MONACHESIMO E ORDINI MENDICANTI
Luigi Pellegrini
Estratto da “IL MONACHESIMO ITALIANO
NELL’ETA’ COMUNALE”
ITALIA BENEDETTINA XVI
CESENA – BADIA DI SANTA MARIA DEL MONTE
Duo novae
conversationis ordines in provincia et praecipue in ipsa civitate Magdeburgensi
haberi coeperunt, unus eorum, qui sanctos Praedicatores se nominat, alter eorum,
qui Minores frates appellantur; de quibus ferunt, quod ante hoc tempus viginti
annis instituti et ab Innocentio papa fuerint confirmati. Et prior quidem
clericorum tantum est; sequens vero et clericos et laicos recipit, quem dicunt
ab institore quodam initium accepisse. Quid autem est huismodi novitatis
introductio, nisi quaedam exprobratio neglectae et otiosae conversationis eorum,
qui in ordinibus constituti sunt, in quibus Ecclesia primitus est fundata?
Denique beatissimus Augustinus et Benedictus, qui ita docuerunt ut vixerunt, ad
quantum sanctitatis culmen ex sua conversatione pervenerint, notum est, quorum
praeceptis si quis oboedientiam servare voluerit, nullis novis institutionibus
videbitur indigere.
Nam si
eisdem novis institutionibus sanctitas quaeritur, illa posset sufficere ad quam
praedicti patres sanctissimi secundum suas vivendo regulas pervenerunt. Non enim
facile credi potest, quod quisquam vel ex ordine sanctorum Praedicatorum vel
Minorum Fratrum Augustino vel Benedicto sanctior sit futurus. Absit autem, ut
quorumdam bonis studiis derogando haec dixerim, sed quia dolendum et valde
dolendum est, quod primitivi ordines ex eorum, qui eosdem professi sunt,
inordinata conversatione ad tantum deducti sunt contemptum, ut saeculo
renuntiare volentibus ad salutem sufficere non credantur.
Si enim posse sufficere putarentur, numquam novi alii qaererentur.
Due ordini che presentano un nuovo modo di vita religiosa cominciarono a stabilirsi nella provincia, soprattutto nella città di Magdeburgo. Uno di loro era chiamato dei Santi Predicatori; l'altro, dei Frati Minori. Si dice che sono stati fondati circa venti anni prima di questo tempo e sono stati confermati da Papa Innocenzo. Il primo di questi è formato soltanto da chierici; il secondo riceve sia chierici che laici, e si dice che iniziò con un commerciante. Ma perché sono state introdotte queste novità, se non come una sorta di rimprovero contro il modo trascurato e indolente della vita religiosa di quelli (di noi) che vivono in ordini su cui la Chiesa fu fondata? In realtà, i benedetti Agostino e Benedetto hanno vissuto come hanno insegnato ed è noto a quali grandi altezze di santità essi sono saliti vivendo il loro modo di vita religiosa. Certo, se qualcuno avesse la volontà di seguire docilmente i loro precetti, sembrerebbe non aver bisogno di nessuna nuova istituzione. Perché se queste nuove istituzioni sono alla ricerca della santità, allora la santità alla quale i due padri santissimi sono arrivati vivendo secondo le loro regole dovrebbe essere sufficiente. Non è facile credere che chiunque proveniente dall'Ordine dei Santi Predicatori o dall’Ordine dei Frati Minori diventerà più santo di Agostino o Benedetto! Ora lungi da me, quando dico queste cose, dal voler screditare gli sforzi zelanti di nessuno. Ma io dico che bisogna deplorare, sì, vigorosamente deplorare, il fatto che gli antichi ordini sono stati condotti in tale discredito dal modo disordinato della vita di coloro che li professano, tanto che essi non sono più ritenuti sufficienti per la salvezza da coloro che desiderano rinunciare al mondo. Infatti, se fossero ancora considerati sufficienti, non ne sarebbero mai stati cercati di nuovi. (libera traduzione dal latino: N.d.R.)
Così nel 1224 annotava l’arrivo a Magdeburgo di minori e predicatori il cronista
della canonica regolare di Petersberg (Chronicon
Montis Sereni, edidit
E. Ehrenfeuchter,
in
MGH,
SS,
23,
Hannoverae 1876, p. 220-221).
L’impressione forte della
novitas
dei
due
conversationis ordines dà corpo, anzi enfasi alla
notizia e, ben al di là di una semplice e secca registrazione cronachistica,
impegna il cronista in una riflessione sul significato stesso della vita
religiosa. Le sue annotazioni sembrano dar voce alla reazione degli ambienti
monastici tradizionali all’apparire dei mendicanti in forma ormai strutturata di
comunità religiosa. L’amara presa d’atto della decadenza delle comunità
monastiche è resa più acuta dalla consapevolezza del ruolo fondamentale nella
chiesa svolto in tempi purtroppo passati e dalla convinzione della perfezione
insuperabile delle « forme di vita dei beatissimi Agostino e Benedetto». La
concorrenza dei nuovi ordini religiosi nella capacità di reclutamento appare
ormai insostenibile, altra constatazione amara di una situazione alla quale
sembra che l’unico rimedio sarebbe il ritorno all’antica disciplina monastica;
ma pare che il cronista lo avverta come chimera. Non resta dunque che prendere
atto dell’alternativa proposta dalla
novitas della vita mendicante.
Purtroppo le fonti monastiche italiane non registrano, che io sappia,
particolari reazioni in proposito per quegli anni. Si cominciano ad avere dei
riscontri quando ormai i due nuovi ordini religiosi nel loro processo evolutivo
hanno assorbito più di un elemento dall’organizzazione monastica e soprattutto
quando la canonizzazione ufficiale e solenne ha ormai fatto assurgere i due
fondatori tra i grandi protagonisti della santità e della vicenda storica della
chiesa. Bisogna attendere che l’autore del
Chronicon Marchine Tarvisinae et Lombardiae, o Annales S. Iustinae, attorno agli anni settanta del
secolo, sottolinei il molo profetico nella chiesa e nel mondo dei due nuovi
ordini religiosi e dei loro fondatori, o che il monaco di Vallingegno presso
Gubbio, autore della cosiddetta
Legenda de passione s. Verecundi,
nella seconda metà del secolo XIII registri con compiacimento l’accoglienza
cordiale riservata da quella comunità monastica a Francesco, l’ospitalità
offerta al « capitolo dei [suoi] primi trecento frati» e altri racconti che
hanno lo scopo di evidenziare come il giovane e ormai affermato ordine religioso
sia sorto e si sia sviluppato grazie alla cordiale disponibilità dei monaci di
S. Verecondo nei confronti dei primi francescani.
E
appunto nei decenni centrali del sec. XIII che l’attenzione a questo nuovo
fenomeno della vita religiosa si va diffondendo tra i cronisti monastici nelle
varie regioni d’Europa: si pensi per la Germania ai premonstratensi, Burcardo di
Ursperg e Aimone di Witterwierum, al cronista benedettino di Ebersmünster
(Ebersheim), al cistercense Cesario di Heisterbach, per l’area francese al
benedettino Richerio di Sens, al cistercense Alberico des Trois Fontaines, si
pensi ai due cronisti dell’abbazia inglese di S. Albans, Ruggero di Wendover e
Matteo Paris. I toni e gli accenti che assumono i riferimenti monastici al
fenomeno mendicante man mano che le due nuove istituzioni religiose si vanno
consolidando evidenziano una singolare capacità di cogliere con notevole senso
storico il progressivo diversificarsi dei due organismi religiosi rispetto alle
caratteristiche che ne avevano connotato le origini. Si va dagli atteggiamenti
iniziali di cauta riserva, pur nel dovuto riconoscimento della positività della
nuova esperienza, come fanno appunto il cronista di Petersberg e Cesario di
Heisterbach, o dall’atteggiamento di incondizionata ammirazione, alla
segnalazione della difformità, o addirittura dello stridente contrasto nei
confronti dell’evangelica semplicità delle origini: si pensi alle puntuali
osservazioni di Matteo Paris a proposito delle progressive trasformazioni delle
sedi e delle modalità di vita dei frati minori, o ai rapidi, ma significativi
rilievi di Richerio di Sens a proposito dell’allentamento della tensione
originaria sia presso i predicatori, che presso i minori; si giunge anche a
denunziare le tendenze devianti dall’ortodossia da parte di qualche membro dei
nuovi ordini religiosi, come fa Alberico des Trois Fontaines. Qualunque sia
l’atteggiamento dei cronisti, non v’è dubbio che la singolarità di questa forma
di vita religiosa e il suo successo nella società e nella chiesa dell’epoca
colpirono l’ambiente monastico transalpino e meritarono « l’onore delle cronache
», che accompagnò il fenomeno dal suo primo apparire alla sua più matura
espressione.
