L'ATTUALITÀ DELLA REGOLA DI S. BENEDETTO


VITA MONASTICA

E MONDO CONTEMPORANEO

Gregorio Penco O.S.B.

Estratto da “Il monaco e il mondo contemporaneo” - Abbazia San Benedetto – Seregno 1996

 


 

Per ciò che riguarda il nostro tempo l’esame è, al riguardo, più precario per due motivi, perché il ciclo storico di cui ci occupiamo non è ancora esaurito e perché noi stessi ne facciamo parte, siamo insieme protagonisti e giudici.

Vita monastica, società contemporanea: è un binomio composto di termini abbastanza eterogenei per natura, consistenza, finalità, un binomio tra i cui termini si potrebbe essere tentati di porre subito un antagonismo irriducibile oppure di evitare il confronto stesso, tanto i due mondi appaiono lontani idealmente l’uno dall’altro. Eppure, a pensarci bene, anche la vita monastica fa parte della società contemporanea e, sia pure con le proprie peculiarità, vi è inserita, ne attinge le vocazioni, ne risente la mentalità, i ritmi, il linguaggio. I monaci non vivono su di un altro pianeta ma, come dice la costituzione conciliare Gaudium et Spes a riguardo di tutta la Chiesa, sentono e devono sentire sempre di più la propria compartecipazione alle gioie e alle sofferenze dei propri contemporanei.

Detto questo bisogna però ammettere subito la difficoltà di definire caratteri, tendenze e mentalità di quella realtà così multiforme che è il mondo contemporaneo se, a riguardo di esso, sul piano operativo, è stato detto che non esistono più, a livello internazionale e mondiale, autorità capaci di seguire e controllare lo svolgimento dei fatti e, se necessario, di scongiurare una catastrofe. Nell’epoca moderna il mondo, nella sua accezione complessiva — ivi compresa quella peggiorativa — tende a combaciare sempre più compietamente colla società e, quindi, ad essere sempre più difficilmente isolabile da essa. La mondanità che un tempo aveva delle linee di demarcazione ben nette, dei confini non facilmente superabili e da cui, perciò, ad esempio, le famiglie potevano ancora difendersi, oggi è, per così dire, nell’aria, allo stato diffuso, propagata e promossa dai potenti mezzi di comunicazione sociale i quali tendono, innanzi tutto, ad eliminare ogni discriminazione morale, ad annullare ogni valore, ad irridere ogni modello rifacentesi ad altra ispirazione che non sia quella del profitto e del divertimento.

Un tempo il distacco dal mondo e l’ingresso nella vita monastica avveniva in un regime di cristianità per cui si passava da un ambiente ben determinato ad un altro egualmente ben determinato, si percorreva, per così dire, un cammino riconosciuto ed accettato da tutti (almeno in via generale) per il fatto che tutta la società ammetteva ed esigeva l’esistenza di determinate gerarchie ideali ed istituzionali, mentre i trattati ascetici ed i documenti del magistero (ad esempio il Sillabo di Pio IX) si esprimevano in termini fortemente negativi nei confronti del mondo. Dopo il Concilio Vaticano II si è verificata una situazione strana: da una parte, infatti, la Chiesa ha assunto, nei confronti del mondo, un atteggiamento più benevolo (il dialogo e la comprensione), dall’altra il mondo ha radicalizzato sempre di più i suoi atteggiamenti anticristiani.

Naturalmente per poter trattare di argomenti del genere con una certa fondatezza bisognerebbe avere delle conoscenze di sociologia religiosa, di pastorale e comunicazione di massa che solo gli specialisti possiedono. Qui possiamo soltanto riferirci a quei dati che sono pressoché di dominio pubblico e alle relative riflessioni. Il mondo contemporaneo, inoltre, è una realtà di cui è praticamente impossibile delimitare i confini, una realtà, per giunta, in continuo mutamento (lo confermano anche gli annuali rapporti del CENSIS), di cui è perciò arduo fissare con precisione indole e caratteri. La società contemporanea suole definirsi una società complessa nel senso che le sue strutture ed articolazioni si diramano in una quantità indefinibile di direzioni e di settori e si incontrano e si intrecciano in un numero imprecisabile di livelli e di àmbiti, con una serie di passaggi che, inavvertitamente, creano attorno all’individuo una rete impenetrabile. Si passa così dall’ambito individuale a quello familiare, sociale, professionale, sindacale, politico, partitico, ideologico da cui l’individuo cerca di evadere, tra l’altro, nel ben noto fenomeno del «fine settimana», che ha assunto proporzioni macroscopiche e pone agli operatori pastorali difficili problemi per la salvaguardia del senso cristiano del «giorno del Signore».

