I FIGLI DI SAN BENEDETTO
EVANGELIZZATORI D'EUROPA
Estratto da: "Monaci per l'Europa
– I grandi evangelizzatori dell'Alto Medioevo", di Giovanni Spinelli, O.S.B.
– Abbazia di Seregno 1999
INTRODUZIONE STORICA
«Se soltanto per questo i barbari fossero stati immessi entro i
confini di Roma, affinché le chiese di Cristo si riempissero di Unni e di Svevi,
di Vandali e di Burgundi, popoli diversi e masse innumeri di credenti; se solo
perciò fosse questo avvenuto, dovremmo glorificare la misericordia di Dio, dal
momento che così numerose genti sono pervenute alla conoscenza della verità, che
altrimenti non avrebbero potuto conseguire».
(Paolo Orosio,
Le storie contro i pagani, VII,
41, 8).
La
frase di Paolo Orosio, scrittore cristiano spagnolo discepolo di sant’Agostino,
vissuto all’inizio del sec. V, dice assai bene tutto lo stupore dell’antica
cristianità romana per il provvidenziale manifestarsi d’un disegno divino, che
sulle rovine dell'Impero
di Roma faceva sorgere una nuova cristianità, nella quale i barbari si
affiancavano ai Romani. In fondo il ragionamento di Orosio ricalcava quello di
san Paolo apostolo, che — meno di quattro secoli prima — nella
lettera ai Romani, parlando degli Ebrei, affermava che
l’indurimento del loro cuore nei confronti del Vangelo e la conseguente rovina
della loro nazione aveva favorito l’ingresso dei pagani nella Chiesa: «a causa
della loro caduta la salvezza è giunta ai pagani, per suscitare la loro gelosia.
Se pertanto la loro caduta è stata ricchezza del mondo e il loro fallimento
ricchezza dei pagani, che cosa non sarà la loro partecipazione totale!... Se
infatti il loro rifiuto ha segnato la riconciliazione del mondo, quale potrà mai
essere la loro riammissione, se non una risurrezione dai morti?... O profondità
della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio!» (Rom 11, 11b-12.
15. 33a).
Come la
Chiesa dell’età apostolica era uscita a fatica dal ghetto del
giudeo-cristianesimo per aprirsi, grazie all’ardente iniziativa missionaria di
san Paolo, all’evangelizzazione dei pagani, Greci e Romani, così, una volta
terminato il periodo delle persecuzioni, la Chiesa dell’età costantiniana, già
impegnata nella conversione dei pagani, che ancora restavano dentro i confini
dell’impero romano, era convinta che i confini della cristianità dovessero
coincidere, per disposizione provvidenziale, con i confini della romanità. Ma a
partire dalla fine del sec. IV, allorché sotto la travolgente avanzata degli
Unni, feroce e bellicoso popolo di razza mongola, proveniente dalle steppe
dell’Asia centrale, tutte le popolazioni germaniche rimaste fino allora sotto il
controllo delle legioni romane iniziarono a transmigrare entro i territori
dell’impero, succedendosi come tante ondate devastatrici e determinando il
crollo politico di quest’ultimo, la Chiesa si trovò davanti a un nuovo problema,
che soltanto un rinnovato impegno di evangelizzazione
poté
risolvere. Quest’impegno non fu però il frutto d’una scelta meditata e
programmata dall’alto, bensì il risultato di molteplici iniziative isolate,
spesso casuali, che misero in luce un gran numero di anime generose, quasi tutte
consacrate al servizio di Dio dalla loro precedente vocazione monastica. A detta
degli storici nell’epopea missionaria dei secoli V e VI, cioè fino a san
Gregorio Magno (papa dal 590 al 604), non ci fu nessuna reale influenza diretta
del papato, essendosi sfasciato con l’impero il prestigio del vescovo di Roma su
tutta la cristianità imperiale. Al posto dell’impero, entro i suoi stessi
confini, erano sorti, a partire dal sec. V, i regni romano-barbarici, entità
politiche spesso effimere, rapidamente distrutte o inglobate dalle successive
ondate di popolazioni che vorticosamente si spostavano alla ricerca di territori
sempre più fertili e ricchi. Tanto per dare un’idea sommaria della situazione di
sfascio politico-religioso che si era creata, ricordiamo qui i principali regni
barbarici esistenti entro i confini dell’impero
romano d’Occidente al momento della sua caduta (476).
