Specie e forme della condizione

 

monastica

di Salvatore Pricoco

Estratto daIl monachesimo -  Editori Laterza

Paolo Uccello, Episodi di vite di eremiti (Tebaide)


Monastero di Montecassino in un'antica stampa

 

 

1. Le specie monastiche

Eremitismo e cenobitismo sono, come si è già avuto modo di dire, le due forme principali della vita monastica. Forma originaria, e caratteristica primaria del monachesimo universale, da quello indiano, bramanico o buddista a quello cristiano, suole essere considerata la condizione dell’asceta che vuole vivere 'solo’, celibe e libero da ogni coinvolgimento nella società, fisicamente distaccato da ciò a cui rinuncia. A essa si suole dare il nome di anacoretismo (dal termine greco anachòresis, che propriamente è il trasferirsi da luoghi abitati nella solitudine della chòra> il territorio extra-urbano), o di eremitismo (dai vocaboli greci eremìtes e erèmos, entrati nell’uso monastico solo attraverso l’uso latino). Il cenobitismo (dal greco koinòs bìos, «vita comune») è il genere di vita religiosa di coloro che vivono insieme, raccolti in un medesimo luogo e praticando un analogo regime di vita. L’ascetismo solitario può atteggiarsi in maniera diversa: può essere stanziale o itinerante, può tradursi in solitudine completa, quella dell’eremita che rifugge da ogni compagnia, o parziale, quella dell’asceta al quale si affianca un giovane discepolo o un minuscolo gruppo di seguaci. Il distacco può anche volere essere il più radicale possibile e tradursi in xenitèia, cioè nella scelta di un paese nel quale l’asceta viva da straniero.

La nozione di unità e solitudine originariamente presente nel termine «monaco» (dal greco mònos, «solo», ma anche «uno»; lat. solus e unus) ha dato lo spunto per un’interpretazione delle origini del monachesimo cristiano e della sua prima fenomenologia. Il monaco è colui che impronta la sua vita all’unità, consacrandola interamente al servizio di Dio. E colui che non ha l’anima «doppia», ma ha come vuole la Bibbia un unico cuore, poiché non si impegna in più attività. E colui che evita ogni molteplicità e dispersione, poiché tende secondo una dottrina di origine ellenica, platonica, neoplatonica e largamente sviluppata nella gnosi a unirsi all’Uno. Dalla ricerca dell’unità deriva il primo e ineludibile requisito della condizione monastica, cioè il celibato, che, affrancando da obblighi verso la famiglia, assicura l’amerimnìa, cioè l’assenza di cure e preoccupazioni quotidiane. Dallo stato celibatario e dall’amerimnìa che ne è il frutto discendono gli altri fondamentali caratteri, l’anachòresis e l’apotaghè o apòtaxis, la «rinunzia», cioè la pratica di quelle forme di vita ascetica che favoriscono la concentrazione e proteggono dalla dispersione delle forze mentali e spirituali.

I primi teorici della vita monastica in particolare Basilio, il grande vescovo di Cesarea autore, accanto alle opere teologiche, anche di fondamentali scritti monastici, ed Evagrio Pontico, i cui trattati avrebbero avuto grande influenza prima che egli venisse sconfessato per i suoi debiti verso il pensiero di Origene indicarono le radici di questa dottrina nella Sacra Scrittura, nel Vecchio come nel Nuovo Testamento. Con radicale forzatura Basilio interpreta in senso monastico l’avvertimento rivolto in Geremia (16,1-4) al profeta a non prendere moglie né generare figli, perché essi periranno di morte straziante e non saranno né compianti né sepolti. San Paolo nella Prima lettera ai Corinzi (7, 32-33), pur concedendo che ricorrano al matrimonio coloro che non riescano a vivere in continenza, esalta il celibato, che mantiene amerìmnoi, sine sollicitudine, «liberi da preoccupazioni» per le cose del mondo e solleciti solo delle cose del Signore. I discepoli di Paolo, coloro che mettendone in pratica gli insegnamenti seppero vivere in castità, solleciti solo delle cose del Signore, avrebbero così messo in pratica un ideale ascetico e monastico, compiutamente e ripetutamente delineato nella Bibbia e congenito dunque alla «essenza del cristianesimo».

Secondo alcuni antichi scrittori cristiani la forma originaria dell’esperienza monastica è quella cenobitica e nasce con il cristianesimo stesso. Essi si rifanno al racconto degli Atti degli Apostoli (4, 32), secondo il quale i primi cristiani raccoltisi a Gerusalemme, dopo la morte di Gesù, misero in comune i loro beni e vissero insieme sotto la guida di san Pietro, realizzando così la prima e perfetta forma di vita monastica. Nell’Occidente questa dottrina fu sostenuta da san Gerolamo e da sant’Agostino, ripetutamente e più riccamente da Cassiano. Questi, muovendo da altri passi degli Atti (15,1 sgg. : sulle controversie nate a Gerusalemme e ad Antiochia riguardo alla circoncisione e sull’allargamento della Chiesa ai Gentili), volle spiegare l’origine delle varie forme di monachesimo dei suoi tempi, ben lontane dall’originaria perfezione apostolica, e sostenne che, quando la fede aveva preso a declinare e i costumi a decadere, i cristiani più retti e devoti si erano sottratti al contagio della massa, appartandosi in luoghi solitari, lontano dalle città, e dando così vita, a imitazione dell’antica comunità gerosolimitana, al monachesimo cenobita. Da questo poi, assai più tardi, con l’abate Paolo e con Antonio, sarebbero derivate una seconda specie di santi, quella degli anacoreti, come fiori e frutti da una radice fecondissima, ma anche, degenerando, una terza specie di monaci, quella dei sarabaiti, infedele e malvagia, che volge al male la professione monastica e rinverdisce la mala pianta di Anania e Safira, recisa al tempo degli Apostoli dalla severità di Pietro.

L’interpretazione cassianea dell’antica storia monastica come un susseguirsi di fasi degenerative rispetto al modello gerosolimitano e di reazioni volte a recuperare quel modello ebbe immensa fortuna nella tradizione medievale, costantemente segnata dalla nostalgia delle origini, e la sua distinzione di tre tipi di monaci, che già Gerolamo aveva delineato nella celebre lettera 22, a Eustochio, fu accolta dal Maestro e da Benedetto, nel capitolo iniziale delle loro regole. I tipi di monaci diventano quattro, due legittimi, anacoreti e cenobiti, due condannabili e detestabili, girovaghi e sarabaiti. Di fatto i due legislatori predicano senza riserve il primato dei cenobiti, il «fortissimo genere di quelli che vivono nella comunità», che si sostengono e si controllano gli uni con gli altri.

