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estratto da "Storia del cristianesimo: L’antichità" a cura di Giovanni Filoramo e Daniele Menozzi - Editori Laterza |
Dopo una marcia di avvicinamento dal Danubio alle Alpi orientali
cominciata nella primavera dell'anno precedente, nel corso del 569 dilagarono in
Italia i Longobardi. Varcato l’Isonzo e conquistate quasi senza incontrare
resistenza le città del Veneto e della Lombardia, gli invasori si spinsero al
sud giungendo sino a Benevento. In breve cadde sotto il loro controllo gran
parte della penisola italiana; restarono ai bizantini le isole, il mezzogiorno
calabro e pugliese, l’esarcato (cioè la striscia di territorio intorno a
Ravenna), e il ducato romano, che sembrò più volte sul punto di essere anch’esso
occupato, A differenza delle precedenti popolazioni germaniche stanziatesi in
Italia, i Longobardi non avevano avuto rapporti duraturi con l’impero; le loro
strutture sociali, politiche, militari e le loro forme di insediamento locale
ebbero con la realtà italiana un impatto assai più sconvolgente e
destrutturante. Anche sotto il profilo religioso l’invasione longobarda segnò
una maggiore rottura nella storia italiana. Gli invasori reintroducevano
l’arianesimo, da poco estinto con la fine della dominazione gotica: ma un
arianesimo più largamente commisto a credenze pagane, con una più forte
connotazione nazionale e una più radicata ostilità nei confronti del
cattolicesimo, religione dell'odiata romanità.
Non è lecito attribuire ai Longobardi un organico programma
anticattolico e una mirata manovra di proselitismo ariano. L’arianesimo fu la
confessione ufficiale della corte di Pavia (dove risiedette un vescovo ariano,
l’unico vescovo - si è congetturato - dell’’organizzazione ecclesiastica
ariana), ma non riuscì a radicarsi nei territori conquistati. I danni più gravi
per la confessione cattolica derivarono dalle distruzioni e dai saccheggi e,
più ancora, dalla decimazione della popolazione e, in particolare, dei ceti
dirigenti. Negli attacchi portati alle città furono distrutti chiese e
monasteri (anche quello fondato alcuni decenni prima da san Benedetto a
Montecassino), persero la vita preti e monaci. Il clero si assottigliò a tal
punto che divenne arduo selezionarvi vescovi di provata capacità e fu talvolta
impossibile garantire il culto nelle parrocchie. Cambiò perciò radicalmente il
quadro dell’Italia religiosa, non solo per le rinnovate tensioni confessionali
(tra gli invasori ariani e gli italiani cattolici, e anche all’interno dei
cattolici, divisi dallo scisma tricapitolino), ma anche perché, «distrutte e
spopolate le città, non poteva più esistere la vecchia religione tipicamente
urbana, dominata dalle classi medio-alte - quelle che da sempre esprimevano
vescovi e abati -, una religione del diritto e delle istituzioni, ma si apriva
l’era di una religione nelle campagne, una religione anarchica, ricreata da
personaggi periferici, marginali, ignoranti, poveri, perfino straccioni, insomma
una religione dei carismi personali e dello Spirito» (G. Cracco). È il quadro
che esce fuori dai
Dialogi di Gregorio Magno.
