritto infine che, quando l’abate Marco gli chiese
perché fuggisse gli uomini, gli rispose: «Sa Iddio quanto ami gli uomini, ma
non posso essere con Dio e con gli uomini contemporaneamente».
[17] I santi Padri
nutrivano, dunque, una tale avversione per i rapporti con gli uomini e la
notorietà che alcuni, pur di allontanarli da sé, si finsero pazzi, o, cosa
stupefacente, si dichiararono addirittura eretici. Se qualcuno ne ha voglia,
si legga nella Vite dei Padri come l’abate Simone si preparò a ricevere la
visita del giudice della provincia: si vestì di una tela di sacco, prese in
mano pane e formaggio, si sedette sulla porta della sua cella, e cominciò a
mangiare. Si legga ancora quanto narrato dell’anacoreta che, quando si
accorse che delle persone si stavano recando da lui con delle fiaccole, si
spogliò, immerse nel fiume i suoi vestiti, e stando in piedi tutto nudo
cominciò a lavarli. A quella vista il suo servo arrossì di vergogna e pregò
gli uomini dicendo: «Tornatevene a casa perché il nostro vecchio è
impazzito». Ritornato da lui, gli disse: «Padre che hai fatto? Tutti quelli
che ti hanno visto hanno detto che il vecchio era posseduto dal demonio», e
lui gli rispose allora: «Era proprio quello che volevo sentire». Legga,
inoltre, quanto scritto dell’abate Mosè che, per tener lontano da sé il
giudice della provincia, si alzò e fuggì in una palude. Il giudice col suo
seguito si imbatté in lui e gli chiese: «Vecchio, dicci, dov’è la cella
dell’abate Mosè?» e lui rispose loro: «Perché lo cercate? È un pazzo e un
eretico». Che dire ancora dell’abate Pastore che non volle farsi vedere dal
giudice della provincia neppure per liberare dalla prigione il figlio di sua
sorella, che lo supplicava di farlo?
Ecco, i potenti del mondo, con grande
venerazione e devozione, cercano di vedere i santi e questi si affannano a
cacciarli via anche coprendosi di disonore!
[18] Perché, ora, voi
conosciate la virtù del vostro sesso anche a questo proposito, chi potrebbe
esaltare in maniera degna la vergine che rifiutò anche la visita del
santissimo Martino per dedicarsi alla contemplazione? Perciò, scrivendo al
monaco Oceano, Gerolamo dice: «Nella Vita di san Martino leggiamo che
Sulpicio racconta che san Martino, di passaggio dalle sue parti, volle
salutare una vergine famosa per i suoi costumi e la castità; ella rifiutò,
ma gli inviò un dono e, guardandolo attraverso la finestra, disse al
sant’uomo: “Padre, prega lì dove sei, perché non ho mai ricevuto la visita
di un uomo”. Udite queste parole san Martino rese grazie a Dio, perché ella,
forte di questi costumi, aveva conservato la sua volontà di castità; la
benedisse e se ne andò pieno di gioia». Veramente questa donna, sdegnando o
temendo di alzarsi dal lettuccio della sua contemplazione, era pronta a dire
ad un amico che batteva alla porta: «Ho lavato i miei piedi, come sporcarli
di nuovo?».
[19] Quanto
gravemente riterrebbero di essere stati offesi i vescovi e i prelati di
oggi, se avessero ricevuto un tale rifiuto da Arsenio e dalla vergine! E se
ancora esistono dei monaci che vivono in solitudine, di fronte a questi
comportamenti arrossiscano di vergogna, quando si compiacciono delle
frequenti visite dei vescovi, e costruiscono per loro abitazioni particolari
ove alloggiarli, e non solo non fuggono i potenti del mondo, con tutta la
folla che li accompagna o che corre a vederli, ma addirittura li chiamano, e
moltiplicando gli edifici con la scusa degli ospiti, trasformano in città il
luogo solitario che erano andati a cercare. Certo per inganno dell’antico e
astuto tentatore quasi tutti i monasteri d’oggi, che furono inizialmente
costruiti in luoghi solitari per fuggire gli uomini, col raffreddarsi del
fervore religioso, hanno in seguito richiamato gli uomini e, riunendo servi
e serve, hanno costruito grandi città nei luoghi riservati ai monaci e sono
così ritornati al mondo, l’hanno anzi attirato a sé. Facendosi coinvolgere
nelle miserie più meschine e sottomettendosi completamente ai potenti, sia
ecclesiastici che secolari, mentre aspiravano a vivere senza preoccupazioni
e a mantenersi con la fatica altrui, hanno perso insieme il modo di vita e
il nome stesso di monaci, cioè solitari. Spesso sono anche incalzati da tali
guai che, mentre si affannano a proteggere i propri seguaci e le loro
proprietà, perdono le proprie; e di frequente nell’incendio delle case
vicine vanno bruciati perfino i monasteri stessi. Ma neppure questo pone
freni alla loro ambizione.
[20] Quelli poi che,
non sopportando in alcun modo la costrizione del monastero, si sono sparsi
per i villaggi, i castelli e le città, dove vivono senza osservare alcuna
regola a gruppi di due o tre o addirittura da soli, sono tanto peggiori
degli uomini del mondo quanto più rinnegano la loro professione religiosa.
Essi, usando come loro proprietà anche le loro abitazioni chiamano
obbedienze questi luoghi ove non si rispetta alcuna Regola, ove non si
obbedisce ad altro se non al ventre e alla carne, ove, soggiornando con i
parenti e la servitù, fanno quello che vogliono con tanto maggiore agio,
quanto meno temono i rimproveri della loro coscienza. Non vi è alcun dubbio
che in questi spudorati apostati divengono criminosi quegli eccessi che sono
veniali negli altri uomini. E voi non solo non dovete tollerare di avere
rapporti con la vita di costoro, ma anche di sentirne parlare.
[21] L’isolamento è
tanto più necessario alla vostra debolezza, quanto meno in esso siamo
esposti all’attacco delle tentazioni carnali e meno andiamo vagando dietro
alle cose del corpo trascinati dai sensi. Perciò anche sant’Antonio dice:
«Chi vive nell’isolamento e se ne sta tranquillo, si sottrae a tre
combattimenti, quelli cioè dell’udito, della parole e della vista, e dovrà
combattere una sola lotta, quella del cuore». Gerolamo, il grande dottore
della Chiesa, considerando con attenzione proprio questi e gli altri
vantaggi offerti dal deserto e ad essi esortando con forza il monaco
Eliodoro, esclama: «O deserto che gioisci della presenza di Dio! Fratello,
che fai nel mondo, tu che sei più grande del mondo?».
[22] Dopo aver
ragionato di dove convenga costruire i monasteri, vediamo ora quale debba
essere la disposizione stessa del luogo. Così come ha consigliato anche san
Benedetto, nel progettare il sito del monastero, se è possibile, bisogna far
in modo che entro i suoi confini siano presenti tutte le cose che al
monastero sono primariamente necessarie, cioè l’orto, l’acqua, il molino, il
panificio con il forno, e i locali ove le sorelle possono compiere il lavoro
quotidiano, affinché non vi sia occasione di andare girando fuori.
[23] Come negli
eserciti del mondo, così anche negli eserciti di Dio, cioè nelle
congregazioni monastiche, devono essere stabiliti coloro che governano sugli
altri. Nell’esercito, infatti, un’unica persona è posta a capo di tutti e
ogni cosa viene fatta secondo i suoi ordini. Ma, secondo la grandezza
dell’esercito e la molteplicità dei compiti, egli affida ad alcuni parte dei
suoi oneri e si avvale di ufficiali subordinati, che provvedano alle diverse
schiere di uomini e ai diversi compiti. Anche nei monasteri deve avvenire
così, e una sola madre deve avere il governo su tutte, mentre tutte le altre
devono compiere ogni cosa in base alla sua valutazione e al suo giudizio e
nessuna deve osare opporsi a lei in nulla o anche mormorare contro un suo
ordine. Nessuna comunità di uomini o nessuna famiglia, per quanto piccola e
che vive in una sola casa, può, infatti, restare integra se in essa non si
conserva l’unità in modo, cioè, che il suo governo risieda tutto nelle mani
di un’unica persona. Perciò anche l’arca, che è figura della Chiesa, pur
avendo molti cubiti sia di lunghezza sia di larghezza, finiva in uno solo. E
nei Proverbi sta scritto: «Per le colpe di una terra molti sono i suoi
principi». Per questa ragione anche alla morte di Alessandro, quando i re si
moltiplicarono, si moltiplicarono anche i mali. E Roma non riuscì a
conservare la concordia quando fu affidata a più governanti. Perciò così
dice Lucano nel primo libro: «Tu cagioni i tuoi mali, o Roma, divenuta
proprietà comune a tre padroni, funesti accordi di un regno giammai diviso
fra tanti». E poco oltre: «Finché la terra sosterrà il mare, e l’aria la
terra, e lunghi travagli faranno svolgere il sole, e la notte si avvicenderà
al giorno nel cielo con immutate costellazione, non vi sarà lealtà tra
padroni associati nel regno; il potere non tollera spartizioni».
[24] Tali
erano certamente
anche i discepoli del santo abate Frontone, che egli, dopo aver raccolto
nella città in cui era nato fino a giungere al numero di settanta e dopo
aver lì acquistato grande favore presso Dio e presso gli uomini, abbandonato
tuttavia il monastero di città, aveva trascinati con sé nel deserto, nudi
con le cose che potevano portare. Ma poi essi, alla maniera del popolo di
Israele che si lamentava contro Mosè perché lo aveva guidato fuori
dell’Egitto nel deserto, abbandonando vasi di carne e una terra ricca,
cominciarono a mormorare vanamente dicendo: «Forse che la castità sta solo
nel deserto e non esiste nelle città? Perché, dunque, non torniamo nella
città da dove siamo venuti via temporaneamente. Forse che Dio esaudirà le
nostre preghiere solo nel deserto? Chi potrebbe vivere del cibo degli
angeli? Chi potrebbe trarre diletto dall’avere come compagni bestie e fiere?
Che necessità abbiamo di restare qua? Perché, dunque, non benediciamo il
Signore ritornati nel luogo ove siamo nati?». A tal proposito anche
l’apostolo Giacomo ammonisce dicendo: «Fratelli miei, non vogliate essere in
molti a fare i maestri, sapendo che vi assumete un giudizio più severo». E
anche Gerolamo, scrivendo al monaco Rustico per istruirlo sulla condotta di
vita, dice: «Senza un maestro non si apprende alcuna arte. Anche gli animali
muti e i branchi di bestie feroci seguono i loro capi. Tra le api tutte
tengono dietro all’unica che va per prima. Le gru seguono una di loro in
schiera a forma di lettera. Uno è l’imperatore, uno il giudice della
provincia. Quando fu fondata Roma non poté avere contemporaneamente due
fratelli come re e ciò fu dimostrato col fratricidio. Esaù e Giacobbe si
fecero guerra nell’utero di Rebecca. Ogni chiesa ha un unico vescovo, un
unico arciprete, un unico arcidiacono e ogni ordine ecclesiastico fa
assegnamento sul suo capo. Sulla nave c’è un unico timoniere, in casa un
unico padrone. In un esercito, per quanto possa essere grande, si guarda al
segnale di uno solo. Attraverso tutti questi esempi il mio discorso mira a
questo, ad insegnarti che non devi affidarti al tuo giudizio, ma devi vivere
nel monastero sotto la disciplina che dipende da un unico padre in compagnia
di molti».
[25] Affinché,
dunque, fra tutte possa essere conservata la concordia, è bene che a capo di
tutte ci sia una sola, alla quale tutte obbediscano in tutto. È inoltre
necessario che, secondo le sue decisioni, siano poste sotto di lei alcune
altre persone, come una sorta di ufficiali. Esse si occuperanno dei compiti
che lei avrà stabilito, fino a quando ella vorrà, così da essere come dei
comandanti o dei consoli nell’esercito del Signore. Invece tutte le altre
combattano liberamente contro il maligno e i suoi seguaci come cavalieri o
fanti, sotto le cure delle altre. Riteniamo che sette di voi siano
necessarie e sufficienti per tutte le esigenze di amministrazione del
monastero, e cioè: la portinaia, la celleraria, la guardarobiera,
l’infermiera, la maestra del coro, la sacrestana e infine la diaconessa, che
ora chiamano badessa. In questo esercito, dunque, in questa sorta di milizia
divina — secondo quanto sta scritto: «Milizia è la vita dell’uomo sulla
terra», e in un altro luogo: «Terribile come schiera ordinata d’esercito»
— la diaconessa ha
il ruolo di generale, al quale tutte devono obbedire in tutto. Le altre sei
sotto di lei, che chiamiamo ufficiali, hanno la posizione di comandanti o
consoli. Invece tutte le altre monache, che chiamiamo claustrali, compiono
con zelo il servizio divino come cavalieri, mentre le converse che,
rinunciando anch’esse al mondo, si dedicano al servizio delle monache,
vestendo una sorta di abito religioso ma non monastico, occupano un grado
inferiore come fanti.
[26] Con
l’ispirazione di Dio, ora non ci resta che inquadrare ogni grado di questa
milizia, affinché contro gli attacchi dei demoni sia veramente, ciò che si
dice, «schiera ordinata d’esercito». Cominciando, dunque, questa istruzione
da quello che abbiamo detto essere il capo, che chiamiamo diaconessa, diamo
prima di tutto direttive a proposito di colei che ogni cosa deve dirigere.
Come abbiamo ricordato nella lettera precedente, il santo apostolo Paolo,
scrivendo a Timoteo, indica con cura quanto debba essere grande e provata la
sua santità; e dice: «Si scelga la vedova che non abbia meno di
sessant’anni, che sia stata moglie di un solo marito, che sia conosciuta per
le sue buone opere: se ha allevato figli, se ha esercitato l’ospitalità, se
ha lavato i piedi dei santi, se ha soccorso gli afflitti, se ha compiuto
ogni opera buona. Evita le vedove più giovani, ecc.». E poco prima, dando
norme per il comportamento dei diaconi, dice delle diaconesse: «Parimenti le
donne siano pudiche, non maldicenti, sobrie, fedeli in ogni cosa».
[27] Nella nostra
lettera precedente
abbiamo esposto a
sufficienza quanta intelligenza e razionalità vi siano in tutte queste
prescrizioni e quanto le valutiamo; e in particolare perché l’Apostolo abbia
voluto che ella sia stata moglie di un unico uomo e di età avanzata. Perciò
ci meravigliamo non poco di come nella Chiesa si sia affermata la
consuetudine dannosa di scegliere per questa funzione vergini piuttosto che
donne sposate, e di mettere di frequente le più giovani a capo delle più
anziane. E questo sebbene l’Ecclesiaste dica: «Guai a te, o terra, il cui re
è un fanciullo», e sebbene tutti noi si condivida quanto dice il santo
Giobbe: «Nei vecchi sta la sapienza e nella longevità la prudenza». A tal
proposito è scritto anche nei Proverbi: «Corona d’onore è la canizie, si
trova sulla via della giustizia»; e nell’Ecclesiastico: «Quanto s’addice il
giudicare ai capelli bianchi, e dagli anziani avere giusto consiglio! Quanto
è bella la sapienza dei vecchi e apportatore di gloria il discernimento e il
consiglio. Corona dei vecchi è la grande esperienza, e loro gloria il timore
di Dio», e ancora: «Parla, o anziano, infatti a te conviene. Parla, o
giovane, delle cose che ti riguardano, ma poco. Se sarai interrogato due
volte, la tua risposta sia breve. Tra molti sii come uno che non sa e
ascolta tacendo e insieme chiedendo, e in mezzo alle persone importanti non
osare di parlare, e, ove ci sono i vecchi, non parlare molto». Perciò anche
nella Chiesa quelli che sono posti a capo del popolo si chiamano presbiteri,
che significa più vecchi, affinché il nome stesso insegni quali essi debbano
essere. E gli autori delle Vite dei santi chiamavano vecchi quelli che noi
chiamiamo abati.
[28] Bisogna, dunque,
provvedere in ogni modo a che, nell’elezione e consacrazione della
diaconessa, prevalga il consiglio dell’Apostolo, che venga, cioè, eletta una
persona tale da essere superiore alle altre per condotta di vita e dottrina
e che per l’età dia, inoltre, speranza di maturità di costumi e che abbia
meritato di comandare obbedendo, e abbia appreso, e saldamente conosca, la
Regola più per averla praticata che per averla ascoltata. Se non sa leggere
e scrivere, sappia che deve dedicarsi non all’insegnamento della filosofia o
alle dispute della dialettica ma a dare ammaestramenti di vita anche solo
con l’esempio del suo operare, come è scritto del Signore: «Egli incominciò
a fare e ad insegnare»
e, cioè, prima a fare e poi ad
insegnare, perché l’insegnamento che viene dalle opere è migliore e più
perfetto di quello della parola, quello dell’operare di quello del parlare.
Prestiamo sempre attenzione a questo fatto, così come sta scritto: «Disse
l’abate Ipizio: “Veramente sapiente è colui che insegna agli altri con le
sue azioni, non con le parole”». E in ciò egli ci dà non poca consolazione e
fiducia. Presti attenzione anche al ragionamento con il quale sant’Antonio
confutò i filosofi verbosi, quelli cioè che deridevano il suo magistero
dicendo che era quello di un ignorante e di un illetterato: «“Ditemi”,
disse, “che cosa viene prima, il significato o le lettere, e quale dei due è
l’inizio, il significato nasce dalle lettere o le lettere dal significato?”.
Poiché essi risposero che il significato è il creatore e l’inventore delle
lettere, egli disse: “E dunque colui che ha integro il significato, non
cerca le lettere”». Ascolti anche le parole dell’Apostolo e trovi conforto
nel Signore: «Non ha forse Dio resa stolta la sapienza di questo mondo?», e
ancora: «Ma Dio ha scelto le cose stolte del mondo per confondere i
sapienti; e Dio ha scelto le cose deboli del mondo per confondere i forti; e
Dio ha scelto le cose ignobili e disprezzate del mondo per distruggere sia
quelle che sono sia quelle che non sono, affinché nessun uomo possa vantarsi
al suo cospetto». Infatti, come egli stesso dice più avanti, il regno di Dio
non sta nelle parole ma nella virtù. Se, per conoscere meglio alcune cose,
ella riterrà di dover ricorrere ai testi scritti, non si vergogni di
richiederlo a quelle che sanno leggere e scrivere e di imparare da loro e in
ciò non disprezzi le testimonianze della loro cultura, ma le accetti
coscienziosamente, poiché anche lo stesso principe degli apostoli accolse
coscienziosamente la pubblica correzione di Paolo, suo compagno di
apostolato. Come, infatti, dice anche san Benedetto: «Spesso il signore
rivela ad uno inferiore la soluzione migliore».
[29] Inoltre, per
meglio conformarci alla saggezza divina che anche l’Apostolo ha menzionato
sopra, non sia mai eletta una donna di famiglia nobile o potente nel mondo,
se non in caso di gravissima e incombente necessità e per una ben fondata
ragione. E facile, infatti, che tali donne, a causa dalla loro origine,
divengano arroganti, altezzose o presuntuose o superbe, e la loro elezione
si rivela perniciosa per il monastero soprattutto quando sono originarie del
luogo. C’è, infatti, da temere che la vicinanza della famiglia la renda
ancora più presuntuosa e le frequenti visite dei parenti siano gravose per
il monastero o generino disturbo, e che, a causa loro, ella tolleri il
deterioramento della vita religiosa o finisca per essere disprezzata dalle
altre, secondo le parole della Verità: «Un profeta non èprivo d’onore se non
nella sua patria». Anche san Gerolamo lo prevedeva quando, scrivendo ad
Eliodoro, dopo aver enumerato le molte cose che nuocciono ai monaci che
risiedono in patria, dice: «Da questo conto deriva la conclusione che un
monaco non può essere perfetto nella sua patria. Ma non voler essere
perfetto, è compiere il male».
[30] Ma quale enorme
danno viene alle anime se colei che presiede al magistero religioso è di
religiosità inferiore? Per le subordinate è, infatti, sufficiente rivelare
singole virtù; in lei, invece, devono spiccare gli esempi di tutte le virtù,
per mostrare in anticipo nel suo comportamento tutto ciò che impone alle
altre, affinché non sia lei stessa a minare con i suoi costumi ciò che
ordina, e distrugga ella stessa con le azioni ciò che costruisce con le
parole, e sia tolta alla sua bocca la possibilità di pronunciare parole di
correzione, perché si vergogna a correggere nelle altre quelle mancanze che
palesemente commette lei stessa. Proprio perché ciò non gli avvenga il
Salmista prega il Signore dicendo: «Non togliere mai dalla mia bocca la
parola di verità». Stava, infatti, considerando con attenzione quel
gravissimo rimprovero del Signore di cui, altrove, fa menzione lui stesso
dicendo: «E Dio disse al peccatore: “Perché reciti le mie leggi e hai sulle
tue labbra il mio patto? Tu hai invece in odio la disciplina e hai gettato
dietro le spalle le mie parole”». E l’Apostolo, sforzandosi di evitare
questo pericolo, dice: «Punisco il mio corpo e lo tengo sottomesso, affinché
non succeda che, dopo aver predicato agli altri, io sia trovato colpevole».
Quando uno, infatti, conduce una vita spregevole, alla fine vengono
disprezzati anche la sua predicazione e il suo insegnamento. E se qualcuno,
che deve curare un altro, soffre lui per primo della stessa infermità, si
sentirà rivolgere dal paziente il giusto rimprovero: «Medico, cura te
stesso».