La
constatazione della relativa ricchezza di riferimenti ai due nuovi ordini
religiosi presso i cronisti monastici d’oltralpe suscita in noi più di una
curiosità a proposito dell’accoglienza riservata ai nuovi ordini
dal mondo monastico al di qua delle Alpi. Per cogliere indicazioni sulle
reazioni nei confronti di una forma di vita religiosa, che si presentava come
alternativa e senz’altro fortemente concorrente rispetto all’esperienza
religiosa del monachesimo tradizionale, e per evidenziare, ciò che più conta in
questa sede, momenti e modalità di rapporto risulterebbero preziose tali
annotazioni cronachistiche: fenomeni ed eventi vengono segnalati in base
all’importanza che il cronista vi annette; le riflessioni e i commenti e, quando
il cronista si attenga alla scarna registrazione, il tono stesso della
segnalazione evidenziano l’impatto emotivo, più o meno razionalizzato, e la
risonanza che il fenomeno registrato ha nell’ambiente, di cui il cronista si fa
portavoce. Ma, come è noto, la grande vena della storiografia monastica, che in
Italia tra secolo XI e XII aveva offerto i suoi più numerosi e validi prodotti,
sembra esaurirsi nei due secoli successivi. Il
Chronicon Marchiae Tarvisinae et Lombardiae,
redatto nel monastero padovano di S. Giustina, rappresenta forse l’unica,
significativa eccezione, accanto ad opere di ben minor rilievo e respiro, come
appunto la
Passio s. Verecundi e il
Chronicon del monastero di S. Michele di
Tivoli, che ci dà la prima segnalazione dell’insediamento minoritico nella
cittadina laziale. Segno anche questo di un declino dell’istituzione monastica
in area italiana, fenomeno che non va certo né generalizzato né assolutizzato -
le notevoli eccezioni di area veneta, specificamente del Padovano e del
Trevigiano ne rappresenterebbero un’eloquente smentita - ma di cui non si può
non prendere atto. Sembra in proposito molto realistica l’osservazione del
cronista francescano Salimbene: «Ordo s. Benedicti, quantum ad monachos nigros,
longe melius servatur in partibus ultramontanis quam in partibus Italicis » : la
ben diversa vitalità della produzione storiografica in ambiente monastico nelle
due aree geografiche dell’Europa del secolo XIII è in proposito fenomeno
rivelatore. L’osservazione del cronista francescano appare del resto molto
realistica anche nel circoscrivere la crisi ai
monaci nigri, benché le ancor vivaci
congregazioni dei vallombrosani, dei certosini e dei pulsanesi diano ormai più
di un segno di declino, di cui beneficeranno, e lo si vedrà, i nuovi ordini
mendicanti, anche per quanto riguarda i complessi insediativi. Anche alcuni dei
compiti precedentemente assunti dai cistercensi passeranno, per iniziativa
convergente del papato e dei nuovi movimenti religiosi maschili e femminili,
agli ordini mendicanti, nonostante che in più di un caso tentassero di
sottrarvisi.
Dobbiamo dunque concepire i mendicanti come un fenomeno di netta frattura con
le
tradizionali modalità di vita e
organizzazione religiosa,
che viene a
soppiantare il
vecchio monachesimo?
In tale linea interpretativa
sembra collocarsi l’autocoscienza storica del maturo movimento mendicante,
soprattutto nelle più consapevoli,
e
in qualche caso radicalizzate
espressioni
di provenienza minoritica, dove
appaiono funzionali a una forte sottolineatura della
novitas mendicante in genere, e
francescana in specie, le reinterpretazioni e i più o meno abili adattamenti, in
chiave autoapologetica, della rilettura della storia proposta da Gioacchino da
Fiore. Anche se non v’è dubbio che presso gli autori più accorti, come un
Bonaventura da Bagnorea, sia vivo il senso della continuità di una vicenda
storica, di cui i
novissima tempora, i
novissimi dies appaiono sì come avvio di una
nuova e definitiva era, ma anche come logica conclusione di alcune fra le più
positive premesse rappresentate dalle migliori esperienze religiose delle epoche
precedenti. D’altra parte sono spesso gli stessi autori monastici a sottolineare
come i
duo
novi ordines rispondano a una ricerca
religiosa che si colloca su una linea diversa, o addirittura alternativa
rispetto alle modalità ormai consolidate anche presso le più recenti forme di
vita monastica. E’ del resto perfino superfluo ribadire in questa sede come
soprattutto le scelte originarie dei francescani abbiano ben poco a che vedere
con le strutture monastiche: si pongono piuttosto sulla linea dei movimenti
religiosi laici attratti e stimolati dalla provocazione evangelica. Appaiono
estranee a tale linea anche quelle che comunemente, e giustamente, sono state
individuate come « anticipazioni » delle modalità di vita che saranno
caratteristiche dei mendicanti, ivi comprese la rinuncia a ogni genere di
proprietà e le modalità per procacciarsi i mezzi di sussistenza, come pure
l’impegno in attività pastorali, o in ruoli collegati alla politica
ecclesiastica del papato.
È un
cronista canonico regolare a cogliere con intelligenza storica lo stretto
rapporto tra le origini istituzionali dei due nuovi ordini religiosi sotto
l’egida del pontificato di Innocenzo III e la richiesta di riconoscimento
pontificio da parte dei gruppi religiosi laici, sui quali gravavano precedenti
condanne: mi riferisco alla testimonianza, pur discutibile per alcune
sostanziali inesattezze, di Burcardo di Ursperg. Il gruppo di Francesco e quello
di Domenico (o meglio del suo vescovo, Diego di Osman) possono dunque fruire
della favorevole contingenza del nuovo indirizzo impresso alla politica
religiosa del papato dall’azione energica ed accorta di Innocenzo III
nell’intento di ricondurre entro
l’alveo del controllo centrale dell’istituzione ecclesiastica - e quindi,
nell’ottica pontificia, dell’ortodossia - il fervido mondo dell’iniziativa
religiosa dei laici. Tra i due nuovi ordini religiosi e il papato s’instaura ben
presto un forte e assolutamente privilegiato legame di stretto raccordo, di cui
è chiaro segno anche la scelta dell’ufficio liturgico
secundum ordinem sancte Romane ecclesie: Francesco nel suo
Testamentum ribadisce vigorosamente la normativa precisa della
Regula in proposito e significativamente ne indica la sua
osservanza come segno di ortodossia. L’adozione di tale liturgia
curiale romana rappresenta un’innovazione rispetto alla tradizione
monastica, che anche nell’elaborazione della liturgia rifletteva una temperie e
una concezione « particolaristica » della struttura ecclesiastica, ben diversa
rispetto al pensiero e alla pratica ecclesiale che il papato andò elaborando tra
i secoli XI e XII e che proprio con Innocenzo III raggiunse la sua più vigorosa
espressione. Significativo dei riflessi anche in ambiente monastico della
temperie ormai profondamente mutata il fatto che nel secolo successivo la
nascente istituzione olivetana decidesse per l’ufficio liturgico secondo il rito
romano: una scelta da collegare non tanto, o almeno non soltanto, alla mancanza
di codici liturgici monastici, quanto piuttosto al ruolo centralizzatore ormai
decisamente assunto dal papato in tutti i settori e aspetti dell’apparato
ecclesiastico, ivi compreso lo stretto raccordo tra istituzioni religiose e
papato, che aveva avuto precisi riflessi presso le nuove forme di vita religiosa
sul piano liturgico, grazie anche alla maggior semplicità e « praticità » della
preghiera liturgica invalsa nella curia romana e diffusa in tutto l’occidente ad
opera dei mendicanti, soprattutto dei frati minori.
Saranno del resto proprio i mendicanti, sollecitati dagli attacchi dei
magistri saeculares di Parigi, a elaborare
un’ecclesiologia, che pare estranea alla tradizione monastica, in quanto
teorizza una struttura ecclesiastica fondata su un vincolo sacro e intangibile,
in forza del quale ogni ruolo, ministero e potere nella chiesa trova nella
suprema sollicitudo del pontefice romano la sua
fonte e la sua legittimazione. Non v’è dubbio che l’istituto dell’esenzione -
almeno per quel tanto che veniva inteso come raccordo diretto con la sede
romana, capace di superare, per non dire annullare, i vincoli di dipendenza
dall’autorità ecclesiastica locale in forza della superiore autorità del
pontefice romano - potè costituire sul piano pratico, e in parte anche su quello
teorico, una premessa a tale teorizzazione. Ma tale istituto, originato e
sviluppatosi sulla base di esigenze specifiche dell’istituzione monastica,
veniva inteso e praticato in modo diversificato e spesso strumentale.
