“LECTIO DIVINA” 5
«Se prestiamo fede all’erudito commentatore della Regola benedettina, don Bernardo Dumas, la biblioteca tipo di un monastero benedettino delle origini poteva stare tutta, agevolmente, in un solo scaffale. Non vi si trovava altro che la Bibbia e qualche commentario patristico, tra i molti a cui il Libro dei Libri ha dato origine; le Istituzioni di Giovanni Cassiano e le Conferenze, redatte da questo anacoreta in tre momenti successivi, tra il 415 e il 429, su richiesta dei suoi provinciali; qualche vita dei padri del deserto, in Egitto, e il testo della regola di san Basilio da Cesarea.»
Estratto
da “I monaci nella civiltà dell'occidente cristiano” di Raymond
Oursel
Ed. Jaca Book
Il libro
Confitebor Tibi in cithara,
Deus, Deus meus.
Spera
in Deo quoniam adhuc confitebor Illi,
Salutare
vultus mei et Deus meus.
Sarebbe
ingiusto rimproverare i fondatori benedettini per non aver riservato alla
lettura un posto d’onore nell’insieme degli obblighi monastici; con diverse
sfumature, la stessa considerazione si adatta anche agli altri ordini.
Evidentemente l’ingiunzione monastica di non possedere nessun oggetto a titolo
personale, valeva anche per i libri e per il materiale scrittorio, come
tavolette e stili, necessario alla stesura dei manoscritti; libri e cancelleria,
tutto doveva essere in comune. Questa prescrizione non lascia indifferenti; fa
pensare che fin dal momento della fondazione del monastero era stata prevista e
contemplata una collezione di libri, a disposizione di tutti i monaci. Se tutti
i monaci avevano diritto ad accedere alla biblioteca, questo vuol ben dire che
tutti i monaci ne avevano la relativa capacità. A proposito della
lettura, va aggiunto ancora qualcosa. Lo spirito divino non doveva essere
assente mai, da nessun momento della giornata monastica: da questo particolare
punto di vista non ci dovevano essere tempi morti, neppure quelli dedicati alle
occupazioni più materiali, neppure il tempo della «pietanza». A questo scopo
si prelevava un libro dal fondo comune e lo si affidava a un fratello investito
della particolare missione di leggerne alcuni passi durante il pasto dei monaci.
«Si doveva allora rispettare il più perfetto silenzio; nessun bisbiglio si
doveva udire e nessun suono di voce se non quella del lettore incaricato»
(Regola, capitolo 38). Questi poi si era esercitato a recitare la sua lettura
con voce strascicata e monocorde, ne risultava una salmodia da cui ogni effetto
teatrale era bandito, perché non distraesse dalla lezione o rischiasse di
deviare l’attenzione.
Poteva
capitare che l’ospite occasionale del monastero, testimone suo malgrado di
questa pratica strana, resistesse con difficoltà alla sonnolenza oppure—le
striscianti manovre del maligno non hanno mai tregua—fosse colto dalla
irresistibile tentazione di lasciarsi andare, nel pieno della monodia, a qualche
incongruità di parola o di gesto, tanto per ricordare che la carne resta pur
sempre la carne. C’è pure chi ben conosce, per esperienza, a quale grado di
vanità, di volgarità, di sconvenienza possano abbassarsi le conversazioni di
un gruppo di uomini (anche ecclesiastici) quando sono abbandonati senza freni a
loro stessi. La cosa è ancora più sensibile quando sull’organismo pesa la
fatica di una giornata di lavoro prostrante o quando la normale e naturale
eccitazione prodotta da un semplice bicchiere di vino agisce su corpi usi da
tempo a una rigorosa ascesi alimentare. Non molto tempo fa ad alcune persone
toccò di ascoltare, con legittimo e giustificato stupore, la musica dolciastra
di Frank Pourcel scendere dagli altoparlanti per condire i vassoi di salumi
serviti a una cena di venerdì di quaresima nella cornice severa di una abbazia
cistercense di stretta osservanza: queste persone ebbero così tutto l’agio di
misurare retrospettivamente la profonda, intuitiva e previdente saggezza del
vecchio precetto benedettino.
