SAN BENEDETTO E L'EUROPA
IL MONACHESIMO BENEDETTINO E L’EUROPA
Donato Ogliari - Abate di Montecassino
Estratto da “SAN BENEDETTO E L’EUROPA
NEL 50º ANNIVERSARIO DELLA PACIS NUNTIUS”
- 1964-2014
2015 – Libreria Editrice Vaticana
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Ad occhi attenti e obiettivi l’importanza del Cristianesimo nella formazione ed
evoluzione dell’Europa è un dato inconfutabile . Eppure, una mentalità di stampo
laicista, basata su pregiudizi ideologici, sta tentando da tempo di cancellare
dalla memoria storica l’apporto che il Cristianesimo ha dato lungo i secoli alla
costruzione di una “casa europea” che accomuna popoli e uomini dall’Atlantico
agli Urali, dal Mediterraneo alle zone polari artiche. Tuttavia, non è possibile
accantonare e ignorare quei principii ispiratori, radicati nel Cristianesimo,
che per secoli hanno ispirato lo sviluppo e la crescita dell’Europa non solo sul
piano spirituale o etico, ma anche in ogni altro ambito del vivere e del sapere.
Per questa ragione, il tentativo di occultare le radici cristiane dalla memoria
storica degli Europei non può che rappresentare il segnale di una forte crisi di
identità che il Vecchio Continente sta attraversando. È, infatti, sotto gli
occhi di tutti il fatto che molti Europei stiano cedendo supinamente ad un
relativismo agnostico, e che camuffino per libertà la subcultura del “fai da
te”, epitome di un esasperato soggettivismo sradicato dalla linfa vitale del
passato. Il profondo disagio, attestato dalle milioni di scatolette di
psicofarmaci che ogni anno si consumano in Occidente, è altresì un segnale di
come – sotto l’indifferenza o l’esplicito oblio delle proprie radici culturali e
religiose – molti Europei abbiano deciso di assistere coscientemente
all’eutanasia dell’anima europea o, per dirla con una metafora di
Blumenberg, di come essi abbiano scelto di assistere al naufragio di se stessi!
.
Il quadro è reso ancor più cupo dal fatto che, oltre a dimostrarsi indifferenti
nei confronti delle proprie radici, i più sembrano esclusivamente preoccupati di
affidare il proprio futuro agli indicatori economici, e finiscono col ritrovarsi
depauperati nel pensiero e privati di un’anima grazie alla quale trovare un
senso alla propria esistenza. Viene alla mente quello che Friedrich Nietzsche,
nella Seconda considerazione inattuale, affermava a proposito dell’uomo
contemporaneo. Lo descrive come un turista ozioso e malato di mentalità
storicistica che si aggira nei giardini del passato osservando con ammirazione,
ma in modo distaccato, le res gestae antiche, le grandi civiltà e le
personalità che hanno segnato la storia. Infatti, si guarda bene dall’attingere
alla linfa vitale che le ha prodotte, e non mostra alcun interesse nel voler
recuperare un’identità forte, originaria, che lo renda capace di un’azione a sua
volta incisiva sul piano storico ed esistenziale.
Alla luce della temperie culturale e sociale dell’Europa odierna, ci chiediamo:
quale importanza può ancora rivestire il messaggio di san Benedetto per l’uomo
d’oggi, soprattutto per l’uomo secolarizzato delle nostre società occidentali?
In un saggio dal titolo Europe, la voie romaine, apparso nel 1992 , lo
storico della filosofia Rémi Brague identifica il modello culturale e religioso
dell’Occidente con la “romanità”, intendendo con questo termine una
“secondarietà culturale”, ossia la capacità di Roma di costruire la propria
identità attraverso l’assimilazione di ciò che era “altro” da sé, facendo
proprie – e trasmettendole a sua volta – sia la cultura greca sia la religione
giudaico-cristiana.
Più precisamente, Brague asserisce che è proprio a partire dall’assimilazione
del messaggio cristiano – e dunque dal momento in cui si è formata la “romanità
cristiano-cattolica” – che l’umanesimo cristiano ha cominciato a giocare un
ruolo decisivo nella formazione dell’identità europea, impregnandone il tessuto
culturale. Anzi, Brague è convinto che il « Cristianesimo rappresenti, più
profondamente, la forma stessa del rapporto europeo con l’eredità culturale » .