Emblematico in proposito lo scontro che aveva contrapposto, anche sul piano
teorico, Callisto II, e poi Onorio II, e Ponzio di Cluny, il quale, sia pur
strumentalmente, giunse a rivendicare - stando al racconto del
De
miraculis di Pietro il Venerabile - la
propria dipendenza diretta, come abate di Cluny, da Pietro in cielo e dunque
l’illegittimità delle censure sulla sua persona da parte del pontefice romano.
Nella grande tradizione monastica vige semmai la consapevolezza del proprio
ruolo moralizzatore anche nei confronti della chiesa di Roma e del papato, la
citazione di Bernardo di Chiaravalle è qui persino superflua. La profonda
diversificazione di atteggiamento nei confronti del papato tra mendicanti e
monaci in ambito italiano si evidenzia in occasione dello scontro con Federico
II, in cui i mendicanti, nonostante la funzione mediatrice ed equilibratrice di
fra Elia, pagarono un duro scotto - e non solo nell’ambito del regno meridionale
- per l’appoggio dato a Gregorio IX e Innocenzo IV con decreti di espulsione,
confische, condanne anche capitali da parte dell’imperatore, che contestualmente
si mostrava munifico protettore delle comunità monastiche, particolarmente dei
cistercensi.
La
stessa organizzazione dei mendicanti rispecchia del resto una visione
rigorosamente unitaria e gerarchizzata della realtà ecclesiastica e anch’essa
rappresenta una profonda divaricazione rispetto al mondo monastico, che
certamente aveva offerto in proposito qualche notevole anticipazione, da cui i
mendicanti avevano preso lo spunto, perfezionandone gli elementi ed erigendoli a
sistema organizzativo. Si pensi all’organizzazione centralizzata, quale
stabilita dalle
Consuetudines Fructuarienses,
in forza della quale l’abate generale nomina e depone i responsabili delle
comunità locali; si pensi ai capitoli generali, introdotti nel secondo decennio
del secolo XII dai cistercensi, fin dalla prima redazione della
Carta caritatis, e precisati nelle loro funzioni
dalle successive redazioni. Un istituto, quello del capitolo generale, che, come
è noto, ebbe molta fortuna nel secolo XII presso gli ordini monastici e
canonicali recentemente organizzati o riorganizzati e che aveva assunto fin
dalla prima metà del secolo XII un ruolo di primaria importanza nella struttura
gerarchica dei certosini. I mendicanti dunque non fecero che rivedere le
modalità e le competenze di un istituto già da tempo sperimentato in ambiente
monastico, cosi da adattarle alle loro specifiche esigenze organizzative. Anche
i capitoli provinciali avevano avuto un notevole precedente in ambiente
monastico: le norme in proposito stabilite dal Lateranense IV per tutte le
comunità monastiche non fanno che codificare e perfezionare un istituto già
sperimentato dai monasteri dell’una o dell’altra provincia ecclesiastica, un
istituto che Innocenzo III aveva cercato di diffondere in altre aree, come
l’Inghilterra e l’Italia centro-settentrionale ben prima di proporlo come norma
generale nel concilio.
Ma
il mondo monastico, nonostante tali iniziative di coordinamento, era rimasto
sostanzialmente ancorato all’idea di un’ampia autonomia dei singoli monasteri.
Anche le tendenze all’organizzazione accentrata, affermatesi man mano che sul
ceppo dell’antico monachesimo si andavano costituendo congregazioni o ordini -
eloquente l’esempio dei vallombrosani, alle cui
Consuetudines peraltro è stato supposto che si
sia ispirata la prima legislazione cistercense - e irrobustita presso i
cistercensi, premonstratensi e certosini, non intaccava sostanzialmente il
regime autonomo dei singoli monasteri. Gli ordini mendicanti si erano invece
strutturati fin dall’inizio in organismi unitari. L’evoluzione successiva non
pregiudicò certo la compattezza interna, che venne anzi irrobustita attraverso
una rigorosa gerarchizzazione, che collegava in un digradare di stretti vincoli
di dipendenza il ministro (o priore) generale all’ultimo frate, attraverso i
ministri (o priori) provinciali, i custodi responsabili delle
sottocircoscrizioni minoritiche all’interno delle singole province e i superiori
locali, guardiani o priori. Tale tipo di organizzazione rifletteva certo un’idea
fortemente unitaria della struttura sociale ed ecclesiale, concepita in ordine a
un suo corretto funzionamento.
I canoni organizzativi della « riforma » della vita religiosa applicati dai
mendicanti riflettevano dunque l’ormai compiuto progetto di centralizzazione
della società ecclesiastica, soprattutto in Italia. Non a caso il modello
organizzativo mendicante trovò più di un riscontro nelle congregazioni
monastiche italiane del sec. XIII, come i silvestrini, mentre sulle costituzioni
domenicane si modellavano gli statuti degli albi e anche ordini monastici di
tradizione ormai secolare, come i cistercensi, subivano in area italiana
l’influsso della spiritualità e dell’organizzazione mendicante. Nel
secolo successivo saranno gli olivetani a cogliere più di un elemento
caratteristico della struttura organizzativa dei mendicanti, ivi compreso il
rapporto del singolo monaco con la dirigenza della congregazione - in forza del
quale i capitoli generali potevano di volta in volta ristrutturare le singole
comunità monastiche - e la fatale attrazione nell’orbita delle attività
pastorali. Non v’è dubbio comunque che la struttura centralizzata
degli ordini sorti in ambito benedettino fra Due e Trecento risenta fortemente
del modello cistercense e premonstratense, con i cui moduli costituzionali
è stato dimostrato lo stretto rapporto nella prima normativa silvestrina. La
centralizzazione di silvestrini e olivetani, che legava strettamente i singoli
monasteri all’abbazia madre, richiama da vicino il modello cistercense e in
genere le tipologie specifiche delle aggregazioni monastiche attorno al
movimento riformatore diffuso dai grandi centri monastici.
Ben diverso il modello mendicante, strutturato sulla concezione rigorosamente
unitaria dei membri appartenenti al corpo dell’ordine. Un’unità che non fa
riferimento a un monastero-fondatore, ma a un organismo, il capitolo generale, e
al superiore generale espressione di tale organismo che lo ha eletto e che ha il
diritto-dovere di controllarne l’operato e, all’occorrenza, di deporlo. Ma più
di un elemento di tale modello organizzativo venne assunto dalle nuove
congregazioni monastiche e andò a comporsi con gli elementi assunti dalla
tradizione monastica. Si pensi al principio innovativo rispetto a tale
tradizione, in forza del quale i singoli monaci professavano la loro
appartenenza non al monastero, ma all’ordine, il cui capitolo generale aveva
autorità di scegliere e trasferire priori locali e monaci dei singoli monasteri,
un principio introdotto nella normativa e nella prassi dei silvestrini e
codificato nelle costituzioni di Andrea di Giacomo all’inizio del secolo XIV.
Una struttura organizzativa che riscontriamo anche nelle costituzioni olivetane
risalenti alla metà del secolo XIV.
L’attrazione esercitata dall’impegno pastorale sulle correnti di riforma
monastica tra secolo XIII e XIV portò progressivamente a riconsiderare lo
statuto e la posizione nell’ambito del monastero di coloro che già in ambiente
cistercense nella prima metà del secolo XII venivano chiamati i
fratres laici.
Alla soluzione del problema del loro ingresso a pieno titolo, pur nella netta
differenziazione di ruoli e attività, nella comunità monastica - che rispondeva
a precise rivendicazioni, esplicitate a volte anche in modo clamoroso nel corso
del secolo XIII - offrirono un modello le soluzioni attuate dagli ordini
mendicanti, soprattutto quelle introdotte ad opera dei frati minori, un ordine
indiscriminatamente aperto a chierici e laici nel primo trentennio della sua
storia, benché in seguito, a partire dalla deposizione di fra Elia nel 1239,
risultassero vincenti le
tendenze all’emarginazione dei frati laici. Conseguenza questa di un fenomeno
che appare caratteristico - e ancora una volta diversificante rispetto
all’ambiente monastico - dei mendicanti: il reclutamento massiccio fra i
clerici
acculturati, e quindi più specificamente nell’ambiente universitario, fin dai
primi decenni della storia delle due istituzioni religiose. Un segno anche
questo della più incisiva capacità di risposta alle esigenze socio-culturali di
un ambiente e di un’epoca.
Mentre una particolare categoria di monaci, i
fratres laici appunto, a partire dal secolo
XIII andava penetrando all’interno del monastero, attorno a monasteri e conventi
degli ordini mendicanti - in uno spazio significativamente chiamato
campus, almeno in area veneta, e
denominato col titolo della chiesa monastica, canonicale o conventuale - si
coagulavano gruppi di laici devoti più o meno organizzati in
fraternitates e
societates di
penitentes. Anche in questo caso i
mendicanti subentravano alle più attive e influenti fra le istituzioni
monastiche nel costituire un preciso punto di riferimento, anche insediativo,
per
le
fraternitates e
societates di laici dediti a una vita, il
cui impegno religioso gareggiava con quello dei monaci nelle forme penitenziali
di rinuncia, nell’assiduità alla liturgia e alla pratica devozionale e spesso
assumeva una sua specificità nelle attività socio-assistenziali di vario tipo,
come è documentato per il Vicentino.