Dal
primo giorno di ottobre fino al cominciare della quaresima, così specifica la
Regola, tutti i monaci dovranno praticare la lettura fino alla seconda ora del
mattino, cioè fino alle otto; durante la quaresima poi, la lettura sarà
prolungata fino alle nove. E ancora, dopo il pasto, i monaci saranno liberi di
scegliere tra la lettura e la recitazione individuale dei salmi. Ogni monaco
cercherà anche di riservare alla lettura una parte del suo tempo domenicale;
durante la quaresima «ciascuno riceverà un libro della biblioteca, che leggerà
tutto di seguito, per intero». Due monaci, scelti tra i più anziani e quindi
tra i più saggi, dovranno controllare che questa prescrizione venga
effettivamente rispettata e che non si approfitti di queste ore di lettura per
cedere alle tentazioni «dell’ozio e della chiacchiera». Come programma di
letture, san Benedetto raccomandava caldamente i padri della chiesa, le loro «conferenze»
e le loro «istituzioni»: «non c’è nulla di meglio dei loro insegnamenti
per chi si affretta lungo la via della perfezione religiosa» afferma, e in
seguito si chiede «si trova forse un solo libro dei santi padri cattolici che
non ci aiuti a meglio comprendere come giungere di slancio e per la via più
diretta al nostro Creatore?». Anche le Vite dei santi—un genere che
incominciava allora a diffondersi nell’universo cristiano—potevano essere un
buon materiale di lettura, con una pari capacità di edificazione.
Se
prestiamo fede all’erudito commentatore della Regola benedettina, don Bernardo
Dumas, la biblioteca tipo di un monastero benedettino delle origini poteva stare
tutta, agevolmente, in un solo scaffale. Non vi si trovava altro che la Bibbia e
qualche commentario patristico, tra i molti a cui il Libro dei Libri ha dato
origine; le Istituzioni di Giovanni Cassiano e le Conferenze, redatte da questo
anacoreta in tre momenti successivi, tra il 415 e il 429, su richiesta dei suoi
provinciali; qualche vita dei padri del deserto, in Egitto, e il testo della
regola di san Basilio da Cesarea. Vi si aggiunsero in seguito i dialoghi
composti da papa Gregorio Magno, in lode dei monaci in Italia e in primo luogo
di san Benedetto.
Per
quanto rudimentale, questa lista impone due ordini di osservazioni o di domande.
La prima, semplicistica se si vuole, ma ricca di implicazioni, ci porta a
constatare che la pratica piena della Regola richiedeva ai monaci di saper
leggere; se ancora non lo sapevano, al momento del loro ingresso in monastero,
erano obbligati ad imparare in fretta. E da qui possiamo trarre due conclusioni
ulteriori: la prima ci fa render conto che nel generale analfabetismo
caratteristico della fase storica in cui nacque e si sviluppò il monachesimo
occidentale, i monaci si trovarono ad essere quasi i soli depositari della
cultura libresca e i soli a poter studiare, commentare e discutere in gruppo le
opere che era loro concesso di leggere; la seconda ci fa pensare che molto
verosimilmente erano proprio i monaci stessi i primi a beneficiare di quelle
scuole istituite presso tutti i grandi monasteri. Tutto questo non va
trascurato, soprattutto se messo a confronto con la maggior parte dei re
merovingi e carolingi, incapaci di scrivere anche la loro firma e costretti di
conseguenza ad autenticare i loro diplomi con un minuscolo segno grafico che li
faceva riconoscere l’uno dall’altro.
Il
secondo problema, ancora più spinoso, stava nella costituzione della biblioteca
vera e propria. In questo campo tutto era ancora da inventare e da creare, i
locali e i documenti destinati ad esservi accolti. Lo scarso numero dei libri
conservati persino nelle abbazie più grandi, non giustificava certo la necessità
di costruire grandi sale per ordinarvi la collezione. Dalla pianta conservata
dell’abbazia di San Gallo vediamo che il secretarium accostato al lato
nord del coro della chiesa era reputato più che conveniente per ospitare lo scriptorium,
al pian terreno, e la biblioteca vera e propria al primo piano. A Citeaux si
ripete la stessa identica disposizione: eppure tutti sanno in quale
considerazione fosse tenuta l’arte del libro all’epoca del priorato di
Stefano Harding. Trascrivere e miniare manoscritti era considerata funzione
sacra e liturgica: uno degli articoli del capitolo generale del 1134 non
prescrive forse che in tutti gli scriptoria dell’ordine, «ove secondo
l’uso i monaci scrivono» venisse osservato il silenzio come nei chiostri? A
Clairvaux don Martène ha potuto vedere, nel piccolo chiostro detto del
Colloquio, dodici o quindici piccole celle «disposte tutte in fila, dove un
tempo i religiosi si dedicavano alla copiatura dei libri»; per questa ragione,
ancora ai suoi tempi, venivano chiamate «gli scrittori». La biblioteca si
trovava proprio sopra e la collezione dei manoscritti raccolti in seguito dalla
biblioteca di Troyes può dare un’idea della sua passata ricchezza.