[31] Chiunque svolge
funzioni di governo nella Chiesa consideri attentamente quale sciagura
provocherebbe la sua caduta, poiché egli trascinerebbe insieme con sé nel
precipizio anche i subordinati. Dice la Verità: «Chi avrà trasgredito uno
solo di questi comandamenti, anche i più piccoli, e così avrà insegnato agli
uomini, sarà chiamato il più piccolo nel regno dei cieli». Trasgredisce,
infatti, il comandamento colui che lo infrange agendo contro di esso e che,
corrompendo con il suo esempio gli altri, siede sulla cattedra come maestro
di un morbo contagioso. E se una persona qualsiasi che agisce così deve
essere considerato il più piccolo nel regno dei cieli, cioè nella Chiesa
presente, come deve essere considerato il prelato pessimo alla cui
negligenza il Signore chiede ragione del sangue
non solo della sua
anima ma di quella di tutti i subordinati? Perciò giustamente la Sapienza
rivolge a tali individui queste minacce: «Dal Signore vi è dato il potere e
la forza dall’Altissimo, che esaminerà le vostre opere e scruterà i vostri
pensieri. Perché voi, che siete ministri del suo regno, non avete governato
bene e non avete osservato la legge della giustizia. Egli vi apparirà presto
e con terrore perché un giudizio severissimo vi sarà per quelli che
governano. Al piccolo è usata misericordia, mentre i potenti patiranno
grandi tormenti e per i più forti ci sarà punizione più forte». A ciascuna
delle anime dei subordinati basta, infatti, guardarsi dai propri peccati,
sui prelati grava invece la minaccia di morte anche per i peccati degli
altri. Quando, infatti, si moltiplicano i doni, cresce anche il rendiconto
che se ne chiede, e a chi più viene dato più si richiede. Nei Proverbi siamo
esortati a guardarci in particolar modo da questo pericolo, quando si dice:
«Figlio, se hai garantito per il tuo amico, hai impegnato la tua mano con un
estraneo. Ti sei legato con le parole della tua bocca, ti sei lasciato
prendere dai tuoi stessi discorsi. Figlio mio, fa’ dunque come dico, e
libera te stesso, perché sei caduto nelle mani del tuo prossimo. Va’,
affrettati, scuoti il tuo amico; non concedere sonno ai tuoi occhi, né
riposino le tue palpebre». Noi garantiamo per un amico quando la nostra
carità accoglie qualcuno nella vita della nostra comunità; gli promettiamo
di prenderci cura di lui con sollecitudine, così come lui promette di
obbedirci. E così impegnamo anche la nostra mano con lui quando, facendoci
garanti, promettiamo il nostro sollecito operare per lui. Allora cadiamo
nelle sue mani, perché, se non prendiamo precauzioni per noi contro di lui,
proveremo che è l’uccisore della nostra anima. Contro questo pericolo viene
dato un consiglio, aggiungendo: «Va’, affrettati, ecc.».
[32] Andando, dunque,
di qua e di là, come provvido e attivo capitano, la diaconessa perlustri e
frughi attentamente il suo accampamento, affinché la negligenza di qualcuno
non apra la strada a colui «che si aggira come leone in cerca di chi
divorare». Individui per prima tutti i mali della sua casa, per poterli
correggere prima che le altre li vengano a conoscere e siano trascinate ad
imitarli. Si guardi da ciò che san Gerolamo rimprovera agli stolti e agli
incuranti: «Di solito siamo gli ultimi a venire a sapere dei mali di casa
nostra, e ignoriamo i vizi dei figli e dei coniugi anche quando sono sulla
bocca dei vicini». Stia attenta colei che comanda, perché si è assunta la
custodia sia dei corpi che delle anime. A proposito della custodia dei corpi
c’è un avvertimento per lei nelle parole dell’Ecclesiastico: «Qui hai tu
delle figlie? Custodisci il loro corpo e non mostrare a loro un viso
ridente», e ancora: «Una figlia è per il padre un affanno segreto, e la
preoccupazione per lei non lo lascia dormire, nel timore che possa essere
contaminata». Contaminiamo i nostri corpi non solo quando fornichiamo, ma
anche quando compiamo con il corpo qualsiasi cosa indecente, sia con la
lingua sia con un altro membro, o abusiamo dei sensi del corpo in qualche
membro per cercare cose vane, secondo quanto sta scritto: «La morte entra
dalle nostre finestre», cioè il peccato penetra nella nostra anima per mezzo
dei cinque sensi.
[33] Ma quale morte è
più grave e quale custodia è più rischiosa di quella dell’anima? Dice la
Verità: «Non temete coloro che possono uccidere il corpo, ma che nulla
possono fare all’anima». Se pure ascolta questo consiglio, chi non temerà la
morte del corpo più di quella dell’anima? Chi non si guarderà dalla spada
più che dalla menzogna? E tuttavia sta scritto: «La bocca che mente uccide
l’anima». Che cosa può essere ucciso così facilmente come l’anima? Quale
freccia può essere costruita così rapidamente come il peccato? Chi può
guardarsi anche solo dai pensieri? Chi è in grado di prevenire i propri
peccati, e tanto meno quelli degli altri? Quale pastore di carne è capace di
custodire le pecore spirituali dai lupi spirituali, invisibili le une come
gli altri? Chi non ha paura del predatore, che non cessa i suoi attacchi e
che non possiamo tenere lontano con nessuna palizzata, né ferire o uccidere
con nessuna spada? A stare in guardia contro di lui, che senza tregua tende
le sue insidie e perseguita soprattutto i religiosi — secondo la parole di
Abacuc: «Il suo cibo è scelto»
—, ci esorta
l’apostolo Pietro, dicendo: «Il diavolo, vostro avversario, si aggira come
leone ruggente, in cerca di chi divorare». E quanto grande sia la sua
speranza di divorarci lo rivela il Signore stesso al santo Giobbe:
«Inghiottirà un fiume senza stupirsi; ed è tranquillo se anche il Giordano
penetri nella sua bocca». Che cosa non oserebbe intraprendere colui che ha
cercato di tentare anche il Signore stesso, che dal paradiso ha subito
trascinato via in schiavitù i primi progenitori, che ha strappato dalla
comunità degli apostoli proprio colui che il Signore aveva scelto come
apostolo? Quale luogo è al sicuro da lui, quale fortificazione è a lui
impenetrabile? Chi può difendersi dalle sue insidie? Chi può resistere alla
sua forza? Egli è colui che, scuotendo con un colpo solo i quattro angoli
della casa di Giobbe, sant’uomo, schiacciò ed uccise i figli e le figlie
innocenti. Cosa potrà contro di lui il sesso più debole? Chi dovrà temere la
sua seduzione più della donna? Infatti per prima ha sedotto una donna e, per
mezzo suo, ne ha asservito anche il marito e tutta la discendenza. La brama
di un bene maggiore ha privato la donna del possesso di uno minore. Con
quest’arte anche oggi sedurrà facilmente la donna, se essa desidererà più
governare che giovare, a ciò spinta dal desiderio di ricchezza e onore. Il
comportamento successivo mostrerà quale di questi sentimenti nutriva in
precedenza. Se la superiora vivrà con più agio dell’inferiore o se essa
pretenderà qualcosa esclusivamente per sé, al di là di quanto è necessario,
non c’è dubbio che aveva desiderato proprio questo. Se, dopo essere stata
eletta, andrà in cerca di ornamenti più preziosi di prima, è certo che il
suo animo è gonfio di vano orgoglio. Si rivelerà, dopo, quello che ella era
prima, e l’elezione indicherà se, ciò di cui faceva mostra prima, fosse
virtù o simulazione.
[34] Sia trascinata
alla carica, non si faccia avanti lei, perché il Signore dice: «Tutti quelli
che sono venuti sono ladri e assassini», e Gerolamo precisa: «Che sono
venuti, non che sono stati inviati». Sia cercata per assumere la carica non
se la cerchi; dice l’Apostolo: «Nessuno, infatti, si attribuisce da sé la
dignità, ma colui che è chiamato da Dio, come Aronne». Se chiamata a tale
onore, pianga come se fosse condotta alla morte; se rifiutata, si rallegri
come se fosse stata liberata dalla morte. Arrossiamo di vergogna nel dirci
migliori degli altri, ma quando, venendo eletti, sono i fatti stessi a
dirlo, vergognosamente non ci vergognamo. Chi, infatti, ignora che i
migliori devono essere preferiti agli altri? Perciò nel libro XXIV del
Commento morale si dice: «Non deve assumere il governo degli uomini chi gli
uomini non sa rimproverare bene con le sue ammonizioni; affinché non avvenga
che colui che viene scelto per correggere le colpe degli altri, non commetta
egli stesso ciò che dovrebbe eliminare». E se magari, quando veniamo eletti,
talora respingiamo questa ignominia, respingiamo la dignità offertaci con
deboli parole di rifiuto, solo per le orecchie, certo proferiamo contro di
noi quest’accusa per apparire più giusti e più degni. Quante persone abbiamo
visto piangere col corpo ma ridere in cuor loro, al momento della loro
elezione! Dichiararsi indegne e, con queste parole, cercare piuttosto la
benevolenza e il favore degli altri uomini, ben ricordando che sta scritto:
«Il giusto è il primo accusatore di se stesso». E, se in seguito è capitato
che siano accusati e si sia offerta loro l’occasione di dimettersi, essi si
affannano a difendere nel modo più inopportuno e spudorato quella loro
carica che, con finte lacrime e vere accuse, avevano fatto mostra di
assumere contro voglia. Nelle chiese quanti canonici abbiamo visto resistere
ai propri vescovi quando venivano da loro spinti ad assumere gli ordini
sacri, e proclamare di essere indegni di ministericosì importanti e di non
voler acconsentire in alcun modo, mentre poi, se per caso il clero li ha
innalzati all’episcopato, non si è visto opporre che un debole rifiuto o
addirittura nessuno! E quelli che ieri fuggivano il diaconato per non
mettere a rischio — dicevano — la loro anima, ora, quasi purificati in una
sola notte, non temono di precipitare da un grado più alto. Proprio di loro
sta scritto nei Proverbi: «Lo stolto batte le mani quando offre garanzia per
l’amico», infatti il misero si rallegra di una cosa di cui dovrebbe,
piuttosto, piangere quando, assumendo il governo degli altri, con la propria
promessa si obbliga a provvedere ai subordinati, dai quali deve essere amato
più che temuto.
[35] Al fine di
prevenire, per quanto possibile, questa peste, proibiamo assolutamente che
la superiora viva più comodamente o con più agi delle subordinate, che abbia
stanze private per mangiare e dormire, ma faccia ogni cosa insieme al gregge
che le è stato affidato, e provveda a loro tanto più efficacemente quanto
più sarà presente in mezzo a loro. Certo sappiamo che san Benedetto, sempre
sollecito verso pellegrini ed ospiti, istituì una mensa separata per l’abate
e per loro. Sebbene questa fosse in origine una pia norma, in seguito, con
un provvedimento assai opportuno per il governo dei monasteri, essa è stata
assai modificata, in modo che l’abate non si separi dalla comunità e un
fedele dispensiere provveda ai pellegrini. A tavola è, infatti, facile
peccare, ed è allora che più bisogna stare attenti alla disciplina. Inoltre
molti, con la scusa degli ospiti, più che di questi si preoccupano di
trattar bene se stessi e perciò, assenti, suscitano contro di sé i peggiori
sospetti e fanno nascere mormorazioni; e tanto minore è l’autorità di un
superiore quanto più la sua vita è sconosciuta ai suoi. Inoltre qualsiasi
privazione è per tutti più sopportabile quando da tutti è condivisa in egual
misura e in particolare dai superiori, come abbiamo imparato anche da
Catone; secondo quanto sta scritto, infatti, «mentre il popolo con lui
pativa la sete», rifiutò le poche gocce d’acqua offerte a lui e le versò, «e
l’acqua bastò per tutti».
[36] Poiché, dunque,
la sobrietà è massimamente necessaria ai superiori, essi devono vivere tanto
più parcamente in quanto è per mezzo loro che si deve provvedere agli altri.
Inoltre per non volgere in superbia il dono di Dio, cioè l’autorità a loro
conferita, e per non recare con ciò particolare oltraggio agli inferiori,
prestino ascolto a quanto sta scritto: «Non essere nella tua casa come un
leone, maltrattando i tuoi servitori e opprimendo chi ti è sottoposto. La
superbia è odiosa davanti a Dio e agli uomini. Principio della superbia
dell’uomo è negare il Signore, perché il suo cuore si è staccato da colui
che lo ha creato, perché
principio di ogni
peccato è la superbia. Il Signore ha distrutto le sedi dei capi superbi e ha
posto i miti a sedere al loro posto. Ti hanno fatto loro capo? Non ti
esaltare, ma sta tra di loro come uno di essi». E l’Apostolo, dando
istruzioni a Timoteo a proposito dei subordinati, dice: «Non riprendere con
asprezza chi è vecchio, ma pregalo come un padre; i giovani come fratelli,
le donne anziane come madri, le giovani come sorelle». Il Signore ha detto:
«Non siete voi ad aver scelto me, ma io voi, ecc.». Tutti gli altri capi
sono eletti dai subordinati, e da loro creati e posti al loro posto perché
sono scelti non per il potere ma per il servizio; solo Cristo è veramente
Signore e può scegliersi i subordinati perché lo servano. Egli, tuttavia,
non si è mostrato signore ma servitore e con il proprio esempio ha fatto
vergognare i suoi che già aspiravano all’arce della dignità, dicendo: «I re
delle genti le dominano e coloro che hanno il potere su di loro sono
chiamati benefattori. Per voi non è così, ecc.». Imita, dunque, i re delle
genti chi desidera dominare sui subordinati piuttosto che servirli, e si
preoccupa di essere temuto più che di essere amato e, traendo ragione di
orgoglio dalla sua autorità di capo, «ama i primi posti nei conviti e i
primi seggi nelle sinagoghe, essere salutato nella pubblica piazza ed essere
chiamato rabbi dagli uomini». Condannando l’onore di quest’appellativo,
affinché non ci gloriamo dei nomi e in ogni cosa abbiamo cura della nostra
umiltà, il Signore dice: «Ma voi non vogliate essere chiamati rabbi. E non
chiamate nessuno sulla terra padre vostro»; proibendo, infine, tutte le
manifestazioni di orgoglio, dice: «Chi si esalterà, sarà umiliato».
[37] È necessario
anche provvedere affinché il gregge non sia messo in pericolo a causa
dell’assenza dei pastori e affinché nel monastero la disciplina non si
indebolisca perché i superiori se ne vanno in giro fuori. Abbiamo, pertanto,
stabilito che la diaconessa si dedichi più alle cose spirituali che alle
corporali, e perciò non lasci mai il monastero per occuparsi di faccende
esterne e sia tanto più sollecita nei confronti delle subordinate quanto più
costante è la sua presenza, e le sue apparizioni siano per gli uomini tanto
più degne di venerazione quanto più rare, come sta scritto: «Se ti chiama un
potente, allontanati, perciò ti chiamerà con maggiore insistenza». Se poi il
monastero ha necessità di inviare una qualche ambasceria, ne siano
incaricati i monaci o i loro conversi. Bisogna, infatti, che gli uomini
provvedano sempre alle necessità delle donne; e quanto maggiore è la
devozione delle donne, tanto più intensamente esse si dedicano a Dio ed
hanno maggiore bisogno dell’assistenza degli uomini. Perciò anche Giuseppe è
esortato dall’angelo a prendersi cura della madre del Signore, che tuttavia
non gli viene consentito di conoscere carnalmente; e il Signore stesso,
morendo, fornisce la madre come di un secondo figlio, che provveda alle sue
necessità materiali. Non vi è poi dubbio, e l’abbiamo già ricordato altrove
a sufficienza, di quante cure dedicassero gli Apostoli alle donne devote,
per assistere le quali istituirono anche i sette diaconi. Seguendo il loro
esempio autorevole, e poiché lo esigono le necessità della situazione
stessa, abbiamo stabilito che i monaci e i loro conversi provvedano ai
monasteri delle donne per quanto riguarda le faccende esterne, così come già
fecero gli apostoli e i diaconi. In particolare i monaci sono a loro
indispensabili per la celebrazione della Messa, e i conversi per i lavori
manuali.
[38] È, dunque,
necessario che, come leggiamo avvenne ad Alessandria sotto l’evangelista
Marco ai primordi della Chiesa nascente, accanto ai monasteri di donne non
manchino monasteri di uomini e che tutti gli affari esterni che riguardano
le donne siano condotti per mezzo di uomini che seguono lo stesso tipo di
vita religiosa. Sono fermamente convinto che i monasteri di donne osservano
con maggiore determinazione i doveri connessi al loro stato, se sono retti
dalla guida di uomini di alta spiritualità e se la stessa persona è nominata
pastore tanto delle pecore che degli arieti, cosicché, cioè, chi è a capo
degli uomini lo sia anche delle donne e, secondo il precetto apostolico,
sempre «l’uomo sia capo della donna come Cristo dell’uomo e Dio di Cristo».
Perciò anche il monastero di santa Scolastica, situato in una proprietà del
monastero dei fratelli, era retto dal governo del fratello e riceveva
istruzione e conforto spirituale dalle visite frequenti sue e dei fratelli.
[39] Anche un passo
della Regola di san Basilio ci istruisce su questa forma di direzione e
dice: «Domanda: È opportuno che colui che governa dica qualcosa di
edificante alle vergini, salvo a colei che governa? Risposta: E come si
rispetterà il precetto dell’Apostolo che dice: “Tutto ciò che vi riguarda si
faccia con onestà e con ordine”?». Ancora, al capitolo seguente: «Domanda: È
conveniente che colui che governa abbia frequenti colloqui con colei che
governa, soprattutto se qualcuno dei fratelli viene da ciò turbato?
Risposta: Benché l’Apostolo dica: “Perché la mia libertà deve essere
giudicata dalla coscienza altrui?”, è bene imitarlo quando dice: “Perché non
ho fatto uso di questo diritto? Per non offendere in qualcosa il Vangelo di
Cristo”, e per quanto è possibile, esse devono essere visitate molto
raramente e la durata del colloquio deve essere minima». A questo proposito
c’è anche la deliberazione del Concilio di Siviglia: «Di comune accordo
abbiamo deciso che nella provincia Betica i monasteri di vergini siano retti
dall’amministrazione e dal governo dei monaci. Prendiamo, infatti, salutari
provvedimenti per le vergini a Cristo votate quando scegliamo per loro anche
padri spirituali che non solo possano custodirle con la loro guida ma anche
istruirle con il loro insegnamento. È tuttavia necessario prendere
precauzioni a proposito dei monaci affinché non abbiano con loro rapporti,
né abbiano il permesso di accedere liberamente neppure fino al vestibolo;
non sia lecito né all’abate né a chi è da lui incaricato parlare con le
vergini di ciò che riguarda l’istruzione morale salvo colei che governa. Ed
egli non deve intrattenersi da solo in frequenti colloqui con colei che
governa, ma alla presenza di due o tre sorelle, e in modo che le visite
siano rare e la conversazione breve. Sia lungi da noi, infatti, volere che i
monaci abbiano rapporti di familiarità con le vergini di Cristo, cosa
scellerata solo a dirsi, ma, secondo quanto stabiliscono i precetti delle
regole e dei canoni, siano ben separati e divisi. Noi vogliamo solo affidare
le monache al loro governo in modo che sia scelto un monaco di specchiata
virtù che si assuma l’incarico di amministrare le loro proprietà in campagna
e in città, di badare agli edifici, e di provvedere a qualsiasi altra cosa
sia eventualmente necessaria al monastero, affinché le serve di Cristo,
preoccupate solo del bene della loro anima, vivano solo per il culto di Dio
e si dedichino alle sue opere. Naturalmente colui che è incaricato
dall’abate deve ricevere l’approvazione del suo vescovo. Per parte loro le
monache devono confezionare gli abiti per la comunità da cui si aspettano
protezione, perché da questa in cambio riceveranno, come si detto, i frutti
del lavoro e il sostegno dell’assistenza».
[40] Seguendo,
dunque, questa disposizione, noi vogliamo che i monasteri delle donne siano
sempre sottoposti ai monasteri degli uomini, così che i fratelli si prendano
cura delle sorelle e uno solo sia a capo di entrambi come un padre, alla cui
autorità guardino entrambi i monasteri e di entrambi per così dire «si abbia
un solo ovile e un solo pastore»
nel Signore.
Questa società di fraternità spirituale sarà tanto più gradita sia a Dio che
agli uomini, quanto più perfettamente essa potrà rispondere alle necessità
di entrambi i sessi che si avviano alla vita monastica, così che i monaci
accolgano tra di loro gli uomini e le monache le donne, e possa prendersi
cura di ogni anima preoccupata della propria salvezza, e chiunque voglia
convertirsi con la moglie, la madre, la sorella, la figlia, o qualsiasi
altra donna di cui si sia assunta la tutela, in essa possa trovare piena
risposta alle proprie necessità, ed entrambi i monasteri siano legati da un
tanto maggiore sentimento di carità e siano tanto più solleciti l’uno
dell’altro, quanto più le persone che vi vivono sono congiunte da vincoli di
parentela o affinità.
[41] Vogliamo,
dunque, che il preposito dei monaci, che chiamano abate, governi anche le
donne, così da riconoscere in loro, che sono le spose del Signore di cui
egli è servo, le proprie signore, e gioisca non a governarle ma a servirle,
e sia come l’amministratore di una reggia, che non comanda la signora, ma
provvede a lei, obbedendole prontamente per quanto riguarda le cose a lei
necessarie, non ascoltandola se chiede cose dannose e amministrando tutto
dall’esterno in modo da non penetrare negli appartamenti privati se non
quando gli venga ordinato. Noi vogliamo, dunque, che il servo di Cristo
provveda in questo modo alle spose di Cristo e al posto di Cristo si prenda
cura fedelmente di loro; vogliamo che discuta con la diaconessa di tutto ciò
che è necessario e, in merito alle ancelle di Cristo e alle cose che le
riguardano, non decida nulla senza averla consultata e nulla ordini ad
alcuna di loro o di nulla osi parlare se non per mezzo suo. Ogni volta che
la diaconessa lo chiamerà non indugi a recarsi da lei e, per quanto gli è
possibile, non sia tardo nel compiere ciò che ella ha deciso relativamente
alle necessità sue o di quelle che sono a lei soggette. Se viene chiamato
dalla diaconessa, tuttavia, non parli mai con lei se non in pubblico e alla
presenza di persone di provato valore, non le si avvicini troppo, né si
attardi con lei in lunghe conversazioni.
