S. GIOVANNI
GUALBERTO:
FONDATORE
DEI BENEDETTINI VALLOMBROSANI
P. Giorgio
Picasso O.S.B.
Corso
di Cultura monastica - Monastero san Benedetto, Milano - 24 novembre
2003
Estratto dal sito
della Conferenza Italiana Monastica Benedettine
www.benedettineitaliane.org
L'argomento di questa
sera riguarda una figura, Giovanni Gualberto, che s'inserisce in un preciso
contesto nella storia della Chiesa. Ma prima di tutto, dobbiamo notare che
con Giovanni Gualberto prende corpo in Italia un altro movimento monastico
che è nuovo: Camaldoli, l'eremitismo romualdino, l'ha preceduto, ma da poco
tempo. E se, in ogni caso, Camaldoli con Romualdo e Fonte Avellana con Pier
Damiani rappresentano nella seconda metà del secolo XI questo monachesimo
nuovo, che trova terra di adozione nella Toscana del secolo XI, con Giovanni
Gualberto non è la forma eremitica che prevarrà, ma la forma cenobitica.
Per cui tra tutte le
altre congregazioni monastiche in Italia, queste sono le prime due. Fino a
quel momento, l'Italia viveva di quel monachesimo tradizionale ben noto di
grandi monasteri, indipendenti l'uno dall'altro, o comunque con grandi
dipendenze proprie. C'era stata anche una notevole diffusione del
monachesimo cluniacense, ma veniva dalla Borgogna. Un po' dopo, arriveranno
anche i cisterciensi nel secolo XII. Ma bisogna tenere ben presente questi
due movimenti, perché essi rappresentano la forma eremitica e la forma
cenobitica che si sviluppano nell'Italia del secolo XI.
La Chiesa del secolo XI
era travagliata da grandi problemi della riforma: contro i cattivi costumi
del clero, contro la pratica della simonia, la vendita dei sacramenti,
contro l'ingerenza dei laici nelle strutture ecclesiastiche, nelle nomine di
vescovi, abbati, ecc. Era quindi un secolo molto travagliato, da qualunque
punto di vista, per la storia della Chiesa. Queste due congregazioni
svolgono un ruolo particolare. Il ruolo più importante è quello che svolge
la Congregazione di Vallombrosa, istituita da Giovanni Gualberto.
Giovanni Gualberto
appartiene a una famiglia nobile, del contado di Firenze, che, come tutte le
famiglie nobili, è inserita in un insieme di rapporti amichevoli, ma anche
qualche volta conflittuali, come quando un suo fratello venne a contesa - e
pare di rileggere la storia di fra Cristoforo de
I Promessi sposi
- e ucciso da un rivale in uno scontro. Un giorno Giovanni, ancora laico,
casualmente si imbatte nell'assassino del fratello, ma, contro ogni
previsione, essendo egli disposto a vendicarlo - ci aveva pensato - invece,
immediatamente gli concede il perdono. L'incontro avvenne un po' fuori della
città di Firenze, vicino alla Chiesa di S. Miniato al Monte.
Giovanni Gualberto entra
in quella chiesa dopo l'episodio e si sente come rinnovato da quel perdono.
È interessante questo fatto, perché la psicologia di quell'epoca - e non
solo di quell'epoca - dice che l'offeso si acquieta nel farsi valere: in
questo caso, nel vendicarsi dell'uccisione del fratello. Ma egli perdona, si
pone in un'altra sfera e il perdono gli riempie il cuore di gioia e sente il
bisogno di entrare in chiesa. Dicono i biografi che, entrando in quella
chiesa e guardando il Crocifisso, egli vide un segno di assenso, come se il
Crocifisso inclinasse verso di lui la testa per dire: "Hai fatto bene!" Può
darsi che sia stata una visione sua, più che oggettiva, comunque, questo è
il fatto che gli agiografi raccontano nelle varie
Vite
- per esempio nel volume curato da p. Spinelli. Colpito da questo fatto,
Giovanni fa un altro passo: chiede di essere ammesso a far parte della
comunità monastica di S. Miniato al Monte, un monastero fondato da Enrico
II, quindi un monastero non proprio antico, ma uno che già esisteva.