Il genere degli anacoreti, «che vivono in solitudine nei deserti», è un genere di vita altissimo, il culmine della ascesi cristiana, ma quasi inattingibile per le difficoltà che presenta e i rischi a cui espone. Gli altri due generi sono fatti di monaci indegni, impostori, insofferenti di qualunque disciplina, sempre in giro a lucrare favori e scroccare elemosine. E lunga e irridente la polemica del Maestro nei confronti di gyrovagi e sarabaitae, cioè di monaci peregrini; è rapida ma non meno perentoria la condanna di Benedetto.

Attraverso una complessa evoluzione istituzionale e ideologica, che da Pacomio conduce a Benedetto, si precisano i modelli della vita monastica e il loro fondamento normativo: la condanna di ogni forma di monachesimo non regolare, l’accettazione teorica del modello eremitico ma la sua reale rimozione, il primato della vita cenobitica, garantita dalla stabilitas, cioè dalla permanenza a vita nel medesimo monastero, e dalla irrevocabilità del voto monastico. Ma prima che si arrivi a un’osservanza generalizzata e ispirata ad analoghe norme di condotta le situazioni permangono per secoli estremamente frazionate e diverse. E sempre, accanto all’istituzione cenobitica o in opposizione a essa, resteranno forme di ascetismo solitario, spontaneo, carismatico, a volte riconosciuto e accettato come forma ‘altra’, più spesso rifiutato e combattuto come eslege, destabilizzante o, addirittura, eretico.

 

2. L’eremitismo

L’istanza eremitica è una componente perenne del monachesimo, in tutte le religioni. Dialetticamente opposta al bisogno della koinonìa, della vita trascorsa in una struttura comunitaria dalla quale trarre norme e sostegno per il perfezionamento spirituale, nasce dal bisogno di sentirsi liberi e ‘soli’ per realizzare quel perfezionamento. Essa si manifesta tanto più forte e rifiorente quanto più viene avvertita l’esigenza di reagire contro l’irrigidirsi dell’esperienza monastica in forme convenzionali o il suo decadere per la corruzione dei costumi e la perdita dei primitivi ideali. Nella tradizione cristiana sono innumerevoli i sostenitori dell’una forma contro l’altra. I fautori della vita cenobitica sottolineano i rischi della solitudine, gli eccessi dell’orgoglio e del fanatismo ascetico ai quali essa può condurre; gli altri allertano sulla pigrizia spirituale e lo smarrimento di ogni ideale tensione che facilmente si originano dalle troppe comodità e mediocrità della condizione cenobitica. In effetti è accaduto spesso che le effervescenze carismatiche del monachesimo trovassero sbocco in iniziative di tipo anacoretico, e che proprio quei monaci che si sentivano investiti di una speciale missione e perciò bisognosi di libertà e mobilità lasciassero il convento e scegliessero forme di vita solitaria.

Nella storia religiosa dell’Europa ci sono stati momenti nei quali l’inquietudine sociale e l’ansia di rinnovamento spirituale hanno fatto dell’eremitismo una vera e propria alternativa al cenobitismo. Uno di essi è rappresentato dai secoli XI-XII, quando alla crisi dell’economia feudale e al rifiorire di quella cittadina si accompagnò, assieme alle sempre più pressanti istanze di riforme religiose e di ritorno all’evangelismo monastico, la crisi della forma cenobitica. L’esistenza di solitari che si sono allontanati dalla famiglia o dal cenobio, talvolta dal clero secolare, per vivere nei boschi viene segnalata in tutto l’alto Medioevo. All’inizio del V secolo nel nascente cenobio di Lérins, come testimonia Eucherio nel suo Elogio dell'eremo, abitavano in disparte dalla comunità i solitari che volevano vivere secondo i costumi degli Aegyptii patres. Nel secolo successivo la comunità fondata da Cassiodoro a Squillace prevedeva nella parte più alta del colle sul quale sorgeva il cenobio un sito riservato agli eremiti. Nel secolo XI e, più ancora, nel XII, il fenomeno dilaga. Nelle Fiandre e nella Francia le masse popolari sono infiammate dalla predicazione degli ‘uomini santi’, che indossano tuniche di pelle, si nutrono di erbe e di radici, e predicano la fuga dal mondo come unico rimedio all’oppressione dei poteri politici e alla corruzione di quelli ecclesiastici.

L’Italia ha avuto grandi figure di eremiti, come il ravennate san Romualdo (m. 1027), il quale, dopo anni passati in convento, a Ravenna e a Cuxà, sui Pirenei, deluso dell’allentata disciplina cenobitica, rinunziò alla carica di abate e andò peregrinando per l’Italia centrale, nelle Marche e in Romagna. O come Bruno, nato a Colonia e per anni maestro nella scuola di Reims, il quale nel 1084 fondò un eremo destinato a grande sviluppo nella valle della Chartreuse, vicino Grenoble, e pochi anni dopo, nel 1091, si ritirò sulle Serre calabresi, nelle estreme propaggini meridionali dell’Appennino, a cavallo tra Ionio e Tirreno. Anche san Francesco previde per i suoi confratelli la possibilità di condurre vita eremitica e compilò per loro una rapida raccolta di norme, De religiosa habitatione in eremo.

I modelli orientali, mai dimenticati, esercitano attrazione crescente. Come al tempo degli antichi eroi del deserto, anche ora gli eremiti più venerati sono quelli nei quali appaiono più marcate la spiritualità del penitente e le rinunzie dell’asceta. Più ancora dell’antico, questo nuovo eremitismo è contrassegnato da forme radicali di deprezzamento delle realtà terrestri, da una visione teocentrica del mondo che si traduce in escatologismo apocalittico, da un ascetismo spinto fino alla sordidezza e alla mortificazione umiliante. Tuttavia, assai spesso accade che questi convintissimi zelatori della vita ascetica e contemplativa si preoccupino dell’altrui oltre che della propria salvezza, conducano vita di attivo apostolato soccorrendo i viaggiatori, i poveri, i reclusi, si spostino in paesi anche lontani per predicare: sarà un eremita, è noto a tutti, a bandire la prima Crociata.