Nel
monastero di Cluny dell’undicesimo secolo—non ancora divenuto il centro
d’arte e di cultura, ampio e vivace, dell’epoca di sant’Ugo e di Pietro il
Venerabile—l’armarium secondo la ricostruzione di Conant, si collocava
nell’angolo fra il braccio sud del transetto e la navata, e lo scriptorium,
a quello perpendicolare, occupava, a sud della chiesa, uno spazio pari a
cinque campate. L’archeologo americano non è però in grado di precisare il
sito in cui venne trasferita la biblioteca durante il priorato di Ponce de
Melgueil (1109-1122), quando si decise a sventrare la navata della chiesa
costruita sotto i priorati di Aimard (941-954) e Mayeul (954-993) per ampliare
in direzione nord lo spazio del chiostro.
Un
censimento del monastero di Cluny, effettuato nel 1623, non menziona nessun
locale adibito propriamente a biblioteca e neppure compare una biblioteca nella
famosa Vista di Cluny presa da oriente, incisa da Louis Prevost non molto tempo
dopo (1668-1672). Lo storiografo Benoit Dumoulin da parte sua è in grado di
affermare che negli ultimi anni di vita dell’abbazia la biblioteca era situata
immediatamente a sud del chiostro, di cui «ne copriva una parte» mentre
dall’altro lato «sporgeva su una corte larga diciassette piedi, inserita tra
la navata e la cappella di Nostra Signora della infermeria». Questo locale
della biblioteca, era in grado di precisare, «si stendeva su una lunghezza di
centosette piedi mentre ne misurava circa trentasei in larghezza»: si parla qui
di una grande e lunga sala, di venticinque metri per nove. Una buona parte di
questa era occupata dalla raccolta dei manoscritti, migrati in seguito verso la Bibliothèque
Nationale di Parigi. Rimane sul posto una collezione di circa tremila volumi
a stampa, che potrebbe essere comodamente ospitata in un locale non più grande
di una camera da letto.
Malgrado
i saccheggi perpetrati dagli Ugonotti, Benoit Dumolin fece ancora in tempo a
catalogare «più di trecento manoscritti, tutti molto antichi e alcuni
infinitamente curiosi». La Rivoluzione e il secolo diciannovesimo non si
astennero dal dilapidare una parte di questo patrimonio, ma resta tuttavia
impressionante l’insieme dei volumi, così come sono stati trasferiti. Oltre
alle opere di studio e di edificazione, spicca un notevole numero di manoscritti
liturgici veri e propri, già citati in un inventario del 1304. I testi
liturgici non facevano parte della biblioteca vera e propria ma avevano una
collocazione particolare nella torre detta del Tesoro, di cui Conant ha
ritrovato le fondamenta, incassate tra la chiesa di Nostra Signora della
Infermeria e il dormitorio conventuale. In questo inventario comparivano
numerose trascrizioni dei Vangeli—una rilegata in oro, argento e pietre
preziose—, le Epistole di san Paolo e il Pentateuco, qualche messale, delle
raccolte di epistole contenenti, tra l’altro, il testo completo della Regola
di san Benedetto, il salterio di san Giovanni Crisostomo, due copie dei rituali
di ordinazione e una del sacramento del matrimonio, un testo un po’ insolito
per comparire in una biblioteca monastica.