In
Italia dominavano gli Eruli, governati da Odoacre, a cui si sarebbero di lì a
poco sostituiti gli Ostrogoti di Teodorico. In Spagna si erano installati i
Visigoti, che lasciavano uno spazio marginale a nord-ovest per il regno dei
Suebi, mentre persisteva a ridosso dei Pirenei l’autonomia dei Vasconi (o
Baschi), che neppure i Romani erano riusciti a soggiogare. Il regno dei Visigoti
si estendeva fin quasi alla Loira, confinando col dominio dei Sassoni di
Siagrio, cui ben presto si sarebbero sovrapposti i Franchi di Clodoveo, che per
il momento stanziavano a cavallo del Reno, in una zona corrispondente grosso
modo all’odierno Benelux, salvo le coste degli odierni Paesi bassi, occupate dai
Frisoni. Alle spalle di questi ultimi, nel bacino del Weser (odierna Westfalia),
premevano altri Sassoni, che assieme agli Angli e agli Juti erano sbarcati anche
sulle coste sudorientali della Gran Bretagna, scacciandone i Bretoni o Britanni,
i quali sopravvivevano nella parte occidentale della loro isola nonché sulla
penisola continentale che i Romani chiamavano Armorica e noi oggi chiamiamo
Bretagna. A oriente dei Sassoni e dei Franchi, nella zona grosso modo compresa
fra l’Elba e il Reno si erano insediati i Turingi e gli Alamanni, mentre — più a
sud — tra il regno dei Visigoti e il dominio di Odoacre s’incuneavano i
Burgundi, che occupavano tutto il bacino del Rodano. Lungo la linea del Danubio
resistevano ancora i presidi dell’impero, anche se esposti alla continua
minaccia dei Rugi, sospinti alle loro spalle dai Bavari e dai Longobardi, che
avanzavano sotto l’incalzare degli Slavi.
In
questa situazione — quanto mai fluida ed incerta — non era facile tenere un
atteggiamento lineare, dal momento che ognuno di questi popoli aveva un diverso
modo di rapportarsi alla religione cristiana e alla tradizione romana. Non tutti
i Barbari erano pagani: alcuni infatti avevano già un’idea approssimativa del
cristianesimo, che una parte di loro — i Goti, ad esempio — aveva già
abbracciato nella sua forma ariana. Infatti per iniziativa del vescovo ariano
Wulfila (311-383) il cristianesimo già nel sec. IV era penetrato tra i Goti che
stanziavano nelle terre a nord del Danubio e poi irruppero nei territori
dell’impero, a cominciare dalla Mesia (l’odierna Bulgaria): questi primi barbari
ricevettero un cristianesimo di fede ariana, che ben si adattò al loro costume
rozzo e violento soprattutto grazie alla versione della Bibbia fatta da Wulfila
nella loro lingua, per la quale egli aveva creato anche un apposito alfabeto.
Così, fin dagli inizi, l’evangelizzazione dei Barbari si rivelò come
un’importantissima operazione culturale. Ciò spiega anche l’attaccamento dei
Goti all’arianesimo, divenuto un fondamentale aspetto della loro identità
nazionale: il loro arianesimo fu anche uno dei fattori che resero difficili — in
un primo tempo — i rapporti con la cattolicità romana.
I Goti
infatti, divisisi in Ostrogoti (Goti dell’Oriente)
ed in Visigoti (Goti dell’Occidente), furono — non meno dei Vandali che,
dopo la Spagna, avevano occupato il Nord Africa — persecutori dei cattolici nei
loro due rispettivi regni: quello di Spagna (Visigoti) e quello d’Italia
(Ostrogoti). Solo la conversione al cattolicesimo di Recaredo (587) diede il via
in Spagna a una collaborazione sempre più stretta fra regno visigotico ed
episcopato cattolico, sancita nell’occasione dei famosi concili nazionali,
riuniti a Toledo tra il 589 ed il 702. Nel frattempo però si era unito alla
Chiesa cattolica anche il popolo dei Suebi o Svevi, che era entrato in Spagna
insieme ai Vandali e che dai Visigoti era stato ricacciato nella parte
nord-occidentale della penisola iberica (la cosiddetta Galizia): la loro
conversione fu opera specialmente di san Martino di Dumio o di Braga († 579) e
venne confermata dall’annessione al regno visigotico, in seguito alla
conversione di Recaredo. L’arrivo degli Arabi metterà fine a questa fioritura
cristiana della penisola iberica, che rinascerà faticosamente solo dopo il 1000,
attraverso la riconquista cristiana del territorio occupato dai Musulmani.