Tra l’altro la complessità della situazione del mondo contemporaneo è confermata dal fatto che quasi ogni giorno, sui giornali, di questa stessa situazione è proposta una diagnosi diversa, scoprendone in tal modo sempre nuovi aspetti. Filosofi, politici, sociologi, psicologi si danno da fare per cogliere qualche nuovo lato di una realtà che è mutevole come un caleidoscopio, illusoria come una vetrina, fuggevole come un film. La separazione, sempre più netta, fra discipline umanistiche e discipline scientifiche rende poi sempre più problematica una valutazione complessiva della realtà da parte di una sola persona, perché essa dovrebbe essere dotata di competenze e, prima ancora, di interessi che normalmente non si trovano uniti in un solo individuo. La situazione è complicata pure dalla molteplicità e contraddittorietà dei messaggi diffusi dai mezzi di comunicazione sociale, dal loro porsi su lunghezze d’onda diverse non facilmente discernibili da parte dell’uomo medio, per lo più privo di spirito critico. Ciò vale in modo particolare per quanto si riferisce alla Chiesa, ai suoi esponenti, alle sue istituzioni, alla sua storia e, quindi, ai suoi rapporti col mondo. Nelle diverse pagine di uno stesso giornale la Chiesa è presentata in maniera diversa e contraddittoria, da un’indiscrezione sulle finanze vaticane ad una rievocazione disincantata dei papi del Rinascimento, dalle disavventure di qualche prelato a notizie circa presunti ritrovamenti di antichi manoscritti della Bibbia che rivoluzionerebbero tutte le conoscenze in proposito. L’importante è, per la stampa, «fare notizia», creare scandali, contrapporre base e vertice, magistero e teologi, fedeli e pastori, progressisti e conservatori, dubbi e certezze. Ciò che conta non è la normale fisiologia di un organismo sempre in crescita ma l’anomalia di stati patologici che sembrano essere gli unici degni di menzione.

Anche il concetto di «sfida» merita una particolare considerazione, dato che esso ci riporta, o ci può riportare, a qualche concezione importante e significativa del pensiero storico contemporaneo. E noto, infatti, che il celebre storico inglese Arnold Toynbee ( 1975), il quale ha elaborato una classificazione delle civiltà (secondo lui 21) succedutesi nella storia dell’umanità, pensava che le civiltà sorgessero e perdurassero per il fatto che dovevano e potevano rispondere a determinate «sfide» poste da difficoltà storiche o ambientali. La vitalità di una civiltà, in altre parole, consiste, secondo quello storico inglese, nella capacità di rispondere alle sfide più impreviste, nel darvi — non tanto a livello teorico quanto pratico — delle risposte valide e tempestive. Anche il mondo monastico, nelle sue varie correnti e ramificazioni, si è trovato di fronte a sfide del genere, al succedersi delle mentalità e delle civiltà, delle epoche e delle culture e ha tentato di darvi delle risposte. Oggi le sfide sono più radicali perché tutto assume e riflette il carattere e l’urto della società di massa. Inoltre, a differenza di quanto si verificava nelle società arcaiche — basate su pochi princìpi ammessi da tutti i membri del clan, del villaggio, della regione — nell’odierna società (che suole definirsi complessa, pluralistica, multimediale) l’individuazione degli elementi di base è divenuta oltremodo difficile. Gli elementi in gioco, infatti, sono numerosissimi, a volte interdipendenti ma a volte anche contraddittori, sembrano cioè escludersi a vicenda (ad esempio libertà ed intolleranza), proprio perché ciascuno di essi, calato nelle diverse situazioni e culture, è inteso in maniera diversa ed è quindi difficile da definire. Vi può essere, perciò, da parte di alcune componenti della società e della cultura contemporanea, apprezzamento per la vita monastica (come avviene, ad esempio, da parte di alcuni movimenti ecologisti) ma solo per alcuni suoi aspetti che non sono neppure i più importanti e significativi.

E infatti la vita monastica è arrivata all’epoca contemporanea unita e mescolata ad una serie imprecisata di idee e, specialmente, di pregiudizi nei suoi confronti, portando spesso da sola il peso di tante situazioni o ambiguità di altre istituzioni religiose o ecclesiastiche ormai scomparse (metodi disumani, per esempio, di praticare la clausura o la penitenza).

