LA TRAPPA

UN’ABBAZIA COME UN’ALTRA

Marie Gérard Dubois OCSO

Estratto da” I Trappisti – Storia e Spiritualità” - Abbazia di san Benedetto – Seregno 2002

 

Il termine «trappisti» usato normalmente per designare le comunità raggruppate in un Ordine, il cui nome «canonico» è quello di «Ordine cisterciense della Stretta Osservanza», deriva dall’abbazia della Trappa. E non è senza ragione, se si tiene conto del ruolo che ha avuto nella storia questa abbazia francese situata a 150 chilometri a ovest di Parigi, ai confini del Perche e della Normandia. La Trappa però non è la casa fondatrice dei trappisti... È vero che uno dei suoi abati, nel XVII secolo, ha iniziato una riforma audace che ha lasciato il segno nei secoli seguenti, ma egli non ha voluto creare un Ordine nuovo e non si può dire, come troppo facilmente si crede, che l’abate de Rancé — poiché di lui si tratta — sia il fondatore dei trappisti... Ma ci sono, poi, in realtà dei fondatori della vita monastica?

La Trappa è nata in seguito a un naufragio. Nel 1120, Enrico I, re d’Inghilterra e duca di Normandia, dopo aver ristabilito la pace ai confini del suo ducato a danno del re di Francia, decise di ritornare in Inghilterra con il figlio ed erede, Adelin, e tutta la nobiltà di corte. All’uscita dal porto di Barfleur, il 25 novembre, uno dei vascelli, la «Blanche Nef», che trasportava Adelin e circa trecento cavalieri s’infranse su uno scoglio sotto gli occhi del re... Fu un dramma, come sarebbe per noi oggi lo schianto di un «Boeing 747» che trasportasse l’élite politica e militare di un paese con il suo primo ministro. Tra i naufraghi c’era una nipote di Guglielmo il Conquistatore che suo padre Enrico I aveva promessa in matrimonio al conte di Mortagne, Rotrou III, per compensarlo della sua devozione alla casa reale. Questi, che aveva perso più di dieci membri della sua famiglia nel naufragio, volle erigere una cappella funeraria in memoria della sua amatissima consorte. Fu così che sulle terre acquitrinose della foresta del Perche, dove sgorgavano numerosi ruscelli, nel luogo detto «la Trappe», fu eretta nel 1122 una «maison-Dieu» la cui forma evocava un vascello capovolto in mezzo alle acque. L’appellativo «maison-Dieu» voleva significare che tale oratorio era sicuramente affiancato da un edificio che poteva offrire rifugio ai pellegrini o ai poveri malati dei dintorni, dal momento che si era in prossimità di una strada romana che attraversava il paese. Più tardi, nel 1140, Rotrou III decise di trasformare questa «maison-Dieu» in vera e propria abbazia. Chiamò i monaci benedettini di una congregazione normanna che si era sviluppata intorno a san Vitale di Savigny, morto nel 1122. I secoli XI e XII furono un’età feconda di fondazioni e riforme ispirate dal desiderio di vivere più poveramente e in una solitudine più profonda di quanto non facesse il grande monachesimo uscito da Cluny. Savigny era un frutto di questo nuovo slancio. Un altro effetto di questo fermento fu la fondazione di Cîteaux, in Borgogna, nel 1098. Cîteaux ebbe un considerevole sviluppo grazie alla personalità di san Bernardo, che vi entrò con un gruppo di cavalieri e fu poi inviato a fondare Clairvaux in Champagne nel 1115. L’Ordine cisterciense assorbì parecchie altre correnti riformatrici, così che tutte le abbazie della congregazione di Savigny, tra cui la Trappa, aderirono a questa famiglia monastica entrando nella «filiazione» dell’abate di Clairvaux, nel 1147. La storia della Trappa affonda perciò le sue radici in quella dei Cisterciensi. I secoli XII e XIII furono un’epoca di sviluppo e di vitalità religiosa. Uno degli abati più famosi della Trappa fu il beato Adam che, per mandato del capitolo generale, prese parte alla quarta crociata e una decina d’anni dopo fu scelto per negoziare presso la sede di Roma l’annullamento del matrimonio di Filippo-Augusto con Ingelburge di Danimarca; ciò dimostra il prestigio di cui godeva presso il re di Francia. Nel 1214, durante il suo abbaziato, venne consacrata la nuova chiesa della Trappa dall’arcivescovo di Rouen, assistito dai vescovi d’Évreux e di Séez.