Un’affermazione, questa, che – da sola – dà la misura dell’impronta indelebile
lasciata dal Cristianesimo sull’anima europea.
È precisamente su questo sfondo che vanno collocati la figura di san Benedetto,
il suo insegnamento e la sua testimonianza di vita, i quali hanno generato
quell’« umanesimo benedettino che costituisce una parte importante
dell’umanesimo cristiano e di conseguenza anche un tratto essenziale dell’ethos
europeo » . Perciò – come afferma Jean Décarreaux, in conclusione ad un suo
libro sull’apporto recato dal monachesimo alla civilizzazione dell’Occidente – i
monaci possono essere a buon diritto considerati i padri della nostra civiltà.
Saremmo diversi senza la loro presenza nei secoli, ingrati se rifiutassimo di
riconoscerlo.
1. San Benedetto e il monachesimo benedettino
Benedetto non ha influito direttamente sulla storia del suo tempo. Egli ha
vissuto ai margini degli avvenimenti socio-politici e religiosi di allora, e non
si è impegnato esplicitamente nel campo della cultura con programmi ambiziosi o
iniziative di vasta portata. Al contrario, la scelta radicale di Benedetto fu
quella di rifuggire un mondo in decadenza, e non di fuggire dal mondo. Infatti,
pur essendosene allontanato fisicamente, egli non è mai rimasto indifferente ai
suoi problemi e alle sue sfide, ma ha offerto a un mondo sconvolto da guerre e
immiserito da calamità di ogni genere soluzioni praticabili per il recupero di
un umanesimo integrale. In tal senso Benedetto, più che come profeta, si è
distinto come educatore, e questo grazie soprattutto alla sua Regola .
Se, come racconta il suo biografo Gregorio Magno, Benedetto aveva già compiuto
molti miracoli quand’era in vita, ve n’è uno – la Regola , appunto – che,
anche dopo la sua morte, avrebbe continuato a rischiarare la Chiesa e il mondo
con il suo influsso e la sua opera educatrice. Di fatto, ci si trovava di fronte
ad un testo normativo di una discrezione e di un equilibrio tali da essere ben
presto adottato come l’unica norma di vita per i monaci dell’Occidente, in
sostituzione di tutte le regole fino ad allora in uso nei monasteri del Sacro
Romano Impero .
Quella Regola, che Benedetto aveva definito « modesta, scritta per
costituire un semplice inizio » , e che racchiudeva indicazioni precise volte ad
aiutare coloro che si ponevano alla “ricerca di Dio”, divenne il tramite grazie
al quale il monachesimo benedettino avrebbe esercitato un grande influsso
sull’Europa che andava emergendo dal crollo dell’Impero Romano. E tale influsso
fu esercitato non solo sul piano religioso, ma anche su quello culturale
(attraverso la preservazione e diffusione della cultura greco-latina), ed
economico e sociale, grazie alle migliorie apportate in campo amministrativo,
tecnico e agricolo.
Nel Medioevo, infatti, il monachesimo benedettino fu in grado di offrire una
risposta concreta all’edificazione di una nuova civiltà, nata dalla fusione con
le cosiddette popolazioni barbariche (soprattutto germaniche), e grazie alla
presenza capillare dei suoi monasteri, esso tradusse e attuò il messaggio
cristiano nel nuovo contesto culturale e socio-economico del continente europeo.
Questo, dunque, il più grande miracolo di san Benedetto: che la sua Regola
– che generazioni di monaci adotteranno come norma di vita lungo i secoli –
abbia finito col divenire il veicolo di una vasta e profonda opera educatrice, e
il tramite di un consolidamento spirituale e sociale dell’Europa per tutto il
Medioevo ai nostri. Per questa ragione, Paolo VI, nel 1964, con il Breve “Pacis
nuntius”, volle proclamare san Benedetto « Patrono principale dell’intera
Europa » . In tal modo il pontefice riconosceva apertamente che fu grazie
all’opera dei monaci di san Benedetto se, « con la croce, con il libro e con
l’aratro », fu portato « il progresso cristiano alle popolazioni sparse dal
Mediterraneo alla Scandinavia, dall’Irlanda alle pianure della Polonia » .