[42] Tutto ciò che
riguarda il vitto, il vestiario e il denaro, se ce ne sarà, verrà raccolto e
conservato dalle ancelle di Cristo, e delle cose che a loro resteranno in
più verrà trasferito ai fratelli ciò di cui essi hanno bisogno. I fratelli
si occuperanno, dunque, di tutte le faccende esterne, mentre le sorelle si
limiteranno a quelle attività che sono proprie delle donne e si compiono
all’interno del monastero, realizzare, cioè, gli abiti, anche per i
fratelli, e lavarli, fare il pane e metterlo a cuocere e ritirarlo quando è
cotto. Si occuperanno anche del latte e dei prodotti che ne derivano, di
nutrire galline e oche, e di tutte quelle attività che le donne svolgono
meglio degli uomini.
[43] Una volta
eletto, il preposito giurerà davanti al vescovo e alle sorelle di essere
loro fedele amministratore nel Signore e di custodire con sollecitudine i
loro corpi contro il contagio della carne. E se, non sia mai, il vescovo lo
dovesse scoprire in ciò negligente, lo destituirà immediatamento come
colpevole di spergiuro. Anche tutti i fratelli, al momento di pronunciare la
loro professione, giureranno alla sorelle di non tollerare mai che esse
vengano in alcun modo oppresse e di vegliare sulla purezza dei loro corpi,
per quanto capaci. Nessuno, dunque, degli uomini visiterà le sorelle se non
con il premesso del preposito, e nulla che sia a loro inviato sarà accettato
se non trasmesso dal preposito. Nessuna delle sorelle uscirà mai dalle mura
del monastero, ma, come detto, tutte le incombenze esterne saranno svolte
dai confratelli, e i forti si affanneranno nelle attività che richiedono
forza. Nessun fratello penetrerà mai tra quelle mura senza aver ottenuto il
permesso del preposito e della diaconessa, qualora lo richieda una causa
necessaria e onesta. Se qualcuno oserà mai infrangere questa proibizione sia
immediatamente cacciato dal monastero. Affinché, tuttavia, gli uomini, più
forti delle donne, non osino opprimerle in qualcosa stabiliamo che anch’essi
non osino fare nulla contro la volontà della diaconessa, ma che essi pure
compiano tutto secondo i suoi ordini e tutti ugualmente, sia uomini che
donne, facciano a lei la loro professione e promettano obbedienza, affinché
tanto più salda regni la pace e meglio sia conservata la concordia quanto
minore sarà la facoltà d’agire dei forti; e tanto meno ai forti peserà
obbedire alle deboli donne, quanto meno dovranno temere prepotenze da parte
loro. E quanto più il forte si umilierà davanti a Dio tanto più sia certo
che sarà esaltato. Quanto abbiamo detto della diaconessa può, al momento,
bastare; ora volgiamo la penna agli ufficiali.
[44] La sacrista, che
è anche la tesoriera, si prenderà cura di tutto l’oratorio, e avrà la
custodia di tutte le chiavi relative e di tutto quanto è ad esso necessario;
ella raccoglierà le offerte, se ve ne sono, e provvederà a far fare o rifare
tutte le cose che servono nell’oratorio e a tutti gli ornamenti. Tocca a lei
anche occuparsi delle ostie, dei vasi e dei libri dell’altare e di tutti i
suoi paramenti, delle reliquie, dell’incenso, delle luci, degli strumenti
per misurare il tempo, e di quelli che vengono suonati per dare il segnale.
Se è possibile, le vergini confezionino le ostie e mondino il frumento con
il quale vengono fatte e lavino la tovaglia dell’altare. A lei e alle altre
vergini, invece, non sarà consentito di toccare né le reliquie né i vasi
dell’altare e neppure le palle, se non quando vengono consegnate loro per
lavarle. Per far ciò si chiameranno e si aspetteranno i monaci o i loro
conversi. Se sarà necessario si dia questo incarico ad alcuni, sotto la sua
direzione, che siano degni di toccare questi oggetti quando necessario, e
che li prelevino dalle casse, che lei avrà aperto, e ve li ripongano. Colei
che è preposta al santuario deve distinguersi per purezza di vita: se
possibile, dovrebbe perciò essere integra di mente e di corpo e d’astinenza
e continenza provate. Ella deve apprendere in particolare il computo lunare
per provvedere all’oratorio secondo il calcolo del tempo.
[45] La cantora si
prenderà cura di tutto il coro e regolerà gli uffici divini e sovrintenderà
all’insegnamento del canto e della lettura e a tutto ciò che riguarda lo
scrivere e il comporre. Avrà anche la custodia dell’armadio dei libri, da
dove li tirerà fuori per distribuirli e li ritirerà, e provvederà con cura a
farli copiare e comporre in volumi. Ella fisserà l’ordine con cui sedersi
nel coro, assegnerà i posti e stabilirà chi deve leggere e cantare, e
comporrà la lista che deve essere letta il sabato nel capitolo e che
contiene i nomi delle settimanarie. A causa di queste sue funzioni è
assolutamente necessario che sappia leggere e scrivere e, in particolare,
che conosca la musica. Provvedrà, inoltre, alla disciplina, dopo la
diaconessa. Se sarà occupata in altre faccende, le sue veci saranno svolte
dall’infermiera.
[46] L’infermiera
assisterà le inferme, custodendole dal peccato come dalle necessità
materiali. È necessario che alle malate venga concesso tutto ciò che
richiede la malattia, per quanto riguarda il cibo, i bagni o qualsiasi altra
cosa; a loro riguardo è infatti ben noto il proverbio: «Per gli infermi non
esiste legge». A loro non sia mai negata la carne se non il venerdì, nelle
vigilie più importanti, e durante il digiuno delle Quattro Tempora e di
Quaresima. Ma esse siano soprattutto tenute lontane dal peccato, con tanta
più attenzione quanto più devono volgere l’animo al pensiero della morte.
Allora bisogna applicarsi in particolar modo al silenzio, quando è più
facile allontanarsene, e attendere assiduamente alla preghiera, secondo
quanto sta scritto: «Figlio, nella malattia non disprezzare te stesso, ma
prega Dio ed egli ti guarirà. Fuggi il peccato, custodisci le tue mani e
purifica il tuo cuore da ogni peccato». Inoltre bisogna che un’attenta
sorvegliante assista sempre le inferme, per soccorrerle immediatamente
quando è necessario, e che l’infermeria sia fornita di quanto serve per
curare le malattie. In caso di bisogno, si dovrà anche provvedere ai medica
menti, secondo le risorse del luogo, cosa che avverrà più facilmente se
colei che si occupa delle malate non sarà priva di nozioni di medicina. Ella
dovrà prendersi cura anche di quelle che vanno salassate; è conveniente che
vi sia qualcuna che conosce l’arte di praticare i salassi, affinché non sia
necessario che un uomo sia introdotto tra le donne per questo intervento.
Bisogna anche provvedere perché le inferme non siano private dell’ufficio
delle ore e della comunione, in modo che almeno alla domenica sia impartita
loro la comunione, dopo che si sono confessate e hanno fatto, per quanto
possibile, penitenza. Per quanto riguarda, inoltre, l’unzione degli infermi,
ci si attenga scrupolosamente al precetto del santo apostolo Giacomo
e per impartirla, in particolare quando si dispera della vita delle
inferme, si chiamino due anziani monaci sacerdoti con un diacono; essi
portino con loro l’olio santo e celebrino il sacramento alla presenza della
comunità delle sorelle, che tuttavia assisteranno al di là di una parete.
Ugualmente si deve fare per la comunione, quando necessario. L’infermeria
deve essere allestita in modo tale che, per fare queste cose, i monaci
possano facilmente entrare e uscire senza vedere la comunità femminile né
essere da essa visti.
[47] Almeno una volta
al giorno la diaconessa e la celleraria visitino l’inferma, come fosse
Cristo, per provvedere con sollecitudine alle sue necessità sia corporali
che spirituali e meritare di udire dal Signore queste parole: «Ero malato e
mi hai visitato». E se la malata si avvicinerà al trapasso e entrerà in
agonia, subito colei che la sta assistendo si recherà dalla comunità e,
battendo su una tavoletta, annunzierà l’appressarsi della morte della
sorella, e tutta la comunità, qualsiasi ora sia del giorno e della notte, si
affretterà a recarsi dalla moribonda, a meno che non sia impedita dalla
celebrazione dell’ufficio. Se ciò dovesse accadere, poiché nulla deve essere
anteposto al servizio divino, sarà sufficiente che vi si rechi subito la
diaconessa con alcune altre da lei scelte, mentre la comunità le seguirà
successivamente. Tutte quelle che accorreranno al suono della tavoletta
inizino subito a recitare la litania fino alla fine dell’invocazione dei
santi e delle sante; seguiranno poi i salmi e le altre preghiere previste
dalle esequie. Considerando con attenzione quanto sia salutare visitare gli
infermi e i morti, l’Ecclesiaste dice: «È meglio andare in una casa di duolo
che in una casa di convito, poiché in quella viene ricordata la fine di
tutti gli uomini e colui che vive pone mente a ciò che diverrà», e ancora:
«Il cuore dei sapienti è ove c’è tristezza e il cuore degli stolti ove c’è
gioia». Il corpo della defunta sia subito lavato dalle sorelle e, dopo
averlo rivestito di una camicia povera ma pulita e delle scarpe, sia posto
sul feretro con il capo avvolto nel velo. Questi indumenti siano solidamente
cuciti o legati al corpo, perché non abbiano a spostarsi. Il corpo sia
portato in chiesa dalle sorelle e i monaci lo seppelliscano quando sarà
opportuno, mentre le sorelle resteranno nell’oratorio a recitare con
devozione i salmi e le orazioni. Rispetto alla sepoltura delle altre la
diaconessa abbia in più solo questa onoranza, che il suo corpo sia
interamente avvolto solo nel cilicio, e vi sia cucita tutta come in un
sacco.
[48] La guardarobiera
provvederà a tutto ciò che riguarda la cura degli indumenti, sia le
calzature che tutto il resto. Ella farà tosare le pecore e riceverà le pelli
per le calzature. Coltiverà e raccoglierà il lino e la lana, e si occuperà
della preparazione della tela. Fornirà a tutte filo, ago e forbici.
Sovrintenderà al dormitorio e avrà cura di tutti i letti. Si occuperà,
inoltre, di tagliare, cucire e lavare le tovaglie della mensa, i tovaglioli
e tutti i panni. A lei in particolare si riferiscono le parole: «Si è
procurata la lana e il lino e ha lavorato con l’abilità delle sue mani. Ha
messo mano alla rocca e le sue dita maneggiano il fuso. Per la sua casa non
temerà il freddo della neve. Tutta la sua famiglia, infatti, ha vesti doppie
ed ella riderà nell’ultimo giorno. Ha sorvegliato l’andamento della sua casa
e non ha mangiato il pane da oziosa. I suoi figlioli si sono alzati e
l’hanno proclamata beata». Ella custodirà gli strumenti necessari a tutte le
sue attività e di esse stabilirà quali deve affidare alle sorelle e a chi
tra di loro. Si prenderà cura, infatti, anche delle novizie fino a quando
non saranno accolte nella comunità.
[49] La celleraria
provvederà a tutto ciò che riguarda il cibo, alla cantina, al refettorio,
alle cucine, al mulino, al panificio con il forno, agli orti e ai giardini,
e a tutta la coltivazione dei campi; si occuperà, inoltre, delle api, di
tutto il bestiame grande e piccolo e del pollame necessario. A lei verrà
richiesto tutto quanto serve per il cibo. Ella non deve essere assolutamente
avara, ma pronta a dare tutto il necessario senza essere sollecitata: «Dio
ama chi dà con gioia». Nello svolgere il suo compito di amministrazione le
proibiamo rigorosamente di mostrarsi più generosa con se stessa che con le
altre, preparandosi cibi personali, o riservando a sé ciò di cui ha privato
le altre. Gerolamo dice: «L’amministratore ottimo è quello che nulla riserva
a se stesso»; e Giuda abusò del suo ufficio di amministratore, quando teneva
la borsa, e fu escluso dalla comunità degli apostoli. Anche Anania e sua
moglie Saffira trattennero i loro beni e furono condannati a morte.
[50] Alla portinaia,
o ostiaria, che è la stessa cosa, spetta il compito di accogliere gli ospiti
o chiunque arrivi, di annunziarli e condurli ove necessario, e di provvedere
all’ospitalità. Per età e intelligenza ella deve possedere capacità di
discernimento, in modo da sapere ricevere e dare risposte, giudicare quali
persone devono essere accolte, e come, e quali no. È necessario che la
santità del monastero si manifesti degnamente in particolar modo in lei,
come se fosse vestibolo del Signore, poiché da lei si comincia a conoscere
il monastero. Sia, dunque, gentile nel parlare e cortese nel rivolgere la
parola agli altri, per sforzarsi di far crescere la carità anche in coloro
che non ha fatto entrare, avendone dato una motivazione adeguata. A tal
proposito sta scritto infatti: «Una risposta gentile calma la collera; una
parole dura eccita l’ira»; e altrove: «Una parola dolce moltiplica gli
amici, e placa i nemici». Inoltre, se ci saranno cibi o abiti da distribuire
ai poveri, lo farà lei, perché li vede più spesso e li conosce meglio. Nel
caso che lei, o le altre incaricate di uffici, abbiano bisogno di sostegno o
aiuto, la diaconessa attribuirà loro delle aiutanti, che bisogna trarre
preferibilmente dal numero delle converse, affinché nessuna delle monache
debba mai assentarsi dagli uffici divini, dal capitolo o dal refettorio.
[51] Abbia presso la
porta una casetta nella quale stiano lei e la sua sostituta, sempre pronte a
ricevere i visitatori; non vi restino tuttavia in ozio e tanto più si
applichino al silenzio, quanto più facilmente le loro chiacchiere possono
essere udite anche da coloro che stanno fuori. Non vi è dubbio che a lei
spetta non solo impedire l’accesso alle persone dovute, ma anche tenere
assolutamente lontane le chiacchiere, affinché non siano imprudentemente
riportate entro la comunità; e a lei si deve chieder conto di qualsiasi
infrazione in proposito. Se invece udrà qualcosa che è necessario sapere, lo
riferirà riservatamente alla diaconessa, affinché questa prenda al proposito
la decisione che preferisce. Non appena qualcuno batterà o chiamerà alla
porta, la monaca presente chieda ai visitatori chi sono e cosa vogliono e,
se è il caso, apra subito per accoglierli. Sarà lecito ospitare all’interno
solo le donne, mentre agli uomini si dirà di rivolgersi ai monaci. Per
nessuna ragione, dunque, sarà ammesso all’interno un uomo senza prima aver
consultato la diaconessa e aver ricevuto da lei l’autorizzazione. Le donne,
invece, potranno entrare subito. La portiera farà sostare nella sua celletta
le donne accolte, o gli uomini che per qualsiasi ragione siano entrati, fino
a quando verrà loro incontro la diaconessa o le sorelle, se è necessario e
opportuno. La diaconessa in persona e le sorelle compiranno verso i poveri
che ne hanno bisogno il gesto di ospitalità di lavare loro i piedi. Infatti
proprio per aver offerto agli apostoli questo atto di umanità il Signore è
detto diacono, come si ricorda anche nelle Vite dei Padri, ove uno di loro
dice: «A causa tua, o uomo, il Salvatore si è fatto diacono e, cingendosi di
un panno, lava i piedi dei discepoli e ordina loro di lavare i piedi ai
confratelli». Perciò l’Apostolo dice della diaconessa: «Se ha esercitato
l’ospitalità, se ha lavato i piedi dei santi». E il Signore stesso dice:
«Ero forestiero e mi accoglieste». Tutti gli incarichi, salvo la cantora,
vengano attribuiti alle sorelle che non sanno leggere e scrivere, se sarà
possibile trovarne, affinché quelle adatte possano dedicarsi interamente
allo studio.
[52] Gli ornamenti
dell’oratorio si limitino a ciò che è necessario, evitando il superfluo, e
siano puliti più che preziosi. Non vi sia, dunque, nulla d’oro e d’argento,
salvo un calice d’argento, o più d’uno, se necessario. Non vi siano
ornamenti di seta salvo le stole e i manipoli. Non vi siano immagini
scolpite; ci sia soltanto una croce di legno per l’altare, sulla quale non è
proibito dipingere l’immagine del Salvatore, se si vuole. Gli altari non
vedano, invece, nessun’altra immagine. Il monastero si limiti ad avere due
campane. Fuori della porta dell’oratorio ci sia una vaso per l’acqua
benedetta, per farsi con essa il segno della croce entrando al mattino e
uscendo dopo compieta.
[53] Nessuna monaca
dovrà mancare alla celebrazione delle ore canoniche ma, appena suonato il
segnale, tutte le altre attività si interrompano e ci si affretti
all’ufficio divino, incedendo tuttavia con modestia. Entrando nell’oratorio,
quelle che ne sono capaci recitino: «Entrerò nella tua casa, adorerò il tuo
tempio santo, ecc.». Nel coro nessuna abbia libri diversi da quelli
richiesti dall’ufficio del momento. I salmi siano recitati in maniera
precisa e chiaramente comprensibile e la salmodia e il canto siano tali che
possano essere eseguiti anche dalle monache che hanno voce debole. In chiesa
non si legga né si canti nulla che non sia tratto da scritti autentici, e
soprattutto dal Nuovo e dal Vecchio Testamento. Questi ultimi siano
distribuiti in letture in modo tale da essere letti in chiesa integralmente
durante l’anno. Invece i commenti ai Testamenti o i sermoni dei dottori o
qualsiasi altro scritto di contenuto edificante siano letti a mensa o nel
capitolo, e di tutti sia concessa la lettura, ovunque sia necessario. Ma
nessuna osi leggere o cantare qualcosa che non ha esaminato in precedenza.
Se qualcuna nell’oratorio pronuncerà qualcosa in modo sbagliato, ne faccia
lì penitenza supplicando davanti a tutti e dicendo dentro di sé: «Anche
questa volta, o Signore, perdona la mia negligenza».
[54] Secondo
l’insegnamento del Profeta, a metà della notte bisogna levarsi per le veglie
notturne; per questa ragione bisogna coricarsi per tempo in modo che la
debole natura possa sopportare la veglia e tutto ciò che deve essere fatto
di giorno possa essere compiuto con la luce, come stabilito anche da san
Benedetto. Dopo le veglie si torni nel dormitorio fino a quando verrà
suonata l’ora delle laudi del mattino; se è ancora notte alla natura debole
non venga negato il sonno, perché è soprattutto il sonno che ristora la
natura stanca e la rende capace di sopportare la fatica e la conserva sobria
e attiva. Se, tuttavia, qualcuna ha bisogno di meditare sul Salterio o su
qualche lettura, come prescrive anche san Benedetto, vi si deve dedicare in
modo da non disturbare quelle che dormono. Egli, infatti, parla a questo
proposito di meditazione piuttosto che di lettura, affinché la lettura di
alcuni non impedisca il sonno degli altri; e quando dice: «Dai fratelli che
hanno qualche lacuna», evidentemente non impone l’obbligo di questa
meditazione. Se, tuttavia, fosse talora necessario anche insegnare il canto,
si provveda nello stesso modo a quelli che ne hanno necessità.
[55] L’ora del
mattutino sia celebrata appena compare la luce e, se è possibile, essa sia
suonata al sorgere di lucifero. Una volta terminata si ritorni nel
dormitorio. Se è estate, poiché allora la notte è breve e lungo il mattino,
non proibiamo di dormire un poco prima di prima, fino a quando le monache
non siano svegliate dal suono del segnale. Nel secondo capitolo dei Dialoghi
san Gregorio, parlando del venerabile Libertino, ricorda proprio questo
momento di sonno dopo le laudi del mattino, e dice: «Ma quel giorno si era
stabilito di trattare un altro affare a vantaggio del monastero. Terminati,
dunque, gli inni mattutini Libertino si recò al letto dell’abate, e gli
chiese umilmente di pregare per lui, ecc.». Questo sonno del mattino non
sia, dunque, negato da Pasqua all’equinozio d’autunno, a partire dal quale
la notte incomincia ad essere più lunga del giorno.
[56] Uscite dal
dormitorio si lavino, prendano i libri e siedano nel chiostro a leggere e a
cantare fino a quando viene suonata prima. Dopo prima si vada nel capitolo,
e quando tutte si saranno sedute si legga una lettura del Martirologio, dopo
aver indicato il giorno della luna. Vi si pronunci poi qualche discorso di
edificazione o si legga qualcosa della Regola e lo si commenti. Poi, se c’è
qualcosa da correggere o da amministrare, ci si dedichi ad essa.
[57] Bisogna, dunque,
sapere che un monastero o una casa non devono essere definiti disordinati se
vi avvengono cose contrarie all’ordine, ma se esse, una volta compiute, non
vengono corrette con sollecitudine. Quale luogo è infatti completamente
esente da peccato? Considerando con attenzione questo fatto, sant’Agostino
così dice ad un certo punto istruendo il suo clero: «Per quanto, infatti,
sia vigile la disciplina nella mia casa, sono un uomo e vivo tra gli uomini.