Ai papi che si succedettero negli anni dell’invasione i Longobardi,
prima ancora che un problema religioso con la reintrodotta confessione ariana,
posero un drammatico problema di sopravvivenza della città e delle sue
strutture civili non meno che religiose. Il ducato romano continuò a dipendere
dall’impero (fino alla metà del secolo Vili, quando scomparirà il
rappresentante bizantino), in realtà la tutela dell’esarca si esaurì
rapidamente all’arrivo degli invasori, dai quali a stento l’esercito bizantino
riuscì a salvare Ravenna, mentre nessuna assistenza fu possibile assicurare a
Roma. Giovanni III cercò aiuto contro le prime minacce longobarde rivolgendosi
al vecchio generale bizantino Narsete, il quale, pur essendo in rotta con il
governo imperiale, mosse da Napoli e venne a Roma. Governò la città per qualche
tempo; nel 571 vi morì, vecchissimo, seguito qualche anno dopo, nel 574, da
papa Giovanni. A questo succedette Benedetto I (575- 579). La morsa dei
Longobardi si era allentata dopo l’uccisione di re Alboino nel 572 e, due anni
dopo, del suo successore Clefi. Roma poté ricevere una nave di grano per
alleviare la terribile carestia che l’affliggeva. Ma la città tornò ad essere
crudelmente esposta e i Longobardi la stringevano nuovamente d’assedio quando
Benedetto morì, nel luglio 579. Il suo successore, Pelagio (579-590), di origine
gotica, cercò inutilmente aiuto presso i Franchi (primo episodio di una politica
di collaborazione che darà frutti nell’età carolingia), poi, nel 585, ebbe modo
di negoziare una tregua con il nuovo re longobardo Autari, senza riuscire,
tuttavia, a migliorare realmente le terribili condizioni della popolazione. In
una lettera scritta nel 584 a Gregorio, suo legato a Costantinopoli, egli
descrive angosciosamente da un lato le drammatiche condizioni di Roma e del
Lazio, indifesi di fronte agli attacchi longobardi, dall’altro
l'indisponibilità dell'esarca, «che ci ha fatto sapere di non potere far nulla
per noi, poiché non può neppure difendere il territorio di Ravenna».. Né
l’esarca poteva farsi carico dell’approvvigionamento della città, del pagamento
dei funzionari e dei soldati, dell’assistenza pubblica, del riscatto dei
prigionieri. Ricadevano così sul papa le responsabilità del governo e
dell'amministrazione, e Roma e i territori circostanti si trasformavano in
un’entità politica a sé stante, in uno «stato», del quale il pontefice si
avviava a diventare il sovrano di fatto. Questo processo prese forma con
Gregorio, il papa succeduto a Pelagio all’inizio del 590.
Gregorio nacque intorno al 540, a Roma, da una grande famiglia,
probabilmente legata alle più gloriose famiglie patrizie italiche come i Decii
e gli Anicii, e ricca di estese proprietà terriere nel Lazio e in Sicilia. Era
anche una famiglia «episcopale», come accade di trovarne con frequenza nei
secoli della tarda antichità, e di grandi tradizioni cristiane: vantava due
papi, Felice III, che Gregorio chiama
atavus,
e Agapito; la madre di Gregorio, dopo la morte del marito, e tre zie condussero
vita monastica. Prima di darsi alla vita religiosa maturò esperienze
amministrative e ricoperse cariche cittadine, forse di prefetto della città in
un periodo compreso fra il 572 e il 574. Poi, lasciata ogni carica, dopo lunga
riflessione si fece monaco e trasformò in un monastero intestato a sant'Andrea
la casa paterna, al
Clivus Scauri, sul Celio, dove
alcuni decenni prima papa Agapito aveva progettato con Cassiodoro (che ne dà
notizia nella prefazione delle
Institutiones)
di aprire una scuola di esegesi biblica. Non si è sicuri se egli abbia
personalmente assunto la direzione della comunità da lui fondata (i
Dialogi ne ricordano come abate un venerabile Valenzione,
chiamato a reggere la comunità dalla provincia Valeria), né sembra che vi sia
stata adottata - come a lungo si è favoleggiato - la regola benedettina. Stando
a una notizia del
Liber Pontificalis fu Benedetto
I a prelevarlo dal monastero di Sant’Andrea e ad avviarlo alla carriera
ecclesiastica ordinandolo diacono. Pelagio II nel 579 lo inviò come suo
apocrisario a Costantinopoli. Qui Gregorio rimase alcuni anni, fino alla fine
del 585 o all’inizio del 586, svolgendo una preziosa azione diplomatica, volta
soprattutto a richiamare l’imperatore Maurizio a un maggiore interesse per la
situazione italiana, difendendo le posizioni dottrinali della chiesa contro
nuove dottrine (come quella del patriarca bizantino Eutichio sulla resurrezione
dei corpi) e attendendo alla redazione di opere importanti, come i
Moralia in Iob. Tornato a Roma, svolse le funzioni di
segretario del papa e per lui redasse documenti di rilievo, per esempio sulla
questione dei Tre capitoli, che ancora opponeva alcune chiese a Roma.