A
partire dal secondo-terzo decennio del secolo XIII giungono dunque a maturazione
le sperimentazioni avviate nel secolo precedente in ambiente monastico per dare
nuova linfa all’annoso ceppo della vita religiosa istituzionalizzata, che
rischiava di inaridire a causa del radicamento in un terreno, ormai
eccessivamente sfruttato e troppo estraniato dal nuovo
humus che andava fecondando il vasto
campo delle più vivaci aree della società dell’Occidente europeo. Tali
sperimentazioni, che pur non riuscirono a salvare dalla crisi le tradizionali
forme di vita monastica, si trasformarono in efficaci suggestioni per elaborare
nuovi modelli organizzativi della vita religiosa istituzionalizzata dentro e
fuori dell’alveo del monachesimo di ispirazione benedettina. A partire dalla
prima metà del secolo XIII si fa strada una certa tendenza all’omologazione
nelle forme ed esperienze di vita religiosa, ivi comprese le fondazioni di
recente istituzione nell’ambiente monastico benedettino in Italia.
Un’omologazione che ha come referente i moduli organizzativi e i tipi di
attività in base ai quali si era strutturata la tipologia mendicante. Ciò non
significa affatto l’appiattimento delle nuove aggregazioni, o degli ordini
monastici di recente costituzione, sul modello mendicante. Anzi le antiche
aspirazioni alla vita eremitica, che si orienta verso forme associate e
normalizzate sulla base della regola benedettina, sembrano riprendere nuovo
vigore e strutturarsi in nuovi e robusti organismi istituzionali: si pensi ai
silvestrini e ai celestini. Ma non v’è dubbio che la tipologia mendicante, anche
e soprattutto per l’intervento del papato, esercita una forte attrazione anche
sulle comunità e congregazioni di stampo eremitico. I gruppi confluiti nella
grande unione voluta da Alessandro IV nel 1256 rappresentano solo il più corposo
esempio in tale direzione. Tali gruppi erano sorti con intenti e caratteristiche
ben diversi rispetto alle originarie scelte mendicanti, e avevano tentato di
dare una risposta ad aspirazioni di vita individuale e comunitaria che in
qualche modo risultavano alternative nei confronti delle esigenze di impegno
religioso nel vivo della società e particolarmente dell’ambiente urbano e colto,
più sensibile alle domande religiose di quella società, sulle quali facevano
presa i mendicanti per il proprio reclutamento. Le difficoltà della « grande
unione », dalla quale scaturirono gli eremitani di s. Agostino, costituiscono di
per sé una prova di tale profonda diversità. Anche l’esito della vicenda dei
carmelitani, dei servi di Maria, degli apostolici e dei saccati, pur nella
varietà dell’impulso originario e della sorte definitiva, confluiscono, come è
noto, nel grande filone religioso esemplato sui due primi e maggiori ordini
mendicanti.
Del
processo di omologazione a cui si è accennato è emblematico il modello di
organizzazione territoriale, adottato in modo sistematico e collaudato nei primi
decenni della vicenda di minori e predicatori. Non v’è dubbio che tali moduli
organizzativi abbiano avuto una notevole anticipazione nelle esperienze di vita
e organizzazione monastica avviate nel secolo precedente. Si pensi alle
circarie dei premonstratensi, alle
camerarie dei cluniacensi, e alle analoghe
organizzazioni territoriali degli ordini cavallereschi, le
commende. Del resto i successi di tali
moduli organizzativi e il loro sviluppo e perfezionamento presso i mendicanti
non dovette essere ininfluente allorché il cistercense Benedetto XII, nel suo
tentativo di riforma della vita monastica, stabiliva con la
Summi magistri del 20 giugno 1336 di
raggruppare i monasteri benedettini in trentasei province. In tale ripartizione
territoriale non si può non notare una certa analogia con le trentaquattro
province dell’ordine minoritico. Il complesso dei monasteri d’Italia venne
articolato sulla base delle province ecclesiastiche. Certo i parallelismi non
vanno forzati, né va dimenticato che la riforma di Benedetto XII non riproponeva
la struttura provinciale quale concepita e attuata dai mendicanti, ma
semplicemente un organismo di controllo e di coordinamento, che trovava nei
visitatori e soprattutto nel capitolo provinciale con scadenza triennale il suo
stesso motivo di essere e il suo momento di massima importanza, come efficace
strumento di restaurazione della disciplina nei monasteri delle singole regioni.
Anche la temporaneità della carica di superiore (abate o priore) dei singoli monasteri - introdotta come norma, ormai da decenni presso alcune delle nuove congregazioni monastiche, come quella dei silvestrini e, un decennio prima della Summi magistri, dagli olivetani in analogia a quanto stabilito presso i mendicanti per le cariche dei ministri e dei priori provinciali e locali - veniva individuata come strumento di riforma da Benedetto XII per non svuotare di significato il diritto di controllo assegnato al capitolo provinciale sui responsabili delle singole comunità monastiche. Si noti che il cronista francescano Salimbene da Parma individuava proprio nell’eccessiva durata delle cariche di prelatura negli ordini religiosi il motivo di fondo di troppi abusi. L’esempio in negativo gli era offerto dalle distorsioni derivanti dalla durata a vita della carica abbaziale presso l’ordine benedettino: «Notandum quod conservatio religionum est frequens mutatio prelatorum, triplici de causa. Prima ne nimis insolescant, si diu prefuerint, ut patet in abbatibus ordinis s. Benedicti, qui, quia quousque vivunt durant et non deponuntur, vilificant subditos suos et tantum eos reputant quantum quintam rotam plaustri, que nihil est; et abbates cum secularibus carnem manducant, monachi vero in refectorio legumina comedunt. Et alia multa incomoda et disconvenientia faciunt erga subditos suos, que non sunt facienda, cum ipsi velint splendide vivere et in maxima libertate» «Va notato che per la conservazione degli ordini religiosi occorre cambiare frequentemente i prelati, per tre ragioni. La prima perché può diventare troppo molle, se sta al suo posto per lungo tempo, come è evidente negli abati dell'ordine di s. Benedetto, che, perché durano finché vivono e non rinunciano alla loro carica, sviliscono i loro sudditi e li reputano come la quinta ruota del carro che non conta nulla; e gli abati mangiano la carne come i secolare mentre i monaci nel refettorio mangiano verdure. E fanno molte altre cose, che non devono essere fatte, dannose e sconvenienti verso i loro sudditi, mentre essi stessi desiderano vivere in splendore e nella massima libertà». (libera traduzione dal latino N.D.R)
Anche per quanto concerne i moduli organizzativi dell’elaborazione e della
trasmissione del sapere i mendicanti introdussero una struttura centralizzata e
gerarchizzata, che assumeva dal modello universitario la gradualità funzionale
degli studi, ma la adattava alle esigenze di coordinamento e di distribuzione
organica nelle singole articolazioni territoriali, con una capillare
distribuzione di
studia particularia, concepiti come gradi preparatori
e imprescindibili per accedere agli
studia generalia, che
lungo il secolo XIII si andarono moltiplicando ed equamente distribuendo sul
territorio in progressiva sostituzione all’iniziale concentramento nelle grandi
sedi universitarie. L’esigenza di studi ben programmati fino al massimo livello
era certo indotta dalle nuove strutture di un sapere che, soprattutto in
ambiente urbano, si andava sempre più capillarmente diffondendo. Da tale
esigenza derivano anche le norme impartite nella
Summi magistri - a proposito degli
studia generalia, organizzati a partire dalla
metà del secolo XIII anche dai più vitali e attivi tra gli ordini monastici,
come per esempio i cistercensi che avevano costituito i propri
Studia presso i principali centri
universitari di Francia, a partire dal collegio di S. Bernardo a Parigi (1245),
e d’Inghilterra. Tali norme, dettate certo anche dalla personale esperienza del
pontefice, vengono però inserite nel quadro tradizionale dello spirito e
dell’impegno monastico, mentre per i mendicanti lo studio e la sua
organizzazione sono intesi essenzialmente a un dignitoso ed efficace svolgimento
dei compiti connessi con la
cura animarum.