Né oso pretendere che la mia casa sia migliore dell’arca di Noè, ove di otto
uomini uno fu trovato colpevole; o della casa di Abramo, ove è detto:
“Caccia via la serva e il suo figliolo”; o della casa di Isacco,
〈dei
cui due gemelli è detto〉 “ho
amato Giacobbe e odiato Esaù”; o migliore della casa di Giacobbe ove il
figlio profanò il letto del padre; o meglio della casa di Davide, un figlio
del quale giacque con la sorellamentre l’altro si ribellò contro il padre
così santo e mansueto; o migliore della compagnia con cui viveva l’apostolo
Paolo che, se avesse abitato tra tutti uomini buoni, non avrebbe detto:
“Lotte al di fuori, timori al di dentro”, né avrebbe esclamato: “Non c’è
nessuno che si prenda fraternamente cura di voi. Tutti pensano ai loro
interessi, ecc.”; o migliore della compagnia con cui viveva lo stesso
Cristo, nella quale gli undici buoni dovettero sopportare Giuda perfido e
ladro; o meglio, infine, del cielo da dove caddero gli angeli». Egli,
esortando anche noi in sommo grado a mantenere la disciplina nel monastero,
aggiunse: «Confesso davanti a Dio che, da quando ho cominciato a servire
Dio, difficilmente ho trovato uomini migliori di quelli che hanno fatto
progressi nei monasteri; ma ugualmente non ne ho trovati di peggiori di
quelli che nei monasteri si sono persi». Per questo, credo, sta scritto
nell’Apocalisse: «Il giusto divenga più giusto, l’immondo seguiti ad essere
immondo».
[58] La severità
della correzione sia, dunque, tale che qualunque monaca, che veda in
un’altra qualcosa da correggere e lo tenga celato, sia sottoposta a
punizione maggiore di colei che ha commesso la mancanza. Nessuna, pertanto,
ritardi a denunciare la colpa sua o di un’altra e chiunque, accusandosi,
prevenga le altre, così come sta scritto: «Il giusto è il primo accusatore
di se stesso», meriti una punizione più mite, se ha cessato di agire male.
Nessuna osi giustificare un’altra, a meno che la diaconessa non la
interroghi per apprendere la verità sconosciuta alle altre. Qualsiasi sia la
sua colpa, nessuna osi mai percuotere un’altra, tranne colei alla quale ciò
sia comandato dalla diaconessa. A proposito della disciplina della
correzione sta scritto: «Figlio mio, non disprezzare la disciplina del
Signore; e non abbatterti quando ti castiga, perché il Signore ammonisce chi
ama, e si compiace di lui come un padre col figlio», e ancora: «Chi
risparmia la verga, odia il proprio figlio; chi invece lo ama è pronto a
correggerlo. Percuoti il malsano e lo stolto diventerà più saggio. Se il
beffardo viene punito, il giovane diventa più saggio. La frusta per il
cavallo, la cavezza per l’asino, e la verga per la schiena degli stolti. Chi
ammonisce un uomo, poi troverà in lui più favore di chi inganna con
l’adulazione della lingua. Qualunque correzione nel momento presente non
sembra causa di gioia ma di dolore, ma poi produce in coloro che sono stati
così formati frutti di pace e giustizia. In un figlio maleducato sta la
vergogna del padre, e una figlia fatua sarà per lui una perdita. Chi ama suo
figlio gli farà spesso sentire la sferza, perché infine possa rallegrarsi.
Chi educa suo figlio, troverà lode in lui e gloria in lui tra gli amici. Un
cavallo non domato diventa intrattabile e un figlio abbandonato a se stesso
diviene temerario. Coccola tuo figlio e ti riempirà di paura. Gioca con lui
e ti farà piangere».
[59] Quando si
discute in consiglio
a chiunque sarà
lecito esporre il proprio parere ma, qualsiasi cosa appaia opportuna alle
altre, si osservi immutabilmente la decisione della diaconessa, dal cui
giudizio tutto dipende, anche se — non sia mai — ella dovesse sbagliare e
prendere la decisione peggiore. A tal proposito afferma sant’Agostino nel
libro delle Confessioni: «Pecca gravemente chi non obbedisce ai suoi
superiori in qualcosa, anche se ciò che sceglie di fare è meglio di quanto
gli è stato comandato». Per noi è, infatti, molto meglio agire bene
piuttosto che fare il bene, e non deve essere pesato tanto ciò che viene
fatto, ma piuttosto come viene fatto e con che animo. Ma è ben fatta
qualsiasi cosa è fatta per obbedienza, anche se ciò che è fatto non sembra
per nulla buono. Pertanto bisogna obbedire ai superiori in tutto, per quanto
grande sia il danno materiale che ne può venire, se l’anima non sembra
correre alcun pericolo. Il superiore provveda a ordinare bene, perché ai
subordinati è sufficiente obbedire bene e non seguire la propria volontà ma
quella dei superiori, come hanno promesso.
[60] Proibiamo
assolutamente che la consuetudine sia mai anteposta alla ragione, e che mai
si difenda una cosa perché è la consuetudine, ma perché è la ragione, non
perché si usa ma perché è bene, e tanto più volentieri sia accolta quanto
migliore apparirà, altrimenti, imitando i Giudei, anteporremmo l’antichità
della legge al Vangelo. A tal proposito sant’Agostino, riportando molte
testimonianze dal Concilio di Cipriano, dice in un passo: «Colui che,
disprezzata la verità, osa seguire la consuetudine, o è mal disposto e
malevolo nei confronti dei fratelli, ai quali si rivela la verità, o è
ingrato verso Dio, dall’ispirazione del quale la sua Chiesa riceve
insegnamento»; e ancora: «Nel Vangelo il Signore dice: “Io sono la Verità”,
non ha detto: “Io sono la consuetudine”. Pertanto una volta rivelata la
verità, la consuetudine ceda alla verità»; e ancora: «Una volta rivelata la
verità, l’errore ceda il passo alla verità perché anche Pietro che prima
circoncideva cedette a Paolo che predicava la verità». E ancora nel libro IV
del trattato Sul battesimo: «È inutile che coloro che sono vinti dalla
ragione ci oppongano la consuetudine, quasi che la consuetudine sia più
grande della verità, o non debba essere seguito nella cose spirituali ciò
che per il meglio fu rivelato dallo Spirito Santo. Questo è senza dubbio
vero, che la ragione e la verità devono essere anteposte alla consuetudine».
E Gregorio VII al vescovo Wimundo: «E certo, per usare le parole di san
Cipriano, qualsiasi consuetudine, per quanto antica, per quanto diffusa,
deve essere assolutamente posta dopo la verità, e l’uso che è contrario alla
verità deve essere cancellato».
[61] Con quanto amore
deve essere abbracciata la verità anche nelle parole, ci viene insegnato
nell’Ecclesiastico, quando è detto: «Per la tua anima non esitare a dire la
verità», e ancora: «Non contraddire in alcun modo la parola di verità», e
ancora: «La parola della verità preceda tutte le tue opere e una ferma
decisione ogni tuo atto». E nulla sia considerato autorevole perché è fatto
da molti, ma perché è approvato dai sapienti e dai buoni. Dice Salomone:
«Infinito è il numero degli stolti»
e secondo
l’affermazione della Verità: «Molti sono i chiamati ma pochi gli eletti».
Tutto ciò che è prezioso è raro, e ciò che è abbondante per numero perde di
valore. Perciò nel consiglio nessuno segua la parte più numerosa degli
uomini ma la migliore; e non si consideri l’età dell’uomo ma la sua
saggezza, né si badi all’amicizia ma alla verità. Donde anche l’affermazione
del poeta: «È lecito imparare anche dal nemico». Ogni volta che ci sia
bisogno del consiglio non si perda tempo e, se bisogna decidere di cose
importanti, si convochi la comunità. Se bisogna, invece, discutere di cose
meno importanti, è sufficiente la diaconessa e le poche monache da lei
convocate, scelte tra le anziane. Del consiglio sta scritto anche: «Dove non
c’è chi governa, il popolo decade, e la salvezza regna dove ci sono molti
consiglieri. La via dello stolto è retta ai suoi occhi; il savio, invece,
ascolta i consigli. Figlio mio, non fare nulla senza consigliarti, e se
farai così non te ne pentirai». Se per caso, senza essersi consigliati,
qualcosa riesce bene, il dono della fortuna non giustifica la presunzione
dell’uomo. Se invece talora si sbaglia dopo aver chiesto consiglio,
l’autorità che ha chiesto consiglio non è considerata rea di presunzione e
non deve essere ritenuto colpevole tanto chi ha avuto fiducia quanto quelli
a cui ha creduto, sbagliando.
[62] Uscite dal
capitolo, le monache si dedichino alle attività necessarie, alla lettura,
cioè, o al canto, o al lavoro manuale, fino all’ora terza. Dopo l’ora terza
sia detta la messa, per celebrare la quale sia scelto ogni settimana un
sacerdote tra i monaci. È opportuno che venga con un diacono e un
suddiacono, naturalmente se ce ne sono, che lo servano in quanto è
necessario e svolgano i compiti loro propri. Essi entrino ed escano dal
monastero in modo tale da non essere assolutamente visti dalla comunità
delle sorelle. Se ne serviranno di più, si dovrà provvedere e, se sarà
possibile, sempre in modo tale che, a causa delle messe per le monache, i
monaci non manchino mai alla celebrazione degli uffici divini della loro
comunità.
[63] Se si dovrà
impartire la comunione alle sorelle, si scelga un sacerdote anziano, che
somministri loro la comunione dopo la messa, una volta usciti il diacono e
il suddiaco, per eliminare così ogni occasione di tentazione. L’intera
comunità si comunichi almeno tre volte l’anno, cioè a Pasqua, a Pentecoste e
a Natale, come stabilito dai Padri anche per le persone che vivono nel
secolo. Si preparino a queste comunioni così: tre giorni prima si accostino
tutte alla confessione e facciano la dovuta penitenza e si purifichino con
un digiuno di tre giorni a pane ed acqua e pregando spesso con tutta
l’umiltà e il tremore, meditando in cuor loro la terribile affermazione
dell’Apostolo, che dice: «Pertanto chiunque mangerà questo pane e berrà il
calice del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del
Signore. L’uomo, dunque, esamini se stesso, e così mangi di quel pane e beva
del calice; chi, infatti, mangia e beve indegnamente, mangia e beve la
propria condanna, perché non sa riconoscere il corpo del Signore. È per
questo che tra di voi molti sono deboli e ammalati e molti muoiono, perché,
se giudicassimo noi stessi, non saremmo giudicati».
[64] Anche dopo la
messa ritornino alle loro attività fino a sesta, e mai vivano in ozio, ma
ognuna compia ciò che può e ciò che è necessario. Dopo sesta si pranzi, a
meno che non sia giorno di digiuno. In questo caso, infatti, bisogna
aspettare nona
e, durante la
Quaresima, anche i vespri. In nessun momento alla comunità manchino le
letture, e quando la diaconessa vuole por fine ad esse dica: «Basta», e
immediatamente tutte si alzino in piedi per rendere grazie a Dio. Durante
l’estate, dopo pranzo si riposi in dormitorio fino a nona, e dopo nona si
ritorni alle occupazioni fino ai vespri. Subito dopo i vespri si deve cenare
o bere qualcosa; poi, a seconda del tempo, si vada alla lettura serale. Il
sabato invece prima della lettura serale si faccia pulizia, lavandosi i
piedi e le mani, e al servizio provveda la diaconessa con le settimanarie
impegnate in cucina. Subito dopo la lettura serale ci si rechi a compieta, e
immediatamente dopo a dormire.
[65] A proposito del
vitto e degli abiti ci si attenga all’affermazione dell’Apostolo che dice:
«Quando abbiamo dunque il nutrimento e di che vestirci, di questo
contentiamoci», così che sia sufficiente ciò che è necessario e non si
cerchi il superfluo. Si conceda ciò che può essere comprato a minor prezzo o
che è più facile procurarsi e può essere preso senza dare scandalo.
L’Apostolo, infatti, nei cibi evita solo ciò che può dare scandalo alla sua
coscienza o a quella degli altri, perché il vizio non consiste nel cibo ma
nel desiderio. Dice: «Colui che mangia non disprezzi colui che non mangia, e
colui che non mangia non giudichi colui che mangia. Chi sei tu che ti
permetti di giudicare il servo altrui? Chi mangia, mangia per il Signore e,
infatti, rende grazie a Dio; e chi non mangia, non mangia per il Signore e
rende grazie a Dio. Dunque, non giudichiamoci più a vicenda, ma pensate
piuttosto a non creare offesa o scandalo al fratello. Io so e sono persuaso
nel Signore Gesù che niente è comune in sé, se non per chi ritiene che sia
comune. Il regno di Dio non è mangiare e bere, ma giustizia e pace e gaudio
nello Spirito Santo. Certo, tutte le cose sono pure, ma divengono un male
per l’uomo che le mangia per offendere. È bene non mangiare carne e non bere
vino, né fare altra cosa in cui tuo fratello sia offeso o scandalizzato».
Egli, dopo lo scandalo procurato al fratello, parla ancora dello scandalo
procurato a se stesso da colui che mangia contro la propria coscienza, e
dice: «Beato colui che non condanna se stesso in ciò che approva. Ma colui
che distingue, se mangia, è condannato, perché non agisce secondo la sua
convinzione. Tutto quello che non deriva dalla convinzione è peccato».
[66] Infatti noi
pecchiamo in tutto ciò che facciamo contro la nostra coscienza
e contro quello in cui crediamo. E
giudichiamo e condanniamo noi stessi in ciò che approviamo, per mezzo, cioè,
della legge che approviamo e accettiamo, evidentemente se mangiamo quei cibi
che abbiamo distinto, quei cibi, cioè, che, secondo la legge, escludiamo e
separiamo in quanto impuri. Infatti la testimonianza della nostra coscienza
è così importante che è soprattutto essa ad accusarci o giustificarci presso
Dio. Perciò anche Giovanni dice nella sua prima lettera: «Carissimi, se il
nostro cuore non ci rimprovera, abbiamo fiducia davanti a Dio. E qualsiasi
cosa domanderemo, la riceveremo da lui, perché osserviamo i suoi
comandamenti e facciamo quello che è gradito davanti a lui». Dice, dunque,
bene Paolo poco sopra: «Niente è comune per Cristo, se non per chi ritiene
che qualcosa sia comune», cioè immondo e proibito se così lo ritiene per sé.
Chiamiamo, infatti, comuni i cibi che sono detti immondi
secondo la legge, perché la legge, separandoli dai suoi, per così
dire li mette a disposizione di coloro che sono fuori della legge e li rende
di uso pubblico. Perciò anche le donne comuni sono immonde e tutte le cose
comuni e usuali sono vili e meno pregiate. E, dunque, Paolo sostiene che
nessun cibo è per Cristo comune, cioè immondo, perché la legge di Cristo non
ne proibisce nessuno, se non, come detto, per non dare scandalo alla propria
o all’altrui coscienza. A questo proposito dice anche in un altro passo:
«Perciò se un cibo scandalizza mio fratello, non mangerò carne in eterno,
per non scandalizzare mio fratello. Non sono io libero? Non sono io
apostolo? ecc.». Come se dicesse: forse che non ho la libertà, che il
Signore diede agli apostoli, di mangiare, cioè, qualsiasi cosa e qualsiasi
cosa accettare delle offerte altrui? Infatti, quando inviò gli apostoli a
predicare, disse in un certo passo: «Mangiando e bevendo quello che c’è
presso di loro», evidentemente senza distinguere nessun cibo dagli altri.
Considerando attentamente questo fatto l’Apostolo dice ancora esplicitamente
che ai Cristiani è lecito ogni genere di cibo, anche se degli infedeli e
offerto in onore degli idoli, purché nel mangiarlo non si dia scandalo; e
dice: «Tutto è lecito, ma non tutto è conveniente. Tutto mi è lecito, ma non
tutto edifica. Nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma quello altrui.
Mangiate tutto ciò che viene macellato, senza stare ad investigare a motivo
della coscienza. Del Signore è la terra e tutto quello che essa contiene. Se
qualche infedele vi invita a cena e volete andarci, mangiate tutto ciò che
vi verrà messo davanti, senza stare ad investigare a motivo della coscienza.
Ma se qualcuno vi dirà: “Questo è stato offerto agli idoli”, non mangiate, a
causa di colui che vi ha avvertito
e per la
coscienza. Ma della coscienza di quell’altro, intendo dire, non della tua.
Non offendete i Giudei e i Gentili e la Chiesa di Dio». Da queste parole
dell’Apostolo si deduce chiaramente che nulla ci viene proibito di ciò che
possiamo mangiare senza offendere la nostra e l’altrui coscienza. Agiamo
senza offendere la nostra coscienza se siamo convinti di mantenerci fedeli
alla condotta di vita grazie alla quale possiamo salvarci; mentre agiamo
senza offendere l’altrui coscienza se siamo ritenuti vivere nel modo che ci
porterà alla salvezza. Vivremo in questo modo se, dopo aver concesso alla
natura tutto ciò che è necessario, eviteremo il peccato, e se, senza
sopravvalutare la nostra forza, non ci obbligheremo con la nostra promessa
al giogo di una vita sotto il cui peso soccombiamo, con una caduta tanto più
rovinosa quanto più elevato era stato il livello della promessa.
[67] Prevedendo
questa caduta e il voto di una stolta promessa, l’Ecclesiaste dice: «Se hai
fatto un voto a Dio, non indugiare a soddisfarlo. Egli, infatti, non ama le
promesse stolte e non mantenute. Ma quello che hai promesso adempilo. È
meglio non fare voti che farli e poi non mantenerli». Anche nell’intento di
far fronte a questo pericolo l’Apostolo dà questa disposizione: «Voglio che
le giovani si sposino, abbiano dei figli, siano madri di famiglia, non diano
alcuna occasione all’Avversario. Già alcune hanno deviato per andare dietro
a Satana». Considerando la natura debole per l’età, egli oppone il rimedio
di una vita più facile al pericolo insito in una migliore, e consiglia di
rimanere in basso per non correre il rischio di rovinare dall’alto. Seguendo
l’Apostolo anche san Gerolamo, nell’istruire la vergine Eustochio, dice:
«Ma, se per altre colpe anche le vergini non sono assolte, che cosa avverrà
di quelle che hanno prostituito le membra di Cristo e hanno fatto un
lupanare del tempio dello Spirito Santo? Sarebbe stato meglio aver
sopportato il matrimonio con un uomo e aver camminato in pianura, piuttosto
che precipitare nel profondo dell’inferno nel tentativo di raggiungere le
vette». Se poi scorriamo tutte le affermazioni dell’Apostolo, troveremo che
egli ha concesso solo alle donne di sposarsi una seconda volta, mentre ha
esortato con forza gli uomini alla continenza, e ha detto: «Uno circonciso
fu chiamato? Non cerchi di rifarsi il prepuzio»; e ancora: «Sei libero da
moglie? Non cercar moglie», sebbene, tuttavia, Mosè, manifestando maggiore
indulgenza per gli uomini che per le donne, conceda a un uomo di avere più
donne contemporaneamente, non ad una donna più uomini, e punisca gli
adultèri delle donne più severamente di quelli degli uomini. Dice
l’Apostolo: «Una donna, se morirà suo marito, è sciolta dalla legge del
marito, affinché non divenga adultera se sarà stata con un altro uomo», e in
un altro passo: «Ma dico ai non sposati e alle vedove: è bene per loro se
rimangono come son io. Ma se poi non si sentono di vivere continenti, si
sposino. È meglio, infatti, sposarsi che ardere», e ancora: «Una donna, se
il marito muore, è libera. Sposi chi vuole, purché lo faccia nel Signore.
Ma, secondo il mio consiglio, sarà più felice se rimarrà com’è». Egli non
solo concede al sesso debole di risposarsi, ma non osa nemmeno limitare di
numero dei matrimoni e, quando muoiono i mariti, permette loro di sposare
altri uomini, senza fissare il numero dei matrimoni, purché sfuggano il
crimine della fornicazione. Si sposino pure più volte, piuttosto che
fornicare anche una sola volta, e paghino il debito del commercio carnale a
molti per non prostituirsi ad uno. Certo il pagamento di questo debito non è
totalmente immune da peccato, ma si deve mostrare indulgenza verso i peccati
minori per evitare i maggiori. Che c’è allora di strano se, per non
incorrere nel peccato, si concede ciò in cui non c’è assolutamente peccato,
e cioè qualsiasi alimento necessario, non i superflui? Come si è detto,
infatti, il vizio non consiste nel cibo ma nel desiderio, quando cioè piace
ciò che non è lecito e si brama ciò che è proibito, e talora si assume
spudoratamente ciò da cui nasce enorme scandalo.
[68]
Tra tutti gli
alimenti degli uomini quale è altrettanto pericoloso e dannoso del vino e
più contrario alla nostra condizione religiosa e alla santa quiete? Ciò
considerando con attenzione, il più grande dei sapienti ci esorta a stare
lontani specialmente dal vino dicendo: «Il vino è cosa che genera lussuria e
l’ebrietà le risse. Chiunque in essi troverà piacere non sarà saggio. Per
chi i guai? Per il padre di chi i guai? Per chi i litigi? Per chi le
trappole? Per chi le percosse senza motivo? Per chi gli occhi arrossati? Non
per coloro che si perdono nel vino e si affannano a vuotare bicchieri? Non
guardare il vino quando rosseggia, quando il suo colore risplende nella
coppa. Scende dolcemente ma alla fine morderà come un serpente e spanderà
veleno come un basilisco. Allora i tuoi occhi vedranno cose strane e il tuo
cuore dirà cose perverse. E sarai come chi dorme in alto mare e come il
nocchiero che si è assopito e che ha perduto il timone, e dirai: “Mi hanno
bastonato ma non sento male, mi hanno trascinato, ma non me ne sono accorto.
Quando mi sveglierò e troverò ancora vino?”». E ancora: «Ai re, o Lamuel, ai
re non dare vino, perché non c’è nessun segreto dove regna l’ubriachezza;
affinché magari non bevano e dimentichino i loro decreti e tradiscano la
causa dei figli del povero». E sta scritto nell’Ecclesiastico: «L’operaio
ubriacone non si arricchirà, e chi trascura le piccole cose, a poco a poco
cadrà. Il vino e le donne fanno traviare i sapienti e rendono colpevoli i
saggi».