Per l’uomo di cultura media, indifeso ed impreparato di fronte al tambureggiare dei mass-media, il fatto monastico risulta quindi di difficile interpretazione, omologato e confuso con qualche cosa che richiama genericamente la vita religiosa ed il sacro, ma di cui è difficile precisare l’origine, la natura, l’entità. Di fatto, le diffidenze che l’uomo moderno prova e le resistenze che egli avverte nei confronti di un’istituzione come la vita monastica sono in gran parte di carattere culturale (problemi di cultura storica connessi con difficoltà ereditate dal passato e, nel frattempo, ingigantite, deformate, isolate dal loro contesto naturale).

Bisogna poi tenere presente l’enorme sproporzione esistente oggi, dal punto di vista quantitativo, fra monachesimo e mondo. I centri monastici sono infatti, oggi, delle piccole isole in mezzo ad un oceano che le sovrasta e le sommerge. In passato, invece, la società aveva proporzioni molto più ridotte, configurazioni sociali e politiche molto più incerte, una coscienza di sé molto più dimessa, mentre i centri monastici erano molto più numerosi. Inoltre questi ultimi svolgevano importanti e, a volte, decisive funzioni di supplenza nei confronti della società civile. Il confronto fra vita monastica e mondo si poneva, quindi, in ben altri termini di quelli odierni. Era il mondo monastico infatti a sfidare spesso la società, a contrastarle l’esercizio del potere, ad imporle i suoi modelli di vita, a trattare, da pari a pari, con i suoi più alti esponenti: era insieme il «non ancora» e il «già» della concezione cristiana della storia.

Occorre inoltre tenere presente che tra i due elementi (vita monastica e mondo) non esiste oggi un rapporto immediato e diretto come potrebbe esistere, ad esempio, fra i principi della morale cattolica, ulteriormente ribaditi dai documenti del magistero ecclesiastico, e questo stesso mondo: qui il rapporto, sia pure conflittuale, è continuo e scoperto anche perché interessa milioni di persone. Nel caso del monachesimo, invece, si tratta di un fenomeno marginale che, nell’opinione pubblica, viene alla ribalta solo in occasione di qualche inchiesta giornalistica o di qualche episodio un po’ singolare.

Per il resto si rimane nei soliti luoghi comuni divulgati da una mentalità superficiale ed emotiva. Bisogna poi aggiungere una serie di considerazioni per ciò che riguarda l’altro fattore e cioè il mondo contemporaneo. Tale mondo è nato infatti, dal punto di vista ideologico, dalla rivoluzione francese e dai principi che tale rivoluzione ha poi introdotto nei vari regimi politici che si sono susseguiti. Senonché tale processo ha subito anche forme involutive e dalla proclamazione dei diritti dell’uomo è poi passato alla loro cancellazione, dall’esaltazione delle libertà (ivi compresa quella religiosa) alla loro eliminazione, dall’idea di progresso ottimistico ed illimitato all’idea di crisi allo stato endemico, irreversibile. Il nostro secolo ne è stato testimone e protagonista, spettatore e vittima: nella prima metà del nostro secolo, infatti, sono state spazzate via le dittature di destra, nella seconda quelle di sinistra ed il secolo sta per concludersi sì con una rinnovata affermazione della validità dei principi liberali ma anche in un clima di generale incertezza e disorientamento. È stato detto che negli ultimi anni si è verificata la fine delle ideologie e dal punto di vista di principio ciò può essere vero, ma prima che questa coscienza sia passata nelle masse altre ideologie avranno il tempo di prenderne il posto. Delle ideologie del passato, inoltre, spesso è sopravvissuto il peggio: lo scetticismo, il nichilismo, la negazione dei valori, la mancanza di significato e di ideale.

Nella Chiesa in generale, dopo un periodo di rigetto pressoché completo della modernità (grosso modo sotto Pio IX ma più che altro per ragioni politiche e contingenti) si è passati ad un’altra fase disposta ad accettarne le sfide (e non solo più per stare sulla difensiva) e ad accoglierne il concetto stesso: si vedano, in proposito, le encicliche Mater et Magistra di Giovanni XXIII e la Populorum Progressio di Paolo VI, il quale definiva il nostro tempo «magnifico e terribile», fino alle sollecitazioni dell’attuale pontefice (Giovanni Paolo II) per le provocazioni che vengono dal mondo della cultura. Tra l’altro, è dalla categoria storica della modernità che abbiamo appreso che l’Europa è stata, proprio perché ora non lo è più, la «societas christiana», la cristianità sociologicamente costituita. Di fatto il mondo monastico, anche se viene da lontano, deve accettare la sfida della modernità, divenuta una precisa categoria culturale, esaminata da numerosi saggi e recentemente, ad esempio, da Sylvie Koller in «Etudes», gennaio 1995 (trad. ital. in «Mondo e missione», aprile 1995).