Al
termine del priorato di Pietro il Venerabile, l’abbazia era riuscita a mettere
insieme, nei suoi duecentocinquant’anni di vita, una raccolta di non meno di
cinquecentosettanta volumi; notevolmente più alto doveva essere il numero delle
opere trascritte e conservate se pensiamo che spesso, per motivi di economia, si
aveva l’abitudine di copiare testi diversi, uno dopo l’altro, e di rilegarli
in un solo volume. Un prezioso catalogo redatto su iniziativa dell’abate Ugo
III—restato per breve tempo alla guida del monastero, dal 1158 al
1161—rivela l’eclettismo della raccolta, la varietà di materie e di temi
trattati, la vivace curiosità intellettuale dei creatori della biblioteca. Gli
storici hanno spesso trascurato e misconosciuto questo campo dell’attività
monastica, attratti dalle più appariscenti realizzazioni nel campo della
architettura e della scultura; non vogliamo con questo sminuire la pietra, ma
non si può passare sotto silenzio il significato e il ruolo della grande
abbazia, casa madre dell’ordine, all’interno della cultura della cristianità
occidentale. Lì si concentrava una straordinaria attività speculativa,
teologica e intellettuale e filosofica e da lì si irradiava in tutto il mondo
cristiano. Nella biblioteca badiale non figuravano solo opere «dell’antica e
della nuova legge», elementi fondamentali della dotazione obbligatoria di ogni
«libreria» monastica; spiccavano anche, tra loro mescolate un po’ alla
rinfusa, le opere patristiche dei santi Gregori (di Nissa e di Nazianzo), di
Giovanni Crisostomo e di Leone, Clemente e Cipriano, di Geronimo e di
Agostino—quest’ultimo largamente rappresentato dalla Città di Dio, dal
De Trinitate e dai commenti ai Salmi), di Ambrogio e di Cesario, di
Ilario, Fulgenzio e di Gregorio Magno, di cui l’abbazia possedeva tanto i Moralia
su Giobbe, quanto i Dialoghi e le Omelie. Degli scritti del
pur fecondo san Gerolamo, il catalogo recensisce solo il commento ai profeti; si
deve forse pensare che fosse sparito dalla biblioteca cluniacense quel Trattato
sulla Santa Vergine la cui lettura consolò gli ozi forzati dell’abate
Mayeul, quando venne catturato dai saraceni sulla strada del gran San Bernardo?
Questo piccolo manoscritto vanta il grande merito di collocarsi all’interno
della storia—all’epoca ancora embrionale—della tolleranza e
dell’ecumenismo? Si racconta che uno dei guardiani musulmani dell’abate lo
avesse calpestato, per sbaglio e per disattenzione; i suoi compagni lo
redarguirono per aver messo i piedi sopra l’opera di un così grande profeta.
Qualche tempo dopo, nel corso di un diverbio e di una rissa scoppiata tra i
predoni, sembra che quel disgraziato si ritrovasse con il piede tranciato di
netto ed era proprio il piede che si era posato sulla sacra scrittura!
Non
facevano difetto, nell’abbazia, neppure le opere degli apologisti Tertulliano
ed Origene, che il catalogo qualifica come varios praeclaros actus; c’erano
pure i testi delle principali regole monastiche, tra le altre quelle dei santi
Pacomio, Basilio, Agostino, Isidoro e Benedetto oltre al De habitu monachi di
Giovanni Cassiano; non erano estranei neppure i testi di storia, antica e
moderna: si andava da Flavio Giuseppe e da Filone l’Ebreo fino alla Cronaca
di Adone, vescovo di Vienna. Numerose ovviamente erano le raccolte dei
miracoli e le Vite dei Santi. C’erano Marziale, Vittore, Remigio, Eutropio,
Ilario, Colombano, Giuniano e altri ancora, senza dimenticare gli abati
cluniacensi Oddone e Odilone descritti, l’uno, come scrittore «dal bello
stile scintillante» e l’altro come stilista «non meno dotato».
Non
meno vasta e variata era la gamma degli scrittori della prima fase della civiltà
medievale. La raccolta di Cluny spaziava da Sidonio Apollinare a Isidoro da
Siviglia, senza trascurare Beda il Venerabile, Rabano Mauro, Walafrido Strabone,
Alcuino, Fulberto di Chartres, Lanfranco e Ugo di San Vittore. Di Pietro il
Venerabile, poi, l’abbazia conservava non solo il trattato su Maometto (sic) e
un sermone sull’arca di Noé, ma bensì tutte le letture che il grande teologo
si era scambiato con il suo focoso amico, san Bernardo da Chiaravalle.