La
stessa organizzazione territoriale è considerata funzionale a tale impegno:
basti pensare alla significativa denominazione di
praedicationes data dai domenicani alle loro
circoscrizioni conventuali. Il tutto era dunque funzionale a una caratteristica,
che in quanto costitutiva della vita religiosa, risultava certamente innovativa
nei confronti della tradizione monastica, anzi delle stesse concezioni
teologico-spirituali sulla vita religiosa e delle conseguenti norme
giuridico-canoniche: l’attività pastorale intesa come impegno primario e
imprescindibile, anzi come connotazione giustificativa della vita religiosa
nella chiesa non trova certamente riscontro nelle teorizzazioni di estrazione
monastica e nella prassi eretta a sistema. Non v’è dubbio che il cronista
francescano Salimbene si faccia portavoce di precisi atteggiamenti mentali
ampiamente diffusi tra francescani e domenicani, quando denuncia l’inutilità per
la società e per la chiesa di istituzioni religiose che non si dedichino alle
attività pastorali, benché la polemica salimbeniana rimanga circoscritta alle
istituzioni mendicanti recentemente soppresse dal concilio Lionese II.
Delle due istituzioni religiose che diedero l’avvio al movimento mendicante
quella dei frati predicatori si pone sulla linea di maggior continuità rispetto
alle tradizionali forme di vita religiosa istituzionalizzata: si tratta di un
gruppo di canonici regolari costituito secondo le migliori tradizioni di tale
istituzione, ivi compreso il carattere rigorosamente comunitario del possesso
dei beni. Del resto il modello ispiratore della nuova fondazione non fu il vasto
movimento laico, che si orientava verso scelte di radicale povertà comunitaria.
Diego di Osman e Domenico si rifacevano piuttosto alle tendenze rigoristiche
della riforma canonicale, prendendo come modulo di riferimento quello
premonstratense, sui cui statuti i predicatori esempleranno ben presto le
proprie norme costituzionali. Solo dopo che i predicatori, travalicate le Alpi,
incroceranno le vie dei frati minori, ormai vistosamente presenti in tutte le
regioni d’Italia, la scelta della spropriazione totale, anche comunitaria, e
della mendicità come mezzo, almeno sussidiario, di sostentamento opereranno lo
stacco rispetto alla tradizione monastico-canonicale. Ma la povertà non
costituirà mai un problema assillante e dilaniante per i domenicani e non lo fu
certo nel mondo monastico, nonostante l’impegno vigoroso per la povertà, anche
comunitaria, di Stefano di Muret, che « anticipò » in proposito e per più di un
aspetto le scelte francescane; lo fu invece, e continuerà ad esserlo per secoli,
per i francescani, la cui storia, anche in questo, si caratterizza,
differenziandosi nettamente nei confronti del mondo monastico, alla cui
tradizione per molti aspetti si conformerà ben presto.
Per
struttura e per mentalità le due istituzioni, quella monastica e quella
mendicante, rimasero nettamente divaricate: nonostante le tendenze mimetiche e
le influenze reciproche, mantennero ciascuna una propria e precisa identità, che
anzi difesero puntigliosamente. Se in ambiente mendicante vennero messe in atto
le più sottili argomentazioni a sostegno teorico della nuova forma di vita
religiosa contro gli attacchi dei
magistri saeculares di Parigi, che si rifacevano
alla tradizione monastica per denunziare le incongruità delle modalità
introdotte dai mendicanti nella vita religiosa - soprattutto quelle relative
alla questua eretta a sistema - e l’illegittimità della loro invasione del campo
delle attività pastorali, le comunità monastiche dovettero difendersi sul piano
pratico per arginare l’invadenza degli spazi monastici da parte dei due nuovi
ordini religiosi. E ben vero che di fatto non si registrano se non sporadici
casi di passaggio di comunità monastiche, di vecchio o di nuovo tipo, nelle file
dei mendicanti, a differenza di quanto era avvenuto e stava tuttora avvenendo
per le congregazioni monastiche sorte nel secolo precedente, particolarmente per
i cistercensi. Bernard Gui nella sua
Notitia provinciarum et domorum ordinis praedicatorum
del 1303 elenca nell’ambito della provincia romana - comprendente in tale data
le attuale regioni di Lazio, Toscana e Umbria - un non meglio precisato convento
domenicano di S. Benedetto
ubi
monachi facti fuerunt praedicatores;
francamente non conosco altri casi del genere.
Si
registra invece un altro fenomeno, e abbastanza corposo nei decenni centrali del
secolo XIII: il « sequestro » - e il termine in più di un caso appare
appropriato - di monasteri, anche antichi e con un glorioso passato, a favore
dei mendicanti. Tale fenomeno è da collegare al convergente processo di
inurbamento delle comunità monastiche e delle sedi mendicanti. Non è certamente
questa la sede per ritornare su un aspetto ben noto della vicenda monastica
italiana, se non per sottolineare come in più di un caso il processo di
inurbamento dei monasteri, fosse esso spontaneo o imposto dagli organismi
comunali, innescò, o almeno accelerò il processo di dissolvimento della comunità
monastica, dopo averne snaturato le connotazioni originarie. Ad evitare comunque
ogni tentativo di generalizzazione risulta eloquente la vivace e incisiva
esperienza degli albi a Padova e il ruolo di primaria importanza politica e
religiosa svolta dal loro fondatore Giordano Forzatè. Né vanno dimenticati i
ruoli tecnico-amministrativi svolti dai cistercensi in alcune città d’Italia
come Siena e Genova, ma l’impressione è che si tratti di brillanti eccezioni.
Per i mendicanti invece il processo di inurbamento si sviluppa in parallelo con
il consolidamento istituzionale e numerico e con il periodo di maggiore capacità
di incidenza sulla società e sulla religiosità, fino a una sorta di
generalizzazione di investimento delle capacità e delle energie in ruoli che,
ben al di là delle esigenze pastorali, riguardano i rapporti sociali di ogni
tipo e livello e le strutture politiche, amministrative e tecniche. Un raggio
d’azione socio-politica che appare ben più vasto, non solo degli infrequenti
ruoli di carattere tecnico-amministrativo affidati all’uno o all’altro membro di
comunità monastiche urbane, ma anche degli incarichi di sovrintendeza ad opere
pubbliche o degli uffici pubblici affidati frequentemente dai comuni dell’Italia
centro-settentrionale a membri di comunità religiose recentemente riconosciute,
quali quelle degli umiliati.
L’ambiente urbano diviene dunque il quadro di complessi rapporti tra monaci e
mendicanti, un quadro che attende in troppi casi di essere attentamente
ridisegnato. Certo situazioni come quella padovana, dove monasteri di diversa
appartenenza e di grande vitalità affiancano i frati minori e i predicatori in
una forte e incisiva presenza nelle grandi e drammatiche vicende cittadine dei
decenni centrali del secolo XIII, possono sembrare ed essere di fatto
eccezionali. Sono comunque rivelatori di un diverso tipo di rapporto del mondo
monastico nei confronti della società urbana rispetto a quello instaurato dalle
comunità mendicanti. Sia i monaci albi che quelli di S. Giustina, come del resto
gli altri enti monastici padovani (e non) appaiono fortemente coinvolti anche,
se non soprattutto, in forza di un profondo radicamento nel territorio con forti
interessi sul piano economico e dell’esercizio del potere, cui vanno aggiunti i
complessi e stretti legami con le famiglie feudali in conflitto per la
preminenza sulla città. Le comunità mendicanti, a Padova particolarmente i
francescani, si muovono su un piano ben diverso, in quanto - ancorati
strettamente a un vasto organismo che ha ormai assunto un carattere
internazionale - hanno i loro referenti ben al di fuori dei più o meno angusti
ambiti territoriali. Molti di loro provengono da lontano (l’esempio di Antonio
valga per tutti) e comunque sono organizzati in comunità, i cui membri, oltre ad
avere una mobilità ad ampio raggio per l’espletamento di funzioni dentro e fuori
l’ambito dell’ordine, non godono di stabilità residenziale: la loro appartenenza
alla comunità locale assume per principio un carattere provvisorio e di fatto è
il più delle volte solo temporanea, connessa, in più di un caso, con
l’espletamento di attività pastorali, di carattere socio-politico, o tecnico.
Nella sua fase iniziale l’esperienza religiosa dei mendicanti in ambiente urbano
sembra presentarsi, pur nella sua singolarità, come forza complementare e
comunque in armonico rapporto con la realtà monastica locale. Man mano che tale
esperienza prende corpo evidenzia sempre di più la sua capacità di diventare
proposta alternativa e forza concorrenziale. Ciò appare evidente quando si
consideri nella concretezza dei singoli casi lo sviluppo del fenomeno
insediativo nel contesto del processo di inurbamento che coinvolse le sedi
mendicanti nei decenni centrali del secolo XIII. Le prime chiese mendicanti in
ambito extraurbano appartengono normalmente a complessi ospedalieri o a enti
monastici. Nell’uno e nell’altro caso si tratta della trasformazione in sede
stabile ed esclusiva per i frati di precedenti dimore, intese e vissute come
provvisorie a titolo di ospitalità; esito, in più di un caso, dell’atteggiamento
di benevola accoglienza del mondo monastico nei confronti dei primi gruppi
mendicanti.