Per queste ragioni non raramente nell’esperienza eremitica il momento individuale ha breve durata. Quanto più appare santo e venerabile, tanto più l’asceta solitario attira devoti e aspiranti, li riunisce attorno a sé, dà vita a una nuova fondazione monastica, riconduce, cioè, a forme di vita cenobitica. Fondazioni eremitiche come quelle di Camaldoli e di Vallombrosa associano forme di eremitismo e cenobitismo e nuovamente, come a Lérins o a Squillace, prevedono la compresenza di monaci che dimorano e lavorano insieme e di solitari che vivono in una completa segregazione, interrotta solo dall’obbligo di consumare i pasti in comune. Camaldoli, nei pressi di Arezzo, fu installata da san Romualdo, che fondò o            riformò numerose altre comunità, nelle quali volle che fosse prevalente su quella cenobitica la struttura eremitica, al punto da stabilire che l’unico superiore della comunità risiedesse fra gli eremiti, non nel cenobio. Vallombrosa, nel comune di Reggello presso Firenze, fu fondata dal fiorentino Giovanni Gualberto (m. 1073), anch’egli pellegrino dopo anni di deludente vita cenobitica e anch’egli fattosi fondatore di nuove comunità con il progetto di ritornare alla spiritualità e ai costumi degli antichi solitari.

Una fondazione eremitica che si è tramutata in un vero e proprio Ordine monastico, quello dei Certosini, e che ha segnato per secoli la storia del monachesimo europeo, fu la Chartreuse fondata da san Bruno, nella quale sia il fondatore sia i suoi successori cercarono di tutelare le esigenze di solitudine e libertà spirituale proprie dell’opzione eremitica, pur mantenendo i princìpi fondamentali della koinonìa cenobitica, cioè la stabilità del monaco e la sua piena sottomissione all’autorità del priore. Il monaco certosino dispone di una cella individuale, nella quale resta chiuso l’intera giornata; in essa legge, prega, medita, e non ne esce neppure ai pasti, ma solo per l’ufficio divino. Non era soltanto una modificazione delle strutture abitative del cenobio, volta a realizzare il passaggio dal dormitorio comune e dal grande refettorio alla celletta singola, ma una grande riforma del costume monastico, orientata alla riconquista di una religiosità personale e fondata sul concetto che importanti fossero, nella via della salvezza, non l’osservanza delle liturgie e la pratica rituale, ma il colloquio e il contatto spirituale con il divino.

Anche nei secoli successivi, nel XIV e nell’età rinascimentale, l’eremitismo si mantenne vivace in tutto l’Occidente, dove si moltiplicarono i piccoli eremi, disseminati nelle foreste, sulle montagne, nelle isole. Fiorirono numerosi in Spagna, nella Navarra, nella Catalogna a Montserrat, dove si ritirerà ai tempi della conversione Ignazio di Loyola. Scompariranno, invece, a partire dal secolo XVI nelle regioni passate al protestantesimo. Ma anche altrove contro la vocazione eremitica congiureranno le istanze proprie della società moderna e della civiltà industriale, il razionalismo e il pragmatismo, il legalismo giuridico, i nuovi assetti del territorio. Senza dimenticare la sfiducia della stessa Chiesa, che all’eremitismo ha guardato sempre con sospetto. Fin dall’antichità i concili provinciali intervennero per limitare e controllare la libertà degli eremiti e, quando non la vietarono, le opposero cautele e impedimenti vari. Ai monaci non fu permesso di ritirarsi in un eremo se non dopo avere vissuto per anni nella comunità; il permesso fu in genere accordato solo ai monaci di provata virtù e di età avanzata («giovane monaco, vecchio diavolo», recitava un adagio popolare); anche gli eremiti restavano sotto la giurisdizione dell’abate. Quando l’aspirante alla vita solitaria era un laico, la legislazione canonica gli imponeva di chiedere l’autorizzazione al vescovo della diocesi, la quale gli conferiva una sorta di tutela ecclesiastica. Senza di essa l’eremita restava sottomesso alla giurisdizione civile, tendente a considerarlo uno sbandato e un asociale. Non raramente i vescovi si rifiutavano di ammettere eremiti nelle loro diocesi. Più volte, nei momenti di più vivace efflorescenza, sono intervenuti i papi. Nel 1256 Alessandro VI riunì un gran numero di piccoli gruppi di carattere eremitico nell’Ordine degli Eremiti di sant’Agostino, che si diffuse in tutta l’Europa ma andò cancellando rapidamente gli originari caratteri eremitici dei gruppi. Nel 1748 il papa Benedetto XIV dedicava agli eremiti un capitolo del rinnovato trattato di diritto canonico, riorganizzando sotto il controllo rigoroso dell’autorità ecclesiastica i gruppi esistenti, ma senza prevedere l’eventualità di nuove aggregazioni. Il Corpus canonico del 1917 considera e regolamenta solo le forme comunitarie della vita religiosa, mentre vi sono ignorati ed esclusi gli eremiti.

Anche per questo, per anni l’eremitismo è sembrato definitivamente scomparso dalla scena religiosa dell’Occidente, e solo negli ultimi tempi, dopo il concilio Vaticano II, ha dato segni di risveglio. I canonisti gli hanno ridato attenzione, ma il riconoscimento ecclesiastico si è risolto solo in una particolare forma di esclaustrazione, ad nutum Sanctae Sedis, cioè nel permesso, accordato dall’autorità ecclesiastica per un tempo limitato, di lasciare il cenobio e vivere in segregazione.

 

3. Il cenobitismo

Interrotta, come abbiamo visto, da periodi di forti rinascenze anacoretiche, è costante nella storia del monachesimo la tendenza ad accentuare le forme comunitarie a spese degli spazi di libertà individuale. La compressione dell’individuo dentro il comportamento regolare è il fondamento della vita cenobitica. L’asceta è custos sui ipsius e per sua vocazione tende a concentrarsi sulla sua personale salvezza, ma accetta l’onere della vita in comune per evitare pericoli e rigori che la solitudine può causargli in misura superiore alle sue forze. In ogni religione i legislatori più saggi sono stati quelli che hanno curato l’equilibrio delle due esigenze; l’eccesso patologico si è avuto con le legislazioni che hanno preteso di immischiarsi nei più minuti dettagli della condizione monastica e hanno condotto alla sclerosi conformista. Il monachesimo buddista e quello cristiano hanno corso spesso questo rischio, il secondo più del primo. Soprattutto nel Tibet, ma ovunque si sia ‘clericalizzato’, il buddismo ha elaborato regole minuziose per i suoi monaci, impigliandosi specialmente nella difficoltà di trovare l’equilibrio fra la tendenza speculativa e quella pratica. Questa difficoltà è stata forte anche nei monasteri cristiani, particolarmente quando, nel periodo della Scolastica, i religiosi si accostarono in gran numero alla pratica delle scienze e delle arti; ma in essi gli eccessi hanno riguardato soprattutto l’esercizio di un’autorità soffocante, che tendeva a privare il monaco di ogni margine di autonomia.