Impressionante è anche l’insieme raccolto di testi latini risalenti alla
epoca classica; i nomi di Cicerone, Sallustio, Svetonio, Tito Livio si mescolano
con quelli di Seneca, Plinio, Giovenale, Luciano, senza trascurare poeti come
Virgilio, Orazio e persino Ovidio, la cui Ars Amandi non era forse la
lettura più raccomandabile per i monaci degli antichi tempi. Non erano esclusi
autori più propriamente tecnici come il Vitruvio del trattato di architettura e
le opere di Galeno e di Ippocrate; qui, precisa il catalogo, «numerose erbe vi
sono descritte» nell’interesse degli orticoltori e degli infermieri del
monastero.
Un
testo più tardo, posteriore di circa un secolo, ci fa sapere che l’abbazia
non era per nulla avara nel prestare i suoi libri all’estero. Nel 1252 non
meno di centodiciassette erano i manoscritti e le copie in circolazione per
tutta l’Europa, spediti o affidati quasi sempre a monaci della stessa
congregazione. Anche verso l’ordine della Certosa, il suo preferito, l’abate
Pietro il Venerabile autorizzava la massima liberalità in materia di prestiti,
e qualche volta approfittava dell’occasione per esercitare il suo talento di
esegeta sui libri richiesti. In una lettera per molti aspetti rivelatrice della
metodologia del lavoro intellettuale dell’epoca—e viene da domandarsi se
questi metodi siano molto cambiati da allora—annunciava al suo amico Guigo
Primo l’invio di un certo numero di libri: Le vite dei santi Gregorio di
Nazianzo e Crisostomo, richieste dal suo corrispondente, e il modesto
trattatello composto da sant’Ambrogio in polemica con Simmaco, prefetto di
Roma: quest’ultimo, consapevole del potenziale pericolo rappresentato dalla
diffusione del Cristianesimo all’interno di un impero minacciato da tutte le
parti, chiedeva con insistenza all’imperatore Giuliano l’Apostata di
restaurare gli antichi culti pagani. A questi l’abate preferiva non
aggiungervi il trattato di sant’Ilario sui salmi, che Guigo era ansioso di
confrontare con la copia in possesso della Certosa, e ne dava la motivazione: «vi
ho trovato gli stessi errori e le stesse corruzioni presenti nella vostra copia».
Rispondendo infine alla richiesta del trattato di Prospero di Aquitania a
proposito di Cassiano, così scriveva: «noi qui non lo possediamo, ma abbiamo
scritto a Saint-Jean d’Angely per ottenerlo e se sarà necessario rinnoveremo
la nostra richiesta». Come si vede il prestito inter-biblioteche non data da
ieri! In cambio, Pietro il Venerabile pregava il suo corrispondente di essere
tanto gentile da fargli pervenire «il grande volume» della corrispondenza
scambiata tra sant’Agostino e san Gerolamo: «in effetti, precisava, le
lettere conservate in una delle nostre obbedienze sono state fortuitamente..,
divorate da un orso!» (lettera 24 dell’edizione Constable, 1136/1137 circa).
Capitava
qualche volta che i libri inviati tardassero non poco ad essere restituiti: e
anche in questo si ritrovano i conservatori delle odierne biblioteche pubbliche.
Il record in materia era detenuto proprio da Cluny: in una lettera indirizzata a
Pietro il Venerabile, il priore della Certosa di Meyriat domandava,
rispettosamente, che venissero richiesti al «fratello» o «maestro Piero
Vivien»—forse un colto monaco della congregazione o qualche reggente della
scuola—i due libri, provenienti dalla biblioteca della Certosa, che questi
tratteneva presso di sé da circa venti anni (epistola 169 dell’edizione
Constable)!