« Con la croce, cioè con la legge di Cristo – leggiamo nella Bolla —, [Benedetto]
diede consistenza e sviluppo agli ordinamenti della vita pubblica e privata. A
tal fine va ricordato che egli insegnò all’umanità il primato del culto divino
per mezzo dell’opus Dei, ossia della preghiera liturgica e rituale. Fu
così che egli cementò quell’unità spirituale in Europa in forza della quale
popoli divisi sul piano linguistico, etnico e culturale avvertirono di
costituire l’unico popolo di Dio. […] Col libro, poi, ossia con la
cultura, lo stesso san Benedetto, da cui tanti monasteri attinsero denominazioni
e vigore, salvò con provvidenziale sollecitudine, nel momento in cui il
patrimonio umanistico stava dissipandosi, la tradizione classica degli antichi,
trasmettendola intatta ai posteri e restaurando il culto del sapere. Fu con l’aratro,
infine, cioè con la coltivazione dei campi e con altre iniziative analoghe, che
riuscì a trasformare terre deserte e inselvatichite in campi fertilissimi e in
graziosi giardini; e unendo la preghiera al lavoro materiale, secondo il suo
famoso motto ora et labora, nobilitò ed elevò la fatica umana.
Giustamente perciò – è ancora Paolo VI a parlare – Pio XII salutò san Benedetto
“Padre dell’Europa” , in quanto ai popoli di questo continente egli ispirò
quella cura amorosa dell’ordine e della giustizia come base della vera socialità
».
È sintomatico che Paolo VI abbia posto a capo dell’opera evangelizzatrice e
civilizzatrice del monachesimo benedettino la “croce”, ossia la “legge di
Cristo”. Non bisogna, infatti, dimenticare che tutto quello che il monachesimo
benedettino è stato in grado di realizzare va ricondotto a questa “legge”. La
“ricerca di Dio” che caratterizza la vocazione monastica benedettina è
perseguita attraverso la sequela di Cristo al quale nulla va anteposto: « Nulla
assolutamente antepongano a Cristo » .
È importante ribadire che tutto ciò che i monaci – senza averlo ricercato
espressamente, ma in risposta alle esigenze dei tempi – hanno realizzato lungo i
secoli, sia come propagatori culturali sia come educatori economici , è il
frutto del loro radicamento in Cristo. Tutto, cioè – lo ribadiamo – è il
risultato di un’esistenza vissuta nell’ottica fondamentale del quaerere Deum,
del cercare Dio, sulle orme di Cristo, volto concreto del Padre.
A proposito dell’approccio specifico del mondo monastico alla cultura, la
centralità della ricerca di Dio è stata egregiamente ricordata da Papa Benedetto
XVI nell’allocuzione rivolta al mondo della cultura, al “Collège des
Bernardins”, durante il viaggio apostolico compiuto in Francia, nel settembre
2008:
« Si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione [dei monaci]
di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro
motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum,
cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi
volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane
sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio. Dalle cose secondarie
volevano passare a quelle essenziali ».
Lo stesso vale, ovviamente, per le attività socio-economiche di cui i monasteri
si facevano promotori. I monaci non avevano, di per sé, la vocazione a
colonizzare, a dissodare, a creare fattorie modello, vere e proprie imprese
d’avanguardia dove si conducevano audaci esperimenti di agronomia e si
istruivano in maniera illuminata le masse rurali; non avevano la vocazione a
prosciugare paludi o a costruire mulini, a incrementare l’arte dell’apicoltura o
a prendersi cura dei boschi, a coltivare nuove specie di frutti o a produrre
vino o formaggio, a svolgere una diretta azione evangelizzatrice o a dedicarsi
al recupero e alla trasmissione della cultura classica.
E tuttavia – anche se per molti versi in maniera inconsapevole – i monaci
benedettini (e poi cistercensi) furono all’origine non solo di un movimento
spirituale- religioso che avrebbe indelebilmente segnato l’Europa, ma anche di
un movimento culturale, economico e sociale così profondo e vasto che la
formazione del continente europeo risentì in maniera duratura della loro
presenza e della loro azione.
