L'ATTUALITÀ DELLA REGOLA DI S. BENEDETTO
I monasteri per una economia
alternativa e sostenibile 1
Benoît-Joseph Pons [*]
Estratto dal “Bollettino AIM 122” (2023)
Alliances InterMonastères (Alleanza Inter-Monastica) - (Dal sito
aimintl.org)Principi dell’economia monastica
In che modo un gruppo di uomini o donne, che praticano uno stile di vita basato su principi economici opposti a quelli del modello corrente, può ispirare soluzioni ai problemi che incontra il mondo attuale? È questo l’argomento della seguente presentazione.
La vita monastica si basa su quattro pilastri: la preghiera, il lavoro, la lectio divina e la vita comunitaria. La lectio è la lettura di un testo di carattere spirituale, prolungata da una riflessione personale, una meditazione ed eventualmente una preghiera ispirata al testo. I monaci vi dedicano generalmente da una a due ore al giorno. L’economia monastica si articola intorno a questi quattro pilastri e si basa su due principi essenziali: la disappropriazione e l’economia dei bisogni.
La disappropriazione
Nella Regola di san Benedetto, la disappropriazione si fonda sull’obiettivo di «nulla preferire all’amore di Cristo». Essa si esprime in modo pratico attraverso i due precetti:
«Prima di tutto, nel monastero bisogna strappare fin dalle radici questo vizio [di proprietà]» [1], e «Tutto sia comune a tutti – come sta scritto – e nessuno dica o ritenga qualcosa sua proprietà» (RB 33,6).
La Regola dice inoltre:
«Nessuno presuma di dare o ricevere qualche cosa senza il permesso dell’abate, né di avere qualcosa di proprio, assolutamente nulla: né libro, né tavoletta per scrivere, né stilo o penna: nulla affatto, poiché il monaco non ha neppure il diritto di disporre del proprio corpo e della propria volontà» (RB 33,2-4).
In altre parole, il monaco non deve possedere nulla in proprio, né beni materiali, né beni immateriali. Non disporre del proprio corpo conduce alla castità, non disporre della propria volontà conduce all’obbedienza. In pratica, il non possedere i beni che gli vengono messi a disposizione obbliga il monaco a prendersene la massima cura. La Regola chiede al cellerario di trattare «tutti gli oggetti e tutti i beni del monastero come i vasi sacri dell’altare» (RB 31,10). Aggiunge inoltre:
«Se qualche fratello tratta con poca pulizia o con trascuratezza le cose del monastero, venga ripreso» (RB 32,4).
La disappropriazione monastica genera la necessità della solidarietà e della non-competizione professionale. Un incarico è un servizio di cui nessuno è proprietario. Viene assegnato dall’abate, secondo le capacità della persona e le esigenze del monastero. Non dà luogo ad alcun vantaggio personale.
Molti monasteri praticano la «collazione degli incarichi». Ogni tre anni, o quando si rende necessario, ogni monaco rimette il suo incarico all’abate il quale decide se rinnovarlo in quello stesso incarico o se dargliene un altro. Non si tratta di una decisione arbitraria; è maturata insieme con il Consiglio – i monaci che aiutano l’abate nelle scelte – e consultando gli interessati. Ma ogni monaco sa che può, a un certo punto della vita, occupare una posizione importante e successivamente vedersi assegnare una funzione molto più modesta. In monastero non si fa carriera.
L’idea di non mettere la competizione al centro delle relazioni interpersonali è ampiamente sviluppata nell’enciclica di Papa Francesco, Fratelli tutti, idea che si ispira a san Francesco:
«Francesco ricevette dentro di sé la vera pace, si liberò da ogni desiderio di dominio sugli altri, si fece uno degli ultimi e cercò di vivere in armonia con tutti» (FT 4).
L’economia dei bisogni
L’economia dei bisogni è definita nel capitolo 34 della Regola, intitolato: «Non tutti devono ricevere il necessario in misura uguale». Si basa sull’idea di un ritorno al tempo idilliaco dei primi cristiani descritto negli Atti degli Apostoli: «Veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (At 4,35; RB 34,1).
Non si devono considerare tutte le persone come tra loro identiche. Al contrario, ognuno è diverso e ha esigenze specifiche. La Regola dice:
«Chi ha meno bisogno renda grazie a Dio e non si rattristi; chi, invece, ha bisogno di più, si tenga umile per la sua infermità anziché inorgoglirsi per la benevola comprensione che gli viene usata; e così tutte le membra saranno in pace» (RB 34,3-5).