Anche
in Italia la cristianità ebbe a soffrire dalla dominazione dei Goti ariani, dopo
il crollo dell’impero romano d’Occidente (476), che fin dal 380 aveva
riconosciuto al cattolicesimo romano la qualifica di «religione di Stato».
Difficoltà politiche con l’impero bizantino portarono Teodorico, re degli
Ostrogoti, a perseguitare i cattolici che guardavano a Bisanzio come al più
sicuro baluardo delle tradizioni romane. Così perirono in carcere il
grande filosofo Severino Boezio (524) e il papa Giovanni I (526), colpevole di
non esser riuscito ad ottenere dall’imperatore
Giustino un trattamento più mite per i suoi sudditi ariani. Tuttavia né la
dominazione gotica né la lunga guerra (535-555) che vi tenne dietro compromisero
seriamente la stabilità del cristianesimo in Italia, così come invece avvenne
nei paesi dell’Europa nord-occidentale a seguito delle invasioni barbariche.
Anche l’invasione dei Longobardi, pagani e semiariani, che penetrarono dal
Friuli in Italia nel 567, sebbene descritta con colori apocalittici da san
Gregorio Magno, non portò a una totale sparizione della civiltà romano-cristiana
precedente. Dopo alcuni decenni per essa cominciò da parte dei Longobardi una
lenta assimilazione, resa tuttavia più faticosa dallo scisma tricapitolino
(553), che per oltre un secolo impedì la piena comunione fra i cristiani posti
sotto il dominio longobardo e facenti capo al
patriarca di Aquileia e quelli posti sotto il dominio bizantino e — come tali —
facenti capo al vescovo di Roma e all’esarca imperiale di Ravenna.
Durante
tutta la dominazione longobarda tuttavia il papato esperimento quanto fragile
fosse l’appoggio datogli dall’impero d’Oriente contro le pretese sempre più
minacciose dei sovrani longobardi sui territori soggetti alla Sede Apostolica.
Alla fine i papi preferirono rivolgersi ai Franchi, il cui cattolicesimo — di
ormai vecchia data — dava migliori garanzie di quello bizantino, sempre agitato
da dispute teologiche. E venuto dunque il momento di parlare di quella che fu la
prima e più strepitosa conversione al cristianesimo di un popolo barbaro, quella
dei Franchi operata da san Remigio, vescovo di Reims, che intorno al 496
battezzò il re Clodoveo e con lui tutto il suo popolo, il quale, varcato il
Reno, aveva soggiogato quasi tutto il territorio delle antiche Gallie romane.