Tale modernità è stata, da parte della gerarchia ecclesiastica, dapprima guardata con grande diffidenza: fino a 30 o 40 anni fa i vescovi italiani rimpiangevano, nei loro documenti, i bei tempi della civiltà rurale (dunque, non moderna) perché più legata a certe tradizioni e, dunque, anche al Cristianesimo. Sembrava impossibile che quest’ultimo potesse animare anche una società moderna come, appunto, quella urbana, industrializzata. E qualche incertezza esiste ancora, al riguardo, nei documenti della Quarta Conferenza generale dell’episcopato latino americano a Santo Domingo per i cinque secoli di evangelizzazione di quel continente, ove la religione popolare è fortemente contrapposta a quella delle élites, considerate come moderne. Sono quindi in gioco fattori complessi come antico, moderno, postmoderno coi loro (presunti) corrispondenti di cristiano, scristianizzante, scristianizzato.

Di fronte a questa situazione anche il monachesimo deve avere coscienza di vivere in un’epoca molto diversa da quelle in cui esso è sorto e attraverso cui è giunto fino a noi, un’epoca in cui ci saranno (forse) da inventare nuove strutture, in fatto, ad esempio, di federazioni, ma soprattutto, si dovrà aver cura di operare una sintesi culturale fra antico e nuovo: «Nova et vetera», come appunto dice la RB a riguardo dell’insegnamento dell’abate del monastero. E ciò specialmente in fatto di informazioni, di scambi, di comunicazioni.

Ma non possiamo tacere neppure delle sfide che questo stesso mondo moderno pone a se stesso, delle sue insicurezze, delle sue contraddizioni, dei suoi silenzi, dei nuovi tabù (come quello della morte), dell’emarginazione dei problemi di fondo, del fatto, per esempio, che in campo filosofico le preferenze di molti vadano al cosiddetto «pensiero debole», un pensiero cioè che elude ed esclude per principio la discussione sui massimi problemi dell’essere e si interessa solo dell’esistere. Ci sono poi le sfide che provengono dal nostro interno, di esseri che sono ancora, in parte, «mondani», «secolari», così come è stato detto che anche nel cuore della persona religiosa sonnecchia sempre un po’ l’«ateo». I confini tra noi e il mondo non passano solo attraverso la clausura, ma anche e soprattutto attraverso il nostro cuore: è questa la vera «linea di confine» che deve essere quindi continuamente verificata e rafforzata. Si tratta di una esigenza di conversione continua che rivede e sradica giudizi, pensieri, ricordi, sentimenti, risentimenti, attaccamenti. «Farsi alieno dai costumi del mondo» (RB 4) è oggi più impegnativo che in passato perché, se il mondo era un idolo, oggi è una città di idoli in cui non c’è neppure più l’altare dedicato al «dio ignoto».

Certo, una sfida fondamentale, quella da cui tutte le altre derivano, è costituita dalla questione della fede. Sappiamo che tutta la vita monastica poggia sulla Parola di Dio, sulla fede in Lui, sulla proclamazione continua, anche se tacita, che Gesù è il Signore («Signore mio e Dio mio» è il culmine della professione di fede nel Vangelo da parte di Tommaso secondo gli esegeti). Ora, a proposito della fede, stando ai dati forniti dai sondaggi promossi dai cultori di sociologia religiosa, i risultati sono quanto mai sconcertanti e deludenti. C’è infatti un 80% che dichiara di credere in Dio, un 70% nella divinità di Cristo, ma la percentuale cala al 40% per ciò che riguarda la resurrezione e la vita eterna, al 30% quanto all’esistenza del demonio. Se poi dalla fede passiamo all’osservanza dei precetti le cose sono ancora più problematiche. Dal punto di vista cristiano questo mondo contemporaneo è spesso un mondo ridotto ai minimi termini. Gli esperti di pastorale ci dicono infatti che essi continuano per lo più a battezzare i bambini, che poi li ritrovano per il catechismo della prima comunione, li riacciuffano per la cresima, li reincontrano per la preparazione al matrimonio fino a quando, ormai adulti ed anziani, i cappellani degli ospedali amministreranno loro gli ultimi sacramenti. In queste condizioni che reale fondatezza possono avere le sfide rivolte alla vita religiosa e monastica? Come si può valutare un fenomeno tipicamente religioso se, in fatto di religione, si ignora praticamente tutto?