Pertanto Giovanni si
inserisce nella vita monastica, con tutto il fervore di un convertito - non
proveniente da una vita dissipata, ma da una vita laicale, come uno che
capisce che la vita monastica è una cosa seria. Ci era arrivato, perdonando
l'uccisore del fratello, compiendo un atto molto serio e accogliendo
l'assenso, quasi l'invito, del Crocifisso - è un'altra cosa molto seria, per
cui il nuovo monaco non accetterà nessuna soluzione di compromesso. Come sa
essere esigente con se stesso, così desidera trovare un ambiente dove la
vita monastica possa essere vissuta seriamente.
Ma ecco che egli viene a
sapere che l'abate di S. Miniato era stato eletto simoniacamente - si
trattava di compra e vendita di cariche ecclesiastiche. E questo va molto
contro i propositi e la mentalità di Giovanni. Si consiglia con un eremita
cittadino, un certo Teuzone, che dimorava presso l'abbazia fiorentina, il
quale è un personaggio problematico. Giovanni Gualberto va da lui a chiedere
consigli su come deve comportarsi
in questo frangente.
Pier Damiani, invece, che pur l'aveva conosciuto, nei suoi scritti lo
rimprovera: "Se sei eremita, cosa fai, là in città? Vieni all'eremo." Ma
anche tra i santi ci possono essere pareri diversi.
Il consiglio che Teuzone
dà a Giovanni Gualberto è di lasciare immediatamente quell'ambiente e di
porsi in cerca di un'altra soluzione per la sua vocazione, anche perché chi
aveva benedetto e ordinato simoniacamente quell'abate era il vescovo di
Firenze. Quindi, è tutta la chiesa fiorentina che si trova per causa del suo
vescovo macchiata da questo scandalo, da questo peccato della compra-vendita
dei sacramenti, che sono invece doni dello Spirito santo. La simonia era
considerata un peccato contro lo Spirito santo, perché i colpevoli agivano
come se pensassero di ottenere lo Spirito santo comprandolo con dei soldi.
S: Gregorio Magno distingue tra vari tipi di simoniaci:
a manu, a lingua,
ecc., ossia, ci può essere simonia anche in colui che non dà nulla
materialmente per ottenere quell'ordine sacro, ma che si mostra ossequiente,
promette al vescovo la sua obbedienza e la sua collaborazione. Nel caso
dell'abate di S. Miniato, si tratta del peccato della simonia
a manu,
ossia un dono fatto "con le mani", dei soldi.
Vista la situazione,
Giovanni riesci a sfuggire dai seguaci - non si sa bene se l'abate o il
vescovo abbiano messo qualcuno dietro a lui per impedire la fuga, perché era
ormai monaco a S. Miniato. Giovanni si mette in cammino verso la Romagna
alla ricerca di un monastero dove fosse possibile servire autenticamente il
Signore. Si ferma a Camaldoli, una breve sosta, ma capisce che non è il
luogo idoneo per lui, perché finora aveva praticato una vita, sia pure con
fatica, in un monastero. A Camaldoli non c'è un monastero, ci sono solo
delle celle eremitiche. Pensa che quella non sia la sua vocazione e quindi
prosegue oltre sulle stesse montagne e giunge a Vallombrosa, un luogo
solitario sul versante toscano dell'Appennino. Camaldoli è sul versante
aretino, per così dire, ma è lo stesso giogo appenninico.
Egli trova due eremiti,
anch'essi venuti via da un monastero di Firenze. Erano eremiti, ma erano già
in due e facevano una certa vita comune, per cui si aggiunge a loro Giovanni
e in breve si formerà attorno a Giovanni una comunità di discepoli; non
pochi vengono da S. Miniato, sono suoi confratelli e dunque avevano imparato
a conoscerlo. Ma arrivano anche dei chierici, anche dei laici.