«Vestra
fides nostra victoria est» (MGH, Auctores
antiquissimi, VI/2, Berolini 1883, p. 75), scriveva a re Clodoveo
sant’Avito, vescovo di Vienne nella Gallia sottomessa ai Burgundi, parafrasando
le parole dell’apostolo san Giovanni, il quale aveva scritto ai primi cristiani:
«Questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede!» (1 Gv 5, 4b). Se la
fede dei primi cristiani era il segno della vittoria riportata da Cristo sul
mondo pagano, la fede ricevuta dai barbari, che si erano piegati al Vangelo, era
il segno della vittoria che la cristianità romana riportava sulla barbarie
pagana, dopo esserne stata a lungo minacciata e sconvolta. La conversione dei
Franchi, primo popolo germanico ad abbracciare in massa il cristianesimo nella
sua forma cattolica romana, è dunque da considerare evento capitale della storia
della Chiesa tardo- antica e avvenimento fondante della futura civiltà europea,
in cui si fonderanno
l'aequitas
romana, la vis germanica e la mansuetudo cristiana. Clodoveo aveva
sposato una principessa burgunda di nome Clotilde, già cattolica, mentre il
popolo dei Burgundi seguiva ancora l’arianesimo, pur intrattenendo buoni
rapporti con i vescovi cattolici delle Gallie, come il sant’Avito da noi appena
citato. Sotto il soave influsso di santa Clotilde († 545) il re franco abbracciò
il cattolicesimo, accattivandosi così non solo le popolazioni galloromane che
vivevano sul territorio da lui occupato, ma anche quelle sottomesse agli altri
sovrani barbarici che a quell’epoca dominavano le Gallie, cioè i Visigoti
dell’Aquitania, i Burgundi della valle del Rodano e gli Ostrogoti della
Provenza. Fu soprattutto merito del favore accordato ai Franchi dall’episcopato
cattolico e dall’antica aristocrazia gallo-romana, oltre che del dinamismo
militare di Clodoveo e dei suoi figli, se tutti questi piccoli domini in cui il
territorio dell’odierna Francia era frazionato finirono per cedere il posto a
un’unica grande monarchia, che estendeva la sua autorità ben oltre i confini
dell’antica Gallia romana, restandone escluso solo il piccolo lembo
sud-orientale detto Settimania, controllato dai Visigoti. In compenso erano
stati sottomessi, a oriente del fiume Reno, gli Alamanni, i Bavari e i Turingi,
tra i quali il cristianesimo penetrò per mezzo di monaci missionari, provenienti
dal regno dei Franchi, come il misterioso san Fridolino e, più tardi, il vescovo
san Pirmino. Lotte dinastiche e decadenza di costumi, denunciate dal monaco
irlandese san Colombano (t 615), che aveva a lungo soggiornato tra i Franchi,
portarono in seguito il regno dei Merovingi (così si chiamarono i discendenti di
Clodoveo) sull’orlo della rovina, espressa nella pratica frantumazione in
quattro diversi regni: l’Austrasia, che comprendeva i territori di nord-est,
cioè il bacino inferiore del fiume Reno, la Neustria, comprendente i territori
di nord-ovest posti tra la Senna e la Loira, l’Aquitania che si estendeva dalla
Loira ai Pirenei, e la Burgundia (o Borgogna), che comprendeva quasi tutta la
parte sudoccidentale delle antiche Gallie, coincidente grosso modo con il bacino
del Rodano. Mentre però il potere regio s’indeboliva, cresceva quello
politico-militare dei cosiddetti «maestri di palazzo», uno dei quali, Carlo
Martello, capostipite della dinastia carolingia, salvò il regno franco ed
insieme con esso l’Europa cristiana, sconfiggendo gli Arabi a Poitiers nel 732 e
ricacciando così l’invasione musulmana a sud dei Pirenei.
Ugualmente interessanti la costruzione della civiltà europea sono le vicende
religiose di altri popoli, posti ai confini dell’impero romano: in particolare
quelli di origine celtica, che abitavano le isole del Nord, Irlanda e Britannia,
detti Scotti o Pitti. Essi occuparono la parte nordoccidentale dell’odierna Gran
Bretagna, mentre gli Angli, i Sassoni e gli Juti, provenienti dall’odierna
Danimarca
(Jutland) e dalla Germania nord-occidentale, avevano occupato la parte
sudorientale della Britannia romana, che avrebbe in conseguenza preso il nome di
Inghilterra (England = terra degli Angli).
Gli
antichi cristiani della Gran Bretagna, emigrando verso oriente sotto la spinta
degli invasori Anglo-Sassoni, portarono il cristianesimo nel Galles, nella
Cornovaglia e in Irlanda. Emblematica a questo riguardo è la figura di san
Patrizio († 461?), giovane cristiano britanno rapito da pirati irlandesi, che —
dopo sei anni di schiavitù in Irlanda — venne sul continente ad approfondire il
proprio cristianesimo nelle scuole episcopali e nei centri monastici delle
Gallie: ordinato vescovo ad Auxerre verso il 432, fece ritorno in Irlanda, dove
si consacrò per un
trentennio all’evangelizzazione di quel popolo, facendo della propria sede
vescovile di Armagli, nell’Irlanda settentrionale (Ulster), il centro
d’irradiazione del cristianesimo non solo per quell’isola, ma anche per il nord
della Gran Bretagna, cioè il paese dei Pitti o degli Scotti (Scotland).