Ma il lungo periodo di lotte della guerra dei Cento anni tra Francesi e Inglesi, a partire dal 1337, fu disastroso per le abbazie poste nei luoghi di passaggio delle bande armate. Tale fu il caso della Trappa. Nel 1361, fu necessario rifugiarsi in un vicino castello fortificato per più di un anno. Nel 1376 il monastero fu saccheggiato dalla soldatesca che spogliò e incendiò gli edifici, così che andarono distrutti anche gli archivi. Resistettero alle fiamme solo gli edifici in pietra, come la chiesa e il capitolo. Malgrado gli espedienti escogitati per garantirsi qualche risorsa, i monaci, ridotti a una quindicina, non poterono nel 1389, pagare le imposte reclamate dal papa; ciò valse loro una scomunica che venne poi fortunatamente tolta per la benevola testimonianza resa dal vescovo della diocesi. Accadeva infatti che le pressioni fiscali sia della corte pontificia come dell’autorità politica, particolarmente sotto Filippo il Bello, all’inizio del XIV secolo, non consentivano di pareggiare i conti. Era il tempo del grande scisma d’Occidente, che vide due o tre pretendenti al soglio di Pietro. Neppure l’economia generale del Paese era più favorevole all’incremento delle abbazie: l’epidemia di peste nera (1348-1352) decimò un terzo della popolazione della Germania e della Francia e quasi la metà di quella dell’Inghilterra; ad essa si aggiunsero poi ricorrenti carestie e altre sventure...

I monaci della Trappa dovettero nuovamente fuggire quando, verso il 1417, gli Inglesi s’impadronirono del Perche; poterono rilevare la loro abbazia dopo la liberazione della regione nel 1449. Ma verso il 1469 subirono un nuovo saccheggio: la chiesa fu messa a sacco. Malgrado tutto la comunità, benché impoverita, e in un contesto poco propizio, restò fervente e fedele alla Regola; il capitolo generale faceva fatica a riunirsi e a sanare lo stato di decadenza che andava dilagando. Alla Trappa si avviò un processo di restaurazione tra il 1476 e il 1527 sotto gli abati dom Enrico Hoart e dom Roberto Ravey; era il tempo dei famosi «articoli di Parigi» approvati dal capitolo generale del 1494, frutto di una riunione, tenuta al collegio San Bernardo di Parigi, da alcuni sostenitori di una riforma. Purtroppo questa restaurazione cessò bruscamente perché incominciò a imperversare quel disastroso sistema di governo delle abbazie che va sotto il nome di «commenda». All’inizio si affidò all’amministrazione papale la gestione delle chiese e dei monasteri privi del titolare fino a che non fosse stato nominato il successore e non avesse preso possesso della carica. Ma a poco a poco la tutela centrale si prolungò nel tempo cambiando forma: il re di Francia quando ne ricevette la concessione in seguito al concordato di Bologna del 1515, si riservò la nomina degli abati e promosse a queste cariche chierici ch’egli voleva favorire; questi non essendo membri della comunità e non risiedendo sul posto, si limitavano spesso a riscuotere le rendite delle loro proprietà abbaziali, lasciando una «congrua porzione» ai monaci del cui progresso spirituale il più delle volte non si interessavano affatto. Le abbazie diventavano così dei «benefici». Troppo spesso i monaci, abbandonati a se stessi, si lasciavano andare a una vita rilassata ben lontana dalla regola di san Benedetto. Gli edifici delle abbazie, senza più manutenzione, cadevano spesso in rovina nella indifferenza generale.