Il
caso più noto è certamente quello della Porziuncola, che sappiamo essere
appartenuta al monastero di S. Benedetto del Subasio prima di diventare il
principale punto di riferimento dei frati minori. Interessante è constatare come
nel 1244, data dell’atto di conferma di beni e possessi del monastero del
Subasio da parte di Innocenzo IV, la Porziuncola risulti ancora di proprietà di
quella comunità monastica: i frati minori vi risiedevano dunque in qualità di
ospiti, coerentemente con il principio riaffermato da Francesco nel suo
Testamentum ; nel frattempo il centro
propulsore dell’ordine minoritico si era spostato presso la grandiosa basilica
costruita da fra Elia.
In
proposito è molto eloquente anche la già ricordata notizia della
Passio s. Verecundi a proposito dell’ospitalità
offerta per uno dei primi capitoli dei frati minori, che da un lato evidenzia
l’atteggiamento di benevola attenzione e accoglienza del monastero nei confronti
del giovane ordine minoritico, e dall’altro ci apre uno spiraglio attraverso il
quale riusciamo almeno ad intravedere interessanti aspetti della prima realtà
minoritica, al di là dei correnti luoghi comuni, basati spesso acriticamente sui
rigidi schematismi narrativi delle fonti biografiche di Francesco d’Assisi. La
notizia fornita dalla
Passio completa infatti il quadro
offerto da alcune fonti francescane che ci presentano le comunità monastiche
come luoghi aperti ad accogliere la nuova esperienza religiosa dei primi
francescani, fossero singoli individui - come quel fra Stefano, che racconta di
essere stato affidato per due anni a una non meglio precisata abbazia, o Chiara
che fa la sua prima esperienza religiosa nel monastero benedettino di S. Paolo,
presso Bastia - o fossero gruppi di frati minori, come pure di frati
predicatori, nella loro prima fase insediativa nell’una o nell’altra località
d’Italia o d’oltralpe. Non è del resto caso isolato che si debbano cercare le
prime notizie sulla presenza minoritica e domenicana nell’una o nell’altra area
del territorio italiano in fonti o in complessi documentari di provenienza
monastica, in connessione spesso coll’insediarsi dei mendicanti in complessi
abitativi monastici, oppure su terreni o in chiese di proprietà di qualche
monastero; è il caso, per esempio, della chiesa di S. Maria in Trivio a Rimini,
appartenente al monastero di Pomposa, o della chiesa di S. Romano di Lucca,
ceduta ai domenicani dal monastero benedettino di S. Ponziano, o della chiesa di
S. Maria sopra Minerva, appartenente al monastero femminile romano di S. Maria
in Campo Marzio. La notizia inserita nella
Passio s. Verecundi risulta particolarmente
interessante, in quanto ci informa che è la nuova fraternità nel suo complesso,
ormai forte di alcune centinaia di membri, e in un momento fondamentale per la
sua vita e per l’elaborazione organizzativa a cercare e trovare accoglienza
presso il monastero, che in tal modo ci appare rivestito del ruolo attribuito
alla Porziuncola dalle fonti biografiche di Francesco d’Assisi e, sulla loro
scia, da una storiografia troppo disinvolta e tutta protesa a enfatizzare il
ruolo che avrebbe svolto S. Maria degli Angeli fin dai primordi della fraternità
francescana.
Il processo insediativo dei frati minori a Roma è un tipico esempio
dell’evolversi dei rapporti tra ordini mendicanti e mondo monastico, man mano
che l’esperienza religiosa dei primi va penetrando nel cuore stesso della città.
I frati minori trovano un primo punto d’appoggio a Roma presso la chiesa
ospitaliera di S. Biagio di proprietà del monastero di S. Cosma in Trastevere;
la chiesa con i suoi annessi si trasforma in sede stabile ed esclusiva dei frati
nel 1229 dietro cessione da parte del monastero, sollecitata da una esplicita
richiesta di
Gregorio IX, e diventerà il primo
convento francescano in Roma, S. Francesco alla Ripa. Il processo di inurbamento
dei francescani avverrà di lì a un paio di decenni a spese della comunità
monastica di S. Maria in Campidoglio
(Ara-coeli).
Questa volta il trasferimento dell’insediamento minoritico risultò problematico
per le resistenze frapposte dalla comunità monastica e per le difficoltà
connesse con la ristrutturazione dell’organizzazione pastorale in ambito urbano
connessa con il passaggio di mano della chiesa da un ente monastico a una
comunità mendicante, talché il procedimento dei passaggi delle consegne fu lungo
e complesso, nonostante i reiterati interventi di Innocenzo IV, che dovette
vincere le resistenze frapposte dai monaci e farsi carico dello « scandalo » da
parte della popolazione preoccupata per le sorti della parrocchia annessa alla
chiesa monastica. Di tale « scandalo » si fanno appunto scudo i monaci, di
fronte all’intervento pontificio, attraverso il proprio intermediario, il
sindaco del monastero di S. Maria in Campidoglio. Innocenzo IV, si era mosso
dietro sollecitazione dei frati minori, desiderosi di riunire in un unica
comunità cittadina i due scomodi e malsani conventi suburbani. Il papa dunque
era stretto fra le pressanti richieste di un ordine religioso ormai potente e
con forti influenze nella curia papale e le resistenze di una comunità monastica
in netto e irreversibile declino. La scelta non dovette apparire troppo
problematica: era fin troppo chiaro quale sarebbe stata la parte vincente. La
dispersione della comunità monastica non rappresentava certo un fatto
traumatico, poteva anzi apparire una conclusione quasi naturale, come la morte
dopo una lunga agonia, mentre l’assegnazione del complesso monastico e del
terreno adiacente alla fiorente comunità minoritica di Roma significava la
salvaguardia, anzi il potenziamento del complesso religioso in questione. I beni
del monastero suscitavano certo più di un appetito, la decisione papale andò in
favore della confraternita dei cantori dell’Urbe. Più complesso il problema
della ristrutturazione del territorio della parrocchia annessa alla chiesa di S.
Maria
in Aracoeli,
di cui per principio i francescani non intendevano farsi carico; Innocenzo IV
quattro anni dopo il passaggio del complesso monastico ai frati minori si
riservava ancora di dare una soluzione definitiva al problema.
Nel
conflitto tra comunità monastiche e mendicanti per la conquista degli spazi
urbani non restano certamente
spettatori passivi le varie componenti della
società urbana e i loro rappresentanti, che vediamo schierati di volta in volta
su fronti diversi, a seconda degli interessi in gioco, che spesso attengono alla
compattezza stessa del nucleo parrocchiale di un preciso settore della città: lo
« scandalo » dei parrocchiani di S. Maria
in
Aracoeli è solo uno dei tanti esempi. Ma
un eloquente caso di coinvolgimento delle componenti civiche è quello di Tivoli.
I frati minori, di fresco insediati nel monastero benedettino di S. Maria
Maggiore, ne vennero allontanati con l’uso della forza. Difficile identificare
gli attori e i fautori del gesto violento, che certo non può essere imputato,
almeno esclusivamente, ai quattro o cinque monaci che erano stati espulsi e
collocati nelle chiese di S. Clemente e di S. Angelo, dipendenti dal monastero.
Certo i monaci, benché così ridotti di numero, avevano potuto offrire una lunga
ed efficace resistenza all’iniziativa, di cui si era fatto carico Gregorio IX
nel 1241 e che non aveva sortito alcun effetto neppure sotto il suo successore.
Ma i monaci dovevano avere più di un supporto tra le componenti della società
urbana, che Gregorio aveva cercato di coinvolgere nella persona dei consoli e
del consiglio della città, talché il pontefice aveva dovuto interessare della
questione il vescovo. Ma anch’egli dovette, o volle, temporeggiare, se undici
anni dopo Innocenzo IV si rivolgeva di nuovo a lui, ingiungendogli di eseguire
il mandato papale. Alessandro IV quattro anni dopo doveva investire del problema
il nuovo titolare della chiesa Tiburtina, che finalmente riusciva a risolverlo
in modo positivo. All’atto solenne di consegna della chiesa il 5 luglio 1256 era
presente come testimone il vicario del conte di Tivoli Matteo Orsini, padre del
futuro Nicolò III e legato ai frati minori; accanto al rappresentante del conte
fungevano da testimoni i maggiori esponenti del comune e molti eminenti
cittadini. L’atto solenne di consegna veniva dunque avallato dall’autorità
ecclesiastica e cittadina. Ma di lì a pochi giorni interveniva l’espulsione
violenta dei frati. A questo punto il pontefice si rivolgeva al vicario
episcopale e ai canonici della cattedrale perché comminassero la scomunica
contro gli attori del gesto violento, i loro fautori e mandanti e nel mese
successivo confermava definitivamente l’assegnazione del complesso monastico ai
frati minori.