Nel febbraio 590 Pelagio II moriva di peste. Il popolo reclamò ed elesse
il diacono Gregorio, ma egli riluttò a lungo, cercò di convincere l’imperatore
Maurizio (al quale una tradizione consolidata attribuiva la conferma del
pontefice eletto) a respingere l’indicazione popolare e solo dopo sei mesi di
vacanza del seggio pontificio, nel settembre, si piegò ad accettare il grave
compito. Non si trattava di un
cliché,
del rifiuto che quasi immancabilmente gli agiografi attribuiscono ai vescovi di
cui celebrano le gesta per esaltarne la santa umiltà. Gregorio avrà sempre,
durante tutto il suo pontificato, la coscienza di operare in un mondo tragico e
di vivere l’agonia di una civiltà secolare; egli nutrirà sempre un desiderio
profondo di solitudine e di ritiro spirituale, tanto più acuto quanto più
avvertirà l’angoscia di una responsabilità schiacciante. La sua stessa salute,
malferma e più volte minacciata da gravi malattie, ne limitava l’azione e
fiaccava le resistenze. La città che egli si apprestava a governare non era più
né la Roma di Damaso, avviata a diventare la capitale cristiana dell’impero e
sede del primo tra i vescovi e successore di Pietro dalla
concordia apostolorum e dalla riscoperta dei suoi
innumerevoli martiri, né la Roma di Leone Magno, gloriosa di monumenti
cristiani e ancora centro della cristianità. Aveva subito quattro assedi; la
peste aveva decimato ripetutamente la popolazione; gli assalti dei Goti
avevano distrutto monumenti prestigiosi e devastato interi quartieri; delle
grandi famiglie che facevano ancora la storia della città nell’età di Teoderico
e di Cassiodoro restavano pochi discendenti, impoveriti e socialmente
declassati. Nelle
Omelie su Ezechiele,
pronunziate nella
basilica lateranense tra la fine del 593 e i primi mesi del 594, mentre
incombeva la minaccia del quinto assedio ad opera degli eserciti di Agilulfo,
Gregorio disegna il quadro di questa Roma umiliata e devastata, che «diventa
sempre più calva come un’aquila che ha perduto le piume», perché ha perduto il
suo popolo, e che non ha più penne alle ali, «perché sono scomparsi tutti i
suoi potenti». «Dov’è il senato? Dov’è il popolo? Tutto il fasto delle dignità
secolari è estinto... Il senato è assente, il popolo è perito, Roma è vuota e
brucia». La profezia di Ezechiele, nata nella cattività di Babilonia, viene
letta alla luce delle sciagure di Roma e il popolo romano, abbandonato da
tutti, è come il nuovo Israele. «Le nostre tribolazioni sono cresciute oltre
ogni misura. Siamo circondati da ogni parte dalle spade; temiamo da ogni parte
imminente il pericolo della morte»: così si chiude l’ultimo capitolo delle
Omelie, definito da taluni l'elogio funebre di Roma. E
tuttavia quest’uomo debole e angosciato riuscì a svolgere nei quindici anni del
suo pontificato un’opera di eccezionale ampiezza e novità, caricandosi di una
somma enorme di nuovi compiti. Il suo continuo, decisivo contributo
all’amministrazione della città e alla gestione politica fece sì che alla sua
morte il ruolo del pontefice romano si configurasse come quello di sovrano di
un nuovo «stato pontificio»; i suoi interventi nelle questioni più vitali della
società del suo tempo, della chiesa, della dottrina cristiana non solo gli sono
valsi l’appellativo di «grande», ma gli hanno attribuito nei secoli, forse più
che a ogni altro papa, l’immagine del pontefice ideale, custode e difensore del
suo popolo, della chiesa, della fede.
Nella mole enorme di incombenze che gravarono su Gregorio dal giorno
dell’acclamazione popolare, quelle di più bruciante e continuata urgenza furono
provocate sicuramente dall’occupazione longobarda e dalla minaccia che essa
portava alla sopravvivenza stessa delle popolazioni. Per risolvere questi
problemi drammatici il papa non esitò ad assumersi responsabilità militari e
politiche, si occupò di eserciti, di approvvigionamenti, di fuggiaschi, di
riscatti. Nel
595, quando il
duca di Spoleto, Ariulfo, premendo a nord di Roma interruppe le comunicazioni
con Ravenna, Gregorio prima tentò una difesa militare del territorio romano,
poi si risolse a intavolare trattative con lui e patteggiò, anche a nome
dell’imperatore, la ritirata longobarda in cambio di un forte pagamento.