Il primo documento certo
che testimonia l'esistenza di questa comunità è del 1307. Un chierico
fiorentino, Alberto, dichiara di essersi unito ai
fratres in Christo
simul congregati - ai fratelli riuniti in Cristo -
in loco Valle
Umbrosa, ubi vocatur - nel luogo chiamato Valle Ombrosa. Qui
c'è una discussione se la lettura sia stata contraffatta da trascrizioni
successive, perché effettivamente ricerche più accurate leggerebbero
"...simul
congregati in Valle Imbrosa." "Valle Ombrosa" è un nome bello,
che attira anche i turisti che vanno in cerca di ombra nel mese di agosto,
ma pare invece che attorno a quella valle, quella conca in cima ai monti, si
radunavano spesso le nubi e allora pioveva, perciò era Valle
"Imbrosa",
cioè, dove pioveva spesso. La questione non è sicura, ma gli studiosi
più recenti tendono a leggere l'espressione in quel documento come "in
loco Valle Imbrosa", successivamente mutata in "Ombrosa",
ossia il nome che ha adesso.
In un giro di pochi
anni, Giovanni mostra una grande competenza benedettina, riesce a istituire
un vero monastero fondato sulla Regola benedettina, di cui lui stesso è il
capo, il
prepositus,
un termine che si incontra nella RB, a proposito del priore del monastero.
Gli viene attribuito il titolo di abate dal 1068: una delle
Vite
dice che egli non voleva assolutamente questo titolo prelatizio, perciò una
mattina quando, ancora egli dormiva, i suoi monaci l'hanno preso e l'hanno
portato con forza e messo sul seggio abbaziale - non siamo in grado di
accertare che sia stato proprio così. Il ricupero della senso della Regola
costituisce uno dei principi ispiratori dell'opera di Giovanni Gualberto:
così dà vita ad una forma di vita monastica rinnovata, ancorata sulla
tradizione benedettina, quindi spoglia di quegli orpelli, di quelle
degenerazioni che in altre esperienze di monachesimo avevano inquinato
l'antica purezza. Basta pensare al monastero dal quale era uscito, di S.
Miniato.
Ma il carisma di
Giovanni Gualberto non sta soltanto nell'aver fondato un monastero - anzi,
ne fonda anche degli altri - dove si ritorna, come diranno i cisterciensi,
alla
puritas Regulae.
Fonda un monastero dove, accanto all'osservanza della Regola c'è anche un
forte impegno nel servizio della Chiesa. Questi monaci si mostrano sensibili
ai problemi che affliggono la Chiesa dei loro tempi - per esempio, la
riforma del clero. I biografi dicono che egli si dedicò con pari zelo a
riformare e la vita dei preti e la vita dei monaci ed è molto interessante
questo secondo aspetto.
In questa prospettiva,
egli non poteva dimenticare quella chiesa fiorentina dalla quale era uscito,
a causa dei gravi disordini che aumentarono con l'elezione del vescovo
Mezzabarba, vescovo simoniaco, vescovo che conviveva apertamente con una
donna. Di
fronte alla predicazione
e alle condanne di Giovanni Gualberto, il vescovo reagisce al gruppo di
monaci che da Vallombrosa erano insidiati a Firenze nel monastero
vallombrosano di S. Salvi. Il Gualberto compie questo suo programma di
riforma con energia e in modo positivo. I monaci vallobrosani verranno anche
a Milano, ben prima della loro fondazione a Gratosoglio, che risale a un
periodo molto più tardo. Vengono chiamati dai riformatori di Milano, i
patarini, perché vogliono dei preti che celebrano la Messa degnamente, che
non siano inquinati da questi mali che al loro avviso facevano allontanarsi
la gente dalla Chiesa.