L’economia dei bisogni monastici ha due componenti: ognuno riceve secondo i suoi bisogni e ognuno contribuisce secondo i suoi mezzi. Pertanto, non si dà la stessa cosa a ogni membro della comunità. Gli si dà ciò di cui ha bisogno, in funzione della sua situazione. Nell’organizzazione del lavoro dei monaci chi è giovane e dotato dà tutto quello che ha, chi è più anziano e meno dotato contribuisce secondo le sue possibilità.
Nei negozi o nei laboratori monastici, il lavoro del monaco dà luogo a una retribuzione della comunità. Ma questa retribuzione non è legata al valore del lavoro svolto. È calcolata in riferimento ai bisogni di una persona che lavora, in modo identico, tanto che si tratti di un lavoro semplice quanto di uno molto qualificato.
L’economia monastica come economia alternativa e sostenibile
Questi due principi operativi fanno del monastero una società particolare. Non è un museo di usi e costumi di altri tempi, perché è un luogo in cui si vive attualmente. Non è un laboratorio, perché non vi si fa sperimentazione sociale. È il luogo di un’economia alternativa, perché da qui vengono poste al mondo delle domande sui suoi modi di procedere mentre si cerca di ispirare soluzioni per i nuovi problemi che si presentano. Mi limiterò qui ad esaminare la questione del lavoro.
Il lavoro
Nel mondo, il lavoro serve per produrre dei beni e per assicurare una retribuzione che permette di procurarsi altri beni. È la base del funzionamento dell’economia liberale. Tale scambio di beni è un’opportunità di comunicazione tra le persone. Il lavoro contribuisce a stabilire una gerarchia sociale ed è un elemento di riconoscimento, da parte degli altri e di se stessi.
Karl Marx definisce tre forme di alienazione riguardanti il lavoro: quando la retribuzione non rappresenta che una piccola parte del valore dei beni prodotti, quando il lavoro non mira che a ottenere un salario, quando il lavoratore non può svolgere un’attività fisica o intellettuale che sia libera.
In monastero, la disappropriazione genera una dissociazione completa tra lavoro e retribuzione. Con questo modo di funzionamento, scompaiono le tre forme di alienazione sul lavoro: poiché il monaco non riceve compenso, non lo confronta al valore di ciò che ha prodotto; inoltre, il lavoro che svolge non mira principalmente a ottenere un salario; infine, il lavoro monastico è generalmente di tipo artigianale, il che dà al lavoratore maggiore libertà di azione rispetto a un lavoro a catena.
Si possono attribuire al lavoro tre finalità: lavorare per guadagnarsi da vivere, lavorare per essere riconosciuti dagli altri e da se stessi e, se si è cristiani, lavorare per partecipare all’opera creatrice di Dio.
Lavorare per guadagnarsi da vivere
John Galbraith evidenzia un paradosso:
«La parola “lavoro” si riferisce sia a coloro per i quali esso è estenuante, noioso, sgradevole, sia a coloro che chiaramente lo svolgono con piacere e non vedono in esso alcuna costrizione. “Lavoro” designa al contempo l’obbligo imposto ai primi e la fonte di prestigio e di alta remunerazione che desiderano ardentemente gli altri e di cui godono» [2].
Nell’economia liberale le retribuzioni sono definite dalle uniche due forze riconosciute: il Mercato e il Diritto. È il Mercato che definisce globalmente i valori; il Diritto li inquadra in modo da limitare gli abusi: salario minimo garantito, remunerazione dei tirocinanti, limitazione dell’orario di lavoro, divieto del lavoro minorile ecc. Il Diritto è relativamente efficace nella regolamentazione dei salari bassi. È totalmente inefficace nel controllare i redditi alti.
I monaci del nostro tempo non vogliono vivere di pubblica carità; sono quindi consapevoli della necessità di lavorare per sostenere la propria comunità. Ma poiché il lavoro non procura alcun vantaggio personale, alcuna retribuzione e neppure alcuna particolare considerazione, la natura del lavoro svolto diventa meno importante: occuparsi dell’economato o spazzare il chiostro non è fondamentalmente diverso. Sono solo servizi corrispondenti alle capacità della persona e al bisogno della comunità. Di conseguenza, non c’è competizione per i posti.