Sogliono essere considerati tre gli elementi generali e immancabili che caratterizzano la condizione cenobitica: il monastero, nel quale la comunità abbia residenza stabile, la regola, che ne costituisce la legge, l’abate che la governa e ammaestra. Non sempre, tuttavia, questi tre elementi sono compresenti con la medesima efficacia e interagiscono allo stesso modo. Essi appaiono saldamente costituiti nel primo esperimento storicamente certo, quello di Pacomio (m. 347), il quale diede alle sue fondazioni, a Tabennesi nell’Alto Egitto, una struttura rigorosa, che spesso è stata definita ‘militare’ e ritenuta proveniente dal suo passato di soldato. I suoi monasteri accoglievano un gran numero di persone, divise in gruppi di trenta o quaranta a seconda dei mestieri praticati (giardinieri, panettieri, cestai, ecc.). I manufatti prodotti servivano in parte all’uso interno, in parte venivano venduti lungo il Nilo,          fino ad Alessandria. I monasteri erano raggruppati in strutture non dissimili da un vero e proprio villaggio, e in ciascuno all’organizzazione del lavoro e alla preghiera in comune sovrintendeva un superiore. Tutti erano sottoposti all’autorità di un superiore generale (il primo fu Pacomio), che visitava con frequenza i monasteri e ne riceveva i capi una volta l’anno, in agosto, per averne il rendiconto.

Una gerarchia meno articolata e una disciplina meno rigorosa erano invece previste da Basilio (m. 379), ritiratosi per anni in un monastero fondato in una sua proprietà, ad Annesi sul Ponto, e poi diventato vescovo di Cesarea. Dopo averne preso conoscenza diretta nel corso dei suoi viaggi in Egitto, egli non risparmiò le sue critiche al modello pacomiano, del quale rifiutò l’autoritarismo che improntava i rapporti fra l’abate e i suoi monaci e il ruolo prioritario assegnato al lavoro a scapito della vita contemplativa. Il monastero da lui disegnato ha dimensioni ridotte, si ispira più alla immagine della famiglia che a quella dell’opificio, l’organizzazione della comunità è fondata sul principio della fratellanza e del mutuo soccorso tra fratelli, il superiore è padre e direttore delle coscienze e tempera la sua autorità consultandosi con i fratelli.

Ancora meno perentori appaiono i requisiti ‘pacomiani’ nel primo cenobitismo occidentale, anche se esso guardò sempre ai modelli orientali e, in particolare, a Pacomio. In realtà, dai suoi primi protagonisti quella dei monaci non fu concepita come una condizione particolare e sottoposta a norme specifiche, né gli uni si distinsero dagli altri in virtù di una ‘regola’ diversa. Il termine stesso, regula, soltanto tardi, lungo il VI secolo, acquistò il significato tecnico con il quale venne da allora riferito alle realtà monastiche, cioè di un codice legislativo scritto. Costantemente, nella prima letteratura monastica in lingua latina, sembra di avvertire una pronunciata riluttanza ad accettare l’idea del legislatore dal quale attendere norme e precetti, e una più diffusa tendenza a esigere da lui garanzie soprannaturali. Secondo san Gerolamo, Pacomio e i suoi discepoli legiferarono «secondo l’insegnamento di Dio e dell’angelo che Dio aveva loro mandato»; nel prologo della Regola dei quattro Padri i legislatori invocano lo Spirito Santo perché li ispiri mentre si apprestano a redigere l’ordinamento della comunità, e più volte, nel corso della stesura, invocano l’assistenza di Dio e si presentano come interpreti della sua ispirazione. Il lerinese Eucherio insegna che nell’eremo non operano le leggi dell’uomo, ma quelle eterne di Dio, e che sono i carismi concessi al luogo stesso dell’asceterio ad assicurare al monaco la santità, mentre ogni norma conformata alle leggi umane nuoce al realizzarsi dell’uomo interiore.

Norma suprema del monaco, unica e vera ‘regola’ della sua vita è la Sacra Scrittura. Secondo il racconto del suo biografo, Agostino, nel costituire il monastero di Ippona, non gli assegnò altra regola che quella degli apostoli e quando, più tardi, lo         abbandonò per ricoprire la dignità vescovile, concepì la raccolta di precetti lasciata ai suoi monaci non come una legge ma come un libellus, nel quale essi, leggendolo, potessero guardare se stessi come in uno specchio: uno specchio nel quale, immancabilmente e continuamente, si rifrange la parola divina.

La Bibbia e la tradizione: sono queste le due fonti alle quali il monaco deve attingere i modelli supremi della sua condotta. Nel capitolo finale Benedetto si chiede «quale pagina o parola di autorità divina del Vecchio e Nuovo Testamento sia la norma più retta per la vita dell’uomo, rectissima norma vitae humanae», e rinvia coloro che vogliono pervenire alla perfezione della vita monastica agli autori passati, a Cassiano, a Basilio, alle Vite dei Padri, mentre definisce il suo testo una «regola minima, scritta per i principianti». Dopo di lui, un ignoto legislatore italiano, autore di una così detta Regola di Paolo e Stefano, ribadisce che non la sua regola, ma gli esempi degli antichi Padri offrono il vero e pieno insegnamento della perfetta disciplina monastica.

Tuttavia l’istituto monastico si è andato trasformando. Dopo Agostino e le Regulae Sanctorum Patrum lo strumento legislativo è cresciuto, si è perfezionato, si è imposto. Ai monaci i veri monaci, cioè i cenobiti non si prescrive soltanto, come nella Regola dei quattro Padri, che vivano concordi nella medesima dimora, ubbidienti alle disposizioni e ai consigli di un superiore, ma si impone una duplice autorità, della regola e dell’abate, prima di quella, poi di questo. Il cenobita è detto nel primo capitolo della regola del Maestro e di quella di Benedetto è colui che vive nel monastero e «milita sotto la regola e sotto l’abate», sub regula vel abbate. Né la sua dimora può essere temporanea e variare a suo piacimento. Il principio della stabilità diventa ora ineludibile. Anche Gerolamo, Rufino, Cassiano, che pure erano stati essi stessi, in taluni periodi della loro esistenza, peregrini, lo avevano propugnato fermamente. Cassiano indicava tra le pratiche esemplari dei maestri egiziani la perseveranza dei vecchi asceti, stabili nei loro monasteri fino a quando gli anni li rendevano curvi, usque ad incurvam sene et am, ammirevoli per avere saputo resistere per lunghi anni al disgusto generato dalla monotona permanenza nella chiusa angustia del convento. La Regola dei quattro Padri consentiva di ricevere i monaci provenienti da un altro monastero solo se avessero avuto dal proprio abate il permesso scritto di trasferirsi, e stabiliva che nel nuovo cenobio essi fossero considerati ultimi per anzianità e non contassero nulla gli anni passati nel vecchio.