[69] Anche Isaia,
tralasciando tutti gli altri alimenti, menziona solo il vino come causa
della cattività del popolo d’Israele e dice: «Guai a voi che vi alzate la
mattina per cercare l’ubriachezza ed il bere fino a sera, per essere accesi
dal vino. Nei vostri conviti c’è la cetra e la lira e il timpano e il flauto
e il vino, e non considerate l’operato del Signore. Perciò il mio popolo è
trascinato in cattività, perché non ebbe scienza. Guai a voi che siete bravi
a bere vino, e prodi a mescere bevande inebrianti». Estendendo, inoltre, il
suo lamento dal popolo ai sacerdoti e ai profeti, dice: «Anch’essi a causa
del vino non seppero e a causa dell’ubriachezza errarono. Sacerdoti e
profeti non seppero a causa dell’ubriachezza; sono stati inghiottiti dal
vino, errarono nell’ubriachezza, non conobbero colui che vede, ignorarono il
giudizio. Infatti tutte le tavole sono piene di vomito disgustoso, così che
non c’è più posto. A chi insegnerà la scienza, a chi farà comprendere la
parola di Dio?». Il Signore dice per bocca di Gioele: «Svegliatevi ebbri e
piangete voi che bevete vino con piacere». Non proibisce, infatti, di bere
vino in stato di necessità, come consiglia l’Apostolo a Timoteo «per i
frequenti disturbi di stomaco», non per i disturbi ma solo per i disturbi
frequenti.
[70] Noè per primo
piantò la vigna, forse ignorando ancora il male dell’ubriachezza, e
inebriato si scoprì le cosce, perché al vino è congiunta la turpitudine
della lussuria. E poiché fu poi deriso per questo dal figlio, scagliò contro
di lui la maledizione e lo condannò alla servitù, cosa che non ci risulta
fosse mai stata fatta in precedenza. Le figlie di Loth previdero che non
avrebbero potuto trascinare all’incesto un uomo santo come lui se non
rendendolo ebbro. Anche la santa vedova si persuase che solo in questo modo
il superbo Oloferne poteva essere ingannato e vinto. Leggiamo che gli
angeli, che apparvero agli antichi padri e furono da loro ospitati,
mangiarono carne ma non bevvero vino. E ad Elia, il primo e il più grande
degli iniziatori della nostra vita monastica, mentre stava nascosto nel
deserto i corvi servivano mattina e sera da mangiare pane e carne ma non
vino. Leggiamo che anche il popolo d’Israele, che nel deserto era abituato a
cibi raffinatissimi, in particolar modo quaglie, non bevette vino né lo
desiderò. E anche quei pasti fatti di pane e pesce, con i quali il popolo si
sostentava nel deserto, a quanto viene raccontato, non contemplarono mai il
vino. Solo le nozze, alle quali è concessa l’incontinenza, ebbero il
miracolo del vino, nel quale sta la lussuria. Invece il deserto, che è la
dimora propria dei monaci, ha conosciuto più il dono della carne che quello
del vino.
[71] Anche i Nazirei,
che si consacravano a Dio con la più alta professione religiosa del tempo
della legge, si astenevano solo dal vino e da ciò che può inebriare. Quale
virtù, infatti, quale bene restano negli ubriachi? Per questa ragione
leggiamo che anche presso gli antichi sacerdoti era proibito non solo il
vino, ma tutto ciò che può inebriare. A tal proposito anche Gerolamo,
scrivendo a Nepoziano sulla vita dei chierici, pieno di indignazione per il
fatto che i sacerdoti del tempo della legge si astenevano da tutto ciò che
può inebriare e in questa astinenza superano i nostri, dice: «Non puzzare
mai di vino, per non sentire il detto del fiolosofo: “Questo non è baciare
ma dare da bere”. Anche l’Apostolo condanna i sacerdoti dediti al bere
e l’antica legge
lo vieta: “Coloro che sono addetti al servizio all’altare non bevano né vino
né sicera”. In ebraico è chiamata sicera ogni bevanda che può inebriare,
fatta con la pasta fermentata, col succo della frutta, o col miele fatto
cuocere fino a trasformarsi in una bevanda dolce ed esotica, o coi frutti
delle palme spremuti in liquore e con l’acqua arricchita colando attraverso
i cereali cotti. Come il vino fuggi qualsiasi cosa inebria e sconvolge la
mente». Dalla Regola di san Pacomio: «Nessuno tocchi vino e bevanda
fermentata, salvo i malati». E chi mai di voi non ha udito che il vino non è
assolutamente adatto ai monaci
e che per esso i
monaci nutrivano, un tempo, una tale avversione che, per impedirne con forza
il consumo, lo chiamavano Satana? A tal proposito leggiamo nelle Vite dei
Padri: «Narravano alcuni all’abate Pastore di un monaco che non beveva vino,
ed egli disse loro che il vino non è per nulla adatto ai monaci»; e ancora,
poco oltre: «Una volta venne celebrata la messa sul monte dell’abate Antonio
e lì fu trovata una giara di vino. Uno dei vecchi, preso il piccolo vaso,
portò una coppa di vino all’abate Sisoi e gliela diede da bere. Quello bevve
una volta, e ne accettò e bevve una seconda. Gliene offrì ancora una terza
coppa, ma l’abate non l’accettò dicendo: “Basta, fratello, o forse ignori
che è Satana?”»; e ancora a proposito dell’abate Sisoi: «Chiese dunque il
suo discepolo Abramo: “Se il sabato e la domenica ci si trova in chiesa e si
bevono tre coppe, non è molto?”. E il vecchio rispose: “Se non fosse Satana,
non sarebbe molto”». Non immemore di ciò san Benedetto, quando in
considerazione delle circostanze concede il vino ai monaci, dice: «Sebbene
leggiamo che il vino non è assolutamente per i monaci, ma poiché ai nostri
tempi non è assolutamente possibile convincerne i monaci».
[72] Cosa c’è infatti
di strano se ai monaci non deve essere assolutamente concesso proprio ciò
che il beato Gerolamo proibisce del tutto anche alle donne, la cui natura è
in sé più debole, ma tuttavia più resistente contro il vino? Egli infatti,
istruendo la vergine di Cristo Eustochio su come serbare la verginità, le
impartisce con forza questa esortazione: «Se dunque io posso dare un
consiglio, se si crede a chi ha provato, innanzitutto di questo ti
ammonisco, di questo ti scongiuro, che la sposa di Cristo fugga il vino come
un veleno. Questa è la prima arma dei demoni contro la giovinezza. Non
altrettanto sconvolge l’avidità, gonfia la superbia, riempie di diletto
l’ambizione. Possiamo facilmente evitare gli altri vizi; questo è chiuso
dentro di noi e ovunque andiamo, portiamo con noi il nemico. Il vino e la
giovinezza sono un doppio incendio di voluttà. Perché aggiungere olio alla
fiamma? Perché alimentare il fuoco a questo piccolo corpo che arde?». È,
tuttavia, ben noto dalle testimonianze di coloro che scrissero di scienze
naturali che la forza del vino può prendere il sopravvento nelle donne molto
meno che negli uomini. Nel libro VII dei Saturnali Macrobio Teodosio ne
offre questa spiegazione: «Aristotele dice che le donne si ubriacano di
rado, i vecchi spesso. La donna ha un corpo ricco di umidità; lo indica la
delicatezza e lo splendore della pelle, ma lo indicano soprattutto le
frequenti purgazioni che liberano il corpo dell’umore superfluo. Quando
dunque il vino bevuto cade in un’ampia massa di umore perde la sua forza e
non è facile che, avendo ormai perso vigore, colpisca la sede del cervello».
E ancora: «Il corpo della donna, depurato da frequenti purgazioni, è
intessuto di molte aperture naturali affinché si apra in passaggi e offra
vie all’umore che confluisce verso l’evacuazione esterna. Attraverso queste
aperture i fumi del vino svaniscono rapidamente».__
[73] Per quale
ragione, dunque, si concede ai monaci ciò che è negato al sesso più debole?
E che follia è concederlo a loro, ai quali può più nuocere, e negarlo ad
altri? Cosa c’è, infine, di più stolto del fatto che la condotta dei
religiosi non rifiuti ciò che è più contrario alla vita religiosa e che più
allontana da Dio? Che cosa c’è di più vergognoso del fatto che l’astinenza,
che caratterizza la perfezione della vita cristiana, non fugga ciò che è
proibito anche ai re e ai sacerdoti del tempo della legge, e anzi trovi in
esso il massimo del piacere? Chi potrebbe, infatti, ignorare quanta cura
dedichino oggi alla cantina i chierici, in particolare, e i monaci, per
riempirla cioè di ogni tipo di vino, per renderlo gustoso con erbe, miele e
spezie, e ubriarcarsi tanto più facilmente quanto più piacevole diviene il
bere, ed eccitarsi alla libidine con tanta maggiore violenza quanto più
ardono per il vino? Quale aberrazione, o piuttosto follia, è questa per la
quale coloro che, con il loro voto, si sono più di ogni altro obbligati alla
continenza, meno si preparino a rispettare questo voto, facciano anzi di
tutto per non poterlo rispettare? È certo che anche se i loro corpi sono
chiusi nel chiostro, i loro cuori sono pieni di libidine e il loro animo
arde dal desiderio della fornicazione. Scrivendo a Timoteo, l’Apostolo dice:
«Non continuare a bere acqua, ma fa uso di un poco di vino, a causa del tuo
stomaco, delle tue frequenti indisposizioni». Ma se a causa delle
indisposizioni gli viene concesso un poco di vino, è chiaro che da sano non
ne beveva affatto. Se professiamo la vita apostolica, e ci votiamo in
particolare alla penitenza, e ci proponiamo di fuggire il mondo, perché
troviamo il massimo diletto proprio in ciò che vediamo essere massimamente
contrario al nostro proposito e che è il più piacevole di tutti i cibi?
Sant’Ambrogio, che con tanta cura parla della penitenza, a proposito del
vitto di coloro che la praticano non esprime disapprovazione per nulla
eccetto che per il vino, e dice: «Qualcuno potrebbe forse ritenere che c’è
penitenza dove c’è brama di acquisire onori, dove si versa a profusione il
vino, dove si praticano gli stessi rapporti coniugali? Nel rinunciare al
mondo è più facile che sia trovato chi ha conservato l’innocenza, che chi
pratica bene la penitenza». E nel libro Sulla fuga dal mondo dice ancora:
«Fuggi efficacemente se i tuoi occhi fuggono calici e coppe, perché non
divengano preda della libidine, mentre si soffermano nel vino». Il vino è il
solo di tutti gli alimenti che egli menziona nella Fuga dal mondo, e afferma
che noi fuggiamo efficacemente dal mondo se fuggiamo il vino, quasi che
tutte le voluttà del mondo dipendessero da questo solo. E non dice neppure
se la gola evita di assaporarlo ma addirittura se gli occhi evitano di
guardarlo, affinché, guardandolo spesso, non siano catturati dalla libidine
e dal piacere che da lui scaturisce. Di qui viene anche l’affermazione di
Salomone che abbiamo ricordato sopra: «Non guardiamo il vino quando
rosseggia, quando il suo colore risplende nella coppa». E a questo punto
cosa diremo noi, di grazia, che, per trarre piacere sia dal gustarlo che dal
guardarlo, quando lo abbiamo insaporito con miele, erbe, e varie spezie,
vogliamo anche offrirlo in coppe?
[74] San Benedetto,
costretto a fare concessioni a proposito del vino, dice: «Almeno mettiamoci
d’accordo su questo, di non bere fino alla sazietà, ma con maggiore
moderazione, giacché “il vino fa traviare anche i saggi”». Ma volesse il
cielo che si fosse capaci di bere fino alla sazientà, senza essere
trascinati all’eccesso, con trasgressione maggiore. Anche sant’Agostino,
quando organizza i monasteri dei chierici e scrive la loro Regola, concede
loro il vino solo il sabato e la domenica, e dice: «Come è uso, il sabato e
la domenica, chi vuole, riceva vino», certamente sia per rispetto del giorno
del Signore e della sua vigilia, il sabato, sia anche perché in quei giorni
si riunivano i confratelli, che vivevano di solito sparsi per le celle. Così
narra anche san Gerolamo nelle Vite dei Padri, quando scrive queste parole a
proposito del luogo che chiama Cellia: «Ognuno dimora nella sua cella; il
sabato e la domenica, però, si riuniscono in chiesa e lì si guardano l’un
l’altro come fossero ritornati dal cielo». Perciò la concessione del vino
era certamente opportuna, perché, nel momento in cui si riunivano, essi
potessero godere insieme di una ricreazione, e non tanto dire a parole
quanto sentire: «Quanto è bello e quanto è gioioso che i fratelli abitino
insieme».
[75] Ecco ci è
attribuito un grande merito se ci asteniamo dalla carne, per quanto grande
possa essere l’eccesso con cui ci nutriamo degli altri cibi. Se con grandi
spese ci prepariamo svariati piatti di pesce, se insaporiamo i cibi con pepe
e spezie, se, ormai ubriachi di vino puro, aggiungiamo anche calici di
liquori alle erbe e tazze di vino con droghe: l’astinenza da vili carni
scusa tutto questo, a patto solo che non ce ne ingozziamo in pubblico, quasi
che la colpa consista nella qualità dei cibi piuttosto che nell’eccesso,
quando invece il Signore ci proibisce solo la gozzoviglia e l’ubriachezza,
cioè l’eccesso sia di cibo che di vino, piuttosto che la qualità.
[76] Ciò considerò
con attenzione anche sant’Agostino e, non temendo alcun alimento, salvo il
vino, né facendo alcuna distinzione di qualità tra i cibi, ritenne che, per
quanto riguarda l’astinenza, fosse sufficiente questa breve indicazione:
«Domate la vostra carne con i digiuni e astenendovi dal mangiare e dal bere
per quanto lo consente la salute». Se non mi inganno aveva letto questo
passo di sant’Atanasio nell’Esortazione ai monaci: «Per chi lo vuole
praticare, il digiuno non abbia un limite prefissato, ma si prolunghi quanto
è possibile, salvo che per i malati; eccetto la domenica i digiuni siano
sempre osservati, se ad essi ci si è impegnati con un voto». Come se
dicesse: se si è assunto l’impegno del digiuno con un voto, deve essere
devotamente rispettato sempre, salvo la domenica. A nessun digiuno viene qui
posto un limite definito, ma essi durano quanto permette la salute. È detto
infatti: «Egli considera solo la possibilità della natura e consente che
essa stessa si stabilisca il limite, sapendo che non si erra in nulla se in
tutto si segue la giusta misura», affinché, cioè, non ci arrendiamo alle
voluttà con meno resistenza del necessario, come è scritto del popolo
nutrito con fior di farina e vino purissimo: «Si è ingrassato, è divenuto
pingue e ha recalcitrato», né soccombiamo macerati e totalmente vinti da
un’astinenza senza misura, o perdiamo la ricompensa per le nostre
mormorazioni, o ci vantiamo della nostra eccellenza. Per prevenire questo
pericolo l’Ecclesiaste dice: «Il giusto perisce nella sua giustizia. Non
essere troppo giusto, né savio oltre necessità, per non restare attonito»
e gonfiarti di
superbia, preso di ammirazione per la tua eccellenza.
[77] Di questo zelo
sia guida la discrezione, madre di tutte le virtù; essa valuti con
attenzione quali oneri può imporre e su chi, a ciascuno, cioè, secondo la
propria forza e, seguendo la natura piuttosto che forzandola, elimini non la
pratica del saziarsi ma l’abuso rappresentato dall’eccesso, e così estirpi i
vizi senza ferire la natura. Ai deboli è sufficiente evitare il peccato,
anche se non ascendono al culmine della perfezione, e ti basti essere seduto
anche in un angolo del paradiso se non ti è possibile sedere insieme ai
martiri. È più sicuro promettere piccole cose perché la grazia aggiunga a
quanto dovuto cose più grandi. A questo proposito sta scritto infatti:
«Quando avrete fatto tutto quanto vi è stato comandato, dite: “Siamo servi
inutili, abbiamo fatto ciò che dovevamo”». Dice l’Apostolo: «La legge
produce l’ira. Dove, infatti, non vi è legge non c’è neppure trasgressione».
E ancora: «Senza la legge, infatti, il peccato era morto. Io un tempo vivevo
senza la legge: ma, quando sopraggiunse il precetto, il peccato riprese
forza. E io morii e mi venne constatato che il precetto che era per la vita,
questo stesso è per la morte. Infatti, colta l’occasione per mezzo del
mandato, il peccato mi ingannò e per mezzo suo mi uccise, affinché per mezzo
del precetto il peccato diventi peccare all’eccesso». Agostino a
Simpliciano: «Il desiderio, accresciuto dal divieto, è divenuto più dolce e
così ha ingannato». Ugualmente nel libro delle LXXXIII questioni: «La forza
con cui il piacere convince a peccare è più forte quando c’è la
proibizione». A questo proposito anche il poeta dice: «Bramiamo sempre ciò
che è vietato e desideriamo ciò che è negato». Consideri tremando queste
parole chiunque si vuole legare al giogo di una Regola come alla professione
della nuova legge. Scelga ciò che può, tema ciò che non può fare. Nessuno
diventa colpevole nei confronti della legge, se non chi prima ha promesso di
rispettarla. Prima di promettere rifletti; quando hai promesso, rispettala.
Prima è volontario ciò che poi diventa obbligatorio. Dice la Verità: «Nella
casa di mio padre ci sono molte dimore», e così molte sono anche le strade
lungo le quali vi si può giungere. Chi si sposa non è condannato, ma chi
pratica la continenza si salva più facilmente. Le Regole dei santi non sono
state aggiunte perché noi raggiungessimo con esse la salvezza, ma perché
possiamo salvarci più facilmente e dedicarci a Dio con più purezza. Dice
l’Apostolo: «E se una vergine si è sposata, non ha peccato; ma costoro
sperimenteranno la tribolazione della carne. Ed io vorrei risparmiarvela». E
ancora: «La donna senza marito, come la vergine, si dà pensiero delle cose
del Signore, per essere santa sia nel corpo che nello spirito. La maritata
invece si preoccupa delle cose del mondo, in che modo possa piacere al
marito. Io però vi dico questa cosa per il vostro bene, non per tendervi un
laccio, ma per ciò che è onesto e che offre la possibilità di servire Dio
senza impedimento». Ma ciò può essere compiuto nella maniera più certa
quando, abbandonando il mondo anche con il corpo, ci chiudiamo nel chiostro
del monastero perché i tumulti mondani non ci turbino.
[78] Non solo chi
riceve la legge, ma anche chi la impone si preoccupi di non moltiplicare le
occasioni di trasgressione, moltiplicando i precetti. Il Verbo di Dio,
venendo sulla terra, ha abbreviato la parola di Dio sulla terra. Mosè ha
esposto molti precetti e tuttavia, come dice l’Apostolo: «La legge non portò
nulla a perfezione»; molti, invero, ne ha esposti e di così onerosi che
l’apostolo Pietro dichiara che nessuno poteva sopportare i precetti da lui
imposti, e dice: «Fratelli, perché tentate Dio, imponendo sul collo dei
discepoli un giogo che né i nostri padri né noi abbiamo potuto portare? Ma
per mezzo della grazia del Signore Gesù crediamo di essere salvati, nello
stesso modo di loro». Con poche norme Cristo ha dato agli apostoli
istruzione morale, ha insegnato la santità e ha indicato la via di
perfezione. Eliminando quelli austeri e onerosi, ha dato precetti soavi e
leggeri nei quali ha racchiuso tutti i principi della vita religiosa; ha
detto: «Venite a me voi tutti che siete affaticati e che siete stanchi, ed
io vi darò riposo. Prendete su di voi il mio giogo, ed imparate da me,
perché sono mite e umile di cuore e troverete pace per le anime vostre. Il
mio giogo è infatti soave e il mio peso leggero».
[79] Nelle opere
buone, infatti, spesso le cose vanno come negli affari del mondo: negli
affari molti si danno da fare di più e guadagnano di meno; così molti si
affliggono di più esteriormente e meno progrediscono interiormente di fronte
a Dio, che esamina il cuore più che le opere. Essi, infatti, quanto più sono
presi dai comportamenti esteriori, tanto meno possono dedicarsi alle cose
interiori e quanta più fama acquisiscono presso gli uomini, che giudicano i
comportamenti esteriori, tanto maggiore gloria ottengono e più facilmente si
lasciano sedurre dall’orgoglio. Per prevenire quest’errore l’Apostolo riduce
drastica mente il valore delle opere e, accentuando la giustificazione che
viene dalla fede, dice: «Se, infatti, Abramo è trovato giusto per le opere,
riceve gloria, ma non davanti a Dio. Che cosa dice, infatti, la Scrittura?
“Abramo credette a Dio e ciò gli fu ascritto a giustizia”»; e ancora: «Che
cosa diremo dunque? Che i Gentili, i quali non cercavano la giustizia, hanno
ottenuto la giustizia, quella giustizia che viene dalla fede. Israele,
invece, che seguiva una legge di giustizia, a questa legge non è giunto. E
perché? Perché cercava di conseguirla non con la fede ma con le opere».
Essi, che puliscono esteriormente il catino e il piatto, si preoccupano di
meno della pulizia interiore e, facendo attenzione più alla carne che
all’anima, sono uomini più della carne che dello spirito.
[80] Noi, invece,
poiché desideriamo che per mezzo della fede Cristo abiti nell’uomo
interiore, non ci curiamo dei comportamenti esteriori, che sono comuni ai
reprobi e agli eletti, guardando a quanto sta scritto: «In me stanno, o Dio,
i voti che ti ho fatto, ti renderò lodi». Perciò non seguiamo neppure
l’astinenza esteriore stabilita dalla legge, che è certo non conferisce
nulla di giustizia. E del resto il Signore, per quanto riguarda i cibi, non
ci ha proibito nulla salvo la gozzoviglia e l’ubriachezza, cioè l’eccesso.