L’abbazia della Trappa non sfuggì alla sorte comune. I monaci si opposero alla nomina di Giovanni du Bellay, futuro cardinale di Parigi, che Francesco I voleva imporre loro. Essi avevano tentato di eleggere uno di loro, Giuliano di Noes, a succedere come abate a dom Roberto, ma dovettero piegarsi. Gli abati «commendatari» che si succedettero a partire dalla nomina reale del 1526 non sembra abbiano lasciato alcun segno positivo nella vita dell’abbazia. A poco a poco essa declinò. Gli edifici si deteriorarono, penetrò la miseria e soprattutto s’affievolì la vita regolare. A metà del XVII secolo i monaci erano solo sei e non vivevano più una autentica vita monastica. Non celebravano più l’ufficio divino: la chiesa d’altronde era in cattivo stato; il refettorio «non ne aveva che il nome; i monaci e i laici vi si radunavano per giocare ai birilli quando il caldo o il brutto tempo impediva loro di giocare all’aperto. Il dormitorio era abbandonato e disabitato; serviva solo di rifugio agli uccelli di notte... ogni fratello alloggiava dove voleva o poteva...» (resoconto fatto al capitolo generale del 1686). Uno di essi fu ricercato dalla giustizia: si dice che, con alcuni confratelli che maneggiavano abilmente il pugnale, taglieggiasse i passanti per migliorare la situazione... La «maison-Dieu» non era più quella!

Fu allora che la grazia toccò il commendatario che aveva ereditato l’abbazia: nel 1664 il re permise che egli cambiasse il suo titolo di abate commendatario in quello di abate regolare. Fu l’inizio di una riforma che giustificò il fatto che in seguito la Trappa desse il suo nome ai trappisti...

 

LA STRETTA OSSERVANZA
IN FRANCIA

In realtà non fu solo la Trappa ad intraprendere la via della riforma; essa innanzi tutto si inserì nel movimento della Stretta Osservanza, che è la vera radice dei Trappisti. Lo confermano le loro attuali costituzioni: «monaci e monache dell’Ordine riconoscono di essere molto debitori del movimento detto della Stretta Osservanza che difese con forza, in un tempo confuso, alcuni aspetti del patrimonio cisterciense e permise così, attraverso l’opera dell’abate de Rancé e l’iniziativa di dom Agostino de Lestrange, la loro trasmissione alle successive generazioni».

La Trappa non era la sola abbazia dell’Ordine che doveva essere riformata per aver troppo patito le vicissitudini del tempo. Nei paesi germanici, scandinavi o anglo-sassoni, le guerre ussite e la Riforma protestante recarono danni considerevoli (taluni monasteri furono distrutti o secolarizzati e ci furono anche dei martiri) ma la Francia non fu risparmiata dalle guerre di religione: Citeaux sarà assalita dagli Ugonotti nel 1574. Sono le cause che con le epidemie e la Guerra dei cent’anni turbarono il buon funzionamento delle istituzioni, principalmente quella del capitolo generale. Come potevano gli abati delle diverse regioni d’Europa riunirsi a Citeaux e dare regole comuni all’Ordine? Troppo grande era il rischio di cadere nelle mani degli Inglesi o dei Borgognoni o dei Briganti dei diversi partiti... L’astensionismo era di moda. Durante il Grande Scisma, la seduta del capitolo generale fu sovente sospesa, perché i monasteri delle diverse regioni non riconoscevano il medesimo papa. Dal 1562 al 1601 si contano solo sei capitoli generali.

Queste difficoltà, tra le altre, provocarono la comparsa delle Congregazioni nazionali o regionali che si sforzarono di riprendere daccapo il compito di riforma che l’autorità centrale non riusciva a portare a buon fine. Ciò non avvenne certamente senza la resistenza dell’autorità centrale che sentiva queste prese di distanza come rottura dell’unità voluta dai fondatori, ma il movimento era troppo forte e, tutto sommato, in alcune regioni aiutò la necessaria riforma dell’Ordine. La prima Congregazione nacque nel 1425 in Castiglia, frutto dell’azione riformatrice di un certo Martino di Vargas che per evitare la commenda, stabilì la durata triennale dell’abbaziato. Ottenne così la propria indipendenza. A fine secolo lo stesso papa riunì le abbazie di Toscana e Lombardia nella Congregazione italiana di san Bernardo. Come pure si formarono altre congregazioni che più o meno restarono dipendenti dal capitolo generale. Questo, a sua volta, nel 1433, riorganizzò l’Ordine secondo uno schema geografico.