Lavorare per essere riconosciuti
Accanto al salario, il riconoscimento è una motivazione importante. Ma già l’importo dello stipendio è, in pratica, un elemento di questo riconoscimento. La ricerca di riconoscimento sul lavoro si traduce spesso nella ricerca di potere, sia per l’immagine che si dà di sé, sia per i vantaggi materiali che ne derivano. Nel mondo, il potere si misura dal numero di persone che si hanno sotto di sé, dal giro di affari, dal fatturato ecc. L’immagine che si offre alla propria famiglia e agli amici è molto importante e può influenzare notevolmente il comportamento. Inoltre, dalla sensazione di essere utili alla propria azienda, famiglia, comunità, si ricava anche un auto-riconoscimento personale.
Contrariamente alla retribuzione, il lavoro come mezzo di realizzazione personale è importante per i monaci. Chi fa un lavoro utile alla comunità apprezza il riconoscimento di quest’ultima, ma se non lo ottiene, per lui è un’ascesi.
Lavorare per partecipare all’opera creatrice di Dio
Secondo la concezione cristiana, l’uomo è stato creato a immagine di Dio.
«Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”» (Gen 1, 26).
Il fatto che l’uomo sia stato creato a immagine di Dio gli conferisce una dignità particolare. Questa dignità non riposa sui suoi beni, sui suoi successi, sulla sua apparenza. L’autorità che gli è attribuita è a immagine di quella di Dio, è un’autorità dell’amore. La teologia della creazione continua si oppone all’idea che la creazione sia solo la costruzione di un’immensa macchina che funzionerebbe da sola. Dio continua a intervenire nel mondo e l’uomo, creato a sua immagine, è chiamato a contribuire a questo intervento.
L’uomo, creato a immagine di Dio, partecipa, attraverso il lavoro, all’opera del Creatore, e continua, nella misura delle sue possibilità, a svilupparla e completarla, progredendo nella scoperta delle risorse e dei valori inclusi nel mondo creato.
Quindi, il lavoro, soprattutto nella sua concezione monastica, non è semplicemente utilitaristico e individualistico: guadagnarsi da vivere e ottenere riconoscimenti. È realizzare un’opera, nel senso dato da Hannah Arendt. È una visione comunitaria, perché ciò che conta è ciò che si apporta al mondo.
Nel XIX secolo si è sviluppata l’espressione «lavoro da benedettino», per indicare un lavoro a lungo termine, che richiede molta pazienza. È la preoccupazione per un lavoro ben fatto, che riprende l’obbligo di prendersi cura di tutti i beni del monastero.
La concezione benedettina del lavoro suppone di dedicarsi a ciò che è utile. Evitare di occuparsi con zelo e pietà di cose “da nulla”. Dom Bertrand Rolin spiega, a proposito del capitolo 48 della Regola, intitolato «Il lavoro manuale quotidiano»:
«La cosa importante di questo capitolo è che si tratta di un lavoro “vero”. E il lavoro “vero” è quello che è “da fare”, dice la Regola, vale a dire ciò che è utile alla vita della comunità e alla sua azione, qualunque sia la sua valorizzazione se si giudica secondo i criteri della società» [3].
Quante volte facciamo delle cose che sono completamente inutili, ma che ci faranno apprezzare dagli altri perché mostrano i nostri talenti?
Lavoro e retribuzione
Nell’economia monastica c’è una dissociazione totale tra lavoro e retribuzione, cosa che non accade nel mondo. In monastero, l’abate deve trovare una persona per ogni lavoro e dare a ciascuno un lavoro. Per principio, non c’è disoccupazione. Ciò ha due conseguenze. La prima è che l’esistenza di un lavoro non dipende dall’equilibrio tra ciò che costa e ciò che apporta. Anche se coltivare un orto è più costoso che comprare le verdure al supermercato, il fatto che dia un lavoro a qualcuno merita di essere preso in considerazione. La seconda riguarda la questione della disoccupazione e dell’indennità di disoccupazione. Viene data la priorità alla riduzione della disoccupazione o all’indennità? La politica tradizionale può far pensare che ci si possa in parte sbarazzare della lotta contro la disoccupazione attraverso una buona indennità per i disoccupati. Le azioni contro la disoccupazione sembrano spesso pilotate soprattutto dalla necessità di abbassare il costo delle indennità. Ora, come abbiamo visto, il lavoro è sicuramente una fonte di reddito, ma non solo. Indennizzare i disoccupati è necessario, ma non basta: bisogna dare loro un lavoro. È una questione di dignità come lo esprime Papa Francesco in Fratelli tutti.
Conclusione sul lavoro
La concezione monastica del lavoro non si applica unicamente ai monaci. Essa ispira anche gli oblati, quei laici che, legati a una comunità, cercano di vivere la Regola nel mondo. Si basa sull’insegnamento della tradizione, ma anche su un adattamento al mondo di oggi. I monaci non esitano a utilizzare macchine ultramoderne nei loro atelier. Tale concezione ha la pretesa di suggerire al mondo una via di progresso, di dare a tutti – cristiani o non cristiani – dei consigli su diversi aspetti.