Inoltre egli non si è vergognato di mostrare in se stesso ciò che ha
concesso a noi, sebbene molti, da ciò scandalizzati, non poco glielo
rimproverassero. Parlando di sé ha detto infatti: «È venuto, infatti,
Giovanni, che non mangia e non beve, e hanno detto: ha un demonio. È venuto
il figlio dell’uomo, che mangia e beve, e hanno detto: ecco un mangione e un
bevitore di vino, ecc.». E, giustificando i suoi discepoli perché non
digiunavano come quelli di Giovanni ed inoltre, quando mangiavano, non si
curavano granché neppure della pulizia del corpo, lavandosi le mani, disse:
«I figli dello sposo non possono piangere mentre lo sposo è con loro, ecc.»;
e ancora: «Non ciò che entra in bocca contamina l’uomo, ma ciò che esce
dalla bocca. Ciò che esce dalla bocca esce dal cuore, ed è questo che
contamina l’uomo. Non contamina l’uomo mangiare senza lavarsi le mani».
[81] Nessun cibo,
dunque, macchia l’anima ma il desiderio del cibo vietato. Come, infatti, il
corpo non è insudiciato se non dalla sporcizia materiale, così l’anima non
può essere insudiciata se non da quella spirituale. E non si deve aver
timore di qualsiasi cosa che venga compiuta dal corpo se l’animo non è
indotto al consenso, né si deve fare affidamento sulla purezza della carne
se la mente è corrotta dalla volontà. Nel cuore risiedono, dunque, la morte
e la vita dell’anima. Perciò anche Salomone dice nei Proverbi: «Custodisci
il tuo cuore con la cura più grande, perché da lui procede la vita». E,
secondo l’affermazione della Verità appena ricordata, dal cuore procedono le
cose che inquinano l’uomo, perché l’anima è dannata o salvata dai desideri
buoni o malvagi. Ma poiché in una persona vi è strettissima unione di anima
e carne congiunte, bisogna provvedere con estrema cura affinché il piacere
della carne non induca l’anima al consenso e, mentre si mostra troppa
indulgenza nei confronti della carne, essa, abbandonandosi al piacere,
opponga resistenza allo spirito, e cominci a dominare quella parte che deve,
invece, stare sottomessa. Potremo evitare questo pericolo se, dopo aver
concesso tutto ciò che è necessario, come si è detto più volte, eliminiamo
alla radice il superfluo, e non neghiamo al sesso debole l’uso di alcun cibo
ma l’abuso di tutti; se concediamo, cioè, di assumere tutto ma di non
consumare smodatamente nulla. Dice l’Apostolo: «Tutto ciò che Dio ha creato
è buono e niente deve essere rigettato, purché si prenda con azione di
grazia. Tutto, infatti, viene santificato per mezzo della parola di Dio e
della preghiera. Spiegando queste cose ai fratelli, tu sarai un buon
ministro di Gesù Cristo, nutrito dalle parole della fede e della buona
dottrina che hai imparato».
[82] Seguendo,
dunque, anche noi insieme a Timoteo, quest’insegnamento dell’Apostolo, ed
evitando nei cibi solo gozzoviglia e ubriachezza, secondo la parola del
Signore, misuriamo ogni cosa in modo che ogni cibo serva a sostenere la
natura debole, non a nutrire i vizi, e tutte quelle cose che possono nuocere
di più con il loro eccesso, siano più ponderatamente misurate. È, infatti,
meglio e più lodevole mangiare con misura che digiunare del tutto. Perciò
anche sant’Agostino, nel libro Sul bene del matrimonio, quando tratta dei
nutrimenti del corpo, dice: «Nessuno ne fa buon uso, se non chi può anche
non usarne. Molti, infatti, hanno più facilità ad astenersene, così da non
usarne, che a misurarli così da farne buon uso. Nessuno, tuttavia, può farne
uso con saggezza, se non è in grado anche di non usarne, contenendosi». Di
questa inclinazione interiore anche Paolo diceva: «So vivere nell’abbondanza
e anche sopportare la privazione». Tutti gli uomini possono, infatti,
sopportare la privazione, mentre è proprio solo dei grandi saperla
sopportare. Ugualmente ogni uomo può anche cominciare a vivere
nell’abbondanza, ma saper vivere nell’abbondanza è proprio solo di coloro
che l’abbondanza non corrompe.
[83] A proposito del
vino, pertanto, poiché, come si è detto, «è cosa che genera lussuria e
risse», e perciò estremamente contraria alla continenza e al silenzio, le
donne se ne astengano completamente, per amore di Dio, così come il vino era
proibito alle mogli dei Gentili per paura degli adultèri, o esso sia
mescolato all’acqua in modo da calmare la sete e provvedere alla salute, ma
non sia forte abbastanza per nuocere. Riteniamo che ciò possa essere
ottenuto se sarà d’acqua almeno la quarta parte di questa mistura. Ma la
cosa più difficile è mantenere la misura, quando questa bevanda è servita,
in modo da non berne a sazietà, come stabilisce per il vino san Benedetto.
Perciò riteniamo più sicuro non proibire la sazietà e non correre così
pericoli. Infatti, come abbiamo già detto più volte, il peccato non sta
nella sazietà ma nell’eccesso. Non si deve proibire di preparare vini con
erbe o anche bere il vino puro ad uso medicinale. Tuttavia di essi non
faccia mai uso la comunità, ma siano somministrati ai malati separatamente.
[84] Ugualmente
proibiamo assolutamente il fior di farina del cuore del frumento; quando si
avrà del frumento, vi si mescoli sempre almeno una terza parte di farina
meno raffinata. Non si gusti neppure mai il pane ancora caldo, ma solo
quello cotto almeno il giorno prima. Per quanto riguarda i restanti
alimenti, come abbiamo già detto, la diaconessa provveda in modo da
sovvenire alle naturali necessità del sesso debole con ciò che può essere
comprato a minor prezzo o ottenuto più facilmente. Cosa c’è, infatti, di più
sciocco di comprare beni da altri quando bastano i nostri; di cercare fuori
il superfluo quando in casa abbiamo il necessario; di affannarsi per
procurarsi ciò che è superfluo quando abbiamo a disposizione il necessario?
Istruiti a questa necessaria e misurata discrezione non tanto dagli
insegnamenti umani quanto da quelli degli angeli o meglio del Signore, per
far fronte alle necessità di questa vita dobbiamo invece saper non tanto
ricercare la qualità dei cibi, quanto accontentarci di quelli che sono a
disposizione. Difatti anche gli angeli mangiarono le carni servite da Abramo
e il signore Gesù
nutrì la folla affamata con i pesci trovati nel deserto. Da ciò ci viene
insegnato chiaramente che non bisogna rifiutare di nutrirsi
indifferentemente di carne o di pesce, e che bisogna prendere soprattutto il
cibo che non comporta peccato e che, offrendosi spontaneamente, si può più
facilmente mettere in tavola e richiede minore spesa.
[85] Anche Seneca, il
più grande seguace della povertà e della continenza, e tra tutti i filosofi
il sommo edificatore dei costumi, dice: «Ci proponiamo di vivere secondo
natura. È contro natura torturare il proprio corpo, odiare una normale
pulizia, desiderare il sudiciume e nutrirsi di cibi non solo di poco prezzo,
ma disgustosi e ripugnanti. Come è indizio di lussuria cercare cose
delicate, così è follia rifiutare quelle usuali, procurabili a poco prezzo.
La filosofia esige frugalità, non sofferenza. Ci può tuttavia essere una
frugalità non priva di decoro, e io preferisco questa moderazione». E anche
Gregorio, nel libro XXX del Commento morale, insegnando che nei costumi
degli uomini non bisogna badare tanto alla qualità dei cibi quanto piuttosto
a quella delle anime, e distinguendo le tentazioni della gola, dice:
«Talvolta cerca cibi più prelibati; talvolta desidera che, qualsiasi cibo si
debba mangiare, esso sia preparato in modo particolarmente accurato».
[86] Spesso, invero,
si può desiderare una cosa piuttosto modesta, ma peccare più gravemente per
l’immenso ardore del desiderio. Tratto fuori dall’Egitto, il popolo perì nel
deserto perché, sprezzando la manna, desiderò cibi fatti di carne, che
riteneva più delicati. Esaù perse l’onore della primogenitura perché
desiderò con ardente brama un cibo vile, cioè le lenticchie; nel preferirle
alla primogenitura, che volle barattare, dimostrò con quale cupidigia le
bramasse. Il peccato non è, infatti, nel cibo ma nel desiderio. Per questa
ragione spesso mangiamo senza colpa cibi più raffinati e ne gustiamo di più
vili non senza peccare nella nostra coscienza. E, infatti, Esaù, che abbiamo
nominato, perse la primogenitura per le lenticchie, mentre Elia conservò nel
deserto la purezza del corpo, pur mangiando carne. Perciò anche l’antico
nemico, poiché aveva compreso che causa di dannazione non è il cibo ma il
desiderio del cibo, asservì a sé il primo uomo non con la carne ma con una
mela, e tentò il secondo non con la carne ma col pane. Per questo spesso si
commette la colpa di Adamo anche quando si mangiano cibi umili e comuni.
Bisogna, dunque, cibarsi di ciò che richiedono le necessità naturali e non
di ciò che suggerisce il desiderio di mangiare. Ma noi desideriamo meno
intensamente ciò che ci appare meno ricercato e di cui c’è più abbondanza e
che si può comprare a minor prezzo, come accade per le vivande fatte di
carni comuni, che, inoltre, sostengono la natura debole molto più
efficacemente del pesce e costano di meno e sono più facili da preparare.
[87] L’uso della
carne e del vino, come anche le nozze, sono considerati intermedi tra il
bene e il male, cioè indifferenti, sebbene i rapporti matrimoniali non
manchino completamente di peccato, e il vino si riveli il più pericoloso di
tutti gli alimenti. E, certo, se bere vino con moderazione non è interdetto
ai religiosi, quali altri alimenti dobbiamo temere purché in essi non si
ecceda la misura? Se san Benedetto, per un certo senso di opportunità, è
costretto a concedere ai monaci del suo tempo proprio ciò che dichiara non
essere adatto ai monaci, perché va ormai raffreddandosi l’ardore dell’antica
carità, perché noi non dovremmo concedere alle donne tutte le altre cose che
ancora non proibisce loro alcuna professione religiosa? Se ai vescovi stessi
e ai capi della santa chiesa, se perfino ai monasteri di chierici è lecito
mangiare anche carne senza commettere peccato, evidentemente perché non sono
obbligati ad astenersene da alcun voto, chi potrebbe considerare colpevole
concederla alle donne, soprattutto se nel resto esse sopportano una maggiore
austerità? Giacché per il discepolo è sufficiente essere uguale al suo
maestro
e appare una grande crudeltà proibire
ai monasteri di donne ciò che è concesso ai monasteri di chierici. Né deve
essere stimata poca cosa se le donne, con il rigore che caratterizza tutti
gli altri aspetti della vita monastica, in questa sola concessione della
carne non siano inferiori alla religiosità dei laici devoti, soprattutto
quando, come testimonia Crisostomo: «Agli uomini che vivono nel mondo non è
lecito nulla che non sia lecito ai monaci, salvo soltanto giacere con le
mogli». Anche san Gerolamo, giudicando la vita religiosa dei chierici non
inferiore a quella dei monaci, dice: «Quasi che tutto ciò che viene detto
per i monaci non valesse per i chierici, che sono i padri dei monaci».
[88] Chi, inoltre,
potrebbe ignorare che è totalmente contrario alla discrezione imporre ai
deboli oneri altrettanto gravosi che ai forti, obbligare le donne ad
un’astinenza tanto rigida quanto quella degli uomini? Se, a tal proposito,
qualcuno richiede oltre alla stessa testimonianza della natura quella
dell’autorità, consulti su ciò anche san Gregorio. Questo grande capo e
dottore della Chiesa, infatti, istruendo con cura gli altri capi della
Chiesa anche in ciò, così ricorda nel capitolo XXIV del Libro pastorale:
«Vanno infatti esortati in modo diverso gli uomini e le donne, perché a
questi si devono imporre cose più gravose e a quelle cose più lievi, e gli
uni compiano grandi doveri, mentre le altre siano spinte con la dolcezza a
compiti più lievi». Nei deboli, infatti, sono considerate grandi quelle cose
che sono piccole nei forti. Anche se, in fondo, questa concessione di carni
di modesta qualità offre meno piacere di quelle carni di pesce e di uccelli
che tuttavia san Benedetto non ci proibisce assolutamente. Quando distingue
diversi tipi di carne, anche l’Apostolo dice di esse: «Non ogni carne è la
stessa carne; ma altra è la carne degli uomini, e altra è quella delle
bestie, altra quella degli uccelli e altra quella dei pesci». E la legge
stabilisce che nel sacrificio del Signore sia usata carne di animali e di
uccelli ma non di pesci, affinché nessuno creda che davanti a Dio è più puro
mangiare pesce invece che carne. Il pesce è, inoltre, cibo tanto più oneroso
e dispendioso per i poveri quanto minore abbondanza ce n’è rispetto alla
carne, e nutre meno la natura debole, così che l’uno è più costoso, mentre
la carne è più nutriente.
[89] Perciò noi,
considerando insieme gli averi e la natura degli uomini, a riguardo dei cibi
non proibiamo nulla, come abbiamo detto, se non l’eccesso, e limitiamo l’uso
della carne o d’altri alimenti in modo che, pur avendo concesso tutto,
l’astinenza delle monache sia maggiore di quanto è ora quella dei monaci, ai
quali pure sono proibite alcune cose. Vogliamo, dunque, che anche l’uso
della carne sia limitato in modo da mangiarne non più di una volta al
giorno, che alla stessa persona non sia imbandita in piatti differenti, né
si aggiungano altre pietanze, e che non se ne mangi assolutamente più di tre
volte alla settimana e cioè domenica, martedì e giovedì, anche se i giorni
intermedi sono festivi.
[90] Quanto più
solenne è, infatti, la festività tanto maggiore è la devota astinenza con
cui bisogna celebrarla. A questo ci esorta con forza il grande dottore
Gregorio Nazianzieno nel libro III del Sulle luci e la seconda Epifania e
dice: «Celebriamo la festività non indulgendo al ventre, ma esultando nello
spirito». E nel libro IV del Sulla Pentecoste e lo Spirito Santo dice
ancora: «Questa è la nostra festa: riponiamo nel tesoro dell’anima qualcosa
di perenne e perpetuo, non le cose che passano e si dissolvono. Basti al
corpo la sua malizia, non ha bisogno di altro nutrimento, né, bestia
insolente, ha bisogno di cibi più abbondanti per divenire più insolente e
tormentare con più violenza». Perciò la festività deve essere celebrata
piuttosto spiritualmente; seguendo questo insegnamento, anche il suo
discepolo san Gerolamo così ricorda, in un passo di una sua lettera, a
proposito dei doni ricevuti: «Perciò dobbiamo provvedere attentamente a
celebrare il giorno di festa non tanto con l’abbondanza dei cibi, quanto con
l’esultanza dello spirito, perché è totalmente senza senso voler onorare
riempiendosi di cibi il martire che piacque a Dio con i digiuni». E Agostino
nella Medicina della penitenza dice: «Considera le migliaia di martiri:
perché piace celebrare le loro feste con turpi banchetti e non piace seguire
la loro vita con onesti costumi?».
[91] Tutte le volte
che non ci sarà la carne concediamo alle monache due piatti di qualsiasi
pietanza e non proibiamo di aggiungere il pesce. Nessuno nella comunità
insaporisca i cibi con condimenti ricercati, ma le monache si accontentino
di ciò che fornisce la terra in cui vivono. Mangino frutta solamente a cena.
Tuttavia non proibiamo di servire a quelle che ne hanno bisogno erbe o
radici o frutti o altro come medicina. Se per caso capita che sia ospite una
monaca forestiera e sieda insieme a loro a tavola, le venga servita una
portata in più, perché provi così la dolcezza della carità; se poi di questa
portata vorrà dividere qualche cosa con le monache, le sia lecito. Ella o
tutte quante, se ce ne saranno di più, siederanno alla tavola più grande e
le servirà la diaconessa, che mangerà poi insieme alle altre che servono ai
tavoli. Se qualche sorella vorrà domare la carne nutrendosi di meno cibo,
essa non osi farlo se non avendone ricevuto il permesso, che non deve
esserle negato, se appare chiaro che desidera non per leggerezza ma per
virtù ciò che la sua salute può sopportare. Per questa ragione, tuttavia,
non sia mai consentito a nessuna di essere assente dalla comunità riunita o
di rimanere un giorno intero senza mangiare. Il venerdì non si usi mai
grasso come condimento, ma le monache, accontentandosi del cibo che si
mangia durante la Quaresima, con una qualche forma di astinenza partecipino
al dolore che il loro Sposo ha patito in questo giorno. Non solo sia
proibito, inoltre, ma sia assolutamente condannato ciò che si suole fare in
alcuni monasteri, pulire, cioè, le mani e nettare il coltello con un pezzo
del pane avanzato e destinato ai poveri, imbrattando così, per risparmiare i
tovaglioli, il pane dei poveri, anzi di colui che, guardando a se stesso nei
poveri, dice: «Ciò che avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli lo
avete fatto a me».
[92] Per quanto
riguarda i digiuni, siano sufficienti per loro le prescrizioni generali
della Chiesa; non abbiamo, infatti, la presunzione di imporre loro un peso
che vada oltre la devozione dei fedeli laici né osiamo porre la loro
debolezza al di sopra della forza degli uomini. Dall’equinozio d’autunno
fino a Pasqua, data la brevità delle giornate, riteniamo che basti mangiare
una volta sola al giorno. E poiché lo diciamo non per desiderio d’astinenza
ma solo per la brevità del giorno, non facciamo qui alcuna distinzione di
cibi.
[93] Si evitino con
la massima cura le vesti preziose, che la Scrittura condanna recisamente.
Per dissuaderci in partico lare dall’usarne il Signore biasima, a motivo
loro, la superbia del ricco dannato
ed esalta di
contro l’umiltà di Giovanni. Ciò considerando con attenzione, san Gregorio
dice nella VI omelia sui Vangeli: «Che cosa significa dire: “Chi indossa
morbide vesti abita alle corti dei re”, se non affermare con chiara
dichiarazione il fatto che sono al servizio di potenze terrene, non celesti,
quelli che costantemente fuggono le sofferenze per Dio, e, attratti solo
dalle cose esteriori, cercano i piaceri e le gioie della vita presente»; e
nell’omelia XL dice ancora: «Ci sono alcuni che non ritengono che l’amore di
vesti preziose e raffinate sia peccato. Ma se ciò non fosse peccato la
parabola di Dio non direbbe con tanta attenzione che il ricco tormentato
nell’inferno si vestiva di porpora e bisso. Nessuno, infatti, cerca vesti
raffinate se non per vanagloria, per essere cioè ammirato più di ogni altro.
Che si cerchino le vesti più preziose solo per vanagloria, è dimostrato dal
fatto stesso che nessuno si mette ad indossare vesti preziose, quando non
può essere visto da altri». Anche la prima lettera di Pietro cerca di
distogliere da ciò le donne che vivono nel secolo e quelle sposate e dice:
«Similmente le donne siano soggette ai loro mariti, affinché se alcuni non
credono alle parole, siano guadagnati, senza le parole, dalla condotta delle
loro mogli, e vedendo la vostra maniera di vivere casta e riservata. Esse
non abbiano l’ornamento esteriore che consiste nell’acconciatura dei
capelli, negli ornamenti d’oro e nella bellezza delle vesti che indossano,
ma quello che è riposto nel cuore dell’uomo, e che consiste nella purità
incorruttibile di uno spirito tranquillo e modesto, che è preziosissimo agli
occhi di Dio». Giustamente egli ha ritenuto di dover esortare più le donne
degli uomini a fuggire da questa vanità, perché l’animo debole delle donne
desidera di più ciò che più stimola la lussuria per mezzo di loro e in loro.
Ma se queste sono le proibizioni che riguardano le donne che vivono nel
secolo, cosa devono fare quelle consacrate a Cristo, per le quali è eleganza
proprio il fatto stesso di essere prive di eleganza? E, dunque, tutte quelle
che desiderano vesti eleganti, e che non le rifiutano se vengono loro
offerte, danno prova di non essere caste. E tutte quelle che sono così siano
stimate prepararsi non alla vita religiosa ma alla fornicazione, e siano
ritenute non tanto monache quanto meretrici. Per loro proprio l’eleganza
delle vesti è come l’annuncio del lenone che tradisce l’animo corrotto, come
è scritto: «Le vesti del corpo e il riso della bocca e l’incedere dell’uomo
rivelano il suo essere». Come abbiamo già ricordato, leggiamo che il Signore
esaltò e lodò in Giovanni la rozzezza e la grossolanità delle vesti più che
del cibo, e disse: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Un uomo
vestito di morbide vesti? ecc.». L’uso, infatti, di cibi ricercati talora ha
una qualche utile ragione mentre quello di abiti ricercati assolutamente no.
È evidente che tali abiti quanto più sono preziosi tanto più gelosamente
sono custoditi, e meno usati meno servono e sono più costosi e per la loro
delicatezza possono sciuparsi più facilmente e offrono meno riparo al corpo.
[94] Nessun tessuto
più di quello nero si addice all’abito da lutto della penitenza, e nessuna
pelliccia è più adatta alle spose di Cristo di quella d’agnello, affinché
anche nell’abito stesso esse mostrino di essersi rivestite dell’Agnello e
Sposo delle vergini e siano ammonite a farlo. I loro veli non siano di seta
ma di tela di lino tinta. E desideriamo che i veli siano di due generi,
l’uno, cioè, per le vergini già consacrate dal vescovo, l’altro per quelle
che non lo sono. Il velo delle vergini porti un segno di croce, con il quale
esse mostrino di appartenere specialmente a Cristo anche nell’integrità del
corpo e, come si differenziano dalle altre nel rito di consacrazione, così
si distinguano anche per questo segno sull’abito, intimoriti dal quale tutti
i fedeli più si guardino dall’ardere di concupiscenza per loro. La vergine
porterà questo segno di castità virginale ricamato con filo bianco sulla
sommità del capo; nessuna osi portarlo prima di essere consacrata dal
vescovo e nessun altro velo rechi questo segno.