Nell’ordine
della Certosa, ascetico per eccellenza, la lettura pia era stata, fin dalle
origini, una attività privilegiata (e tale era destinata a restare in tutta la
storia dell’ordine); di conseguenza cure e attenzioni particolari erano
dedicate alla conservazione dei libri, e anche al loro abbellimento con una
decorazione di miniature. Bruno, il fondatore dell’ordine, era un uomo di
studio e un teologo, autore di apprezzati commenti ai salmi e alle epistole di
san Paolo. Uno dei suoi successori più famosi, il priore Guigo Primo, già
citato come corrispondente di san Bernardo e di Pietro il Venerabile, inserì
tra i Costumi dell’ordine la caratteristica prescrizione che «i libri fossero
conservati con estrema vigilanza, come il nutrimento sempiterno delle nostre
anime». Anche la confezione dei manoscritti—copiatura, illustrazione,
rilegatura—doveva essere attuata con la massima attenzione e cura «perché—così
precisava lo statuto—quella parola divina che non ci è dato di insegnare con
la bocca, la predichino almeno le nostre mani»: espressione inattesa di quel
principio basilare della vita monastica secondo cui ogni compito, anche il più
temporale e il più pratico, concorre sempre alla gloria di Dio. In tutti gli
ordini religiosi, commentava in seguito Guigo Primo, l’esercizio della copia e
della decorazione dei manoscritti «era conveniente e opportuno», ma nel loro
particolare ordine, «più ancora che negli altri è consono (aptum) e
bello». Non si racconta forse che durante il grande incendio che devastò la
Grande Certosa nel 1371, una voce gridò in mezzo alla confusione e
all’affanno generale «Padri, padri, salviamo i libri!» (citato da Bernardo
Bligny, La chiesa e gli ordini religiosi nel regno di Borgogna
nell’undicesimo e nel dodicesimo secolo, pag. 285)?
Non
si conosce la composizione completa della Biblioteca della Certosa nei primi
anni; un catalogo ragionato venne redatto solo nel quindicesimo secolo. Si sa
però che nel 1162 era considerata molto ricca e annoverava tra i suoi libri,
oltre alla Bibbia e agli innumerevoli commenti patristici al testo sacro, anche
i Moralia in Job di Gregorio Magno, e la Scala del Paradiso di
Giovanni Climmaco; non mancavano opere di sant’Agostino e di Pier Damiano per
non parlare di quella grande fatica compilatoria che è il Lezionario di
san Bruno: una antologia di sermoni di vari autori in cui il più rappresentato
era sant’Agostino, con almeno sessantacinque sermoni, seguito da san Gregorio
con quarantaquattro, da sant’Ambrogio con venti per finire con san Leone Magno
e san Gerolamo rappresentati ciascuno con diciotto sermoni. Gli autori della
antichità profana, a quanto pare, non erano ancora stati ammessi nella
primitiva biblioteca della Grande Certosa.
Le
cose dovevano essere più o meno le stesse anche nella biblioteca del secondo
dei grandi ordini religiosi, nati dalla riforma ascetica della fine
dell’undicesimo secolo. La biblioteca primitiva della abbazia di Citeaux è
ben nota da quando Charles Oursel ne fece l’esplosiva rivelazione nel 1926. Se
ne può persino seguire la costituzione, per così dire grado a grado, grazie
agli attestati formali che il suo iniziatore, l’abate Stefano Harding aveva
costume di far iscrivere sui primi volumi della grande opera. L’analisi
stilistica condotta sui testi conferma a sua volta che questa impresa venne
proseguita senza intervalli, con un costante miglioramento di mezzi tecnici e
artistici per tutti i ventiquattro anni del priorato di quest’uomo illuminato.
Va ricordato inoltre che il fondatore Roberto, detto di Molesmes, fu costretto
ad abbandonare, come proscritto, l’abbazia di Chatillon dove, al principio,
aveva cercato di introdurre la sua riforma.