In Francia non si pensò, per le abbazie bisognose di riforma, a una separazione da Cîteaux, a cui erano geograficamente assai vicine. Si può senza dubbio rammaricarsi di questo fatto, nella misura in cui ciò avrebbe forse evitato disastrosi contrasti tra i sostenitori delle riforme e gli altri. Al momento dell’attuazione, in Francia, delle decisioni del Concilio di Trento, a partire dal primo inizio del XVII secolo, i monasteri si divisero in effetti tra quelli che volevano riformarsi e si dissero della Stretta Osservanza e gli altri che si chiamarono della Comune Osservanza. Queste denominazioni derivano dalla lingua latina in cui allora ci si esprimeva: si parlava di un’osservanza più stretta (strictior) di quella comune dei monasteri; il comparativo fu alla fine tradotto con il semplice «Stretta» osservanza. Questa divisione si compì in un clima poco edificante di polemiche sull’osservanza, talvolta all’interno della medesima comunità — si parlò di «guerre di osservanze» —, ma anche di rivalità tra persone, nelle quali, per altro, furono implicati grandi personaggi di Stato... La politica avvelenò tante cose.

 

1. Gli inizi della Stretta Osservanza

Nel 1601 si era tenuto a Cîteaux un grande capitolo generale che aveva elaborato un vero compendio di osservanze da praticare. Il testo non ben ordinato fu riveduto e sistemato da alcuni abati riuniti a Parigi nel 1604, ma il capitolo generale del 1605 non lo ratificò; allora, nel 1606, tre monaci, al Collegio San Bernardo di Parigi, presero l’impegno di praticare la regola senza eccezioni. In quell’anno dom Ottavio Arnolfini, abate della Charmoye e di Châtillon, in visita al Collegio San Bernardo di Parigi vi incontrò due giovani monaci studenti, Abramo Largentier, professo di Cîteaux e Stefano Maugier, professo di Aumône, desiderosi di un nuovo stile di vita monastica. Tutti e tre, il 6 maggio 1606, rinnovarono la loro professione e vi aggiunsero per iscritto la «promessa e risoluzione costante di osservare alla lettera la regola di san Benedetto conformemente agli statuti, costituzioni e decreti dei nostri antichi capitoli generali senza alcun riguardo alle dispense, privilegi e mitigazioni ottenute dai Sovrani Pontefici da parte di superiori rilassati». Fu l’avvio della Stretta Osservanza. Si trovavano là anche cinque studenti del collegio tedesco-ungherese che avevano compiuto il loro noviziato a Clairvaux, prima di venire al collegio San Bernardo: saranno essi gli iniziatori della riforma nei loro paesi.

Dom Ottavio Arnolfini, di nazionalità italiana, aveva ricevuto in commenda, nel 1598, l’abbazia della Charmoye, in Champagne, una fondazione di Clairvaux. Avendola trovata in uno stato davvero pietoso, aveva deciso di riformarla e perciò aveva ottenuto dal re l’autorizzazione a diventarne l’abate regolare. Fu anche eletto, nel 1605, abate di Châtillon, un’altra filiazione di Clairvaux, grazie a Dionigi Largentier, suo padre immediato, abate di Clairvaux tra il 1596 e il 1624. Questi era stato conquistato da ciò che vedeva alla Charmoye e si era a sua volta lanciato nell’opera di riforma della sua comunità, seguito in questo dal nuovo priore di Cheminon, Giovanni Picart. All’inizio del 1608, Stefano Maugier sostituì, a capo della Charmoye, Ottavio Arnolfini che tenne solo l’abbazia di Châtillon. Dom Stefano fu nominato poco dopo, da Dionigi Largentier, vicario generale dei monasteri della sua filiazione con il mandato di favorire la riforma in questi monasteri.

I riformatori misero l’accento sulla penitenza; è questa che caratterizzava per loro la vita monastica. Essi ben sapevano che le mortificazioni esteriori non sono fine a se stesse, ma il segno e lo stimolo del cuore contrito, caratteristico del monaco.