Con l’azione normalizzatrice delle regole e il loro precisarsi e arricchirsi cresceva di pari passo l’autorità dell’abate e si rinsaldavano i suoi strumenti di governo. Nelle antiche comunità, spesso sorte per l’iniziativa di un singolo, attorno al quale si raccoglieva un primo nucleo di discepoli e ammiratori, erano l’esempio e le virtù del fondatore a reggere il cenobio, non la norma scritta. L’immagine del superiore come padre illuminato e misericordioso sopravviverà nella tradizione agiografica e, in qualche misura, anche nelle regole, le quali avranno tutte, più o meno lungo e puntuale, un capitolo sul direttorio abbaziale, che disegnerà il ritratto del buon abate attribuendogli le qualità tradizionali. Ma le più antiche stenteranno ad assegnargli un potere ben definito e i necessari strumenti autoritativi. Per Basilio il superiore cura i fratelli come un padre o un medico o «come una nutrice i suoi piccoli»; nella tradizione agostiniana il superiore è un padre al quale si deve obbedienza e rispetto e al quale spetta correggere gli erranti, ma più con la carità, con l’esempio, con la pazienza e la parola consolatrice che con l’imposizione.

Nel Maestro e in Benedetto la figura e il ruolo dell’abate trovano una dimensione nuova. Custode della regola e responsabile della sua costante applicazione, l’abate adempie al suo compito nel monastero come delegato e rappresentante di Cristo; egli ascolta il consiglio dei fratelli, ma in definitiva la sua decisione è sovrana, il suo potere si dispiega con nuova efficacia, sostenuto da una normativa penale diventata ricca e sicura. E anche severa. Senza la durezza inflessibile della regola di Colombano, che ricorre continuamente alla vindicta corporalis, il Maestro e Benedetto affrontano con cura il tema delle misure punitive e recuperano l’antica severità egiziana, con i suoi due principali strumenti repressivi, l’esclusione e le percosse. Importato nel cenobio dalla scuola di retorica e dal servizio militare, l’uso della ferula viene legittimato con il ricorso alla Scrittura (viene citato il versetto di Proverbi 19,29: «Lo stolto non si corregge con le parole») e imposto all’abate come uno strumento inevitabile. Sferza e bastone nella prassi dovettero essere impiegati senza risparmio, se la tradizione iconografica ha amato rappresentare l’abate benedettino, e lo stesso Benedetto, con la sferza tra le mani. Senza dubbio non mancarono periodi ed emergenze in cui l’abate vide il      suo potere diminuito o condizionato. Nella stessa regola benedettina si avvertono situazioni nuove di tensione e si intravedono stati di necessità che la Regula Magistri ignora; l’accresciuta attenzione per i rapporti all’interno della comunità appare dovuta non solo allo spirito pragmatico del legislatore, ma anche a una condizione generale di più allentata pressione gerarchica. Ma l’abate concepito da Benedetto, responsabile di fronte a Dio del progresso spirituale dei suoi monaci e perciò da Dio stesso delegato, misericordioso con i fratelli, ma unico a distribuire con volontà sovrana compiti e incombenze, unico a premiare e castigare, ad accogliere e rifiutare, governerà per secoli i monasteri europei.

Anche nei rapporti con la Chiesa il distacco dalla quale era tra le ragioni fondanti del monachesimo l’autorità dell’abate ebbe vicende alterne. Le regole antiche mantengono, espresso con varia fermezza, il rifiuto del clero e della sua ingerenza nella vita del cenobio. Nel primo monachesimo occidentale è frequente il caso di monaci elevati all’episcopato (nel monastero martiniano di Tours, nei monasteri di Agostino, a Lérins); è raro il caso opposto, di chierici che si fanno monaci, poiché i cenobi riluttano ad aprirsi al prete, anche quando la celebrazione dell’eucarestia stabilizza la necessità di farvi ricorso. La Regola dei quattro Padri impone di ricevere i preti con grande rispetto, come si conviene a chi amministra i servizi dell’altare, ma non consente che un chierico abiti nel monastero, a meno che voglia mondarsi, con la medicina dell’umiltà, di una grave colpa. La stessa preclusione troviamo nel Maestro, che ammette i sacerdoti solo come forestieri, peregrinorum loco, e li esclude dal governo del cenobio. Benedetto ammette che i chierici che lo desiderino entrino a far parte della comunità, ma il suo atteggiamento è forse ancora più difensivo di quello del Maestro. I preti avranno un posto speciale soltanto nelle cerimonie liturgiche, per il resto avranno il posto che compete a essi per anzianità e saranno assoggettati in tutto alle norme della regola e all’autorità dell’abate.

Il tema dei rapporti tra monaci e chierici si affaccia in alcuni documenti pontifici, ma senza che venga affrontata la questione giurisdizionale: in nessuno di essi si legge una sola espressione che riconosca ai vescovi la facoltà di intervenire nella vita dei monasteri. Neanche in Africa, dove Agostino ha inaugurato una tradizione di stretta dipendenza delle comunità cenobitiche dalla gerarchia, troviamo teorizzata o applicata una coerente linea giuridica e istituzionale; qui come altrove i rapporti tra i vescovi e i monasteri restano legati al pactum iniziale e all’origine del monastero e affidati all’iniziativa del vescovo, alla remissività dell’abate, al peso inerte della tradizione. Negli atti sinodali le questioni concernenti monaci e anacoreti non trovarono posto frequente. Fu un concilio tenuto ad Arles intorno alla metà del V secolo ad affrontare, primo tra i concili gallici, questioni monastiche e a prospettare il problema dei rapporti tra la Chiesa e i cenobi, dell’autonomia di questi rispetto a quella. Il deliberato conclusivo del concilio risolveva il problema giurisdizionale distinguendo con precisione le prerogative del vescovo e quelle dell’abate. Riservava al primo il diritto di ordinare chierici e ministri dell’altare, di inviare la cresima e confermare i neofiti; vietava al monastero di ammettere preti e stabilire le loro funzioni senza l’assenso del vescovo. Per contro, il governo della comunità monastica, definita congregano laica, restava affidato unicamente all’abate, al vescovo si negava la facoltà di rivendicare alcunché che appartenesse al monastero o di attrarre nelle file del clero alcuno dei monaci se non fosse stato l’abate stesso a farne richiesta. I concili successivi non aggiungono molto in fatto di rapporti tra le autorità ecclesiastiche e i monasteri, ma gli spazi dell’autonomia monastica si riducono progressivamente. In un concilio svoltosi in una data imprecisabile, tra il 481 e il 491, si confermerà il diritto dell’abate di accordare ai monaci il permesso di vivere fuori del cenobio, in celle separate, senza richiedere l’autorizzazione del vescovo. Il divieto per il vescovo di ordinare prete un monaco senza il consenso dell’abate sarà sancito ancora nel concilio di Agde, nel 506. Ma nello stesso concilio è previsto che le nuove fondazioni monastiche siano autorizzate dal vescovo e che i monaci peregrini siano forniti di lettere commendatizie rilasciate dal vescovo. Il concilio di Orleans del 511 rafforza ulteriormente l’autorità dei vescovi e il loro controllo          sui monasteri e i loro abati, i quali si dichiara definitivamente e ufficialmente sono sottoposti all’autorità episcopale, in episcoporum potestate consistunt.