Rimasero famosi in quest’ultima zona i due monasteri fondati su due isole della
frastagliatissima costa scozzese: quello di Iona, sulla costa occidentale,
fondato da san Columba verso il 585, e quello di Lindisfarne, sulla costa
orientale, fondato da sant’Aidano verso il 655.
Il
cristianesimo iro-scozzese, plasmato alla scuola di san Patrizio, si
caratterizzò per tutta una serie di tratti originali, derivanti dalle sue
origini celtiche: il primo di questi caratteri è proprio lo spirito monastico.
In Irlanda non è il vescovado, bensì il monastero a costituire la cellula
fondamentale dell’organizzazione ecclesiastica territoriale. Gli abati sono
insigniti della giurisdizione episcopale e — in qualche caso — anche dei poteri
sacramentali propri dei vescovi. Quando non hanno la consacrazione episcopale
esercitano ugualmente la loro giurisdizione tramite monaci insigniti del
sacerdozio o dell’episcopato, che restano a loro sottomessi come ausiliari. In
questi monasteri si registrò anche una prodigiosa fioritura culturale, che non
sappiamo fino a qual punto sia derivata dalle scuole delle Gallie, da cui
certamente emigrarono sul suolo irlandese libri e maestri. Nei monasteri
irlandesi vennero coltivate in modo del tutto speciale l’esegesi biblica e la
grammatica latina. Altra caratteristica dei monaci irlandesi fu il loro spirito
penitenziale, che li spingeva non solo a terribili mortificazioni, ma anche a
pellegrinaggi senza meta, al solo scopo di diffondere il Vangelo fra i pagani,
nella speranza di subire anche il martirio. Ciò spiega il gran numero di monaci
missionari irlandesi venuti sul continente, specialmente nel regno dei Franchi,
da dove si sparsero un po’ in tutta l’Europa centrale, fondando monasteri in
Francia (Luxeuil), in Svizzera (San Gallo), in Baviera (Salisburgo) e persino
nella nostra Val Padana (Bobbio).
La
diffusione del cristianesimo e del monachesimo
di stampo irlandese sul nostro continente fu favorita anche dal fatto che i
monaci iro-scotti nella loro penetrazione verso la Britannia occidentale, allo
scopo di convertire gli Anglo-sassoni, furono ostacolati dalla presenza di
monaci di origine romana, mandati a evangelizzare gli Angli dal papa Gregorio
Magno (596): costoro impiantarono nella grande isola un tipo di cattolicesimo
molto più conforme al modello romano, incentrato cioè sulle sedi arcivescovili
di Canterbury e di York, in stretto contatto con la Sede Apostolica, e, come
tale, destinato a scontrarsi con la rude
cristianità monastica di origine irlandese. I conflitti non furono né pochi né
brevi e giunsero a una soluzione soltanto verso il 663, nel sinodo di Whitby,
dove l’energico monaco Wilfrido di Ripon (†
709), di ritorno da un viaggio a Roma, fece prevalere l’autorità della Sede
Apostolica e anche gli usi romani, specialmente in ordine alla data della
Pasqua, che gli irlandesi erano soliti computare a loro modo. Wilfrido, divenuto
in seguito arcivescovo di York, si sarebbe occupato anche della evangelizzazione
dei barbari del continente, in modo particolare dei Frisoni, che occupavano le
coste dell’odierna Olanda, prospicienti le coste inglesi.
Per
parlare adeguatamente dell’opera missionaria di san Wilfrido e dei suoi
continuatori Willibrordo (Clemente) e Winfrido (Bonifacio), che nel sec. Vili
sbarcarono sul continente per tentare l’evangelizzazione dei Frisoni e dei
Sassoni i quali — rimasti pagani — costituivano una continua minaccia per il
confinante regno dei Franchi, dobbiamo ritornare a Carlo Martello e a suo figlio
Pipino il Breve, che ne furono i principali sostenitori. Ad essi del resto si
rivolsero anche i romani pontefici per averne protezione contro l’invadenza dei
Longobardi, dando così origine a quell’alleanza tra papato e regno dei Franchi
che sarebbe stata il fondamento del futuro Sacro Romano Impero d’Occidente.
