MONACHESIMO E MISTICA

L'ESPERIENZA DI DIO NEL MONACHESIMO

 

Divo Barsotti

Estratto dal libro “Monachesimo e mistica” - Abbazia San Benedetto- Seregno 1996

 

L’uomo non può impegnarsi a fare cosa alcuna senza proporsi uno scopo al suo agire. Si sente estremamente mortificato se è inutile ogni sua azione. Ma se vi è uno scopo a tutto quello che fa, può essere che la vita non abbia un suo fine? Vi è un fine alla vita? Se l’uomo potesse raggiungerlo nel tempo, dopo averlo conseguito, ricadrebbe nel vuoto di una vita che non avrebbe più senso. Il fine della vita, se vi è un fine alla vita, deve essere al di là della vita.

Proprio per questo l’uomo oggi esperimenta una sua angoscia profonda. Vi è forse una vita al di là di questa vita? Come può raggiungersi il fine se la morte è la fine? In un mondo come quello di oggi nel quale non si riconosce altra realtà di quella del mondo visibile, nemmeno può esservi una vita al di là della morte.

Così l’uomo contemporaneo vive l’angoscia di una esistenza che non ha più un senso, che non può conseguire nulla. L’uomo vive oggi per la morte e la vita diviene un assurdo. Ma potrà ancora sopportare il peso di una simile condizione? Per sfuggire all’assurdo di una vita che non ha un fine, l’uomo rimanda l’esito e chiede alla storia di dare un senso alla vita. Ma la storia invece di dare un fine alla vita del singolo, elimina ogni uomo in favore di uno «spirito universale». L’uomo ha perduto la fede nella sua immortalità, né sa più dove possa condurlo il suo cammino.

Perduto il fine, ha perduto anche se stesso e non vive più che una sua dannazione. L’unica possibilità per continuare a vivere è la droga: dimenticare, non voler pensare più, lasciarsi portare dagli eventi senza sapere perché; vivere l’innocenza dell’animale liberandosi dal peso di un impegno cosciente, di una volontà ordinata ad un fine, per abbandonarsi solo all’istinto animale. Egli vive, ma non vive più da uomo.

Se l’uomo vuol essere fedele a se stesso non può rinunciare a che la vita abbia un fine. E il fine dell’uomo è al di là del tempo presente. Forse non sa che vi è un Dio, ma l’incalza una forza interiore che lo spinge in avanti, sempre avanti. La vita è per questo un cammino che non può conoscere riposo quaggiù.

Proprio questa forza senza che sappia dove lo porta è all’inizio della sua vita religiosa. L’uomo è alla ricerca di quello che non sa. È vero: il fine determina la direzione del cammino. Se l’uomo non sa con chiarezza che è Dio la sua meta, tuttavia, già per questa forza interiore che lo spinge, conosce che la meta è al di là di tutto quello che può conoscere e possedere quaggiù. Nonostante tutto rimane insopprimibile questa spinta interiore che non fa mai riposare l’uomo, fintanto che vive nel mondo. Dio che ha creato l’uomo gli ha dato, come fine ultimo, di tendere a Lui e di poterlo raggiungere.

Così la nostra vita è una ricerca di Dio, è volontà insopprimibile di tendere a Lui. Vi sono scopi diversi all’agire, ma vi è un fine solo alla vita. Se Dio è il fine ultimo, l’uomo può colpevolmente rimandare a un domani la ricerca di Dio, contentandosi di dare uno scopo ai singoli atti della sua esistenza, ma non potrà mai sopprimere del tutto l’ansia che lo spinge verso una mèta che pure è irraggiungibile nel tempo. La ricerca di Dio diviene dunque il contenuto più vero della vita umana, questa ricerca naturalmente egli la vive con più o meno fedeltà, con minore o maggiore impegno, ma sempre con un desiderio vivo e parimenti inappagato.

