Il movimento monastico primitivo
Estratto da “Il cammino di Cristo nell’Impero romano” di Paolo
Siniscalco – Editori Laterza 2009
…. : la
storia inaudita di Cristo penetra nella coscienza dei popoli a poco a poco
e, a poco a poco, trasforma le concezioni sulla sorte e sulla storia
dell’uomo - e la possibilità stessa di rappresentarla
[1] - : essa infatti richiede la
conversione profonda di ognuno e solo a questa condizione diventa operante
nel tessuto della società.
(Frase finale del capitolo precedente)
3.
Il movimento monastico primitivo.
Alla fine
dell’antichità il monachesimo in particolar modo ha risposto a
quest’esigenza radicale. Esso è fenomeno che, pur in forme diverse, si
rileva in tutte le religioni storiche e, in generale, si può dire consista
nella ricerca di un legame della terra con il cielo o se si vuole nella
ricerca di quel centro capace di far riscoprire la verità totale sull’uomo.
In ambito
cristiano esso sorge quando le persecuzioni stanno per terminare e ha uno
sviluppo sorprendente quando la nuova religione diviene religione ufficiale.
È fin troppo facile, e tuttavia risponde al vero, vedere nell’atteggiamento
del monaco una continuità con quello del martire, anche se l’agiografia
segnala un mutamento consistente di prospettiva: essa tratta infatti della
vittoria sul mondo e non più, come accade negli atti dei martiri, della
vittoria sulla morte. La perfezione cristiana si costruisce nelle nuove
condizioni storiche non più « contro una storia non-cristiana, ma dentro e
contro un mondo segnato da mediazioni che la fede ha assunto dal patrimonio
rivelato, ma anche dalla tradizione gentile. È il problema di come la
perfezione possa darsi entro quella che è stata chiamata la cristianità. Il
modello monastico è il modello della perfezione possibile entro la
cristianità »
[2].
Pur
essendo stata confrontata ad altre forme d’ascetismo precedenti (e, tra le
altre, si possono e si devono ricordare quelle vigorose in ambiente
giudaico, dai Terapeuti di Alessandria agli Esseni di Qumran), l’istituzione
cristiana ha mostrato, con le sue originarie motivazioni evangeliche,
ideali, caratteri e potenzialità sue proprie
[3].
La forma
più antica consiste nell’anacoresi, il ritiro nel deserto, perché le prime
manifestazioni di un tal genere di ascesi nascono in Egitto, paese ricco di
deserti. Altrove, in condizioni ambientali e climatiche diverse, anacoresi
ha significato ritiro, per esempio, nella foresta. In termini moderni la
parola significa « darsi alla macchia », che è quanto fanno i banditi, i
criminali, i colpevoli, categorie di uomini a cui nell’antichità si
aggiungevano i debitori insolventi, i contribuenti braccati dal fisco, gli
asociali di ogni specie
[4].
I monaci
da parte loro abbandonano la vita attiva del mondo per dedicarsi a quella
contemplativa e ascetica. Stando alle parole di Girolamo, che di queste cose
si intendeva per averle sperimentate, nel 383-384, tempo in cui scrive la
sua lettera alla giovane discepola Eustochio, in Egitto vi erano tre
categorie di monaci: i cenobiti, che vivevano in comune, gli anacoreti che
isolandosi in luoghi deserti traevano il loro nome precisamente dal fatto di
allontanarsi dagli uomini, e infine i girovaghi. Con l’usuale vivacità e
spregiudicatezza, Girolamo dice malissimo di questi ultimi e bene degli
altri.
I
girovaghi, die gli egiziani chiamano
remnuoth, vivono a due o
tre, o poco più numerosi, senza dipendere da nessuno; « il frutto del loro
lavoro lo mettono insieme per procurarsi l’alimento. Spessissimo vivono in
città e borghi; e tutto quel che vendono costa sempre più del solito, come
se il loro lavoro e non la loro vita debbano essere considerati santi...
Ogni cosa è affettata in loro: le maniche ampie, le calzature larghe,
l’abito rozzo; frequenti i sospiri. Vanno a visitare le vergini, dicono male
dei chierici; e se viene un giorno di festa si riempiono di cibo fino a
vomitare ».