Fondamentale per gli sviluppi storici della Chiesa in Europa fu la riforma della
Chiesa franca attuata intorno al 742 da san Bonifacio in stretta unione con la
Sede Apostolica da una parte e col potere politico dei due figli e successori di
Carlo Martello, Pipino e Carlomanno, dall’altra. Venne ristrutturata la rete dei
vescovadi, alla cui testa i prelati indegni furono sostituiti da titolari
appositamente preparati, scelti fra i monaci e i chierici che erano stati
formati nelle scuole dei monasteri, divenuti ormai la base del sistema
scolastico nel regno franco e unificati dal punto di vista legislativo sotto la
Regola di san Benedetto, che san Bonifacio fece appositamente venire da
Montecassino, tramite il suo discepolo Willebaldo (†
787). Nella stretta unione dei metropoliti, cioè gli arcivescovi, con la Chiesa
romana venne altresì individuata l’altra chiave di volta di tutto il sistema
politico-ecclesiastico che dal regno dei
Franchi sarebbe passato, nell’impero Romano d’Occidente, prima realizzazione
dell’Europa unita nel segno del cristianesimo in seguito all’incoronazione
imperiale del figlio di Pipino il Breve, Carlo Magno (†
814).
Importante caratteristica dell’azione dei missionari anglosassoni Willibrordo e
Bonifacio fu anche il coinvolgimento nell’opera evangelizzatrice di donne, ma
soprattutto di badesse e di monache, spesso a essi legate con vincoli di
parentela:
dobbiamo ricordare in modo speciale santa Lioba, che
dal monastero di Wimborne nel Wessex si trasferì al seguito di Bonifacio sul
continente, dove fondò il monastero di Bischofsheim, e santa Walburga, sorella
di san Willibaldo e di san Wunibaldo, parenti e collaboratori di Bonifacio
nonché fondatori del monastero doppio di Heidenheim, di cui Walburga
divenne abbadessa alla morte del fratello Wunibaldo (†
761). I monasteri, tanto maschili che femminili, fondati dai missionari
anglosassoni, come Echternach, fondato da san Willibrordo, vescovo di Utrecht, e
Fulda, fondato da san Bonifacio, arcivescovo di Magonza, prepararono
l’integrazione nel futuro Impero carolingio delle popolazioni germaniche non
ancora pervenute alla fede cristiana. Tuttavia, morto martire san Bonifacio
durante la sua ultima missione tra i Frisoni (754), l’opera di cristianizzazione
di queste popolazioni che premevano ai confini orientali dell’impero fu
proseguita da Carlo Magno, soprattutto nel caso dei Sassoni, più con la spada
che con la parola, dando il via a conversioni forzate, precedute da deplorevoli
massacri.
D’altra
parte — sotto il governo del figlio di Carlo Magno, Ludovico il Pio — un monaco
franco di origini sassoni, Ansgario (†
865), intraprendeva l’opera di evangelizzazione delle popolazioni scandinave,
che dal nord dell’Europa scendevano sulle coste
del continente a fare paurose razzie: i Vikinghi o Normanni rimasero a lungo il
terrore dei mari settentrionali e, nonostante gli sforzi di Ansgario, per il cui
merito sorse la città di Amburgo, sua prima sede episcopale, solo nel sec. XI
gli Scandinavi abbandonarono il loro brutale paganesimo.
Al
fallimento di Ansgario fecero riscontro i successi dell’opera di
evangelizzazione degli Slavi, intrapresa per volontà dell’imperatore d’Oriente
dai due fratelli, originari di Tessalonica, Cirillo (†
869) e Metodio († 885), che seppero abilmente
trasformare una missione politico-diplomatica in una grande avventura
religioso-culturale, per mezzo della traduzione della Bibbia e dei testi
liturgici nella lingua propria degli Slavi, per i quali san Cirillo creò un
apposito alfabeto, chiamato dapprima glagolitico e in seguito
cirillico, che è ancor oggi la base culturale dei popoli slavi.