Il punto, però, più delicato che focalizzò rapidamente la contestazione da parte di «anziani», fu la ripresa del digiuno e dell’astinenza permanente dalla carne. Ma altre regole erano prese di mira, come testimonia un documento del 1657, e furono ristabilite: la semplicità dell’abito, l’uso di lenzuola e coperte grossolane, il dormire vestiti, l’alzarsi di notte, il lavoro manuale (un’ora al giorno!), il silenzio totale eccetto nell’ora di ricreazione, la lettura spirituale quotidiana, la preghiera privata, la solitudine nella clausura, la povertà totale, l’uso di pratiche penitenziali...

All’inizio, per esempio, a Clairvaux, Dionigi Largentier non volle obbligare tutti i suoi monaci alla riforma: alcuni anziani continuarono a vivere secondo le loro abitudini al punto che la comunità nello stesso monastero si trovò come sdoppiata, con dormitori e refettori separati... Ciò non poteva durare. D’altra parte i monaci riformati vollero fossero riconosciute le loro particolarità. L’abate di Cîteaux, Nicola II Boucherat, nel capitolo generale del 1618, lodò queste riforme, le dichiarò conformi alla regola e ai primi Padri cisterciensi, ma si preoccupò dei rischi di divisione che comportavano. I capitolari preferirono salvaguardare il bene della pace e dell’unità e si limitarono a ricordare la regola dell’astinenza per il periodo dal 14 settembre a Pasqua, escluse le domeniche e le solennità.

 

2. L’intervento di autorità esterne all’Ordine

Pieni di uno zelo forse eccessivo, i monaci riformati non vollero fermarsi lì; fecero appello al Cardinal de La Rochefoucauld che era stato nominato per la Francia riformatore apostolico e reale. Questi condivise le loro prospettive, ma con un rigore tale che eccitò alquanto l’opposizione degli «anziani»; egli ottenne da Gregorio XV, nel 1622, un Breve in favore della Stretta Osservanza, che si sviluppava in parecchie abbazie; l’abate di Citeaux credette di poter concedere loro l’autorizzazione a raggrupparsi in congregazione autonoma, intorno a Clairvaux, e a codificare le loro osservanze: ciò fu fatto nel 1624. Ma non fu seguito dal capitolo generale del 1623 che rifiutò categoricamente di riconoscere questa autonomia. Tuttavia i monasteri riformati poterono avere il loro proprio Vicario generale nella persona di Stefano Maugier e i loro noviziati. Sfortunatamente l’Ordine perse alla sua guida, nel 1624 e 1625, i due abati più concilianti che potevano comprendere e favorire la riforma, dom Dionigi Largentier e dom Nicola II Boucherat. I loro successori sia a Clairvaux che a Cîteaux, Claudio Largentier, nipote di dom Dionigi, da una parte, e Pietro Nivelle dall’altra, non ne volevano sentir parlare; ciò seminò scompiglio in queste comunità che si divisero profondamente. A Cîteaux, alcuni monaci firmarono un documento che rinfacciava al loro abate di condurre uno stile di vita poco monastico, circondato da troppi servitori, tra i quali perfino un pittore, un ricamatore, un falegname... D’altro canto, perseguendo i suoi piani, La Rochefoucauld volle imporre la riforma a tutto l’Ordine in modo autoritario e fece parecchi decreti che tentavano di soffocare la «Comune Osservanza»; era ciò che auspicava dom Maugier, ma questo eccessivo proselitismo scatenò una «guerra delle osservanze» che sarebbe durata parecchi decenni.

Gli avversari della riforma vollero utilizzare l’influenza di Richelieu per ostacolare il cardinale de La Rochefoucauld, ma, contrariamente alle loro speranze, Richelieu presentò un programma molto simile a quello dei riformati, e riuscì anche a farsi eleggere abate di Cîteaux, dopo aver costretto Pietro Nivelle alle dimissioni (fu nominato vescovo), per imporre la riforma alla comunità. Questa ingerenza esterna all’Ordine, sostenuta dal re Luigi XIII, ma non dalla Santa Sede, che mai considerò Richelieu legittimo abate di Cîteaux, alla fine danneggiò la riforma compromettendola nei giochi della politica.