L’intervento fu malvisto dalla parte bizantina e giudicato addirittura come un
tradimento. Gregorio reagì con sdegno: «Offesa gravissima essere ritenuto
colpevole di inganno per colui che serve la verità». Ma la mossa era
sicuramente spregiudicata e apriva la via a una politica di mediazione, alla
quale da allora il papa attese con tenacia. Dopo questa crisi del 595 nei
rapporti con l’impero, Gregorio accentuò l’azione diplomatica e missionaria
nell’Occidente, come prova l’accresciuta frequenza delle sue lettere ai sovrani
occidentali. Quando Agilulfo tornò a minacciare Roma, ottenne che l’assedio
fosse tolto in cambio di un’imposta annua in oro e su questa base nel 598 lo
stesso esarca stipulò una tregua con il re longobardo. Agilulfo veniva
attirato in un processo di distensione, che preludeva alla cosiddetta
«conversione» dei Longobardi, anche se questa, in realtà, non si tradusse mai in
un passaggio «nazionale» e definitivo alla fede cattolica, come, per esempio,
quello dei Franchi, e in una piena integrazione religiosa. Sul trono pavese si
sarebbero alternati re ariani e cattolici, vescovi ariani sarebbero rimasti in
molte città, l’arianesimo avrebbe continuato a sostenere la coscienza
dell’identità nazionale longobarda. Ma Gregorio e Agilulfo inaugurarono una
linea nuova, di non ostilità e di fattiva coesistenza. Il figlio di Agilulfo e
della cattolica Teodolinda, Adaloaldo, ebbe il battesimo cattolico; fu
consentito all’irlandese Colombano di erigere a Bobbio quel monastero che
sarebbe diventato un grande centro culturale ed economico; fu gradualmente
reintegrato il patrimonio ecclesiastico cattolico nei territori occupati dai
Longobardi e si lasciò libertà di azione ai vescovi cattolici; mutò
l’atteggiamento della corte nei confronti dei Tre capitoli; non furono
scongiurate del tutto le incursioni, ma la loro minaccia si diradò, si
attenuarono le offese più disordinate e violente nei confronti della
popolazione italiana. E indicativo del progressivo instaurarsi di un clima di
tranquillità il fatto che, mentre nel 592 il papa alludeva al duca di Benevento,
Arechi, come a un nemico astuto e perverso, identificato - con un meccanismo di
sovrapposizione concettuale non infrequente negli scritti di Gregorio - con
l’antico nemico, il diavolo, alcuni anni dopo, nell’autunno del 598, chiedesse
al medesimo duca di mettergli a disposizione uomini e buoi per trasportare
dalla Calabria a Roma i travi necessari alla riparazione delle chiese di San
Pietro e San Paolo.
A spingere Gregorio a questa politica di accordi furono la
sollecitudine per il suo popolo e la convinzione che ogni accordo non avrebbe
retto se gli invasori non avessero sposato la fede cattolica; forse, come si è
ritenuto, talvolta poté agire in lui l’aspirazione a diventare il pastore
dell’Occidente barbarico per sfuggire al cesaropapismo bizantino. Ma
sicuramente ci fu anche una diversa, superiore concezione storica e religiosa,
una prospettiva escatologica che faceva posto anche ai barbari nel disegno
provvidenziale della storia e imponeva di guardare a loro con occhi nuovi:
anche noi fummo pagani, si legge più volte nelle
Omelie su
Ezechiele, «anche noi nei nostri antenati fummo cultori degli
idoli, ma ecco che in virtù dello spirito della grazia ora ricerchiamo le
parole celesti». Alla sua alta visione religiosa ed escatologica, alla sua
«teologia politica», Gregorio non concede molto spazio nei suoi scritti, ma essa
ne emerge con chiarezza e appare presiedere, pur nel concreto e minuto ordito
degli atti e delle risoluzioni, ai disegni politici del papa. Egli non cessò
mai di considerarsi un cittadino della
Res publica Christiana, e dunque dell’impero,
di cui non rinnega in nessun caso i valori: «Questa differenza passa tra i re
dei barbari e l’imperatore dei Romani, che i re dei barbari sono signori di
schiavi, l’imperatore dei Romani invece è signore di uomini liberi». Senza
teorizzare la subordinazione dello stato alla chiesa, sostenne il primato dello
spirituale sul temporale e nel contempo giudicò complementari i due poteri e
ne postulò la cooperazione non solo in virtù della compatibilità degli scopi,
ma anche dell’analogia dell’operato. I paralleli tra il principe e il sacerdote
sono frequenti nei suoi scritti; l’uno e l’altro saranno chiamati a rendere
conto della propria opera nel giorno del giudizio, l’uno e l’altro collaborano
all’attuazione dei piani misteriosi di Dio.