Mentre la vita monastica presenta un tipo di esistenza integrata in una comunità a tutti i livelli, nella condivisione di tutto, l’uomo moderno è un essere frazionato al punto che egli non sa più dove è veramente e pienamente se stesso (politica, lavoro, famiglia, tempo libero, amicizie): spesso anche tra i coniugi esiste la separazione dei beni. Anche ciò è dovuto al carattere complesso della società contemporanea, fatta di tanti compartimenti ciascuno dei quali ha una sua funzione, una sua logica, una sua finalità, con scarse possibilità di aggregazione totale, come può esserlo la comune celebrazione di una festa. Al Cristianesimo (più che ad altre religioni che non hanno ancora pienamente subito l’impatto col mondo contemporaneo) questo stesso mondo ha lanciato, nel nostro secolo, due sfide fondamentali: quella della critica storica applicata alle sue fonti (i testi delle origini cristiane) — donde, agli inizi del secolo, la crisi del modernismo — e quella della secolarizzazione. La prima sfida, elusa a suo tempo mediante le severe condanne dell’autorità ecclesiastica, è stata poi in qualche modo risanata dal Concilio Vaticano II, col suo maggiore senso del pluralismo, della storicità, colla sua più coraggiosa apertura alle esigenze del metodo critico. La seconda sfida (la secolarizzazione) è invece tuttora in atto ed ha effetti molto più vasti, interessanti moltitudini sterminate.

Il Cristianesimo, inoltre, vive in un regime di «simboli» (da quelli del Vangelo di Giovanni a quelli della liturgia). Il mondo moderno ha anch’esso i suoi simboli (dalla segnaletica alle sigle televisive), i suoi rituali (nello sport), per non parlare delle vere e proprie «liturgie» messe in scena dalle dittature del nostro secolo. Ma di fronte al richiamo del sacro rimane incerto, disorientato, privo dei codici culturali che ne permettano le decifrazioni. L’abito monastico, la clausura, il silenzio, la separazione dal mondo sono al tempo stesso realtà e segni di non facile lettura da parte dei nostri contemporanei, anche perché si collocano ad un livello dell’esistenza più profondo di quello su cui normalmente si svolge la vita secolare. E perché il mondo moderno, venuto dopo secoli di tradizione cristiana e ricoperto ancor oggi di innumerevoli ricordi del passato monastico, pone alla vita monastica delle sfide? Per poter dare una risposta soddisfacente a questo quesito bisogna tenere presente la complessità del fatto stesso, ossia l’esistenza, nel caso, di uno dei tanti àmbiti in cui il mondo moderno ha compiuto un taglio delle sue radici cristiane o, piuttosto, ne ha compiuto una trasformazione tale per cui gli elementi originari non sono più riconoscibili. Come ha affermato il famoso storico francese Fernand Braudel, «la religione è l’elemento più forte nel cuore delle civiltà: è contemporaneamente il loro passato e il loro presente». Senonché questo passato arriva al presente carico di innumerevoli condizionamenti, gravato di innumerevoli pregiudizi, trasformato in prodotti che sono del tutto diversi dalle intenzioni originarie. Anche il messaggio religioso è, infatti, un messaggio complesso che, di tanti fattori diversi, ha operato una sintesi. Quando, per il prevalere di tendenze disgregatrici, questa sintesi non regge più, allora ogni elemento le sfugge e va per conto suo: la razionalità (pur promossa dal Cristianesimo) diventa razionalismo, il senso dell’individuo individualismo, la laicità laicismo. Quella distinzione tra Cesare e Dio che è profondamente evangelica ed è il fondamento della laicità diventa prima separazione, poi contrapposizione, infine esclusione vicendevole. Tra l’altro, lo stato moderno è nato laico perché tale ha contribuito a costituirlo la Chiesa togliendogli nella lotta delle investiture la facoltà di nominare vescovi ed abati e, ancor più, di intromettersi in questioni dottrinali. Di fronte a queste ultime lo stato moderno si dichiara incompetente ed è facile il passaggio a dichiararsi indifferente.