I
casi di conflitto tra monaci e mendicanti per la conquista da parte di questi
ultimi di nuovi e più ampi spazi in città sono numerosi e spesso
dettagliatamente descritti nella documentazione pontificia, che evidenzia con
estrema chiarezza il realismo con cui la politica religiosa del pontefice
sostiene il progressivo potenziarsi delle comunità mendicanti in ambito urbano:
per favorire le nuove e vigorose istituzioni la curia romana, quando non
provveda alla dispersione delle comunità monastiche insediate in antichi,
venerandi e prestigiosi complessi abitativi e di culto, su cui si sono appuntate
le mire delle comunità appartenenti ai nuovi ordini religiosi, si impegna in
operazioni, a volte difficoltose e complesse, di trasferimento, in forza delle
quali, i gruppi di monaci estromessi dalle loro sedi vanno ad occupare i «
luoghi » divenuti ormai assolutamente insufficienti per i mendicanti e del tutto
inadeguati allo svolgimento dei ruoli che si sono assunti nella chiesa e nella
società.
Certo non bisogna generalizzare le situazioni di scontro, risolte con atti di
forza da parte del pontefice. Gli scambi di sede tra mendicanti e comunità
monastiche rivelano a volte il maturare di situazioni e aspirazioni a una specie
di inversione dei ruoli, ben rappresentata dallo scambio pacifico e concordato
delle sedi, in forza del quale si concretizza l’aspirazione dell’una o
dell’altra comunità mendicante a penetrare, anche dal punto di vista
insediativo, nel vivo del tessuto urbano, dal quale, in più di un caso, paiono
volersi ritrarre i monaci. E ciò che avviene a Verona con la proposta di scambio
di sede tra i benedettini di S. Fermo e il convento suburbano di S. Francesco,
proposta che Innocenzo IV nel 1249 asserisce concordata tra gli interessati,
anche se la sua attuazione dovette trovare più di una resistenza tra i monaci,
talché nel 1257 Alessandro IV dovrà fare pressione sul vescovo di Verona, perché
lo scambio venga effettivamente attuato: la crisi anche numerica della comunità
monastica è denunciata a chiare lettere nel documento pontificio.
Un
caso analogo quello del passaggio del monastero vallombrosano di S. Fortunato di
Todi ai frati minori. Già nel 1236 la comunità vallombrosana di Todi doveva
essere in crisi, se i domenicani posero le proprie mire sul monastero per il
loro ingresso in città. Una ventina d’anni più tardi viene concordato lo scambio
di sede tra la comunità vallombrosana, ormai ridotta a poche unità, e quella
minoritica. Di tale scambio vengono presentati gli atti notarili ad Alessandro
IV, che in data 28 dicembre 1254 approva il passaggio dei vallombrosani con
tutti i loro diritti e immobili alla chiesa di S. Angelo
de
Funtanellis, presso la quale erano
precedentemente insediati i francescani. In questo caso l’appiglio per
contestare il concordato da parte della comunità vallombrosana era stata la
promessa dei frati minori di colmare la sperequazione dell’oggetto di scambio
con l’aggiunta del monastero di S. Ilario di Fiesole, appartenente a monache
benedettine fino agli ultimi decenni del secolo XII. L’acquisto dell’antico «
luogo » dei frati minori in cambio del monumentale complesso monastico
rappresentava evidentemente un cattivo affare per i vallombrosani di S.
Fortunato. Ma l’ostacolo più grosso dovette venire dai conversi del monastero,
che non vollero abbandonare gli ambienti, probabilmente loro assegnati, presso
il
claustrum exterior, di cui parla il documento
pontificio del 21 maggio 1255, che denuncia come abusiva e provocatoria
l’occupazione di tale spazio da parte di conversi, spalleggiati in questo da
alcuni monaci, contro la volontà dell’abate. Si trattava evidentemente di laici,
che erano legati dal vincolo dell’oblazione alla comunità monastica ed erano
andati ad occupare gli spazi abitativi del complesso monastico, resisi liberi
per il declino della comunità stessa col conseguente depauperamento numerico dei
suoi membri. Entra qui in gioco una componente del mondo monastico che, in forza
anche delle molteplici mansioni e ruoli ricoperti a nome del monastero, aveva
stabilito uno stretto raccordo con l’ambiente cittadino, all’interno del quale
tali conversi nella loro qualità di laici legati a una entità religiosa
dell’ambiente urbano, ancora economicamente robusta, nonostante la fase di
declino, dovevano avere più di un interesse personale da difendere. Abbandonare
lo spazio monastico comportava il rischio di liquidazione di interessi e di
rapporti con le varie componenti dell’ambiente cittadino. Più che comprensibile
dunque la loro accanita resistenza, che lascia chiaramente intravedere, come la
sostituzione delle antiche comunità monastiche ad opera dei gruppi appartenenti
ai nuovi ordini religiosi abbia provocato un ricambio a volte traumatico nel
mondo laico gravitante attorno alle comunità religiose e un rimescolamento delle
carte con cui a determinati livelli si giocavano vincoli, interessi e rapporti
all’interno della società urbana.
Da
notare che proprio in Todi si erano stabiliti un ventennio prima (1236) i
domenicani nel monastero premonstratense di S. Leucio, dopo il fallito tentativo
di accaparrarsi la sede monastica di S. Fortunato: alla precedente comunità
canonicale, se ne sostituiva una con caratteristiche nuove, quasi un simbolo di
continuità istituzionale, benché con identità e caratteristiche diverse: si
trattava del passaggio di mano dalla comunità locale di canonici inseriti in un
ordine che aveva ormai una storia secolare, a un’altra comunità canonicale che
l’appartenenza al nuovo ordine religioso rendeva funzionale alle esigenze di
adeguamento dell’istituzione canonicale alle nuove connotazioni della società
urbana.
Quelli a cui abbiamo accennato sono soltanto alcuni dei più significativi esempi
fra i numerosi casi di monasteri urbani trasferiti d’autorità, o dietro
preventivo accordo delle parti interessate, ai mendicanti. La loro prontezza ad
occupare gli spazi fisici, ormai pressoché svuotati del contenuto demico e dei
ruoli e del prestigio sociale, di cui li aveva caricati la poderosa realtà
monastica, è altamente significativa della capacità di risposta da parte dei
nuovi ordini alle esigenze socio-religiose, che il mondo monastico tradizionale
non era più in grado di soddisfare. Tale fenomeno, che appare corposo e
pressoché a senso unico e a tutto vantaggio di francescani e domenicani,
caratterizza i centri urbani di diversa dimensione e importanza dell’Italia
centro-settentrionale nei due o tre decenni centrali del secolo XIII.
La
diversa struttura della società urbana e soprattutto la lotta che contrappose
Federico II al papato, sopratutto a partire dagli ultimi anni Trenta del secolo
XIII, ritardarono di qualche decennio il fenomeno nel meridione d’Italia. I
decenni centrali di tale secolo nelle regioni meridionali appaiono
caratterizzati dal potenziamento delle strutture monastiche, soprattutto
rappresentate dai cistercensi, a fronte di una diffusione degli ordini
mendicanti, che sembra subire una battuta d’arresto: lo Svevo, che nell’elargire
i suoi favori teneva in conto potenziali sostenitori e avversari, non poteva
ovviamente dare il suo appoggio ai mendicanti, che facevano fronte comune con il
pontefice. Per quanto riguarda i francescani il confronto fra i due più antichi
elenchi statistici è eloquente: nei primi anni Sessanta del secolo XIII
risultano costituiti 119 insediamenti, distribuiti nelle 6 province minoritiche
del Regno; un numero certamente rilevante che potrebbe bastare da solo a
riproporzionare l’immagine, spesso drammatizzata, che le fonti ci danno degli
effetti sul dato insediativo dello scontro tra Federico II e i frati minori. Ma
va tenuto presente che gran parte delle sedi minoritiche registrate nei primi
anni Sessanta del secolo erano andate costituendosi nel primo ventennio
dell’espansione della rete insediativa dei francescani, quindi prima che lo
scontro con Federico II divenisse radicale e insanabile. Si deve anche rilevare
che tra il 1263 ca. e il 1282, cioè nel ventennio immediatamente successivo alla
caduta degli Svevi, le sedi minoritiche nel Regno raggiungessero il numero di
283, risultando più che duplicate rispetto al cinquantennio intercorso tra la
prima espansione minoritica nella penisola italiana e la definitiva liquidazione
degli Svevi. Dunque nell’arco di meno di un ventennio dall’avvento degli
Angioini vengono fondati 146 insediamenti; un dato numerico, che, confrontato
con quello relativo al cinquantennio dell’espansione francescana sotto gli
Svevi, risulta di per sé eloquente a proposito della notevole diversità della
politica religiosa messa in atto dalle due dinastie.