Dom Stefano Maugier morì nel 1637 e Ottavio Arnolfini gli succedette come Vicario generale. Dopo il decesso di Richelieu, nel dicembre 1642, i due schieramenti presenti a Cîteaux cercarono d’imporre come abate uno della loro parte. Gli «anziani», contrari alla riforma, riuscirono a eleggere Claudio Vaussin, il 2 gennaio 1643, preferendolo a Giovanni Jouaud, abate di Prières e capofila della riforma. Dopo qualche contestazione sulla legalità di questa elezione, fatta contraddicendo alle ordinanze di La Rochefoucauld e di Richelieu, dom Jouaud si sottomise, ma la situazione giuridica della Stretta Osservanza restava da definire ed egli mise tutto il suo zelo per farla riconoscere ufficialmente. La Santa Sede invitò ciascuno a esprimere il proprio parere mentre i riformati credettero opportuno ricorrere al re e al Parlamento. La Corte reale era loro favorevole e improvvisamente il Parlamento, sempre pronto alla fronda, appoggiò la «Comune Osservanza»... cosa che complicò la situazione. Questo ricorso alle autorità civili, di sapore gallicano, era pericoloso: ci si metteva alla mercé di sostegni che potevano cambiare per ragioni di opportunità politica. Infatti, il Parlamento cambiò linea sostenendo nel 1660 la politica di La Rochefoucauld, mentre il re, più tardi, volendo conciliarsi le simpatie della Germania e dell’Austria, abbandonò i riformatori a cui erano contrari gli abati di quei paesi.

 

3. Il Breve pontificio del 1666

Il ricorso alla Santa Sede parve più saggio ed efficace. Ciascuna parte predispose i propri avvocati. Fu in questa circostanza che entrò nella storia Rancé, l’abate della Trappa che, nel 1662, aveva adottato la riforma per la sua abbazia, di cui due anni più tardi sarebbe diventato abate regolare. Fu infatti scelto come avvocato della riforma con dom Domenico Georges, abate di Val Richer. Claudio Vaussin andò lui stesso a Roma per difendere i non-riformati. Queste arringhe si conclusero con ciò che fu ritenuto come uno scacco della Stretta Osservanza. Il breve pontificio In suprema, nel 1666, ricordò gli obblighi della Regola, ma l’interpretazione che ne dava era piuttosto mitigata. Fece l’elogio della riforma e l’incoraggiò: ingiunse perfino all’abate di Citeaux e ai quattro abati delle case più antiche, capofila delle diverse filiazioni, di favorirla e di propagarla; ma il papa non riconosceva l’autonomia che i monasteri riformati auspicavano e in nessun modo obbligava tutti a un’osservanza rigorosa. In questo senso la Comune Osservanza vinceva la causa, anche se la Stretta Osservanza si vedeva legittimata e raccomandata: i suoi monasteri furono suddivisi in province proprie, ciascuna delle quali ebbe il proprio visitatore. Il capitolo generale del 1667, che doveva ratificare il Breve pontificio, avrebbe potuto essere un capitolo di riconciliazione: l’ostinazione dei riformati vi si oppose. Rancé protestò vigorosamente, fino al punto di scandalizzare alcuni suoi confratelli, contro il resoconto delle discussioni romane che fece Claudio Vaussin e contro certe espressioni del Breve. Questo atteggiamento gli creò la reputazione di capofila della resistenza. In realtà, fortemente deluso, a poco a poco si disinteressò della vita dell’Ordine e intraprese la sua riforma. Su questa torneremo nel capitolo seguente. Egli rifiutò nel 1672 la carica alla quale era stato designato di vicario generale della sua provincia.