Diverso
il quadro che Girolamo dà dei cenobiti. « La prima comune legge per loro è
quella di ubbidire ai superiori e fare quel che essi comandano. Sono divisi
in decurie e in centurie, di modo che in ogni gruppo di dieci ce n’è uno che
presiede. E in ogni gruppo di cento c’è uno che comanda. Vivono separati
nella propria cella... Vivono di pane, legumi ed erbe, condite solo col
sale. Il vino Io prendono solo i vecchi... È prescritto il lavoro quotidiano
e il prodotto del lavoro consegnato al decurione è poi recato all’economo,
il quale ne dà conto ogni mese al padre generale »
[5].
Antonio
(251-356) è il padre dei monaci. Dal medio Egitto, dove egli è nato ed è
vissuto, presto il movimento monastico si diffonde per ogni dove in quella
terra. Con Pacomio, ancora in Egitto, nasce il cenobitismo: egli fonda la
sua comunità in un villaggio abbandonato a Tabennisi. Anche in Siria compare
il monachesimo, non per gemmazione da quello egiziano, come per molto tempo
sì è creduto, ma indipendentemente; e poi in Palestina, in Asia Minore, in
Cappadocia e in altre regioni. Nel corso del IV secolo esso giunge in
Occidente, dove lo si trova, per esempio, a Milano, intorno ad Ambrogio, in
Africa, intorno ad Agostino, e ancora in Spagna, in Gallia, e all’inizio del
V secolo sulla costa provenzale.
L’ideale
monastico conquista parimenti uomini e donne: basti pensare all’ambiente
romano femminile che segue Girolamo in Siria ed Egitto, per stabilirsi poi
per lunghi anni in Palestina. Ci è noto che all’inizio del V secolo nei
monasteri pacomiani vi erano 7000 monaci. In due gruppi di
laurae, ossia di colonie
recintate che ospitavano semieremiti, situate ad occidente del delta del
Nilo, nel medesimo periodo vi erano rispettivamente 5000 e 3500 monaci. A
Costantinopoli, o nelle sue vicinanze, alla fine della seconda decade del V
secolo, si contavano ben 85 monasteri, ai quali si devono aggiungere altri
39 che si trovavano oltre il Bosforo, a Calcedonia
[6].
La
vivacità e l’importanza del monachesimo per la vita della Chiesa e
dell’impero sono chiaramente attestate dalla letteratura agiografica, le cui
opere sono destinate ad avere una enorme fortuna ancora nel Tardo Antico e
poi nel Medioevo. Poco dopo la metà del IV secolo Atanasio scrive la
Vita Antonii, subito tradotta in latino (la sua appare anzi
un’operazione assai importante che esprime un pacificato rapporto tra
vescovi e monaci; l’Alessandrino, pastore di ima delle più antiche sedi
della cristianità, scrivendo quella biografia, mostra di apprezzare e in
certo modo di legittimare pienamente l’esperienza monastica; d’altra parte,
con il tracciare la figura di Antonio, fornisce per primo l’anello di
congiunzione tra la preistoria e la storia del monachesimo).
Poco dopo
Girolamo compone le Vite
di Paolo, Malco e Ilarione; Sulpicio Severo la
Vita Martini, ove si
tratta non più di un monaco, ma di un monaco-vescovo. E ancora si possono
ricordare, lungo il medesimo filone, le opere di Cassiano, di Ilario di
Arles, fino ai Dialoghi
di Gregorio Magno, alla Vita
Severini di Eugippio e oltre, ormai in ambito altomedievale.
Alcuni
critici hanno voluto vedere una grande distanza tra il modello antoniano e
quello martiniano (o meglio tra Atanasio e Sulpicio). Il primo conserverebbe
intatta l’originalità cristiana, il secondo, proprio per il mescolarsi al
mondo, per il venire a contatto con dò che è accessorio, mostrerebbe il
proliferare di elementi secondari
[7].