 

4. Le classi sociali

Se le due forme principali della condizione monastica sono quelle che discendono dall’alternativa fra eremo e cenobio, un’importanza enorme nella storia del cenobitismo, dei suoi costumi, delle sue ‘forme’, hanno avuto le distinzioni sociali, il loro riprodursi all’interno del cenobio, il loro ruolo nei rapporti degli istituti monastici coll’esterno, con gli altri istituti della società. Nell’immaginario collettivo la figura del monaco è solitamente associata alla povertà e all’umiltà. Ma in tutte le latitudini il monachesimo ha storie di ricchezza e di potenza. Più che mai il monachesimo cristiano. Di esso si è fatto spesso, alle origini, un movimento rurale di poveri e rozzi contadini. Ma a dissuaderci da una tale convinzione basterebbe forse considerare una legge romana di età imperiale, conservata nel Codice Teodosiano (XII 1, 63), la quale ingiungeva che ritornassero ai doveri curiali o rinunciassero ai loro beni quegli appartenenti alle élites municipali che avessero lasciato le municipalità per entrare nei monasteri. Il decreto fu emanato nel 370, una data troppo alta perché si possa pensare che le preoccupazioni del governo imperiale riguardassero l’Occidente, dove il richiamo monastico cominciava appena a farsi sentire. Nell’Oriente, invece, che a quella data registrava già molte e popolose comunità monastiche, la legge indica che in quelle comunità le classi possidenti avevano parte considerevole.

Anche riguardo al contesto più spesso portato ad esempio, quello copto dell’Egitto tardoantico, gli studi più recenti tendono a rivedere l’immagine tradizionale, che ne faceva protagonisti i contadini più poveri, i fellahin, e a rivalutare il ruolo che vi ebbero le classi agiate e l’entità della loro presenza. Di non pochi tra i personaggi di cui ci è stata tramandata notizia sappiamo che provenivano da famiglie di ricca condizione: a cominciare dallo stesso «Padre dei monaci», l’eremita Antonio, il quale, al momento di abbandonare il secolo, si trovò a dovere liquidare il suo patrimonio, lasciandone una parte alla sorella e dividendo il resto ai poveri. E significativo che siano stati gli ambienti monastici a fornire sempre più spesso i vescovi delle diocesi egiziane. Anche assai presto. Dalle comunità pacomiane provengono i vescovi Philn e Muis, il primo chiamato alla cattedra vescovile di Tebe nel 339, il secondo, vescovo di Latopolis nel 347, come attesta una lettera di Atanasio. E se i vescovi non potevano non essere forniti di un notevole grado di cultura e quindi non appartenere alla classe dei colti e dei ricchi, anche tra i monaci l’alfabetizzazione era meno rara di quanto si ritiene, mentre appartiene alla letteratura fortemente ideologizzata e agiografica il modello del santo illetterato, ostile alla cultura profana. La costruzione delle laure, strutture semianacoretiche nelle quali non di rado i modelli abitativi e gli stili di vita riflettevano quelli delle classi agiate, impegnava somme considerevoli di denaro. Le comunità pacomiane, che si è soliti catalogare come insediamenti tipici del deserto, talvolta erano vicine alla città, nel suburbio o addirittura dentro (come ad Alessandria), e con la città intrattenevano rapporti economici continui, gestiti è ovvio supporre da persone esperte e acculturate. Né, infine, si può trascurare il fatto che le istanze ascetiche presenti alle origini del monachesimo erano troppo complesse e culturalmente persino elitarie per consentirci di attribuirle alle classi sociali più basse e incolte.

Ancora più considerevole fu il concorso delle classi medioalte nell’Occidente. A famiglie agiate appartenevano personaggi come san Gerolamo, venuto a studiare a Roma dalla provincia dalmata presso maestri insigni e costosi, e come Bonoso, Rufino ed Eliodoro, che gli furono compagni prima negli studi, poi nelle iniziali esperienze di vita monastica. Grandi casate romane diedero ospitalità ad Atanasio, esule con altri preti e probabilmente anche con monaci intorno al 340, e ne ascoltarono la predicazione ascetica. Più tardi, dopo il 380, sotto il pontificato di Damaso, l’aristocrazia romana, specialmente quella femminile, si lasciò conquistare dagli infiammati discorsi di Gerolamo; ricche vedove e nobili vergini dedite all’ascesi compaiono con frequenza negli epistolari di Ambrogio, Paolino di Nola, Sulpicio Severo, Gerolamo, Pelagio, Agostino, o ancora nel VI secolo, nelle lettere di Fulgenzio. Un episodio di clamorosa risonanza fu la velazione della giovane Demetriade, accompagnata dal plauso e dai consigli dei tre più ascoltati maestri del tempo, Agostino, Gerolamo e Pelagio.

Questi casi ebbero grande rilevanza nella società del tempo e giunsero a costituire una vera e propria questione sociale, perché queste appartenenti alle famiglie più illustri dell’Impero, gli Anici, gli Aradii, i Pammachii, ora davano scandalo, lasciavano le famiglie, si ritiravano a vivere da sole o in piccoli gruppi e scandalo maggiore di ogni altro rompevano l’asse patrimoniale vendendo o alienando le loro ricchezze a favore dei poveri. Volgendo a forme nuove di patronato l’antico evergetismo romano, esse assicurarono sviluppo e strutture originali al monachesimo femminile. Furono le grandi risorse patrimoniali e l’impegno personale delle sue nobili e ricche amiche a consentire a Gerolamo, trasferitosi in Palestina, a Betlem, dopo il 385, di dare vita a più monasteri. Terasia, la moglie di Paolino di Nola, accompagnò il marito nel ritiro ascetico e contribuì con parte del suo patrimonio alla costruzione di Cimitile; Melania la Vecchia seguì Rufino in Egitto, si schierò con lui contro Gerolamo nell’aspra controversia su Origene, fondò un monastero femminile a Gerusalemme, sul Monte degli Ulivi, sovvenzionò gli asceteri nascenti nelle isolette del Mediterraneo, fu tra i fautori di Pelagio nello scontro con Agostino. Nell’Italia di Teoderico l’africano Fulgenzio ebbe tra i suoi interlocutori vergini consacrate di alta nobiltà, come Proba, forse figlia di Quinto Aurelio Simmaco e perciò imparentata con Cassiodoro e Boezio. La sorella di Cesario fu badessa di un monastero ad Arles e a lei Cesario indirizzò la sua Regula virginum. In quegli anni Rusticola, protagonista di una delle più celebrate Vite merovingie, fu badessa per più di mezzo secolo (574-632) del più noto monastero femminile di Poitiers; a Poitiers fu relegata Radegonda, regina ripudiata e personaggio tragico nell’epoca sanguigna e turbinosa dei primi re franchi (di lei diremo ancora in seguito).