È questa la vita monastica. Meno la ricerca di uno scopo che la ricerca del fine. Il monaco si libera da ogni impedimento che gli fa rimandare la ricerca di Dio per un impegno nel tempo, per un rapporto con la molteplicità degli scopi che può dare volta per volta al suo lavoro, alla sua azione. Il monaco non conosce altro fine che Dio. Ogni religione vuole dare all’uomo una maggiore consapevolezza di questo suo fine, e vuole aiutarlo con mezzi suoi propri al suo raggiungimento. In ogni religione vi sono uomini che sdegnano di fermarsi lungo la via, che non amano disperdersi nella molteplicità di impegni mondani: il monachesimo sembra essere per questo un elemento essenziale di ogni religione.

Può esser diversa la dottrina su Dio, possono essere diverse le vie che secondo ogni religione e cultura portano a Lui, ma al di là di ogni differenza, la vita monastica esprime più efficacemente l’universalità della vocazione umana, il fine ultimo della vita dell’uomo.

Oggi chiunque appartenga a una religione e la viva è portato quasi istintivamente a vivere al di là di ogni opposizione di dottrina, al di là di ogni diversità di mezzi, per sentirsi solidale con tutte le anime che cercano Dio. È estremamente significativo l’insegnamento della Chiesa che vede perfino nel buddismo una preparazione evangelica. Dobbiamo tendere all’unità, ma una unità incoativa è già in atto per il fatto che gli uomini hanno una sola vocazione, un fine solo da raggiungere, una sola salvezza. Non è senza perché che il monachesimo viva oggi un sentimento più vivo di universale fraternità. Questa fraternità ha il suo fondamento nel fine ultimo che è uguale per tutti, ed è il conseguimento della salvezza nel possesso di Dio.

Il monaco è l’uomo che vive radicalmente questa ricerca del fine ultimo. Vi è dunque una certa equivalenza fra ogni uomo che veramente viva la sua vocazione e il monaco.

Dobbiamo riconoscere il paradosso della vita umana: il monaco è dunque alla ricerca di Dio, ma come può vivere questa ricerca se egli sa che di fatto Dio è per sé inaccessibile alla creatura? Se da una parte l’uomo vive questa forza che lo sospinge in un cammino infinito, d’altra parte sembra che non abbia a sperimentare che lo scacco, il fallimento del suo medesimo impegno. Tendere a Dio non vuol dire forse rifiutare ogni legame col mondo e con gli uomini? Non vuol dire andare al di là di tutto quello che l’uomo può conoscere e volere? Il cammino verso Dio è allora il cammino della morte?

Sarebbe impresa disperata la vita del monaco se già nel cammino egli non dovesse sperimentare in qualche modo la presenza stessa del fine. Sono di una grande verità le parole di Pascal nel Mistero di Gesù: «Non mi cercheresti se tu non mi avessi trovato». L’ansia che sospinge il monaco in un cammino infinito già dice la presenza di Dio. Nella sua ricerca è Dio stesso che lo spinge e vive nel suo cuore. Il monaco, sì, è colui che cerca Dio, ma in qualche modo già sperimenta in sé la presenza di Colui che cerca. Come potrebbe superare l’infinita distanza che lo separa da Dio, se misteriosamente Dio non fosse già nel suo cuore?

Ma come Dio vive nell’uomo, come l’uomo percepisce questa segreta presenza? Al di là di ogni differenza di dottrina, al di là di ogni differenza di metodi nella ricerca di Dio, dobbiamo riconoscere una certa unità del monachesimo. Dio che è la meta a cui tende ogni uomo rimane per tutti incomprensibile e inaccessibile: l’uomo sente che non può raggiungerlo se non entrando in una realtà a lui sconosciuta: più che nel possesso, è nel suo desiderio, in quest’ansia che egli conosce Colui che cerca.

Rimane vero che nel cristianesimo il monaco ha una particolare conoscenza di Dio: Dio gli ha parlato ed egli sa che rimane al suo fianco lungo tutto il cammino. Se la salvezza sarà nel possesso di quel Dio che egli cerca, già tuttavia Dio si è segretamente donato a lui. Non è più l’uomo solo che tende nel suo amore a un Dio lontano: Dio, anche se l’uomo non lo conosce, si è fatto compagno del suo cammino, e vive con lui.