La Stretta Osservanza rimase minoritaria: la ripartizione in province stabilita dal capitolo del 1667 registra 55 abbazie o priorati di monaci e 4 case di monache della Stretta Osservanza, mentre l’Ordine contava in Francia circa 230 case di monaci e più di un centinaio di monache. Si sarebbe potuto pensare che le tensioni andassero spegnendosi, soprattutto dopo l’elezione come abate di Citeaux, nel 1670, di dom Giovanni Petit, gradito a tutt’e due le Osservanze. Ma gli abati di Germania avevano protestato presso il papa per il numero troppo elevato di «definitori» accordati alla Stretta Osservanza, non proporzionato alla sua importanza numerica (i «definitori» erano incaricati di preparare le decisioni dei capitoli generali). La risposta apostolica giunse nel 1672, ma il Breve fu comunicato ai primi Padri dall’abate di Cîteaux solo alla vigilia dell’apertura del capitolo generale, ciò che a loro dispiacque e riaccese gli antichi contrasti tra loro e l’abate di Cîteaux. Essi si schierarono con gli abati della Stretta Osservanza che, scontenti per esser stati esclusi dalle trattative con la Santa Sede, abbandonarono l’assemblea. Rancé se ne lamentò in una dura lettera a dom Giovanni Petit (29 maggio 1672) e si decise a prendere un’altra volta la difesa dei riformati presso il re, facendogli pervenire eloquenti arringhe nel 1673 e nel 1675. Ma alla corte reale era cambiata l’atmosfera ed egli perse ogni speranza di veder migliorare la situazione. Indubbiamente i dissensi personali rischiavano di rovinare l’opera intrapresa da quasi tre quarti di secolo. È una lettera piena di delusione, che la dice lunga sullo stato degli animi, quella che Rancé inviò nell’ottobre del 1675 a un abate, senza dubbio Pietro Gaultier, rimasto il solo visitatore e dunque capo della riforma dopo la morte, due anni prima, di Jouaud: «Per le vicende della nostra Osservanza... io le ritengo chiuse di fronte agli uomini e vi è grande probabilità che lo siano anche nei piani di Dio, e che la riforma sia per sempre soppressa. È vero che sono appena 60 anni da quando è iniziata, ma è anche vero che si è avuto più cura a impossessarsi di monasteri che a formare religiosi. Senza dubbio ciò ha fatto sì che quando essa è stata contestata, Dio non vi ha trovato niente che fosse degno della sua protezione. È assolutamente deplorevole che ci sia stata tra noi così poca unità, non voglio dire carità. Sapete qual è l’atteggiamento dei priori nei nostri confronti; di intelligenza e di concordia tra gli abati non ce n’è davvero di più. Che cosa ci si può attendere da tale disposizione di cuore e di spirito, o piuttosto da una tale divisione, se non completa desolazione».

 

4. La Stretta Osservanza si perde nelle sabbie...

I malaugurati contrasti, riaccesi nel 1672 tra l’abate di Cîteaux e i quattro primi Padri, contristarono la storia dell’Ordine fino alla Rivoluzione francese e offuscarono, almeno durante l’ultimo quarto del XVII secolo, i rapporti tra le due Osservanze che si opponevano. Ma il fervore della Stretta Osservanza si affievolì durante il XVIII secolo, eccetto in qualche monastero come Sept-Fons e la Trappa che, per la verità, continuarono il loro cammino di riforma. La Chermoye non contava più che quattro coristi e due conversi. Ben presto non si poterono neppure rilevare differenze considerevoli tra le due Osservanze, come constata la Commissione detta dei «Regolari», nominata dal governo di Luigi XV nel maggio 1766, per indagare sullo stato reale delle comunità di tutto il regno e proporre auspicabili provvedimenti. Nelle carte del relatore generale si legge: «I Cisterciensi sono profondamente decaduti, eccetto i due monasteri riformati della Trappa e di Sept-Fons e qualche rara casa. Cîteaux non è più che una questione temporale, ancora assai potente e ricco materialmente, ma questa ricchezza... essa stessa è in pericolo per il progressivo venir meno di una vera e profonda vita spirituale». Una cinquantina di vescovi hanno espresso il loro parere sulle case delle loro diocesi: 18 sono favorevoli, 6 si astengono e 36 sono più o meno ostili. Solo 32 case sono state elogiate, molte giudicate inutili, 17 dichiarate scandalose, ma dieci tra queste ultime si trovano in due diocesi i cui vescovi erano notoriamente contrari alla vita monastica: ciò lascia intravedere che certe dichiarazioni episcopali più che espressioni di un giudizio imparziale risentivano forse dell’influsso dell’Illuminismo, che giudicava la vita monastica di un’altra epoca e la considerava inutile.

 


Ritorno alla pagina iniziale "Storia del Monachesimo"


| Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto

| Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia |


12 maggio 2024                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net