Non sembra, dunque, eccessivo ritenere che l’ascetismo femminile occidentale sia stato in misura considerevole un fenomeno aristocratico. Probabilmente distinzioni e gerarchie sociali presero a definirsi all’interno delle comunità fin dai primi tempi. Nel popoloso monastero femminile fondato a Betlem da Paola, la più devota e munifica delle amiche di Gerolamo, «le numerose fanciulle, sia nobili che di media e infima estrazione, furono divise in tre gruppi». Rispettandone la provenienza sociale? E probabile. Non lo attesta con tutta evidenza il passo dell’elogio funebre scritto da Gerolamo in memoria dell’amica nel 404. Ne emerge, tuttavia, il rilievo dato al ceto d’origine, la distinzione che esso continuava a segnare all’interno della comunità, nonostante il continuo riconoscimento tributato all’umiltà della nobile defunta e delle sue compagne. Siamo ai primi, lontani segni di un processo che sarebbe sfociato nell’esclusivismo nobiliare e nelle strutture selettive e discriminanti impostesi per secoli, nei conventi femminili ancora più vistosamente che in quelli maschili. Nei monasteri dell’America spagnola venivano normalmente a costituirsi tre classi, poiché le figlie degli hidalgos destinate alla monacazione entravano in convento accompagnate da una conversa, bianca, e da una schiava, negra o indiana, che restavano al loro servizio e dovevano a esse obbedienza assoluta. In alcuni Ordini per ogni monaca di ceto superiore erano previste una cucina privata e una hermana de obediencia, una «suora di servizio» che la gestiva.

Considerevoli presenze di elementi aristocratici si registrano con frequenza anche nelle iniziative maschili e nelle prime fondazioni di comunità monastiche. In una lettera del 397 Gerolamo attesta che a Roma erano numerosi i monaci «colti, ricchi e nobili». Gli asceti occidentali che Palladio incontra pellegrini in Oriente e dei quali ci dà notizia nella sua Storia Lausiaca sono patrizi di casato illustre e di opulente fortune. Nell’Africa latina, nel monastero di Ippona Agostino attira elementi delle classi elevate e della burocrazia imperiale, molti dei quali finiscono vescovi delle principali città della Numidia. Tra gli spagnoli al seguito dell’imperatore Teodosio vi sono funzionari di attiva fede cristiana, che poi ritroviamo legati a iniziative ascetiche sia orientali che occidentali.

L’episodio più clamoroso di ogni altro fu quello di Paolino, ricchissimo senatore dell’Aquitania, che al culmine di una rapida carriera (consul suffectus e governatore della Campania a meno di trent’anni), intorno al 390, si spogliò di gran parte dei suoi beni, si dedicò con la moglie alla vita ascetica e, ritiratosi a Nola, nel 395, in uno dei suoi possedimenti, vi fondò una comunità monastica. Il suo esempio fu seguito da altri nobili aquitani, i cui nomi compaiono nelle sue lettere e in quelle di Sulpicio Severo, un tolosano di grande famiglia, che in quegli stessi anni si ritrasse a vita solitaria con la suocera Bassula e con un gruppo di pii amici in una sua villa a Primuliacum, nella Narbonese Prima. Sulpicio fu il biografo di Martino, vescovo di Tours e fondatore, dopo un primo esperimento a Ligugé, di un monastero a Marmoutier, dove molti monaci erano nobili e parecchi tra loro diventarono vescovi: «Quale città o chiesa scrive Sulpicio nella Vita di san Martino poteva non desiderare di avere un vescovo proveniente dal monastero di Martino?».

Sotto questo aspetto la comunità della quale è attestato con maggiore sicurezza e continuità il carattere aristocratico è quella fondata nei primi anni del V secolo a Lérins, un isolotto sulla Costa Azzurra tra Cannes e Antibes, da Onorato, poi vescovo di Arles, e rapidamente popolata da personaggi di alta estrazione sociale. Si trattava, probabilmente e almeno in parte, di funzionari della corte di Treviri e ricchi possidenti, in fuga davanti ai Germani invasori dopo la rottura del confine renano nel 406. Dall’asceterio lerinese uscirono alcuni tra gli scrittori più rappresentativi del V secolo e molti tra i vescovi più prestigiosi e attivi di quel secolo e del successivo, chiamati a dirigere le diocesi della Gallia centro-meridionale: une pépinière d’évèques, come scrissero i benedettini dell’Histoire de la France.

Non restano elementi sufficienti per ricostruire di volta in volta se e quanto le differenze sociali abbiano operato all’interno delle antiche comunità monastiche. Sembra certo che anche nel chiostro gli elementi di più elevata condizione finissero per assumere posizioni di preminenza, non solo per il ruolo che la gerarchia sociale dell’epoca assicurava al loro rango, ma anche perché il livello di cultura, la rete dei rapporti sociali, le competenze amministrative, la consuetudine con le funzioni direttive li destinava naturalmente all’organizzazione e alla guida del cenobio. E da ritenere che proprio la presenza di profughi di alta estrazione sociale, e perciò di cultura superiore, di collaudata esperienza politica e amministrativa, abbia avuto grande importanza sull’assetto della nascente comunità di Lérins, sulla scelta dei modelli di vita e sull’elaborazione dei temi culturali. Anche per queste ragioni Lérins, Marsiglia e le loro filiazioni maturarono caratteri che le differenziarono profondamente da altri centri monastici della Gallia e di altre regioni e promossero un tipo di ascetismo meglio organizzato, più colto, meno aperto al folklore del miracoloso e del meraviglioso.