In altre parole, se i monaci furono dei veri e propri vettori di progresso,
degli autentici portatori di sapere e di applicazioni pratiche, lo furono perché
il loro operato era animato e sorretto da un impulso spirituale che, lungi
dall’essere disincarnato e nemico del mondo, era volto ad additare a
quest’ultimo la vera fonte e il culmine di ogni autentica umanizzazione, cioè
Dio . Questa convinzione sorreggeva anche il loro rapporto con la cultura e il
sapere.
2. Il “libro”. Il monachesimo benedettino e la cultura
Uno degli elementi che hanno dato forma e unità all’Europa – come evidenziato da
Paolo VI nel Breve Pacis nuntius – è stato il “libro”, ossia la
promozione del sapere. È vero che la rinascita della cultura greco-romana – che
rischiava di scomparire del tutto dopo le invasioni barbariche – non è da
accreditare ai soli monaci benedettini. Severino Boezio e Cassiodoro
(quest’ultimo un monaco calabrese contemporaneo di Benedetto) sono alcune tra le
figure più significative che hanno contribuito al salvataggio della cultura
classica al di fuori del circuito benedettino.
E tuttavia è fuor di dubbio che furono soprattutto i monaci di san Benedetto a
tenerne viva la fiamma, anche se a Montecassino Benedetto non si propose di
realizzare una scuola di insegnamenti profani, bensì una « scuola di servizio
del Signore » . È dunque, ancora una volta, sullo sfondo della ricerca di Dio, e
all’interno di un percorso spirituale, che troverà posto l’impegno culturale dei
monaci. Ce lo conferma la seguente testimonianza di Rabano Mauro, abate di Fulda
(784 ca - 856): « Ciò che noi abbiamo l’abitudine di fare e ciò che dobbiamo
fare quando leggiamo i poeti pagani, quando i libri della sapienza di questo
mondo cadono nelle nostre mani, è esattamente questo: se vi troviamo qualche
cosa di utile, lo convertiamo nel nostro dogma (ad nostrum dogma convertimus)
» .
In conseguenza di questa sintesi tra l’eredità classica pagana e l’eredità
giudeocristiana si creò un’omogeneità culturale tra i popoli del Vecchio
Continente, omogeneità informata da una nuova antropologia, che aveva il primato
di Dio e dello spirito quale fondamento ultimo della dignità della persona umana
e dei suoi diritti inalienabili.
Secondo qualche studioso, lo stesso termine “bibliotheca” impiegato da Benedetto
nella sua Regola non andrebbe inteso come luogo fisico nel quale erano
custoditi i libri, ma come “collezione di libri sacri”, cioè come « il corpus
dei libri della Sacra Scrittura » . Ciò conferma che lo scopo principale
della scola istituita da san Benedetto non aveva a che fare con
l’intellettualismo o l’eruditismo, ma – lo ripetiamo – con la ricerca di Dio e
il suo primato nella vita del monaco.
Tuttavia, la priorità data da Benedetto alla lettura meditata e orante della
Sacra Scrittura, la cosiddetta lectio divina, implicava necessariamente
che ogni monaco fosse in grado di leggere . Inoltre, dalla Regola
deduciamo che le letture fatte nell’oratorio e in refettorio non erano le sole
di cui i monaci potevano usufruire poiché essi avevano libero accesso in
qualsiasi momento ai volumi o codici conservati in monastero, e li potevano
leggere da soli, nel dormitorio o in altri luoghi del monastero . Dalle
indicazioni forniteci dalla Regola si arguisce poi che la maggioranza dei
monaci contemporanei di Benedetto era in grado di scrivere , e ciò sarà
egregiamente dimostrato dall’intensa attività degli scriptoria monastici.
Leggere e scrivere sono, di fatto, i due elementi-base di un’azione culturale
strictu senso.
Fu così che i monasteri benedettini sparsi in Occidente, pur non proponendoselo
direttamente come fine – come già sopra sottolineato – divennero i più
importanti centri di elaborazione e irradiazione culturale, in un periodo in cui
sembrava che le devastazioni arrecate dalle incursioni barbariche portassero
alla cancellazione di ogni vestigio di civiltà.