Questo piccolo monastero
di S. Salvi è una delle prime fondazioni dei vallombrosani e il vescovo di
Firenze, per far cessare questa predicazione in favore della riforma, questa
vita che era un condanna della sua vita, manda una banda di armati, che
aggrediscono i monaci. Di questi, alcuni sono feriti e si crea un gran
trambusto, Giovanni Gualberto accorre da Vallombrosa con altri monaci, ma è
interessante che si rallegrano di questo fatto, di essere bastonati,
picchiati dai soldati del vescovo, perché vedono quasi un martirio
prefigurato e sono lieti di soffrire per la Chiesa, per la riforma della
Chiesa. Giovanni arriva per consolarli, ma anche per rallegrarsi, per
compiacersi con loro, proprio perché sono stati degni di soffrire; quando
sente l'odore del sangue, diventa più contento. Hanno sparso sangue per la
fede: è un grande ideale che Giovanni Gualberto trasmette ai suoi.
La loro, allora, è una
vita cenobitica, riformata secondo la Regola benedettina, ma aperta anche ai
gravi problemi della Chiesa del tempo. La tradizione monastica si
arricchisce quindi da questo nuovo aspetto, che fino a quel tempo non era
proprio nelle consuetudini monastiche: l'accorrere in difesa di un ideale,
per la fede. La tensione tra il vescovo simoniaco e questi monaci aumenta,
la lotta rimane aperta fino a che, il 13 febbraio 1068, un monaco di
Giovanni Gualberto, alla presenza di un centinaio di cittadini, affronta la
prova del fuoco, per dimostrare che l'accusa che egli aveva fatto al vescovo
era vera. Con il consenso di Giovanni Gualberto, il monaco Pietro passa in
mezzo al fuoco con gli abiti sacerdotali e esce incolume - perché, appunto,
doveva dimostrare a tutti i cittadini, a tutti i fedeli l'indegnità del
vescovo. L'esito di questa prova convince anche il papa, Alessandro II, che
allontana e scomunica il vescovo indegno. Pietro più tardi diventerà
cardinale della Chiesa romana.
Questo è un momento di
trionfo per Giovanni e i suoi discepoli, perché viene riconosciuta la
validità del loro impegno riformatore. Non tutti avevano visto la loro
attività con simpatia: anche alcune correnti riformatrici si domandavano che
cosa volevano questi monaci, perché non stavano nel loro monastero. La prova
sostenuta da Pietro quindi volge la vicenda in loro favore e vengono
chiamati a Milano, dove i patarini con a capo il diacono Arialdo, conducono
la stessa lotta che i monaci vallombrosani conducevano contro il vescovo e
il clero simoniaci. A Milano è vescovo Guido da Velate e gli oppositori sono
i patarini sotto Arialdo, che morirà poi ucciso dai soldati a servizio dei
forti poteri feudali, che non volevano il cambiamento.
Giovanni Gualberto non
sopravvivrà molto a questi avvenimenti: manda a Milano dei monaci sacerdoti
vallombrosani, che vengono a Milano, ma non hanno un monastero, vengono
accolti dai patarini e anche dal popolo con favore, celebrano la Messa,
finche le due legazioni del cardinale Pier Damiani vengono a Milano e
riescono ad aggiustare la situazione. Ma il momento decisivo per la riforma
della Chiesa di Milano è dovuto anche alla presenza di questi monaci vestiti
di grigio: grigio, perché Giovanni Gualberto volendo un'uniformità negli
abiti dei suoi, acquistò delle pecore, alcune un po' bianche, alcune un po'
nere, per creare una veste molto povera e per evitare che alcuni monaci si
vestissero di un colore ed altri di un altro, mischiava i colori della lana
in modo di ottenere un grigio uniforme, che caratterizzò i primi monaci
vallombrosani.
Quando nel 1069-70 ha
luogo l'invio dei monaci a Milano, si crea un movimento reciproco di monaci
vallombrosani che vengono a Milano e dei patarini che vanno a Vallombrosa
per farsi monaci. Andrea, un patarino milanese, diventa monaco
vallombrosano, poi abate di Strumi e scriverà la
Vita
di Arialdo, il diacono, e quella di Giovanni Gualberto. Un altro poi ha
scritto la
Vita
dello stesso Arialdo da Strumi, perché fu veramente un uomo di Chiesa
esemplare, anche come monaco: potremmo dire che la riforma, elemento
essenziale nel movimento di Vallombrosa, era ormai impostata e Giovanni
concluderà la sua esistenza in un altro piccolo monastero, Bassignano - la
Congregazione Vallombrosana si diffonde attraverso queste piccole
fondazioni, S. Salvi, Bassignano e qualche altra - circondato dall'affetto
dei suoi monaci, a cui affida le sue ultime volontà con una lettera molto
bella, riportata dagli agiografi, in cui Giovanni raccomanda ai suoi la
pratica della carità.