5. I monasteri dei nobili

La figura dell’abate legato all’aristocrazia feudale e alla corte, detentore di un formidabile potere economico e politico, appartiene alle età successive, ma anche nei primi secoli le fondazioni nobiliari sono frequenti. In Italia, alla fine del V secolo Eugippio e i suoi monaci trasferirono dal Norico le spoglie di san Severino e si stabilirono nel Castellum Lucullanum, l’antica villa di Lucullo, sul promontorio di Miseno, che probabilmente ospitava una comunità monastica quando vi era stato relegato Romolo Augustolo, ultimo imperatore dell’Occidente. Dopo il 530 il patrizio Liberio, potente ministro dei re goti, costituì un monastero ad Alatri; il generale bizantino Belisario fondò e dotò un convento presso Orta, sulla via Flaminia. Tra il 556 e il 560 nacque a Squillace, in Calabria, il Vivarium a opera di Cassiodoro, il ricco e senatorio ex ministro di Teoderico. Esso ospitò un attivo scriptorium e una cospicua biblioteca, si servì dell’opera di letterati, abili copisti, traduttori dal greco, e se non fu il rifugio di nobili esuli ravennati o romani, come talvolta si è preteso, fu verosimilmente un punto di raccolta e di riferimento di profughi di vario tipo, di uomini stanchi del secolo, soverchiati dalle difficoltà della società, minacciati dall’insicurezza dei tempi, attratti, come da un rifugio di pace, da questo monastero fondato e sovvenzionato da un patrizio di grande censo, aperto agli studi e al lavoro intellettuale.

Nei secoli successivi, specialmente la nuova nobiltà formatasi nelle file dei Germani invasori, come tese a costituire rapporti di potere con la gerarchia ecclesiastica, così non rinunciò a collocare suoi membri in quella monastica, a fondare monasteri, dotarli e dirigerli. Ne derivarono forme conventuali nuove: persino monasteri privati, di famiglia, appartenenti a una casata, che li aveva costituiti su una terra di proprietà, esercitava su di essi la sua protezione (tuitio, commendatio), provvedeva al loro sostentamento e nel contempo ne controllava l’amministrazione, e naturalmente riservava la direzione e le cariche ai membri della familia. Accanto ai monasteri di origine nobile, vi furono «monasteri di nobili», nei quali cioè una parte dei monaci venivano reclutati tra i nobili. Spesso si trattava di fanciulli, tra i 5 e i 7 anni, «oblati», cioè offerti, per escluderli dalla successione ereditaria ed evitare così il frazionamento del patrimonio familiare, o perché bastardi, o ancora perché malati o deformi e perciò ritenuti inadatti a ricoprire degnamente il loro posto nella società.

L’esclusivismo nobiliare imperò a lungo, per secoli e quasi ovunque, a volte assumendo caratteri estremamente vistosi e generando discriminazioni assolutamente incompatibili con le idealità monastiche. Tra i conventi femminili era frequente la distinzione in case riservate alle nobili, autonome e tutelate da vari privilegi, e case per le giovani di famiglia borghese o plebea, sottomesse alla tutela ecclesiastica. Persino nella medesima città, come a Brescia nel XII secolo, dove l’abbazia di Santa Giulia assumeva solo le postulanti di condizione nobile, mentre quella dei Santi Cosma e Damiano, soggetta al vescovo, riceveva tutte le altre. E famosa la pagina de Le coté de Guermantes, terzo volume della Recherche di Proust, nella quale la marchesa di Villeparisis sostiene che neanche le figlie del re di Francia avevano ormai, da quando Enrico II ed Enrico IV avevano contratto matrimonio con donne della famiglia dei Medici, i quarti di nobiltà richiesti per essere accolte nei monasteri dei quali erano state badesse le antiche prozie dei Guermantes.

Nelle grandi abbazie la differenziazione sociale fu consuetudine perentoria e il ruolo privilegiato della nobiltà regolarmente riconosciuto. Né alcune di esse, tra le più grandi e celebri della cristianità medievale, sarebbero nate senza il concorso dei potenti signori feudali. Come l’abbazia di Cluny, dalla quale si avviò un moto riformatore che coinvolse tutta l’Europa e predicò il ritorno agli ideali del monachesimo primitivo, alla povertà, all’antica regola. Nell’atto di fondazione (nel 909 o 910) il munifico donatore stabilisce che nell’erigendo monastero dei santi apostoli Pietro e Paolo vengano chiamati «i poveri di Cristo» perché vivano secondo la regola di san Benedetto, nell’umiltà e nella preghiera, e dichiara che il monastero e tutti i suoi beni saranno governati dall’abate, in assoluta indipendenza dal potere secolare: «non soggetti al giogo nostro né dei nostri parenti né di qualunque potestà terrena». Il secondo dei suoi abati, Oddone (927-942) scriverà pagine di fuoco contro i privilegi del sangue, contro la «pazzia» della nobiltà che opprime i poveri, e lotterà, fino a schiantarli, contro gli appannaggi dell’antica abbazia di Fleury, protetta dal re di Francia. Ma Oddone, come taluni dei suoi successori, era di famiglia comitale; il fondatore, Guglielmo, era un potentissimo signore, duca di Aquitania e conte di Macôn, titolare di immensi domìni, dalla Spagna alla Borgogna; la villa da lui donata era una proprietà fondiaria di tipo carolingio, con la parte dominica, riservata al signore e alla sua corte, e la cappella, destinata all’adempimento degli obblighi religiosi della familia; era organizzata in mansi gestiti da servi e contadini tenuti alla più assoluta obbedienza e a cedere una parte del raccolto; garanti della sussistenza e della sicurezza dell’abbazia furono le più illustri famiglie della Provenza e della Borgogna. Nel secolo XII la benedettina tedesca Ildegarda di Bingen, badessa severa nel mantenere nella propria comunità le differenze sociali e autrice di scritti oggi celebratissimi, avrebbe sostenuto che erano gli angeli e la loro gerarchia a indicare il modello del cenobio e della diversità in esso necessaria, e che il rispetto della diversità si traduceva per le sue monache nell’esercizio congiunto di umiltà e carità.

I pericoli di secolarizzazione di tali procedure e lo snaturamento delle finalità religiose che esse comportavano furono sempre presenti ai legislatori. La regola benedettina sottolinea che nel monastero tutti sono eguali, sia schiavi che liberi, tutti soldati del Signore, allo stesso modo (cap. 2,20); e sempre, quando più vivi si faranno i moti riformatori, ci si appellerà allo spirito egualitario di Benedetto. Coi nuovi Ordini e le riforme, dal secolo XII in poi, l’opposizione diventò più viva e a volte si tradusse in veri e propri movimenti contestativi. Furono contestati l’autoritarismo naturalmente connaturato al privilegio nobiliare, l’automatica attribuzione del superiorato ai nobili, e tutti gli inconvenienti della discriminazione nel concreto della prassi conventuale, ma anche il principio che legava in permanenza la struttura religiosa allo stato sociale. Si diffuse anche, e fu per secoli continuamente rifiorente, una letteratura che dissertava sulla vera nobiltà, quella dell’animo e delle virtù, non del sangue.


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20 giugno 2015                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net