Nei confronti della vita religiosa e monastica la sfida della società secolare non passa più ordinariamente nell’epoca contemporanea e nei nostri Paesi occidentali attraverso il potere ufficiale e statuale perché con esso la Chiesa ha stipulato, nel nostro secolo, una grande quantità di concordati: non è più il caso, quindi, di incameramenti, soppressioni e confische come nel secolo scorso. La sfida passa invece attraverso quell’àmbito che è fuori della Chiesa ed in cui lo stato non vuole entrare: la coscienza, la libera opinione, l’espressione del proprio pensiero sul piano ideologico o politico o, semplicemente, del costume quotidiano. Lo scontro non è più quindi, come in passato, tra i vertici dello stato e quelli della Chiesa giungendo poi fino alle comunità religiose, ma tra la società e quello che si chiama «senso religioso», ciò che rimane di una visione cristiana della vita.

Il mondo moderno è il frutto di una società che con la Riforma protestante del ’500 si è staccata dalla Chiesa, coll’illuminismo razionalistico del 700 si è distaccata da Cristo, coll’ateismo di massa del ’900 si è distaccata da Dio. Si è avuta in tal modo, all’inizio, una esasperazione dell’individualismo che dal campo religioso passava a quello sociale, poi un’esaltazione esagerata della razionalità (razionalismo) e, infine, uno sradicamento completo dell’uomo da ogni visione religiosa della realtà. Nella società contemporanea sono presenti tutte e tre queste tendenze o conseguenze delle vicende storico-culturali degli ultimi quattro secoli o separatamente o, assai spesso, unite in un’unica forma di rigetto di ogni visione soprannaturale della vita. Prima perciò che alla vita monastica il mondo contemporaneo pone delle sfide ad ogni fede religiosa, a quella cristiana in particolare, perché è quella che tale mondo crede di conoscere meglio o dalla quale vuole liberarsi; vengono poi le sfide ad ogni forma di vita consacrata in quanto basata su presupposti (quelli, appunto, della fede) non direttamente verificabili sul piano dell’esperienza personale. La fede, infatti, si basa sull’autorità di qualcuno che la propone, che dà certo delle garanzie, ma presenta anche tutta una serie di enunciati dottrinali a cui aderire e di norme morali da praticare. Tutto questo, che in linguaggio filosofico e teologico si chiama «eteronomo», viene ad urtare la tendenza verso l’«autonomo» tipica della mentalità contemporanea. L’uomo moderno vuole essere verità e norma a se stesso, non dipendere da altri, non accettare ciò a cui egli stesso non sia pervenuto con la sua intelligenza e la sua capacità.

Le strutture, d’altra parte, prima eliminate dai governi anticlericali e poi modificate dagli stessi interessati per adattarle ai nuovi tempi, hanno rivelato una solidità insospettata. Esse infatti, quanto ad ordinamenti, osservanze, disciplina, hanno superato incolumi, nel nostro secolo, gli sconvolgimenti di due guerre mondiali, tanto erano vigorose e rigorose, tanto il mondo monastico sapeva difendersi, come in una cittadella assediata, dalle trasformazioni ed evoluzioni esterne della società. I cambiamenti sono cominciati piuttosto a partire dalla fine degli anni ’60 per motivi interni, in una sorta di rivoluzione pacifica che non voleva essere un cedimento alla mentalità del mondo ma semplicemente una constatazione dei cambiamenti (anche positivi) in atto nella società. Il «mondo» cedeva il posto a qualche cosa di più neutro o addirittura positivo, la società e, sul piano delle trasformazioni, al senso della storia.

Nei confronti della vita monastica esiste infatti non soltanto una sfida da parte del mondo ma anche una sfida da parte del tempo. Il trascorrere del tempo esige infatti che nella vita monastica quasi ad ogni generazione si debba compiere un’opera di verifica e di rinnovamento, e ciò tanto più oggi per il generale fenomeno dell’accelerazione della storia. La naturale tendenza dell’uomo ad adagiarsi ed accomodarsi su punti ritenuti definitivi e soddisfacenti esige, infatti, che ad ogni generazione ci si impegni perché ciò che si compie — ad esempio sul piano disciplinare — sia qualche cosa di vivo, di sentito e, quindi, di incisivo e non di semplicemente ripetitivo. Si dice che il tempo è «galantuomo» nel senso che mette alla prova persone ed istituzioni, valori e modelli di vita.

Tutta la tradizione monastica non è altro che questo costante sforzo di rispondere non solo alle sfide del mondo ma anche — sul piano diacronico — alle sfide del tempo.

 


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17 luglio 2024                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net