Altri più plausibilmente, basandosi sui motivi di fondo che percorrono
quelle biografie, hanno osservato che il modello agiografico non muta. Il
monaco-contemplativo non è opposto al vescovo-attivo: ambedue gli aspetti
sono presenti. La perfezione raggiunta per dono di Dio tramite la
contemplazione deve manifestarsi nell’azione e quindi rivelarsi alla storia,
combattendo il male (esterno e interno alla Chiesa) e « conquistando » il
mondo
[8]. È significativo che Antonio, secondo
la narrazione atanasiana, esca solo due volte dal deserto, per recarsi nella
grande città di Alessandria (già Filone aveva osservato che ogni città,
anche la meglio governata, presenta il più miserando spettacolo di sommosse,
disordini, sfacelo, tanto che colui il quale sia stato preso una volta
dall’amore della sapienza, non può restarvi): la prima durante la
persecuzione di Diocleziano, per confortare i confessori ed esporsi lui
stesso al martirio, se tale fosse stato il disegno di Dio; la seconda
durante la controversia ariana per sostenere con il suo prestigio i vescovi
cattolici, difendendo con loro l’ortodossia. All’interno di questo orizzonte
minor rilievo hanno i modi dell’azione: in una figura può prevalere la
solitudine assoluta e la preghiera continua, in un’altra può essere
particolarmente presente la missione antipagana o la disputa antieretica,
un’altra figura ancora può dar largo spazio alle attività sociali (così
nella comunità di Basilio di Cesarea, per il quale la vita del monaco è
legata a quella dell’intera comunità; per cui scuola, ospizio, orfanotrofio
fanno parte integrante del monastero).
Il
carattere radicale da cui nasce e il tempo (quando il cristianesimo diventa
religione ufficiale) in cui si sviluppa il movimento monastico, pur nella
grande gamma di (orme e di luoghi in cui si presenta, pongono sul tappeto il
problema del rapporto con i poteri egemoni nella società del tempo. Qui si
tocca un tema importante che, in breve, sarà più volte trattato nelle pagine
seguenti.
La
vittoria sul mondo che il monaco, con l’aiuto di Dio, ottiene non vuol dire
presa di possesso politico, almeno là dove rimane integra la fedeltà alla
vocazione originaria. Al contrario, essa significa l’affermazione delle «
esigenze » di Dio e dell’uomo — fatto a sua immagine e somiglianza — nella
storia: donde i fronti che si aprono sia rispetto agli errori dottrinali
(paganesimo ed eresia) sia rispetto alla prepotenza politica, anche se
coperta di nome cristiano.
Indubbiamente è il nostro un periodo in cui, in seno alla civiltà
greco-romana, con entusiasmo e in misura crescente si accetta l’idea che il
potere divino non tanto si manifesta in forma diretta all’individuo comune o
attraverso istituzioni permanentemente stabilite, quanto è rappresentato
sulla terra da un numero limitato di agenti umani eccezionali, autorizzati a
farsene tramiti presso i loro pari a causa di una relazione con il
soprannaturale specifica e stabile.
L’« amico
di Dio », perfettamente rappresentato in quel tempo dall’asceta, acquista un
ruolo importante nella società, anche perché la società gli concede uno
spazio rilevante; e la sua ascesa coincide con l’affermazione della Chiesa.
È stato scritto che « l’amicizia con il grande invisibile porta con sé le
medesime conseguenze dell’amicizia con i grandi di questo mondo: significa
ben più che intimità; significa potere »
[9]. Si è parlato di ansia, di frenesia
del potere, acquisito proprio rifiutandolo.
Bisogna
osservare che i più antichi documenti che ci presentano i modelli
agiografici destinati a riflettersi per secoli nella spiritualità cristiana
non avallano quest’interpretazione: così, per esempio, le opere di Atanasio,
di Sulpicio Severo o di Girolamo. Certo l’agiografia monastica mette in luce
il grande prestigio che il monaco possiede, non per averlo studiatamente
cercato, ma per esserselo visto attribuire dai suoi contemporanei a motivo
della sapienza che l’esercizio ascetico, lo
studium deificum
[10] rendono manifesta.
Una sapienza che pare consistere soprattutto nella capacità di conoscere
l’uomo, nel sapere guardare fin nell’intimo del cuore e perciò
nell’aiutarlo.
Evidentemente non è possibile passare in rassegna le molte opinioni dei
critici che anche negli ultimi decenni hanno interpretato il fenomeno del
monachesimo antico, sebbene un tale esame avrebbe notevole interesse. Mi
limiterò a rammentare qualche spunto recentemente proposto e che mi sembra
significativo e stimolante.