[95] Sulla carne
vestano una semplice camicia e la portino sempre anche per dormire. Non
neghiamo alla loro debole natura la morbidezza dei materassi e l’uso di
lenzuola. Ma dormano e mangino ciascuna per sé. Nessuna osi assolutamente
sdegnarsi se vengono date ad un’altra sorella, che ne ha più necessità,
vesti o altro che siano stati a lei donati da qualcuno, ma goda anzi proprio
per il fatto che la necessità della sorella le ha dato la possibilità di
guadagnare il merito dell’elemosina e di vedere che vive non solo per sé ma
anche per le altre. In caso contrario non appartiene alla fraternità della
santa comunità e non manca del sacrilegio della proprietà. Riteniamo che a
proteggere il corpo bastino una camicia, una pelliccia, una toga e, quando
si teme un gran freddo, anche un mantello che, naturalmente, potranno usare
anche come coperta sul letto. Considerando che essi possono essere infestati
da parassiti e quanto è gravoso lavarli, è opportuno che tutti questi abiti
siano doppi, come dice letteralmente Salomone, in lode della donna forte e
solerte: «Non temerà per la sua casa il freddo della neve perché tutti i
suoi familiari avranno duplice veste». La lunghezza delle vesti sia tale da
non oltrepassare l’orlo dei sandali, per non raccogliere la polvere. Le
maniche non superino la lunghezza delle braccia e delle mani. Scarpe, calze
e sandali proteggano gambe e piedi. Col pretesto della devozione, non vadano
mai a piedi scalzi. Nel letto siano sufficienti un materasso, un guanciale,
una coperta e un lenzuolo. Una benda candida avvolga il capo e su di essa si
ponga il velo nero; sul capo si potrà mettere un berretto di lana di agnello
se se ne sentirà la necessità a causa dei capelli tagliati corti.
[96] Bisogna fuggire
l’eccesso non solo nel vitto e nelle vesti, ma anche negli edifici e in
qualsiasi proprietà del monastero. Negli edifici l’eccesso si riconosce
palesemente se essi sono più grandi o più belli del necessario, se,
ornandoli di sculture e pitture, non edifichiamo abitazioni di poveri ma
innalziamo palazzi di re. Dice Gerolamo: «“Il figlio dell’uomo non ha ove
poggiare il capo”
e tu possiedi
portici spaziosi e case amplissime?». Quando ci compiaciamo di cavalcature
costose e belle, si fa riconoscere in noi non solo l’eccesso, ma la vanità
della superbia. Quando motiplichiamo le greggi di animali e le proprietà
terrene, allora cresce il desiderio delle cose esteriori, e quanto più ne
possediamo sulla terra tanto più siamo costretti a preoccuparci di loro e
siamo distolti dalla contemplazione delle cose divine; pur essendo chiusi
col corpo nel chiostro, l’animo è costretto a inseguire i beni che sono
fuori e che esso ama, e vaga qua e là con loro, e quanti più beni
possediamo, che possono essere persi, tanto più siamo tormentati dalla
paura, e quanto più essi sono preziosi tanto più sono desiderati e più
avvincono l’animo misero con la brama del loro possesso.
[97] Per questa
ragione bisogna provvedere assolutamente a porre un limite certo alla nostra
casa e alle nostre spese, e a non desiderare beni oltre quanto necessario, a
non accettarli se offerti, a non conservarli se ricevuti. Tutto ciò,
infatti, che è al di là della necessità, noi lo possediamo per rapina e
siamo colpevoli della morte di tanti poveri quanti avremmo potuto con esso
nutrirne
Ogni anno,
pertanto, quando saranno state raccolte le provviste, si deve provvedere a
quanto basta per l’anno e, se avanzerà qualche cosa, dovrà essere non tanto
data quanto restituita ai poveri.
[98] Vi sono alcuni
che, completamente privi di preveggenza, si rallegrano di avere una comunità
numerosa, anche se hanno redditi scarsi; poi, oppressi dalla necessità di
provvedere al suo mantenimento, lo vanno a cercare mendicando senza
vergogna, o estorcono ad altri con la violenza ciò che non hanno. E ormai
vediamo anche molti abati di monasteri di tal genere che, fieri del numero
dei loro monaci, si affannano per avere molti figli piuttosto che buoni
figli, e ai loro occhi appaiono grandi, se sono ritenuti più importanti tra
molti. Per attirare gente sotto di loro promettono una vita agevole, mentre
dovrebbero predicarne loro una austera, e, accogliendoli indistintamente
senza averli sottoposti prima ad esame, li perdono poi facilmente per
apostasia. A mio giudizio, la Verità rimprovera proprio costoro quando dice:
«Guai a voi che percorrete il mare e la terra per fare un proselita, e
quando lo è diventato ne fate un figlio della Geenna il doppio di voi!». È
certo che essi sarebbero meno fieri della quantità dei figli se ricercassero
la salvezza delle anime non il loro numero, e meno presumessero delle loro
forze nel momento in cui dovranno rendere ragione di come hanno governato il
monastero.
[99] Il Signore
scelse pochi apostoli, eppure tra questi, scelti da lui in persona, uno lo
rinegò al punto che, a proposito di lui, il Signore disse: «Non sono stato
io che ho eletto voi dodici? Eppure uno di voi è un diavolo». E come Giuda
tra gli apostoli, così anche tra i sette diaconi Nicolao si perse. E quando
gli apostoli avevano raccolto intorno a sé ancora solo poche persone, Anania
e sua moglie Saffira meritarono di essere condannati a morte. Ed anche prima
quando molti discepoli tornarono indietro, abbandonando il Signore stesso,
pochi rimasero con lui. La via che conduce alla vita è, infatti, angusta e
pochi sono quelli che vi entrano, mentre, al contrario, ampia e spaziosa è
quella che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che spontanemente vi
si mettono, perché, come proclama il Signore stesso in un altro passo:
«Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti», e secondo Salomone: «Infinito
è il numero degli stolti». Chi si rallegra della moltitudine dei sottoposti
tema, dunque, che, secondo l’affermazione del Signore, tra di loro pochi
siano alla fine gli eletti e che, accrescendo senza misura il suo gregge,
egli si riveli poi incapace di custodirlo, così che giustamente gli uomini
spirituali possano rivolgere a lui le parole del Profeta: «Hai moltiplicato
il tuo popolo, ma non hai accresciuto la gioia». Anzi gli abati di tal
genere, che si gloriano della moltitudine, costretti a uscire assai spesso e
a ritornare nel mondo e a correre qua e là mendicando per provvedere alle
necessità proprie e della comunità, finiscono per trovarsi presi più dalle
cure materiali che da quelle spirituali e si guadagnano l’infamia più che la
gloria.
[100] Naturalmente un
tale comportamento è tanto più vergognoso nelle donne quanto meno sicuro si
rivela per loro andare in giro per il mondo. Chi desidera, dunque, vivere
tranquillamente e onestamente e dedicarsi agli uffici divini ed essere caro
a Dio e al mondo, si guardi dal raccogliere persone a cui non è in grado di
provvedere, e non faccia affidamento sulla borsa altrui per le proprie
spese, né si curi di chiedere elemosine ma di farne. L’Apostolo, il grande
predicatore del Vangelo, pur avendo il diritto di farsi mantenere in nome
del Vangelo, lavora con le proprie mani per non apparire di peso ad alcuno e
diminuire la sua gloria. E noi, dunque, che non dobbiamo predicare ma
piangere i peccati, con quale ardire e quale spudoratezza mendicando andiamo
a cercare le risorse con cui poter sostentare quelli che abbiamo
sconsideratamente raccolto? Noi che spesso giungiamo a tal punto di follia
che, non sapendo predicare, prendiamo predicatori a nostro servizio, e,
conducendo in giro con noi pseudoapostoli, ci portiamo appresso croci e
reliquiari per venderle ai cristiani semplici e indotti, insieme con la
parola di Dio o anche le illusioni del diavolo, e promettere loro tutto ciò
che riteniamo possa servire per estorcere denaro. Ormai ritengo che a
nessuno sfugga più in quale discredito siano caduti sia il nostro ordine sia
la stessa predicazione della parola divina a causa di questa spudorata
cupidigia, che pensa ai propri interessi e non a quelli di Gesù Cristo. Per
questa ragione anche gli stessi abati e coloro che nei monasteri appaiono
più importanti, frequentando sconvenientemente i potenti della terra e le
corti dei principi, hanno ormai imparato ad essere più cortigiani che
cenobiti e, ricercando con qualsiasi mezzo il favore degli uomini, si sono
abituati più a conversare con gli uomini che a parlare con Dio. Essi
inutilmente hanno letto spesso, ma trascurato, e hanno ascoltato, ma non
hanno messo in pratica, l’esortazione di sant’Antonio che dice: «Come i
pesci muoiono se rimangono a luogo all’asciutto, così i monaci, se si
attardano fuori della cella o si trattengono con gli uomini del mondo,
sciolgono il voto di solitudine. È, dunque, opportuno che, come i pesci nel
mare, così anche noi ci affrettiamo a ritornare nella cella, affinché non
capiti che, attardandoci fuori, dimentichiamo di custodire la nostra
interiorità».
[101] Anche l’autore
della Regola monastica, cioè san Benedetto, mostrando grande attenzione per
questo fatto, ha indicato chiaramente, sia con l’esempio che con gli
scritti, come suo desiderio fosse che gli abati siano sempre presenti nei
monasteri e provvedano a custodire con sollecitudine il loro gregge. Egli,
infatti, quando una volta, lasciati i fratelli, andò a trovare la sua
santissima sorella ed ella voleva trattenerlo almeno una notte per avere da
lui insegnamenti spirituali, dichiarò esplicitamente che in nessun caso
poteva rimanere fuori del monastero. E non disse «non possiamo», bensì «non
posso», perché, mentre con il suo permesso i fratelli potevano farlo, lui
non poteva, se non per rivelazione di Dio, come più tardi avvenne. Di
conseguenza, scrivendo la Regola, non ha mai menzionato per l’abate la
possibilità di uscire dal monastero, ma solo per i fratelli. Ha inoltre
provveduto così accortamente alla costante presenza di questi nel monastero,
da stabilire che nelle veglie della domenica e dei giorni di festa la
lettura del Vangelo e quanto vi è annesso non possano essere fatti se non
dall’abate. Stabilendo, inoltre, che la mensa dell’abate sia sempre con gli
ospiti e i pellegrini e che, quando ci sono con lui meno ospiti, egli inviti
i fratelli che vuole, a patto di lasciare con i fratelli uno o due anziani,
fa chiaramente intendere che all’ora dei pasti l’abate non deve essere mai
assente dal monastero, e mai, come abituatosi alle prelibate pietanze dei
principi, lasci ai sottoposti il pane comune del monastero. Di individui che
si comportano in questo modo la Verità dice: «Legano fardelli pesanti e
insopportabili e li caricano sulle spalle degli uomini, ma essi non li
vogliono muovere neanche con un dito». E altrove dei falsi predicatori:
«Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi, ecc.». Vengono, essa dice,
di loro iniziativa, non mandati da Dio, o aspettando di essere mandati a
chiamare. Giovanni Battista, il nostro predecessore, a cui per diritto di
eredità spettava il pontificato, si ritirò una volta per tutte dalla città
nel deserto, lasciando cioè il pontificato per la vita monastica, le città
per la solitudine, e il popolo usciva dalle città per recarsi da lui, mentre
egli non vi entrava per recarsi dal popolo. E, pur essendo così grande da
essere creduto Cristo e da poter correggere molti errori nelle città, era
ormai in quel lettuccio donde era pronto a rispondere all’amato che bussava
alla porta: «Mi sono spogliato della mia tunica, come indossarla di nuovo?
Ho lavato i miei piedi, come sporcarli di nuovo?».
[102] Chiunque,
dunque, desidera l’isolamento della quiete monastica, goda di avere un
lettuccio piuttosto che un letto. Come dice, infatti, la Verità: «Dal letto
uno sarà tolto, mentre uno vi sarà lasciato». Leggiamo che il lettuccio è
della sposa, cioè dell’anima contemplativa più strettamente unita a Cristo e
a lui legata da sommo desiderio; e leggiamo che chiunque vi è entrato non è
mai stato abbandonato. Di questo lettuccio dice lei stessa: «Nel mio
lettuccio, notte dopo notte, ho cercato colui che ama l’anima mia». Ed ella,
sdegnando o temendo di alzarsi da questo lettuccio, risponde all’amato che
bussa alla porta le parole che abbiamo ricordato sopra; ella, infatti, è
convinta che solo fuori del suo letto ci sia il sudiciume con cui teme di
sporcarsi i piedi.
[103] Uscì Dina per
vedere gli stranieri e venne violata. E come fu predetto dal suo abate al
monaco schiavo Malco, e come egli stesso sperimentò poi, «la pecora che esce
dall’ovile è esposta subito ai morsi dei lupi». Non formiamo, dunque, una
comunità numerosa per la cui esigenze cerchiamo occasioni per uscire dal
monastero, siamo anzi costretti ad uscire, e facciamo il bene degli altri a
nostro danno, alla maniera cioè del piombo che si consuma nella fornace
perché rimanga l’argento. Stiamo attenti, piuttosto, a che la fornace
ardente delle tentazioni non consumi il piombo come l’argento. La Verità,
dicono, afferma: «E chi viene a me, io non lo caccerò fuori», e neppure noi
vogliamo che si caccino coloro che sono stati accolti, ma che si provveda a
chi si intende accogliere affinché, accolti essi dentro il monastero, per
loro non cacciamo fuori noi stessi. Leggiamo, infatti, che il Signore stesso
non cacciò chi aveva accolto, ma rifiutò chi si offriva. E difatti a quello
che diceva: «Maestro, ti seguirò ovunque andrai», egli rispose,
rifiutandolo: «Le volpi hanno delle tane, ecc.».
[104] Ed anche a
proposito delle spese, egli ci esorta caldamente, quando intendiamo fare
qualche cosa, a valutare prima a cosa esse sono necessarie, e dice: «Chi di
voi, volendo costruire una torre, prima non si siede e calcola attentamente
le spese che sono necessarie, se ha beni sufficienti per condurla a termine,
per evitare che, dopo avere gettato le fondamenta e non averla potuto
completare, tutti quelli che la vedranno incomincino a deriderlo, dicendo:
“Quest’uomo ha incominciato a fabbricare, ma non ha potuto finire”?». È già
tanto se uno riesce a salvare anche solo se stesso ed è pericoloso che
provveda a molti chi è a mala pena capace di custodire se stesso. Ma nessuno
è attento nel custodire se non è stato timoroso nell’accogliere, e nessuno è
tanto perseverante in ciò che ha intrapreso di chi ha deciso dopo aver
esitato e meditato. E in questo le donne devono essere tanto più caute
quanto meno la loro debolezza sopporta oneri gravosi, mentre ha bisogno di
essere sostenuta dalla quiete.
[105] Tutti
riconoscono che la Sacra Scrittura è lo specchio dell’anima, perché,
chiunque viva leggendola, e progredisca comprendendone il significato, può
in essa scoprire la bellezza dei propri costumi o coglierne la deformità,
così da far crescere l’una e cercare di eliminare l’altra. Richiamandoci
alla memoria questo specchio, san Gregorio nel secono libro del Commento
morale dice: «La Sacra Scrittura sta davanti agli occhi della mente come uno
specchio, perché appaia in essa il nostro volto interiore. Lì scopriamo la
nostra bruttezza e la nostra bellezza; lì percepiamo quanti progressi
abbiamo fatto e quanto siamo lontani dal migliorare». Ma chi guarda la
Scrittura senza capirla è come un cieco che tiene davanti agli occhi uno
specchio nel quale non è in grado di apprendere chi sia, e non cerca nella
Scrittura gli insegnamenti per i quali soli essa è stata scritta, e così
siede ozioso davanti alla Scrittura come un asino messo davanti ad una lira
e, per così dire,
ha di fronte del pane col quale, pur affamato, non si ristora, perché, non
essendo capace di penetrare da sé la parola di Dio con l’intelligenza, e non
essendoci alcuno che gli spezza questo pane con il suo insegnamento, dispone
inutilmente di un cibo che non gli è di alcun giovamento.
[106]
Perciò anche
l’Apostolo, esortandoci in generale allo studio delle Scritture, dice:
«Tutto ciò che è stato scritto, è stato scritto a nostro ammaestramento,
affinché per mezzo della perseveranza e della consolazione che derivano
dalle Scritture possiamo nutrire speranza». E in un altro passo: «Siate
ripieni dello Spirito Santo, intrattenendovi fra voi con salmi, inni e
cantici spirituali». Parla, infatti, a se stesso o con se stesso, chi
comprende quello che dice e mette a frutto la comprensione delle sue parole.
Ancora l’Apostolo dice a Timoteo: «Nell’attesa della mia venuta, applicati
alla lettura, all’esortazione, all’insegnamento», e ancora: «Ma tu rimani
fedele a quello che hai imparato, e di cui sei pienamente convinto, perché
sai bene da chi lo hai appreso e perché fin da fanciullo hai conosciuto le
Sacre Scritture, che possono darti gli insegnamenti necessari per la
salvezza, mediante la fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura divinamente
ispirata è utile per insegnare, per convincere, per correggere, per formare
alla giustizia, affinché l’uomo di Dio sia perfetto, preparato per ogni
opera buona». Inoltre, esortando i Corinzi alla comprensione della Scrittura
per essere in grado di spiegare quello che altri dicono della Scrittura,
dice: «Cercate di conseguire la carità, aspirate ai doni spirituali, ma
specialmente allo spirito di profezia. Chi, infatti, parla con la lingua non
parla agli uomini ma a Dio. Invece colui che profetizza edifica la Chiesa. E
perciò chi parla con la lingua, preghi per saperla interpretare. Pregherò
con lo spirito, ma pregherò anche con la mente. Canterò con lo spirito, ma
anche con la mente. Altrimenti, se pronunzierai parole di benedizione con lo
spirito, chi sta al posto del comune fedele come potrà rispondere amen alla
tua benedizione, dal momento che non capisce quello che dici? Infatti il tuo
rendimento di grazie sarà giusto, ma l’altro non ne riceverà edificazione.
Io ringrazio Iddio di avere, tra di voi, il dono delle lingue, ma in chiesa
preferisco pronunciare cinque parole con la mia intelligenza, e istruire gli
altri, anziché migliaia di parole. Fratelli, non siate dei fanciulli nel
comprendere, ma siate bambini nella malizia e uomini fatti nel comprendere».
[107] Si dice che
parla con la lingua chi pronuncia le parole solo con la bocca, ma non aiuta
con l’intelligenza, spiegando. Profetizza, invece, o spiega, chi, alla
maniera dei profeti, che sono detti veggenti cioè intendenti, intende quello
che dice, ed è così in grado di spiegare. Prega e salmodia con lo spirito
chi pronuncia le parole solo emettendo fiato, ma non vi applica
l’intelligenza della mente. Ma quando prega il nostro spirito, cioè
pronuncia le parole solo emettendo fiato, e ciò che è proferito con la bocca
non è concepito col cuore, la nostra mente non ha quel frutto che dovrebbe
ricavare dalla preghiera, in modo, cioè, da provare compunzione ed essere
innalzata a Dio grazie all’intelligenza delle parole. Perciò l’Apostolo ci
esorta ad avere la perfezione nelle parole, così che non solo sappiamo
proferire le parole alla maniera dei bambini, ma ne comprendiamo anche il
significato, e afferma che, in caso contrario, preghiamo e salmodiamo senza
frutto. Seguendo questo insegnamento anche san Benedetto dice: «Disponiamoci
a salmodiare in modo che la nostra mente concordi con la nostra voce». Anche
il Salmista lo prescrive e dice: «Salmodiate con sapienza», in modo cioè che
all’emissione delle parole non manchi il sapore e il condimento
dell’intelligenza e veramente possiamo dire con il Signore: «Come sono dolci
le tue parole al mio palato, ecc.». E in un altro luogo dice: «Il suo
apprezzamento non sarà nelle tibie dell’uomo». Infatti la tibia emette un
suono che ha come scopo il piacere della voluttà non l’intelligenza della
mente; perciò giustamente si dice che cantano con le tibie, e così non
piacciono a Dio, coloro che con la melodia del loro canto si dilettano in
modo da non essere edificati dall’intelligenza. Ma, dice ancora l’Apostolo,
con quale raziocinio si risponde amen, quando in chiesa si pronunciano le
benedizioni, se non si capisce quale sia il significato della preghiera che
si pronuncia con quella benedizione, se cioè è bene o è male ciò che la
preghiera chiede? E, infatti, in chiesa vediamo spesso molte persone
semplici, e che ignorano il significato della lettera del testo, chiedere
per errore, pregando, cose più nocive che utili; così, quando si dice:
«Affinché passiamo attraverso i beni temporali in modo che non perdiamo i
beni eterni», facilmente l’affinità del suono simile inganna molti, ed essi
dicono: «In modo che perdiamo i beni eterni» o «In modo che non prendiamo i
beni eterni». Anche per rimediare a questo pericolo, l’Apostolo dice:
«Altrimenti, se pronuncerai parole di benedizione con lo spirito», cioè
pronuncerai le parole della benedizione soltanto col fiato dell’emissione e
non ammaestrerai la mente dell’ascoltatore con il significato, «chi sta al
posto del comune fedele», cioè chi degli assistenti, che hanno il compito di
rispondere, rispondendo fa ciò che il semplice fedele non può, anzi non
deve, fare, «come potrà rispondere amen? ecc.», quando cioè ignora se lo
porti a pronunciare una maledizione piuttosto che una benedizione?