Possiamo dunque affermare che l’attività dello spirito sia in senso religioso
sia in senso lato e la cultura, nella sua forma più basilare – quella cioè che
passa attraverso la capacità di leggere, scrivere, conservare e fare sintesi –,
avevano trovato posto fin dall’inizio nella comunità monastica benedettina.
L’aforisma medievale: « Claustrum sine armario sicut castrum sine
armamentario – Un monastero senza biblioteca [armadio] è come un
accampamento militare senza armi », dice senza dubbio l’amore per il sapere che
pervade la stessa storia del monachesimo occidentale. Ad eccezione di qualche
discutibile parentesi , infatti, la cultura ha sempre riscosso una grande
considerazione nei chiostri monastici europei e non è mai stata vissuta in
antagonismo alla vocazione monastica. Al contrario, essa ha armoniosamente
trovato spazio tra le varie occupazioni dei monaci lasciando tracce indelebili
nei vari campi dello scibile.
Ma come si sostanziava concretamente l’azione culturale ed educatrice dei monaci
che si ispiravano a san Benedetto? Lungo quali direttrici si sviluppava il loro
“fare cultura”? Mi pare di doverne segnalare alcune che ritengo attraversino –
come un fil rouge – il variegato impegno dei monaci nel campo del sapere.
2.1. La cultura della pace
La vita monastica pensata e voluta da san Benedetto è una vita tesa alla
conquista della pace. Non è un caso, dunque, che il Breve con cui nel 1964 Paolo
VI proclamò san Benedetto “Patrono principale d’Europa”, incominci con le
parole: “Pacis nuntius”.
“Pax” è una parola che troviamo spesso scolpita o dipinta sui frontoni e agli
ingressi dei monasteri. Non perché questi ultimi siano de facto delle
oasi di pace, ma perché sono dei laboratori nei quali ogni sforzo della mente e
del cuore è finalizzato all’esperienza della pace. Per questo occorre, in primo
luogo, ricercarla e amarla in se stessi, perché prima che una conquista esterna,
la pace è una conquista interiore, e la si raggiunge costruendola, custodendola
e rinnovandola giorno dopo giorno .
Naturalmente, la pace perseguita dal monaco è quella che scaturisce dalla sua
incessante “ricerca di Dio”, che lo porta inevitabilmente a ricercare tutto ciò
che sta a cuore a Dio stesso, e a sintonizzarsi con la sua volontà, nei
confronti dei grandi problemi della vita dell’uomo e delle realtà che lo
concernono, nel tempo e nella storia. E, secondo le modalità che gli sono
proprie – e dunque anche attraverso lo studio e la ricerca intellettuale, il
monaco offre il suo umile apporto per esportare la pace ovunque e in ogni
situazione.
2.2. Il rispetto per ogni uomo
Dalla Regola di Benedetto traspare un profondo rispetto per la dignità di ogni
essere umano, un rispetto che ne attraversa e impregna, come in filigrana, tutto
il dettato. Il monaco è, infatti, esortato ad avere uno sguardo d’amore che –
proprio perché radicato nell’amore di Dio – riesca a raggiungere e ad
abbracciare ogni uomo, senza alcuna eccezione: « Onorare tutti gli uomini –
Honorare omnes homines » , così si esprime san Benedetto, dimostrando una
grande attenzione al « valore del singolo uomo come persona » .
Quale sguardo evangelico, nuovo e rivoluzionario, sugli uomini! Uno sguardo che
si posa sull’unicità e dignità di ogni persona, uno sguardo che si fa
accoglienza e sa riconoscere in ogni fratello la “terra familiare” di Dio e non
un “territorio ostile” o, addirittura, l’enfer, come affermava Jean-Paul Sartre.
2.3. Unità nella diversità
San Benedetto è stato descritto da Paolo VI anche come “effector unitatis”,
perché aveva ben chiaro quanto i membri della sua comunità, chiamati a formare «
un cuore solo e un’anima sola » (At 4, 32), fossero uno specchio della
diversità di cui gli esseri umani, nella loro unicità, sono portatori. Così,
dietro una facciata di apparente rigidità, dove di primo acchito balza
all’occhio una strutturazione ben ordinata della vita comunitaria, che non
sembra tener conto della soggettività degli individui, san Benedetto sa
mostrarsi flessibile e, quando le circostanze lo richiedono, sa adattarsi alle
diverse situazioni dei singoli monaci. In tal modo egli ci fa comprendere che
l’unità e la comunione non sono il frutto di una fredda omologazione, ma il
risultato di un’integrazione armonica e amorosa delle diversità.