Il
problema
politico più grave era - come abbiamo detto - quello dei Longobardi. Dall’altra
parte Gregorio doveva tener conto della politica dell’impero, dell’operato
dell’esarca di Ravenna, degli strateghi bizantini presenti nelle regioni
italiane. Altro impegno di grande portata erano i rapporti con i regni
romano-barbarici della Gallia e della penisola iberica. La linea operativa che
Gregorio perseguì su questi tre fronti fu di cercare continuamente (lo abbiamo
visto) l’accordo con i Longobardi, di promuovere i negoziati tra questi e
Bisanzio, di incoraggiare la conversione delle popolazioni germaniche al
cattolicesimo. Di questo operato costante e tenace danno testimonianza le
numerose lettere scritte da Gregorio all’imperatore, al re e ai duchi
longobardi, ai sovrani germanici sulle questioni più disparate, quelle che di
volta in volta proponevano le urgenze della realtà storica: dai grandi temi
della pace, dei negoziati ai livelli di vertice, delle grandi linee della
politica ecclesiastica, ai minuti problemi delle diocesi, alle petizioni, alle
richieste di soccorso. Si rivolse anche alle regine del tempo, alle imperatrici
Costantina, moglie di Maurizio (conosciuta personalmente al tempo in cui era
apocrisario a Bisanzio), e Leonzia, moglie di Foca, e alle sovrane dei regni
romano-barbarici (una prassi, in quest’ultimo caso, assolutamente inconsueta),
come la regina degli Angli, Berta, la merovingia Brunilde e la longobarda
Teodolinda. Con queste due ultime, soprattutto, le lettere del papa affrontano
temi di politica generale o ecclesiastica, come l’opera pacificatrice svolta
dalla regina Teodolinda, la difesa dell’ortodossia, la richiesta, indirizzata a
Brunilde, di appoggio alla missione evangelizzatrice in Inghilterra.
Non meno continuo fu l'impegno posto da Gregorio nella riorganizzazione
della chiesa, nel suo consolidamento economico, nel riassetto amministrativo. La
ricchezza patrimoniale ecclesiastica, sia quella sottoposta direttamente al
controllo di Roma, sia quella gestita dai vari vescovadi, era cresciuta nei
secoli precedenti in misura imponente e specialmente attorno alle chiese
metropolitane si era creata una fitta rete di interessi economici. Ricchissima
era diventata la chiesa ravennate dopo avere incorporato i beni delle chiese
ariane protette da Teoderico, al punto da allestire una flotta commerciale
propria per gestire i traffici con i suoi innumerevoli possedimenti dall'Istria
alla Sicilia. Il fondo patrimoniale romano,
patrimonium
sancii Vetri, secondo una nozione già corrente in questa età -
costituiva una somma ingente di latifondi, dalla Gallia meridionale alla Sicilia
e all’Africa, e la sua gestione mobilitava in apposite carriere, come era
avvenuto per i latifondi imperiali, un esercito di
conductores,
di funzionari, di scribi. A reggere questi patrimoni furono chiamati uomini
fidati (l’esempio più continuo è quello del suddiacono Pietro, nominato rettore
del patrimonio siciliano nel 590, appena Gregorio era salito sul trono
pontificio), ai quali venne accordato un potere amplissimo, non escluso quello
di controllare gli stessi vescovi, ma sui quali il papa esercitò a sua volta un
rigido controllo, rivedendo annualmente i conti, dando puntualmente istruzioni,
non tralasciando di intervenire anche sui particolari della gestione e sui più
minuti meccanismi produttivi. L’attenzione maggiore venne riservata al sud (come
mostra inequivocabilmente il ricco epistolario gregoriano, nel quale è la
testimonianza più puntuale dell’applicazione infaticabile del papa
all’amministrazione del patrimonio ecclesiastico; in esso è ben più fitto e
continuo il manipolo di lettere indirizzate a vescovi, funzionari pubblici,
aristocrazie cittadine, chierici del mezzogiorno), sia perché i rapporti
patrimoniali con le chiese della Gallia, dell’Italia annonaria, di Ravenna erano
resi difficili dai regimi politici e dalle rivendicazioni autonomistiche (per
esempio del vescovo di Ravenna), sia perché i
patrimonia della Sicilia (i più cospicui tra tutti,
assommanti a un diciannovesimo della superficie dell’isola), della Sardegna,
della Corsica e, sul continente, della Calabria e della Campania, erano
indispensabili per Roma e al grano e alle derrate provenienti da quelle regioni
era affidata la sopravvivenza della sua popolazione. Queste proprietà fondiarie
erano la base dell’azione politica del papa. Le ricchezze che esse producevano
da un canto - mediante l’oculata circolazione delle terre date in affitto,
l’erogazione di sussidi e di prestiti, l’approvvigionamento delle popolazioni,
il sostegno dato alle aristocrazie e al clero - radicavano l’operato di
Gregorio nelle realtà locali, da un altro canto sovvenzionavano i progetti più
ampi, gli interventi a favore di popolazioni lontane, il mantenimento degli
eserciti e dell’amministrazione, le relazioni con i principi e i sovrani
germanici e con l’impero: erano, insomma, gli strumenti della grande politica
(né a Gregorio mancò la sicura consapevolezza della connessione e interazione
tra i più umili e concreti meccanismi produttivi e i disegni più vasti ed
elevati).