Purtroppo i missionari bizantini, provenienti da sud-est, dopo aver
evangelizzato la Bulgaria, si scontrarono in Moravia con i missionari latini
provenienti da nord-ovest, cioè dall’impero carolingio. Si trovarono così a
confronto non solo due diverse aree politico-geografiche, ma anche due diverse
mentalità teologiche, quella latina e quella bizantina. Il conflitto fu lungo e
doloroso, ma ebbe il merito di indurre i due fratelli a cercare l’appoggio di
Roma, dove il papa Adriano II (867-872)
benedisse la loro missione e li incoraggiò nello sforzo di adattamento della
liturgia greca alla cultura slava. Così Cirillo morì a Roma e vi fu sepolto,
mentre Metodio ricevette dal papa il titolo dell’antica sede arcivescovile di
Sirmio, sul Danubio, che gli garantiva la giurisdizione metropolitica sulla
Pannonia e la Moravia, in cui si svolse il suo apostolato grazie al quale intere
popolazioni entrarono nell’unica Chiesa di Cristo, non ancora lacerata dallo
scisma che avrebbe in seguito contrapposto Roma e Bisanzio (1054). Perciò nel
1980, cioè esattamente undici secoli dopo che il papa Giovanni Vili (872-882)
con la bolla Industriae tuae ebbe confermata l’opera missionaria di
Metodio ratificando la legittimità della liturgia paleoslava, i due fratelli di
Tessalonica sono stati proclamati da Giovanni Paolo II, primo papa d’origine
slava, patroni d’Europa accanto a san Benedetto, legislatore del monachesimo
latino.
La
menzione del papa polacco ci obbliga ad accennare anche all’ultima grande opera
di conversione attuata dalla Chiesa romana avanti la fine del primo millennio
cristiano, che costituisce il limite cronologico della nostra trattazione. Dopo
lo sfascio dell’impero carolingio, avvenuto sul finire del sec. IX, l’Europa
cristiana si dovette confrontare con le feroci razzie degli Ungheri, che non
solo avevano preso il posto degli antichi Unni, occupando il territorio della
Pannonia (l’odierna Ungheria), ma ne ripetevano le gesta devastatrici verso le
popolazioni occidentali sia a sud che a nord delle Alpi. In mancanza
dell’autorità imperiale, si erse a baluardo contro di essi la dinastia germanica
della casa di Sassonia, impersonata dal re Ottone I, che li sconfisse nella
battaglia del Lechfeld (955), aprendo così la strada alla propria incoronazione
imperiale (962) e alla restaurazione dell’antico Impero.
Questo
energico sovrano, appena salito al trono, aveva anche fondato sulla frontiera
orientale della Sassonia il
monastero di S. Maurizio a Magdeburgo,
allo scopo di farne un centro missionario per la conversione degli Slavi
settentrionali, che stanziavano a est dell’Elba. Poco dopo la sua incoronazione
imperiale, Ottone I ottenne dal papa Giovanni XII l’erezione dell’abbazia di
Magdeburgo in sede metropolitana, avente come suffraganee le diocesi della
Sassonia. Primo arcivescovo ne fu nominato l’ex-abate Adalberto (968-981), che
favorì la creazione di un vescovado anche a Poznan (968), in territorio polacco.
Tale territorio si era costituito come stato indipendente solo nel 967 sotto lo
scettro del duca Mieszko I, che — l’anno prima — in occasione del suo matrimonio
con una principessa boema era passato al cristianesimo, portando con sé alla
fede tutto il suo popolo: la nazione polacca e la Chiesa polacca nacquero dunque
praticamente insieme negli anni dal 966 al 968.
Alla
scuola di Adalberto di Magdeburgo venne educato, dal 972, il giovane principe
boemo Woytech Slavnik, che per riconoscenza verso il suo maestro ne prese il
nome. Divenuto in seguito vescovo di Praga, Adalberto Slavnik abbandonò il
vescovado per farsi monaco benedettino a Roma e quindi missionario tra gli
Ungheresi, di cui preparò l’adesione al cattolicesimo romano, collaborando con
il loro principe Geza alla fondazione del monastero di Pannonhalma. Tale
adesione fu ratificata dal papa Silvestro II nell’anno 1000, con l’invio della
corona regale al figlio del granduca Geza, il principe Bela: il regno di
Ungheria divenne così vassallo della Sede Apostolica. Bela — convertitosi al
cristianesimo — prese il nome di Stefano e organizzò la gerarchia ecclesiastica
nel suo regno attorno alla sede arcivescovile di Gran (Esztergom): oggi è
venerato dalla Chiesa come santo Stefano, re d’Ungheria (†
1038).