Anche sul piano socio-culturale ed etnico vi è la ricerca di un’integrazione
armoniosa. In tutto l’abate non deve fare preferenze di persone, nemmeno in base
al rango sociale: « Il solo criterio – afferma san Benedetto –, per cui ci
distinguiamo davanti a Lui, è questo: se siamo migliori nel bene e nell’umiltà »
. Se poi pensiamo che nel monastero di Benedetto trovavano accoglienza non solo
gli eredi della romanità, ma anche coloro che provenivano dalle file dei
“barbari” , si comprenderà meglio la portata di queste parole.
2.4. La discrezione
L’attenzione alla persona è resa possibile anche dalla virtù della discrezione,
virtù che si ritrova in sommo grado nella Regola di Benedetto . Secondo il
vocabolario ascetico al quale si rifà san Benedetto – vocabolario che rimarrà in
uso fino al XIII secolo, quando, sotto l’influsso degli scolastici, al termine
discrezione verrà preferito quello di “prudenza” – la discretio rimanda
sia al “discernimento” (diákrisis) che alla “misura” (métron),
rispettivamente nel significato di separazione, divisione, differenza, e di
giusta misura. In senso metaforico, poi, sta ad indicare la facoltà di
distinguere il bene dal male, ciò che proviene da Dio e ciò che è, invece,
suggestione del Maligno.
In un contesto accademico, la discretio, intesa come giusto senso della
misura, protegge i valori umani da forme di estremismo o fanatismo, e aiuta a
leggere e a vivere le vicende umane con apertura di mente e di cuore,
illuminando e sostenendo la vita intellettiva e la ricerca scientifica con
quell’humanitas che nasce dal Vangelo.
2.5. L’ordinario come luogo della “ricerca di Dio”
Un altro insegnamento che possiamo trarre dall’ethos benedettino, in
relazione al sapere, è la consapevolezza che quest’ultimo non è fine a se
stesso. Il chiudersi asetticamente nella “torre d’avorio” delle proprie
conoscenze e ricerche, potrebbe pure gratificare il proprio “io”, ma non
servirebbe a granché se non avesse una qualche ricaduta nella vita. Il vero
sapere si coniuga sempre, in un modo o nell’altro, con l’ordinario, con la
“preziosità del quotidiano”, “luogo” nel quale siamo chiamati a leggere i segni
dei tempi, a scorgere cioè la prossimità di Dio che si manifesta a noi ogni
giorno, e con la quale anche un impegno concentrato sullo studio e sulla ricerca
deve confrontarsi. Significative, in proposito, le parole di Giovanni Paolo II:
« Benedetto, leggendo i segni dei tempi, vide che era necessario realizzare il
programma radicale della santità evangelica […] in una forma ordinaria, nelle
dimensioni della vita quotidiana di tutti gli uomini. Era necessario che
l’eroico diventasse normale, quotidiano, e che il normale, il quotidiano,
diventasse eroico. In questo modo egli, padre dei monaci, legislatore della vita
monastica in occidente, divenne anche indirettamente il pioniere di una nuova
civiltà. […] Bisogna ammirare la semplicità di tale programma, e nello stesso
tempo la sua universalità » .
5. Conclusione
San Benedetto ci esorta a recuperare una visione olistica della vita, a fare
anche delle nostre comunità accademiche degli autentici laboratori in cui
la fede incontra la cultura, e in cui la seconda viene vivificata dalla prima;
dove cielo e terra, visibile e invisibile, temporale ed eterno, uomo e Dio, si
possano incontrare e interagire armoniosamente. In fondo, ovunque ci si trovi a
vivere e ad operare, l’ethos benedettino costituisce un invito a fare di
ogni parola, gesto, pensiero e moto della propria volontà e della propria
libertà un “luogo” nel quale scoprire l’impronta della volontà di Dio sull’uomo,
sul mondo, sull’universo, « affinché in tutto sia glorificato Dio: ut in
omnibus glorificetur Deus » .
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21 marzo 2017 Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net