L’operato di Gregorio incise in modo duraturo anche in molti altri
campi. Il papa intervenne con equilibrio, spesso con sapiente gradualismo,
sugli innumerevoli problemi che i mutamenti politici e sociali del tempo
(specialmente in seguito alla «rottura» longobarda) proponevano o riproponevano
in modo nuovo, dalla convivenza con gli ebrei alle sopravvivenze pagane nelle
campagne, dal culto delle immagini a quello delle reliquie, dal reclutamento
del clero al miglioramento del suo livello morale, dalle molte questioni
relative alla vita monastica alla riconversione cristiana dei santuari pagani:
un’attività instancabile, che il massiccio epistolario del papa descrive con
preziosa puntualità. Né fu minore il suo contributo alla cultura cristiana ed
ecclesiastica.
I
suoi scritti, per
i quali è stato giudicato «l’ultimo grande rappresentante della patristica
latina», comprendono opere di esegesi testamentaria (come i
Moralia in Job, 35 libri a commento dei 42 capitoli del
libro di Giobbe, che costituiscono la sua opera più vasta e di più alta
dottrina, e alcune raccolte di omelie a commento dei vangeli, del libro
profetico di Ezechiele, del
Cantico dei cantici); il
Liber Regulae Pastoralis, uno scritto di alta riflessione
sulla dignità episcopale e i suoi obblighi; l’imponente
Registrum epistularum (quattordici libri per un complesso
di oltre 800 lettere), testimonianza eccezionale dell’operato di Gregorio e dei
suoi tempi, e infine i
Dialogi, racconti in quattro
libri delle gesta miracolose di santi italiani, strutturati a forma di dialogo
tra Gregorio e il suo amico Pietro, costruiti con un così scoperto ricorso
all’affabulazione e al meraviglioso e con uno stile così popolareggiante da
essere ritenuti, come abbiamo già detto, inautentici.
La grandezza storica di Gregorio e del suo pontificato non fu sempre
riconosciuta nella tradizione antica. Alcuni accenni del
Liber Pontificalis hanno fatto sospettare che alla morte
del papa la sua memoria sia stata attaccata dal clero romano, risentito per
l’introduzione di monaci nella curia papale, né è senza significato il silenzio
che a Roma sembra avvolgere il papa fino al secolo IX. Ma altrove i suoi scritti
furono presto circondati di grande rispetto, furono cercati e trascritti con
zelo, come nella Spagna e in Inghilterra; alcuni furono tradotti in greco. Le
biografie altomedievali che gli furono dedicate e i giudizi di storici come
Paolo Diacono, l’autore della
Historia
Langobardorum, e Beda, l’autore della
Historia
ecclesiastica gentis Anglorum, ne disegnarono un alto profilo di
santo e grande evangelizzatore. I moderni, dall’antiquaria settecentesca
all’Illuminismo, dalla stagione fervida dello storicismo alle variegate correnti
storiografiche del nostro secolo, hanno tutti - anche quelli meno disposti, per
consuetudine di metodo o per opzione ideologica, a intendere il medioevo nelle
sue grandi idealità politiche e religiose - collocato Gregorio Magno a capo sia
del lento cammino dell’Europa delle nazioni, sia dell’universalismo medievale e
hanno concordemente riconosciuto il significato epocale del suo pontificato.
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4 luglio 2013 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net