Né
a lui, né al suo successore Aubry (1099-1109) fu certo concesso di portare a
buon punto la trascrizione della grande Bibbia e forse non ebbero neppure
l’agio di far mettere mano alla copiatura di tutte le sue parti. Questa è
un’impresa che l’abate Stefano Harding rivendica a suo merito nel celebre Monitum
del 1109 inserito, per pure ragioni di ordine pratico, alla fine del secondo
tomo della Bibbia. Tutti i libri del nucleo originario della biblioteca sono
ornati da splendide miniature dai colori vivi, piene di gusto ed estremamente
godibili: evidentemente devono tutti risalire al periodo antecedente la famosa
proibizione con cui si interdiva ogni decorazione, ogni miniatura colorata su
qualsiasi testo venisse copiato all’interno dell’ordine cistercense. Questo
interdetto venne promulgato solo alla morte dell’abate Stefano, nel 1134,
frutto di una iniziativa dittatoriale di Bernardo da Chiaravalle. A ben pensare,
questa condanna non era forse già implicita all’epoca in cui il grande
dottore redasse la sua terribile Apologia nei confronti di Guglielmo di
Saint-Thierry, verso il 1125?
Di
origine sassone, Stefano Harding non era solo un esteta raffinato, ma pure un
critico scrupoloso. Capita a volte di domandarsi di quali mai tesori l’ordine
cistercense avrebbe arricchito la civiltà, se lo slancio impresso da questa
persona colta e sensibile non fosse stato bruscamente troncato di netto; il
linguaggio contemporaneo utilizzerebbe volentieri, in questo caso, il termine
ancora più duro di massacrato. Si sa che, dopo aver constatato notevoli
divergenze di testo tra le diverse copie della Bibbia da lui raccolte per
mettere mano alla grande trascrizione, non esitò a mandare a chiamare dei
rabbini e a sollecitarne la collaborazione al fine di stabilire, insieme a loro,
la lezione più corretta e autentica. Un catalogo redatto nel 1480 recensisce
milleduecento manoscritti, presenti nella biblioteca di Citeaux. Di questi quasi
novecento sono spariti ed è probabile che tra i manoscritti dispersi o perduti
ci fossero anche numerosi volumi appartenenti al nucleo originario della
Biblioteca. Perdite e proibizioni non impedirono alla biblioteca di accrescersi,
rapidamente e costantemente; una delle prime acquisizioni furono proprio quei Moralia
in Job il cui terzo e ultimo volume fu terminato proprio il ventiquattro
dicembre 1111.
Le
somiglianze con la Certosa non si fermano qui. Terminata la copiatura di questo
grande trattato, l’abate Stefano fa subito porre mano alla copia, sempre
riccamente illustrata, delle due opere maggiori di sant’Agostino, il De
Trinitate, seguito dai commenti ai salmi e dalla Città di Dio. Vennero
in seguito, con una successione difficile a stabilire con precisione ma con una
certa allegra celerità una serie di Vite dei Santi in cinque volumi (i primi
tre, «senza dubbio a causa di qualche incidente» dovettero essere nuovamente
copiati nel tredicesimo secolo), le Epistole di san Gregorio, trattate
con uno stile pittorico sensibilmente diverso, e quelle di san Gerolamo: il
manoscritto di queste ultime compone uno straordinario «alfabeto» di
centoquaranta iniziali lussuosamente ornate. Di san Gerolamo vennero copiati
anche i commenti ai profeti, oltre all’Ecclesiaste e al testo di Isaia: il
primo illustrato da due stupendi frontespizi, il terzo da un albero di Jesse di
fronte a cui impallidiscono le più belle vetrate gotiche. Agli occhi di Charles
Oursel si tratta del capolavoro dei capolavori, nato dalla corrispondenza di «questa
perfezione con la devozione tutta speciale che Citeaux dedicava alla madre del
Cristo». L’immagine splendida, brillante di giovinezza, intimidisce come «un’armata
schierata in battaglia»; risuona l’eco della voce «io metterò inimicizia
tra il serpente e la Donna» in quella pittura radiosa di maestà più che
intrisa di tenerezza; su tutto grava un velo di lacerazione e di protesta per
chi si ricordi che proprio su quello splendore sta per calare l’inespiabile
mannaia «Le lettere siano di un solo colore, e in nulla fiorite». Come avvenne
per i principi di un ascetismo assoluto, il rigore di questa proibizione doveva
con il tempo conoscere qualche sporadica attenuazione: con emozione vediamo uno
straordinario martirologio-obituario di Citeaux tentare di far rivivere una
tradizione fustigata e repressa. Lo stesso accadeva anche a Clairvaux dove alla
fine del dodicesimo secolo la biblioteca annoverava non meno di trecentoquaranta
manoscritti nella sua raccolta.
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21 giugno 2014 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net