Giovanni sente che è
prossima la fine e si preoccupa di raccomandare l'unità a questo gruppo di
monaci, perché, osserva, se un torrente si disperde in molti rigagnoli,
probabilmente si secca e allora non c'è più acqua per nessuno. Se invece il
flusso delle acque di un fiume o di un torrente rimane unito nel suo alveo,
certamente sarà capace di trasmettere quell'acqua lì dove è necessaria. Con
queste immagini Giovanni Gualberto mette in guardia i suoi contro le
eventuali tentazioni eremitiche, perché non voleva creare una nuova famiglia
monastica eremitica - c'erano già i Camaldolesi. Voleva creare dei cenobiti,
che vivessero in comunità, come lo dice S. Benedetto, con la caratteristica
dell'impegno nel servizio della Chiesa.
A pochi mesi dalla morte
di Giovanni, in data di 12 luglio 1073, abbiamo una lettera del nuovo papa,
Gregorio VII, che era stato monaco, indirizzata ai monaci di questa Valle
Ombrosa, in cui egli elogia le virtù di Giovanni, anche se la canonizzazione
ufficiale avverrà quasi un secolo dopo nel 1193, ad opera di Celestino III e
poi vi saranno tanti altri episodi relativi al suo culto, fino al 1951,
quando Pio XII lo proclamò Patrono dei Forestali d'Italia. È uno dei santi
meglio conosciuti, come si vede dai vari testi agiografici sulle sue gesta.
Quindi siamo in grado di ricomporre con altre osservazioni al di là di
quelle qui esposte e di conoscere la sua vita.
Ed ecco la famosa
lettera che egli, abate e ancora punto di riferimento di questo movimento
monastico, dettò sul letto di morte. Alla fine di questa lettera raccomanda
ai monaci di rimanere uniti al Padre Rodolfo, che è il suo successore come
secondo abate dei Vallombrosani. In realtà però non esiste ancora ciò che
sarà la Congregazione di Santa Maria di Vallombrosa, che sarà approvata più
tardi. È ancora un movimento spontaneo che cresce attorno a un monastero
canonicamente istituito con un abate e con delle dipendenze. L'Ordo
Vallis Umbrosae - se l'intendiamo come disciplina - certo,
esiste già con Giovanni Gualberto, ma se l'intendiamo come istituto, con
capitoli generali ed altre strutture, verrà molto più tardi.
"Giovanni Abate, a tutti
i confratelli riuniti nella carità fraterna, salute e benedizione! Essendo
io già da lungo tempo infermo, attendo di giorno in giorno che Dio accolga
la mia anima e che la terra del mio corpo ritorni alla terra di cui fu
tratta. Non c'è da meravigliarsi, perché l'età stessa - siamo nel 1073 ed
egli è probabilmente nato agli inizi del secolo, quindi aveva almeno una
settantina d'anni - anche senza il peso di una così grave malattia, mi
ricordo ogni giorno di vivere in quest'attesa. Veramente pensavo di passar
da questa vita in silenzio, senza dare tanto nell'occhio, invece,
riflettendo al nome
che porto, benché
indegno, ho dovuto occupare in questa vita transitoria una responsabilità ed
ecco che sento il bisogno di dirvi qualcosa.
E vi dirò qualcosa sul
vincolo della carità. Non già come cosa nuova, come cosa nostra, ma
ripetendo brevemente e come di corsa quel che abbiamo ascoltato ogni giorno.