Per
quanto riguarda i predicatori la situazione è definibile nei dettagli: in Puglia
nel periodo svevo vengono costituiti i conventi di Trani (1227), Brindisi (1233)
e Barletta (1238), dunque prima dello scontro definitivo con Federico II, come
si evince dalle date di fondazione, nel capitolo provinciale domenicano,
svoltosi a Roma nel 1283 sono elencati per la Puglia altre tre sedi: Bari,
Monopoli e Foggia, mentre vengono segnalati complessivamente 19 insediamenti
domenicani nell’Italia meridionale, di cui soltanto 8 costituiti durante il
periodo svevo e tutti prima del 1239, eccettuati i due conventi siciliani di
Messina e Siracusa. Da notare che nel primo periodo angioino risulta frequente
il caso di sedi monastiche trasformate in conventi degli ordini mendicanti sia
maschili che femminili. Interessante in proposito la notizia fornita da Bernard
Gui, che segnala come la comunità femminile domenicana si fosse insediata nel
monastero benedettino di S. Pietro martire. Particolarmente significativi i casi
di Salerno e di Bari, che si collocano nel contesto del processo di inurbamento
dei mendicanti, processo che appare nettamente in ritardo rispetto all’analogo
fenomeno nelle regioni dell’Italia centro-settentrionale, e connotano due
diverse situazioni nell’ambito dei rapporti ordini mendicanti-realtà monastica.
Nel 1272 il monastero di S. Maria
in
Palearia a Salerno viene trasformato in
un convento domenicano. Di li a sette anni la comunità domenicana ha ormai
assunto una notevole importanza, accanto a quella francescana, nei confronti
della realtà monastica cittadina: nel 1279 Nicolò III affida al priore dei frati
predicatori e al guardiano dei frati minori l’inchiesta circa la legittimità
dell’elezione dell’abate del monastero di S. Benedetto di Salerno.
A
Bari i frati predicatori si sono insediati da pochi anni, quando nel 1286
concordano con il monastero benedettino di Ognissanti di Cuti uno scambio per
noi molto significativo: i domenicani cederanno al monastero tutti gli annessi
abitativi e i terreni di loro proprietà presso la chiesa extraurbana di S.
Leonardo, situata in zona antistante il fossato della città, sulla via che,
passando nei pressi del monastero di Ognissanti, attraverso Bitritto e Loseto
portava in direzione sud verso il golfo di Taranto; il monastero da parte sua
avrebbe ceduto ai domenicani un complesso di case e terreni presso la chiesa dei
SS. Simone e Giuda ubicata nell’immediato spazio intramurario. Lo scambio era
vantaggioso per ciascuno dei due contraenti: il monastero acquistava un
complesso fondiario comodamente raggiungibile con pochi chilometri di una strada
che passava vicino alla propria sede, i domenicani risolvevano il problema del
proprio trasferimento all’interno delle mura urbane.
Contestuale al processo di inurbamento insediativo da parte dei mendicanti è la
progressiva organizzazione dei ritmi della vita comunitaria sulla base del
modello monastico. Le strutture edilizie dei monasteri, predisposte per un
ordinato e regolare svolgimento della vita delle comunità religiose secondo i
ritmi scanditi da una tradizione secolare, non potevano non apparire molto
adatte per ripartire entro spazi opportunamente predisposti i momenti di una
giornata, che le corpose comunità mendicanti urbane avevano imparato a regolare
su ritmi e modalità assunti dalla tradizione monastica. L’autore di una fonte
redatta poco dopo la metà del secolo XIII - le
Determinationes quaestionum circa regulam fratmm minorum, che la tradizione francescana ha
per secoli attribuito a Bonaventura da Bagnorea - posto di fronte all’obiezione
della dissonanza delle imponenti strutture dei conventi urbani rispetto alle
esigenze della povertà francescana, si appella alla necessità di offrire spazi
adeguati a un regolare e ordinato svolgimento della vita conventuale, che appare
ormai esemplata su tempi e modalità della
vita
communis di ambiente monastico. La
solennizzazione dell’ufficio liturgico con il canto, che caratterizzava la
celebrazione comunitaria in ambiente monastico e nei confronti della quale
Francesco aveva messo in guardia i chierici del suo ordine, richiamando con
energia il ruolo assolutamente primario dell’interiorità - in linea del resto
con tanta parte della stessa tradizione monastica - appare fatto compiuto già
negli anni Trenta del secolo XIII, come dimostra l’annotazione musicale apposta
da Giuliano da Spira all’ufficio ritmico per la festa di s. Francesco. Quali
letture rompessero il silenzio della mensa conventuale e fossero presenti nelle
biblioteche dei francescani possiamo ricavare da un testo ascetico-normativo, la
Regula novitiorum,
anch’essa attribuita a Bonaventura: si fatica a trovarvi riferimenti a Francesco
d’Assisi. E come pretenderli in un testo che tende non tanto a plasmare secondo
principi ideali, quanto a normalizzare momento per momento gli atteggiamenti del
novizio? In assenza di una tradizione specifica del giovane ordine religioso non
restava che rivolgersi ai testi classici per la formazione dei monaci. Del
resto, ed è molto significativo, appare frequente il ricorso a testi monastici
nell’Expositio
quatuor magistrorum super Regulam fratrum minorum e nell’analoga
Expositio di Ugo di Digne.
Il fenomeno segnalato ed esemplificato per quanto concerne i francescani trova
un perfetto parallelismo nell’altro grande ordine mendicante, quello dei
domenicani: anche per essi i padri del deserto non rappresentano solo un preciso
riferimento, agiografico e di cui si fanno divulgatori, ma anche un modello, con
cui proporre come identificata, o da identificare, la propria esperienza
religiosa. Del resto la normativa costituzionale dei predicatori aveva assorbito
molti elementi della tradizione monastica, mediati attraverso le modalità
proprie della tradizione canonicale. Anche il testo nel quale Bonaventura
riorganizzava la legislazione costituzionale minoritica dei due decenni
precedenti, pur così evidentemente preoccupato di rendere applicativi principi e
norme della
Regula di Francesco, recepiva, come è
noto, molti dei principi ispiratori e delle norme delle costituzioni domenicane.
Anche i testi della « teologia monastica » trasfondevano i loro contenuti nella
riflessione teologica dei mendicanti, particolarmente dei francescani, i cui
principali esponenti appaiono così evidentemente intrisi del pensiero
teologico-mistico elaborato nei monasteri e mediato attraverso la scuola
vittorina. Non è certo qui la sede per approfondire un argomento tanto vasto e
complesso, dove i rischi delle forzature sono in agguato almeno quanto quelli
delle omissioni e dei riscontri tanto puntualmente eruditi, quanto superficiali.
Basti qui ricordare, in attesa di ulteriori approfondimenti e di un discorso
complessivo e organico, come l’evidente influsso che la mistica cistercense
esercitò, in modo diretto o mediato attraverso gli scritti dei vittorini, su
alcuni dei principali esponenti del pensiero teologico di area francescana,
tenda ormai a riproporzionare di molto l’originalità della « scuola
francescana», fino a porre forti riserve sull’originalità e soprattutto
sull’omogeneità degli orientamenti di pensiero dei maestri francescani almeno
fino agli anni Sessanta del secolo XIII, quando Bonaventura, dopo aver portato a
maturazione le linee del suo pensiero teologico, divenuto ministro generale, può
proporli autorevolmente all’ordine.
Ma
si ha più di un segnale che entro l’abito monastico si trovino a disagio i
membri delle comunità mendicanti. Non è che non vedano la necessità di
regolamentare, e rigorosamente, la vita interna della comunità, ma personalmente
sembrano rimpiangere la vita libera ed errabonda di un tempo. E allora si affidano
ai ricordi e fanno del convento un osservatorio privilegiato, dal quale
contemplano, e con viva partecipazione, gli attivi e spesso contraddittori
protagonisti dei rivolgimenti e dei contrasti che caratterizzano la prorompente
vitalità dei popolosi centri urbani, di cui i mendicanti si sentono cittadini a
pieno titolo. Una rilettura della vivacissima cronaca di Salimbene vale in
proposito ben più di qualsiasi tentativo di ricostruzione, anche per quanto
concerne i rapporti tra il mondo monastico e quello mendicante.
Ritorno alla pagina iniziale "Storia del Monachesimo"
| Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto |
| Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia |
29 marzo 2015
a cura di Alberto "da Cormano"
alberto@ora-et-labora.net