Lasciata l’Ungheria, sant’Adalberto di Praga si recò in Polonia, dove con
l’aiuto del duca Boleslao il Valoroso progettò una spedizione missionaria tra i
Prussiani, tragicamente finita presso Danzica con il suo glorioso martirio (23
aprile 997). La sua morte però ha dato un meraviglioso impulso alla cristianità
polacca, che in seguito alla sua canonizzazione (999) ha fatto della chiesa
cattedrale di Gnienzo, in cui le sue reliquie furono deposte dal duca Boleslao,
il proprio santuario nazionale, divenuto anche per volontà dell’imperatore
Ottone III e del papa Silvestro II la sede primaziale del regno, proclamato
nell’anno 1000.
Così
contemporaneamente due delle più grandi nazioni dell’Est europeo, Polonia e
Ungheria, giungevano alla pienezza dell’indipendenza politica e
dell’organizzazione religiosa nell’ambito della Chiesa cattolica, in stretta
comunione con la Sede Apostolica di Roma, alla cui fedeltà nei secoli seguenti
non sarebbero mai venute meno, nonostante le persecuzioni subite dai moderni
regimi anticristiani. Questa è l’idea fondamentale che anche il papa Giovanni
Paolo II ha ribadito ogni volta che si è recato in Polonia per venerare le
reliquie del patrono della sua patria e che ha avuto quasi la sua ufficiale
consacrazione nella solenne beatificazione dei 108 martiri del paganesimo
nazista celebrata il 13 giugno 1999 a Varsavia, durante l’ultima visita
pontificia, occasionata proprio dal millenario della canonizzazione di
sant’Adalberto. Effettivamente un filo rosso, che scorre lungo tutto questo
millennio, lega fra di loro il monaco missionario martire del sec. X e gli
eroici ecclesiastici e laici uccisi dal nazismo nel sec. XX: sia l’uno che gli
altri sono morti perché l’Europa
fosse libera e cristiana, dal momento che solo la verità del Vangelo può
liberare integralmente gli uomini e i popoli.
È
giunto il momento di concludere questa nostra breve introduzione alla storia
della conversione dell’Europa al cristianesimo, operata principalmente dai figli
di san Benedetto nei secoli dell’alto Medioevo. Ci sembra che per uno sguardo
globale a questi secoli, generalmente ritenuti fra i più oscuri della storia
dell’Occidente, valga ancora la sapiente e non retorica considerazione fatta dal
beato Federico Ozanam (1813-1853) al termine della sua trattazione sulla
evangelizzazione dei barbari: «Il tempo che abbiamo percorso non ci diede le
meraviglie dell’eloquenza classica; non abbiamo mai ritrovato le tribune di
Atene e di Roma e neppure la parola dorata di san Giovanni Crisostomo, né le
grida patetiche di sant’Agostino. Tuttavia san Giovanni Crisostomo e
sant’Agostino, con tutta la bellezza del loro genio, non riuscirono che a
consolare gli ultimi momenti dei loro popoli d’Antiochia e d’Ippona; aiutarono
la società antica a ben morire, onorarono i suoi funerali. I predicatori dei
tempi barbari fecero di più: crearono dei popoli nuovi» (F.
Ozanam, La civilisation
chrétienne chez les Francs, in Oeuvres complètes, IV, Paris 1855, p.
577).
Nota del redattore
del sito.
Il libro prosegue
con le dettagliate biografie di:
1. San Severino del Norico († 482)
2. San Fridolino di Säckingen († 540)
3. San Martino di Braga († 579)
4. Sant’Agostino di Canterbury († 605)
5. San Colombano di Bobbio († 615)
6. San Ruperto di Salisburgo († 718)
7. San Pirmino di Hornbach († 753)
8. San Willibrordo di Utrecht († 739)
9. San Bonifacio di Magonza († 754)
10. Sant’Anscario di Amburgo-Brema († 865)
11. San Rudesindo di Cellanova († 977)
12. Sant’Adalberto di Praga († 997)
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10 aprile 2020 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net