Prendo qui in considerazione il concetto che il lavoro non deve essere unicamente una fonte di reddito. Il lavoro deve essere un elemento di sviluppo personale. E questo sviluppo personale passa attraverso il fatto di essere utili alla comunità. Per un lavoratore in fondo alla scala è necessario poter essere fiero di quello che fa. Per qualcuno che ha delle responsabilità gerarchiche è necessario organizzare il lavoro dei suoi collaboratori in modo che essi possano sviluppare le loro capacità in quello che fanno. Per i politici e le amministrazioni non basta accontentarsi di indennizzare la disoccupazione, bisogna ridurla.
D’altra parte, il lavoro deve dare alla persona quanto occorre per vivere dignitosamente. I movimenti del Commercio Equo o delle AMAP [4] si adoperano in questa direzione.
Il lavoro non deve essere un luogo di competizione, ma un luogo di cooperazione.
Infine, lavorare di più, guadagnare di più, per consumare di più non è un approccio responsabile, una volta che ci si è procurato il necessario. Ciò solleva la questione del posto della crescita nelle nostre analisi economiche. E anche il problema della pubblicità. Un aspetto moderno della clausura monastica è quello di proteggere dagli incentivi al consumo, in particolare limitando l’accesso a Internet. La pubblicità non è un male in sé, ma l’uso che se ne fa deve essere controllato.
La ricezione dell’enciclica Laudato si’ nei monasteri
La pubblicazione da parte di Papa Francesco dell’enciclica Laudato si’ ha suscitato un’ondata di entusiasmo negli ambienti ecologisti, anche non cristiani. Vi hanno trovato una conferma del loro discorso, passando volutamente sopra i punti che li disturbavano, come la difesa della vita. Paradossalmente, negli ambienti monastici, l’enciclica ha impiegato del tempo per affermarsi, mentre in genere i documenti del magistero sono molto ben accolti. Per cercare di capire questo paradosso, avanzo un’ipotesi: mentre i militanti ecologisti hanno visto nell’enciclica una vera e propria rivoluzione della Dottrina Sociale della Chiesa, i monaci, inizialmente, non vi hanno visto che una nuova espressione di ciò che essi vivono quotidianamente fin dalle origini.
La vita monastica è una vita di preghiera, essenzialmente comunitaria, basata sul canto dei salmi. Il salterio contiene 150 salmi; i monaci lo cantano, normalmente per intero, ogni settimana. Diversi autori hanno lavorato sull’ecologia nei salmi. Alcuni parlano di salmi ecologici, altri di salmi della natura o di salmi della creazione. Cinquantun salmi rientrano in almeno una di queste tre categorie; in altre parole, una parte significativa del salterio è ecologica. Pertanto, un monaco, salvo cantare senza preoccuparsi di ciò che canta, è necessariamente un ecologista, magari senza saperlo o riconoscerlo.
Dopo un certo tempo di maturazione, molti monasteri hanno adottato la Laudato si’, quando si sono resi conto che si trattava di una formulazione brillante di ciò che essi cercavano di vivere e che li aiutava a progredire.
Il principale contributo dell’economia monastica alla questione ecologica è la «felice sobrietà». È un’espressione sviluppata da Pierre Rabhi [5], ma che, in un certo senso, è costitutiva della spiritualità monastica sin dalle sue origini. Per Pierre Rabhi, le risorse del pianeta sono limitate. Le risorse fossili non sono rinnovabili e la capacità della biosfera di assorbire l’inquinamento è limitata.
La nozione di limite è costitutiva della fede cristiana; già nella Genesi Dio disse: «Dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare» (Gen 2,17). Questa nozione di limite si oppone all’idea che la tecno-scienza darà all’uomo un potere illimitato sul suo ambiente. Nella Laudato si’, Papa Francesco afferma che lo sviluppo tecnologico è un bene, ma solo a condizione che sia «accompagnato da uno sviluppo dell’essere umano per quanto riguarda la responsabilità, i valori e la coscienza».
Pierre Rabhi afferma che la crescita economica è irrealistica e assurda: è un modello portatore di morte. È quindi necessario instaurare una politica di civilizzazione basata sulla sobrietà. Dobbiamo soddisfare i nostri bisogni vitali con i mezzi più semplici e sani. La Laudato si’ dice la stessa cosa parlando della necessità della conversione dei cuori. Detto in termini cristiani, la felice sobrietà di Pierre Rabhi equivale al rispetto del creato e alla sollecitudine per le generazioni future alle quali dobbiamo lasciare un ambiente vivibile.