La carità è senza dubbio quella virtù che ha spinto il Creatore di tutto a
farsi creatura - ecco l'Incarnazione vista come un grande atto d'amore - e
la virtù che egli ha raccomandato agli Apostoli come sintesi di tutti i
comandamenti. «Questo è il mio comandamento - che vi amiate!» (Gv 15, 12) Di
essa parla l'Apostolo Giacomo: «Chiunque osserva tutta la Legge, ma
trasgredisca anche solo un punto - di questa legge della carità - diventa
colpevole di tutto» (Gc 2, 10).
Di questa virtù
l'Apostolo Pietro afferma: «La carità copre una moltitudine di peccati» (1Pt
4, 8)" e continua, facendo degli esempi convincenti. Se possediamo la
carità, possiamo coprire tutti i peccati, mentre quelli che credono di avere
tutte le altre virtù, senza la carità, non hanno nulla (cfr. 1 Cor 13, 3).
Chi è superbo e disobbediente e pensa di possedere la carità per il fatto
che rimane corporalmente insieme agli altri fratelli - non ha la carità.
Il beato Giovanni lo
disinganna e gli dice: "Ama perfettamente Dio chi non lascia per sé nulla di
sé". La carità non è una simpatia naturale, è qualcosa che viene da Dio.
"Non so come parlare in
particolare della carità, conoscendo che tutti i precetti emanano da questa
radice. Se molti sono i rami dell'albero buono, una sola è la radice - la
carità. I rami non possono aver vita, non possono produrre frutti, se non
rimangono uniti alla radice, che è appunto la carità.
Sopra costoro che si
sono raffreddati nell'amore e che si sono separati dall'unità, l'Apostolo
Giovanni piange e dice che sono usciti di mezzo a noi, ma non erano dei
nostri. Se fossero stati dei nostri sarebbero rimasti con noi (cfr. 1Gv 2,
19).
"Affinché questa carità
resti a lungo inviolabile tra voi, voglio che dopo la mia morte la vostra
cura e direzione siano affidate a Padre Rodolfo, almeno nella stessa misura
in cui dipendevano da me durante la mia vita. Addio!"
Ora questo fatto che
egli designa il suo successore potrebbe sembrare, per chi conosce la Regola
di San Benedetto, qualche cosa che si colloca un po' a lato, perché, come
sapete, San Benedetto non richiede che l'abate in carica nomini il suo
successore, ma affida la questione all'elezione della comunità. Sappiamo che
anche a Cluny i grandi abati in realtà sono stati scelti dai predecessori.
Altre regole, come quella del Maestro, per esempio, donavano all'abate la
facoltà di eleggere chi doveva succedergli. C'è anche nella Regola di San
Benedetto un'espressione, che forse si capisce in questo contesto. Quando
egli parla
del Priore, di questo vice-superiore, si capisce
che San Benedetto non ha avuto delle buone esperienze, e mette in guardia
l'abate. Dice tra l'altro che a volte si ritengono dei "secondi abati" e si
insuperbiscono. "Secondo abate" era il titolo che riceveva colui che l'abate
anziano aveva designato prima di morire e che, se l'abate non moriva subito,
era
"secondus abbas".
Così Rodolfo fu
designato, fino alla fine della vita di Giovanni. Secondo la Regola di San
Benedetto non erano le forme indicate, ma durante il Medioevo ci sono avuti
queste designazioni, che privilegiano la continuità. Rodolfo gode della
stima di Giovanni Gualberto e degli altri monaci, perché a lui obbedivano da
tempo, e quindi viene designato per continuare una forma di monachesimo
peculiare della Chiesa del secolo XI, perché, come abbiamo già detto, il
giovane riformatore si preoccupa del clero e dei monaci, anche se lui è
monaco. Si preoccupa dell'osservanza della Regola, ma anche dell'impegno per
la libertà e la santità della Chiesa e si preoccupa che questa opera sua
venga continuata come di fatto avvenne portata avanti dai suoi discepoli. La
Congregazione a poco a poco si è diffusa nella Toscana e fuori ma in
prevalenze ha un carattere regionale. Vicino a Milano i Vallombrosani sono
giunti nel 1140 a Gratosoglio.
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11 giugno 2025 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net