Elena
Michàjlovna Štaerman nella sua opera su
La schiavitù nell'Italia imperiale
osserva che se lo storico contemporaneo nel descrivere la società antica non
riesce ad estraniarsi dal sistema di rapporti del tempo moderno, sarà
incline a vedere nell'anachoresis una forma di lotta di classe generata dalle
condizioni peculiari dell'economia antica, irripetibile nei periodi
successivi, una fuga dal posto di lavoro, uno sciopero insomma. Ma questo
non è altro che un esempio di falsa interpretazione. Gli studiosi non hanno
dubbi sul fatto che
l’anachoresis
sia stata un’espressione di protesta; essi divergono però sul come
intenderla. Bisogna rivolgersi alla predicazione cristiana primitiva per
capirne la radice e il senso; una predicazione che espresse
« una profonda insoddisfazione nei
confronti della realtà, un tentativo, nella forma più estremistica per
l’antichità, di contrapporre la personalità alla società esistente, con il
suo Stato, l’ineguaglianza economica, la gerarchia sociale, la religione che
la consacrava, la cultura nel suo complesso... La rabbiosa condanna del
mondo reale, con i suoi ordinamenti che avevano portato all’asservimento
dell’uomo, si associò nel primo cristianesimo con il tentativo di
contrapporgli l’emancipazione interiore dell’umanità »
[11].
Un altro
aspetto del tema, quello del monachesimo femminile, comincia a essere meglio
indagato, anche se pochi sono i contributi finora pubblicati che lo
riguardano: su di esso, come fenomeno profondamente diverso nelle sue
motivazioni psicologiche e nei suoi esiti sociali da quello maschile, non è
ancora stato fatto un discorso soddisfacente; né, per esempio, si è badato a
sufficienza al posto che il monachesimo femminile ha avuto nello sviluppo e
nella trasmissione della cultura in Occidente, agli effetti che ha recato
nei confronti dell’emancipazione della donna o alle ripercussioni probabili
sulla teologia mistica. £ stato detto che paradossalmente queste donne,
separate dal mondo, hanno dato le migliori testimonianze delle capacità di
elevazione della donna nelle cose dello spirito
[12].
Sono
suggestioni e spunti che invitano a riconsiderare, al di là dell’orizzonte
tradizionale - ma, a mio credere, per arricchirlo -, anche l’anacoresi
primitiva, tenendo presenti i vari livelli a cui si situa e i diversi
soggetti che la realizzano.
[1]
Cfr. E. Auerbach, Studi su Dante cit., pp. 14 sgg.
[2]
C. Leonardi, I modelli dell’agiografia latina dall’epoca antica
al Medioevo cit., in AA.VV., Passaggio dal mondo antico al
Medioevo da Teodosio a San Gregorio Magno cit., pp. 444 (e 442).
[3]
Si veda un’analisi delle varie teorie moderne che hanno cercato di
render conto della nascita del monachesimo in L. Bouyer, La vie
de Saint Antoine. Essai sur la spiritualité du monachisme primitif,
Saint-Wandrille 1950.
[4]
Cfr. H.-I. Marrou, in Nuova Storia della Chiesa cit., I, p.
319.
[5]
Girolamo, Epist. 22, 34 sgg.
[6]
Cfr. A.H. M. Jones, Il tramonto del mondo antico cit., p.
498; Id., The Later Roman Empire cit., pp. 930 sg.
[7]
Cfr., per esempio, E. Delaruelle, Etudes Mérovingiennes,
Poitiers 1952, pp. 67 sg.; H.-I. Marrou, La place du Haut Moyen
Age dans l’histoire du christianisme, in AA.VV., Il passaggio
dall'antichità al Medioevo in Occidente, Spoleto 1962 (Settimane
del Centro Italiano di studi sull’alto Medioevo, IX), pp. 595-630
(615 sgg.).
[8]
Cfr. C. Leonardi, I modelli dell’agiografia latina cit., pp.
15 sg.
[9]
Cfr. P. Brown, The Making of Late Antiquity cit., p. 63 e
passim.
[10]
Cfr. Atanasio, Vita Antonii 3, 2 e passim (nel testo
dell’antica versione anonima latina).
[11]
E. M. Staerman-M. K. Trofimova, La schiavitù nell’Italia
imperiale cit., p. 278 (vedi pure p. 277).
[12]
Cfr. A. Solignac, in Dictionnaire de Spiritualité, t. X
(1980), 1605, s. v. « Monachisme (féminin) ». Cfr. E.
Pasztor, La donna nei movimenti religiosi del Medio Evo, «
Rivista di pastorale liturg. », 19 (1981), pp. 17-30 (anche per
l’attenzione dedicata, pur in brevi pagine, all’eredità
greco-romana, ebraica e cristiana e agli inizi del monachesimo
femminile). Vedi inoltre le osservazioni di I. Magli, Alla
scoperta di noi selvaggi, Milano 1981, pp. 172 sgg.
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maggio 2017 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net