Ma la felice sobrietà monastica differisce da quella ecologista. Mentre gli ecologisti la basano essenzialmente sulla protezione delle risorse naturali e dell’ambiente, i monaci la basano anche su un aspetto sociale: consumare il superfluo equivale a privare altre persone del necessario. Nella visione ecologista, è necessario lavorare di meno per distruggere meno risorse. È la decrescita. Nella visione monastica non si tratta tanto di lavorare per produrre di più quanto di lavorare per soddisfare i propri bisogni o quelli della comunità, perché è necessario poter condividere con coloro che non hanno i mezzi per produrre tutto ciò di cui hanno bisogno.
Conclusione
In questa breve presentazione dell’economia monastica come economia alternativa e sostenibile abbiamo identificato alcuni aspetti che possono essere di ispirazione per il mondo. Il valore del lavoro come mezzo di sviluppo personale, i potenziali danni della concorrenza nei rapporti economici, la ricerca del consumo come fonte di felicità. Ciò conduce al valore dell’idea di felice sobrietà che non deve essere considerata soltanto sotto l’aspetto ambientale, ma anche sotto quello sociale. Nel prolungamento di questa proposta, si dovrebbe affrontare la questione delle disuguaglianze sociali. La vita monastica permette di evitare la trappola di uno squilibrio insopportabile. L’economia dei bisogni interroga fortemente l’attuazione del principio di uguaglianza.
La parola «pax» è il motto benedettino. San Benedetto presenta la pace come un bene che dobbiamo cercare intensamente. È la parola che meglio riassume l’armonia, caratteristica dell’esistenza del monaco. Nel prologo della Regola, san Benedetto chiede di cercare la pace e di perseguirla incessantemente; questa ricerca della pace è associata alla ricerca di Dio, come due obiettivi che si fondono l’uno nell’altro. L’economia monastica, basata sulla disappropriazione e l’economia dei bisogni, alle quali si aggiungono la non-concorrenza e la felice sobrietà, offrono i mezzi per ottenere questa pace. Ed è la pace che rende l’organizzazione sostenibile.
[*] Benoît-Joseph Pons francese, è un agronomo. Ha iniziato la sua carriera nell’industria come ricercatore in microbiologia alimentare. È stato poi un imprenditore nel campo della chimica farmaceutica. Ha conseguito una licenza in teologia e un dottorato in economia presso la Facoltà di Scienze Sociali ed Economiche dell’Institut Catholique di Parigi. Attualmente è ricercatore presso la cattedra Jean Bastaire dell’Université Catholique di Lione. Ha scritto un libro su: «L’économie monastique. Une économie alternative pour notre temps» (2018).
[1] Regola di San Benedetto (di seguito RB) 31,1.
[2] J. Galbraith, Les mensonges de l’économie - Vérité pour notre temps, Paris, Bernard Grasset, 2004, p. 34.
[3] Dom B. Rollin, Vivre aujourd’hui la Règle de saint Benoît - Un commentaire de la Règle, Bégrolles en Mauge, Bellefontaine, coll. Vie monastique n° 16, 1983, p. 54.
[4] Le AMAP ˗ Associazioni per il mantenimento dell’agricoltura contadina ˗ hanno lo scopo di promuovere l’agricoltura contadina e biologica che fa fatica a sopravvivere di fronte all’agroindustria. Il principio è quello di creare un legame diretto tra agricoltori e consumatori, i quali si impegnano ad acquistare la produzione a un prezzo equo e pagando in anticipo. [Nota dell’Editore].
[5] Pierre Rabhi (1938-2021), agricoltore, saggista, conferenziere francese di origine algerina, è considerato uno dei pionieri dell’agro-ecologia che mira a rigenerare l’ambiente naturale escludendo pesticidi e fertilizzanti chimici. Le sue numerose opere hanno riscosso un grande successo. Ha co-fondato il movimento cittadino Colibris che chiede azioni locali, quali gli orti condivisi, le fattorie didattiche o ancora i circuiti brevi di approvvigionamento. È anche contestato per i suoi metodi non scientifici, per i suoi agganci con la filosofia esoterica sviluppata da Rudolf Steiner negli anni ’20 (l’antroposofia), per i suoi rapporti con i capi di grandi gruppi industriali. [Nota dell’Editore].
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8 maggio 2023 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net