Infine se le sorelle non avranno intelligenza della Scrittura come
potranno offrire l’una all’altra discorsi di edificazione o anche spiegare e
comprendere la Regola o correggere parole proferite in modo errato?
[108] Perciò ci
chiediamo non poco meravigliati quale suggestione del Nemico abbia prodotto
nei monasteri questa situazione, che non vi si compiono più studi
sull’intelligenza della Scrittura ma si insegna solo il canto o solo a
pronunciare le parole e non a comprenderle, quasi che per le pecore sia più
utile belare che mangiare. L’intelligenza della Scrittura, che è data da
Dio, è infatti cibo per l’anima e ristoro spirituale; per questa ragione il
Signore, destinando alla predicazione anche il profeta Ezechiele, prima lo
nutre con il volume che subito «diventa miele dolce nella sua bocca». E
ancora a proposito di questo cibo sta scritto in Geremia: «I fanciulli
domandarono il pane e non c’era chi lo spezzasse loro». Spezza il pane ai
fanciulli chi svela alle persone più semplici il significato della lettera
del testo. Ma i fanciulli chiedono che il pane sia spezzato quando
desiderano nutrire abbondantemente l’anima dell’intelligenza della
Scrittura, come dichiara il Signore in un altro luogo: «Manderò la fame nel
paese, non fame di pane, né sete di acqua ma d’ascoltare la parola del
Signore».
[109] Per questa
ragione, al contrario, l’antico avversario ha fatto entrare nei chiostri dei
monasteri la fame e la sete di ascoltare le parole degli uomini e le voci
del mondo, affinché, tutti presi da inutili chiacchiere, proviamo tanto
maggiore fastidio per la parola divina quanto più ci appare insipida,
essendo priva della dolcezza e del condimento dell’intelligenza. Perciò,
come abbiamo ricordato, anche il Salmista ha detto: «Come sono dolci le tue
parole al mio palato, più del miele alla mia bocca», e subito ha aggiunto in
cosa consistesse questa dolcezza, dicendo: «Dai tuoi precetti ho compreso»,
cioè ho ricevuto l’intelligenza più dai tuoi precetti che da quelli umani,
da loro, cioè, sono stato ammaestrato e istruito. E non ha tralasciato
neppure di indicare quale sia l’utilità di questa intelligenza, aggiungendo:
«Perciò detesto tutte le vie dell’iniquità». Molte vie dell’iniquità,
infatti, sono di per sé così evidenti che facilmente divengono oggetto
d’odio e di disprezzo da parte di tutti, ma solo per mezzo della parola
divina riconosciamo tutte le vie dell’iniquità, così da poterle evitare
tutte. Per questo è detto «Ho riposto nel mio cuore la tua parola, per non
peccare contro di te». La parola sta riposta nel cuore, piuttosto che
risuonare sulla bocca, quando la nostra meditazione ne serba l’intelligenza.
E quanto meno ci applichiamo alla sua intelligenza, tanto meno riconosciamo
ed evitiamo le vie dell’iniquità, e tanto meno siamo in grado di guardarci
dal peccato.
[110] Tale negligenza
è tanto più riprovevole nei monaci, che aspirano alla perfezione, quanto più
facile è per loro questo studio, perché essi sono ben forniti di libri sacri
e godono della pace della quiete. Rimprovera bene quelli che si vantano di
possedere molti scritti, ma non li leggono, il vecchio delle Vite dei Padri
che dice: «I profeti hanno scritto libri, dopo di loro sono venuti i vostri
padri, e su di essi hanno lavorato molto, e i loro successori li hanno
imparati a memoria. Ma poi è venuta la generazione attuale che li ha scritti
su carte e pergamene e li ha riposti sugli scaffali, restandosene in ozio».
Anche l’abate Palladio, esortandoci con forza ad imparare ed insieme ad
insegnare, dice: «È necessario che un’anima che vive secondo la volontà di
Cristo impari fedelmente ciò che non sa e insegni chiaramente ciò che ha
imparato». Ma se, pur sapendo fare entrambe le cose, non vuole, essa è
tormentata dal morbo della pazzia. Quando ci si allontana da Dio, infatti,
il momento iniziale è proprio il fastidio per il suo studio, e come può
amare Dio un’anima se non desidera ciò di cui è sempre affamata? Perciò
anche sant’Atanasio, nell’Esortazione ai monaci, raccomanda a tal punto lo
studio e la lettura da invitare ad interrompere per loro anche le preghiere:
«Mi incamminerò», dice, «lungo la via della nostra vita. Per prima cosa la
solerte pratica dell’astinenza, la perseveranza nel digiuno, la costanza
nella preghiera e nella lettura e, se qualcuno è ancora inacapace di leggere
e scrivere, abbia desiderio di ascoltare per la voglia di imparare. Questi,
infatti, sono per così dire i sonagli delle culle dei lattanti nella via per
apprendere Dio». Poco oltre, dopo aver premesso: «Bisogna attendere così
assiduamente alle preghiere che non vi sia tra di loro quasi intervallo»,
aggiunge: «Se è possibile le spezzi solo l’interruzione della lettura». Né
diversa potrebbe essere l’ammonizione dell’apostolo Pietro: «Siate sempre
pronti a rendere ragione a tutti coloro che vi chiedono conto della parola
di fede e speranza». E l’Apostolo: «Non cessiamo di pregare per voi, perché
siate pieni della conoscenza di lui, con perfetta sapienza e intelligenza
spirituale», e ancora: «La parola di Cristo abiti in voi abbondantemente con
perfetta sapienza». Nel Vecchio Testamento la parola di Dio inculcò negli
uomini una simile cura per la dottrina sacra. Così dice, infatti, Davide:
«Beato l’uomo che non va nel concilio degli empi, ecc., ma la sua volontà
sta nella legge del Signore, ecc.». E Dio dice a Gesù Nave: «Questo libro
non si dipartirà mai dalle tue mani e su di lui mediterai giorno e notte».
[111] Il pericolo dei
pensieri cattivi spesso si insinua anche tra queste occupazioni e, benché
l’applicazione costante possa mantenere l’animo rivolto a Dio, tuttavia le
affannose preoccupazioni per le cose del mondo lo attraggano a sé. Ma se ciò
deve inopportunamente patire spesso chi è intento all’attività religiosa, di
certo non ne sarà mai libero chi vive in ozio. Anche il santo papa Gegorio
nel libro XIX del Commento morale dice: «Noi ci lamentiamo del fatto che è
già iniziata un’epoca in cui vediamo molti membri della Chiesa che non
vogliono mettere in pratica ciò che comprendono o addirittura disdegnano di
comprendere e conoscere la parola sacra. Distogliendo l’orecchio dalla
verità si volgono alle favole, mentre “tutti pensano ai propri interessi non
a quelli di Gesù Cristo”. Gli scritti di Dio si possono trovare ovunque e
mettere davanti agli occhi, ma gli uomini si rifiutano di conoscerli. Quasi
nessuno vuole conoscere ciò che crede».
[112] Eppure a far
questo essi sono esortati anche dalla Regola della loro professione
religiosa e dagli esempi dei santi Padri. Difatti Benedetto non dà alcuna
norma a proposito dell’insegnamento e dello studio del canto, mentre molti
sono i suoi precetti a proposito della lettura ed egli distingue anche con
precisione i momenti destinati alla lettura e quelli riservati al lavoro, e
provvede con tale attenzione anche all’insegnamento stesso del comporre e
dello scrivere, da includere anche tavolette e stilo tra le cose necessarie
che i monaci devono aspettarsi di rivecere dall’abate. E, poiché tra le
altre cose ordina che: «All’inizio della Quaresima tutti i monaci ricevano
dalla biblioteca un libro a testa e lo leggano di seguito per intero», cosa
c’è di più ridicolo di dedicarsi alla lettura e non applicarsi
all’intelligenza di ciò che si legge? È noto, infatti, il proverbio del
saggio: «Leggere e non capire è trascurare», e a questo lettore si può
rimproverare a ragione il detto del filosofo sull’asino e la lira, poiché è
come un asino davanti alla lira il lettore che, tenendo in mano un libro,
non è capace di compiere ciò per cui il libro è fatto. Sarebbe molto più
salutare che tali lettori si dedicassero ad un’altra attività da cui trarre
qualcosa di utile, piuttosto che guardare oziosamente le lettere scritte e
voltare i fogli. Di certo in tali lettori vediamo compiersi quanto dice
Isaia: «Per voi la visione di ogni cosa sarà come le parole di un libro
sigillato, che, quando verrà dato ad uno che sa leggere, dicendogli:
“Leggilo”, quello risponderà: “Non posso, perché è sigillato”. E sarà dato
allora a uno che non sa leggere e gli sarà detto: “Leggi”, e risponderà:
“Non so leggere”. E ha detto il Signore: “Poiché questo popolo mi è vicino
con la bocca e mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me e mi
hanno temuto per comando e insegnamento degli uomini, per questo, ecco, io
continuerò a compiere prodigi per questo popolo con miracoli grandi e
stupendi. E andrà perduta la saggezza dei suoi saggi e si oscurerà
l’intelligenza degli uomini di senno”». Infatti nei chiostri si dice che sa
leggere le lettere chiunque ha imparato a pronunciarle. Ma per quelli che,
per quanto riguarda la comprensione, confessano di non saper leggere, il
libro consegnato è sigillato esattamente come per quelli che lì si dice che
non sanno leggere. E sono questi quelli che il Signore rimprovera di
avvicinarsi a lui con la bocca e le labbra piuttosto che con il cuore,
perché non sono assolutamente in grado di comprendere le parole che in
qualche modo sanno pronunciare. E poiché essi mancano della conoscenza della
parola divina, seguono ubbidienti la consuetudine degli uomini più che
l’utilità della Scrittura. Perciò il Signore minaccia di accecare anche
quelli che tra di loro sembrano più sapienti e siedono come dottori.
[113] Anche dalla sua
stessa testimonianza, sappiamo quanta fatica e quante spese sia costato
l’apprendimento delle lettere a Gerolamo, il più grande dottore della chiesa
e l’onore della professione monastica, che, esortandoci all’amore per le
lettere, dice: «Ama la conoscenza delle lettere e non amerai i vizi della
carne». Tra le altre cose che ha scritto sul proprio studio, così dice in un
passo della lettera a Pammachio e Oceano, evidentemente per istruirci anche
con il suo esempio: «Quando ero giovane ardevo di uno straordinario
desiderio di apprendere, ma non ho mai avuto la presunzione di istruirmi da
solo, come certuni. Ad Antiochia ho frequentato assiduamente le lezioni di
Apollinare e l’ho seguito quando mi insegnava le Sacre Scritture. Già il mio
capo si copriva di capelli bianchi, e si addiceva più ad un maestro che ad
un discepolo, eppure mi recai ad Alessandria ed ascoltai Didimo. Gli sono
riconoscente per molti motivi: ho imparato cose che non sapevo. La gente
poteva pensare che avessi finito di fare il discepolo, invece venni ancora a
Gerusalemme e a Betlemme: con qual fatica e a qual prezzo ebbi di notte come
maestro l’ebreo Baranina! Aveva, infatti, paura dei Giudei e si mostrava con
me un secondo Nicodemo». Egli di certo aveva riposto nella mente memore ciò
che aveva letto nell’Ecclesiastico: «Figlio, sin dalla tua giovinezza cerca
di istruirti e troverai sapienza fino alla vecchiaia». Istruito in questo
non solo dalle parole della Scrittura, ma anche dagli esempi dei santi
Padri, tra le grandi lodi che egli fa a quell’eccellente monastero, aggiunge
anche questa, a proposito della particolare pratica della Scrittura divina
che vi era in uso: «Per quanto riguarda la meditazione e la comprensione
della Scrittura divina e anche della scienza divina, non abbiamo mai visto
una così grande pratica, tale che crederesti quasi che ciascuno di loro sia
un oratore nel campo della sapienza divina». Anche il santo Beda, che era
stato accolto in monastero da bambino, dice nella Storia degli Agli: «Da
allora risiedetti nello stesso monastero per tutto il tempo della mia vita,
e mi dedicai interamente alla meditazione della Scrittura, e nei momenti
lasciatimi liberi dall’osservanza della disciplina della Regola e
dall’impegno quotidiano di cantare in chiesa, mi fu sempre dolce apprendere
e scrivere».
[114] Invece ora
coloro che sono istruiti nei monasteri sono così pervicaci nella loro
stupidità che, accontentandosi del suono delle lettere, non si preoccupano
affatto della loro intelligenza, e si applicano ad istruire non il cuore ma
la lingua. È chiaro che proprio contro di loro è diretto il proverbio di
Salomone: «Il cuore del saggio ricerca il sapere, la bocca degli stolti si
nutre di ignoranza», quando, cioè, si diletta di parole che non comprende.
E, certo, essi tanto meno possono amare Dio e infiammarsi di lui, quanto più
restano lontani dall’intelligenza di lui e dal significato della Scrittura
che su di Lui ci erudisce. Siamo convinti che nei monasteri ciò è accaduto
soprattutto per due cause, sia per l’ostilità dei laici conversi e anche dei
prepositi stessi, sia a causa dell’inutile chiacchierare che proviene
dall’ozio, a cui soprattutto vediamo che oggi si dedicano i chiostri dei
monaci.
[115] Costoro, che
desiderano volgerci con loro più alle cose terrene che a quelle spirituali,
sono come i Filistei che perseguitano Isacco mentre scava i pozzi e,
riempiendoli di terra, cercano di impedirgli di attingere l’acqua.
Commentandolo san Gregorio dice nel libro XVI del Commento morale: «Spesso,
quando ci volgiamo alla parola divina, dobbiamo sopportare più gravemente le
insidie degli spiriti maligni, perché essi spargono sulla nostra mente la
polvere dei pensieri terreni per privare gli occhi della nostra attenzione
della luce della visione interiore». E questo aveva dovuto sopportare oltre
misura il Salmista quando diceva: «Allontanatevi da me, malvagi, io voglio
meditare i comandamenti del mio Dio», facendo chiaramente capire che non
poteva meditare sui comandamenti di Dio quando nella sua mente doveva
sopportare le insidie degli spiriti maligni. Nell’operare di Isacco vediamo
che questo è significato dalla malvagità dei Filistei che riempivano di
terra i pozzi scavati da Isacco. Noi, infatti, certamente scaviamo pozzi
quando penetriamo profondamente nei significati nascosti della Sacra
Scrittura; ma i Filistei li riempiono di nascosto quando, mentre tendiamo
alle cose sublimi, introducono dentro di noi i pensieri terreni dello
spirito immondo, e per così dire ci tolgono l’acqua della conoscenza divina
che avevamo trovato. Ma, poiché nessuno può vincere questi nemici con la sua
forza, per bocca di Elifaz è detto: «L’Onnipotente si schiererà a tua difesa
contro i nemici e ammasserà argento per te». Come se dicesse: mentre il
Signore con la sua forza allontanerà da te gli spiriti maligni, in te
diventerà più splendente il talento della parola divina. Se non mi inganno,
Gregorio aveva letto le omelie sulla Genesi del grande filosofo cristiano
Origene e aveva attinto dal suo pozzo ciò che ora dice di quei pozzi.
Infatti quell’instancabile scavatore di pozzi spirituali, esortandoci con
forza non solo a bere da essi, ma anche a scavarli, così dice nell’omelia
XII del citato commento: «Tentiamo di fare quello che ci suggerisce la
Sapienza dicendo: “Bevi l’acqua delle tue fonti e dei tuoi pozzi e abbi una
fonte di tua proprietà”. O ascoltatore, tenta anche tu di avere un tuo pozzo
e una tua fonte affinché, quando prenderai in mano il libro della Scrittura,
anche tu possa dare qualche interpretazione in base al tuo pensiero, e,
secondo gli insegnamenti appresi in chiesa, tenta anche tu di bere dalla
fonte del tuo ingegno. È in te la natura dell’acqua viva, ci sono le fonti
perenni e i rivi irrigui del pensiero razionale, se solo non sono pieni di
terra e di sterpi. Ma cerca di scavare la tua terra e di ripulire la
sporcizia, cioè di ripulire l’ingegno, di eliminare la pigrizia e scuotere
via dal cuore il torpore. Ascolta, infatti, ciò che dice la Scrittura:
“Pungi un occhio e ne farai uscire una lacrima; pungi il cuore e ne farai
uscire un pensiero”. E ripulisci anche tu il tuo ingegno, affinché alla fine
tu possa bere anche dalle tue fonti e attigere dai tuoi pozzi l’acqua viva.
Se, infatti, hai accolto in te la parola di Dio, se hai ricevuto da Gesù
l’acqua viva e l’hai accolta con fede, vi sarà in te una fonte di acqua che
zampilla per la vita eterna». Ancora Origene, nell’omelia seguente, dice a
proposito dei pozzi di Isacco che abbiamo ricordato prima: «I pozzi, che i
Filistei avevano riempito di terra, sono senza dubbio coloro che rinchiudono
l’intelligenza delle cose spirituali così da non berne essi e da non
permettere che ne bevano altri. Ascolta il Signore che dice: “Guai a voi,
scribi e farisei, perché vi siete presi la chiave della scienza, ma non
siete entrati voi e non avete permesso che vi entrassero quelli che
volevano, ecc.”. Noi invece non dobbiamo cessare mai di scavare pozzi di
acqua viva e, meditando ora cose antiche, ora anche cose nuove, diveniamo
simili allo scriba evangelico del quale il Signore ha detto: “Trae dal suo
tesoro cose nuove e cose antiche”». E ancora «Ritorniamo ad Isacco e con lui
scaviamo pozzi di acqua viva; e anche se i Filistei si oppongono, anche se
lottano contro di noi, perseveriamo con lui nello scavare pozzi perché anche
a noi si dica: “Bevi l’acqua dei tuoi vasi e dei tuoi pozzi”, e scaviamo
fino a quando l’acqua dei pozzi non traboccherà nelle nostre piazze,
affinché non solo basti a noi la conoscenza delle Scritture, ma possiamo
istruire gli altri e insegnare agli uomini a bere. Beva anche il bestiame
perché anche il Profeta dice: “O Signore, salverai gli uomini e le bestie da
soma”». E poco dopo dice: «Chi è Filisteo e conosce le cose terrene, non sa
trovare l’acqua su tutta la terra, non sa trovare il significato razionale.
A cosa ti serve avere l’erudizione e non saperla usare? Avere la parola e
non saper parlare? Questo è il lavoro dei servi di Isacco che scavano su
tutta la terra pozzi di acqua viva».
[116] Invece voi non
comportatevi così, ma evitate rigorosamente le chiacchiere inutili, e quelle
tra voi che avranno ottenuto la grazia di imparare si sforzino di apprendere
ciò che riguarda Dio, come sta scritto dell’uomo felice: «Ma la sua volontà
sta nelle legge del Signore e nella sua legge mediterà giorno e notte». E
subito viene aggiunto quale utilità derivi da questo assiduo studio della
legge del Signore: «E sarà come un albero trapiantato sulle rive di un corso
d’acqua, ecc.». Infatti come se fosse arido e sterile l’albero che non è
irrigato dal corso d’acqua della parola divina, della quale sta scritto:
«Dal suo ventre scaturiranno fiumi d’acqua viva». Questi sono quei fiumi dei
quali la Sposa nei Cantici, descrivendo lo Sposo canta in sua lode: «I suoi
occhi sono come colombe su ruscelli d’acqua, che si sono lavate nel latte e
si posano lungo i pieni ruscelli». E voi, dunque, lavate nel latte, cioè
splendenti del candore della castità, posatevi come colombe sulle rive di
questi fiumi e, in essi essendovi abbeverate della sapienza, possiate non
solo apprendere ma anche insegnare e, come occhi, mostrare agli altri la
via, e non solo possiate vedere lo Sposo ma anche descriverlo agli altri.
Sappiamo che della sua Sposa particolare, che meritò di concepire lo Sposo
con l’orecchio del cuore, sta scritto: «E Maria, da parte sua, custodiva
tutte queste parole e vi rifletteva in cuor suo». La madre del Verbo,
dunque, teneva le sue parole nel cuore piuttosto che sulle labbra, e vi
rifletteva attentamente, perché esaminava con cura ogni parola e le
confrontava tra loro, verificando quanto coerentemente si armonizzassero
l’una con l’altra. Sapeva che, secondo il mistero della legge, tutti gli
animali sono detti impuri, salvo quelli che ruminano e hanno l’unghia
divisa. Nessun’anima è, infatti, pura salvo quella che, meditando per quanto
le è possibile, rumina i precetti divini e acquisisce discernimento nel
metterli in pratica, non solo per compiere cose buone ma anche per compierle
bene, cioè con retta intenzione. Infatti la fessura dell’unghia del piede è
il discernimento dell’animo, del quale sta scritto: «Se offri giustamente,
ma non dividi giustamente, hai peccato».
[117] La Verità dice:
«Se uno mi ama, osserverà la mia parola». Ma chi potrà osservare obbediente
la parola o i precetti del Signore, se prima non li ha compresi? Nessuno
sarà zelante nel metterli in pratica, se non sarà stato attento ad
ascoltarli, come si legge anche della santa donna, che, messa da parte ogni
cosa, seduta ai piedi del Signore ascoltava la sua parola, certo con le
orecchie dell’intelligenza, che egli stesso richiede dicendo: «Chi ha
orecchie per intendere, intenda». E se non potete infiammarvi del fervore di
tale devozione, almeno imitate nell’amore e nello studio delle lettere le
sante discepole di san Gerolamo Paola e Eustochio, su richiesta delle quali,
soprattutto, il dottore ha illuminato la Chiesa con tanti scritti.
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26 marzo 2017 a cura
di Alberto "da Cormano"
alberto@ora-et-labora.net