Del resto non gli è totalmente sconosciuto, ma oscuramente si fa conoscere nella stessa creazione, negli eventi della sua vita, nei sentimenti che Dio suscita in lui. Il cammino dell’uomo non è più una necessaria rottura col mondo e con gli uomini, perché Dio si rivela nella creazione medesima nella quale egli vive, è presente realmente, anche se nel mistero, in ogni uomo.

Rimane sempre il pericolo che l’anima sia attratta dalla bellezza della creazione, dalla dolcezza dell’amore umano e così si possa fermare nel cammino. Da una parte la creazione intera, rivelandoci Dio, accende sempre più nel cuore il desiderio per arrivare al suo possesso; d’altra parte però la creazione può sostituirsi a Dio stesso, proprio in quanto è già segno di Dio e, sia pure imperfettamente, lo rivela.

Di qui la necessità del silenzio per ascoltare nell’intimo la parola di Dio che l’incalza. Di qui la necessità di una certa solitudine. Il cuore dell’uomo deve vivere un certo distacco affettivo perché la creatura non prenda il posto di Dio. Nel deserto l’uomo è necessitato al cammino se non vuole morire di sete e di fame. Senza il silenzio che lo rende attento alla voce segreta di Dio, l’uomo è sollecitato dall’invito che tutte le creature gli fanno di trovare in loro il suo riposo.

Il silenzio stesso nel quale l’uomo sembra affondare non è soltanto condizione all’ascolto. Di fatto in questo silenzio l’anima del monaco gusta la dolcezza segreta della presenza di Colui che cerca. Il silenzio stesso è la sua Parola.

Il silenzio e la solitudine non sarebbero mezzi efficaci alla vita spirituale del monaco se avessero soltanto un aspetto negativo, di morte. Il silenzio e la solitudine sono piuttosto già la prima lontana percezione di quel Dio che vive nel cuore del monaco.

Così la solitudine non è vuota, è già, nel monaco, l’espressione stessa di una comunione. La comunione dell’anima con Dio diviene sempre più intima e viva nella misura in cui l’anima è sempre più sola con Dio solo.

Si potrebbe pensare una vita religiosa nel cristianesimo che escludesse l’iniziativa di Dio?

Se l’uomo cerca Dio è perché Dio per primo ha cercato l’uomo, è andato incontro a lui, lo ha sollecitato, si è fatto conoscere e ora continuamente gli parla e lo attira a sé. Se in sé Dio è inaccessibile, per il monaco cristiano questo Dio si è fatto accessibile nel mistero stupendo della Sua incarnazione. È impensabile nel cristianesimo una vita religiosa che, rifiutando l’incarnazione del Verbo, fosse soltanto lo sforzo impotente dell’uomo a raggiungere l’Infinito. Si è detto che Dio vive già nel cuore dell’uomo, si è detto che l’ansia stessa dell’uomo che cerca Dio è la prova segreta dell’azione di Dio, ma per il monaco cristiano l’esperienza interiore viene garantita dalla presenza oggettiva di un Dio che nell’umanità che ha assunto si è fatto compagno dell’uomo. Non è stato sufficiente a Dio di rivelarsi nella creazione, egli stesso si è fatto presente nel Cristo e oggi entra in comunione con l’uomo attraverso i sacramenti divini. Non vi è opposizione fra l’esperienza interiore e questa presenza oggettiva di Dio che nel Cristo si è fatto nostro fratello. Ma è piuttosto questa presenza oggettiva che ci dà sicurezza e ci libera dal dubbio e dalla presunzione che tende a identificare l’atto dell’uomo con l’atto di Dio. Per questo l’esperienza religiosa del monaco cristiano non si oppone, ma trova piuttosto la sorgente della sua forza nell’appartenenza del monaco alla Chiesa che prolunga in qualche modo nel tempo l’incarnazione di Dio, nella partecipazione alla sua liturgia, specialmente al mistero eucaristico.

La mistica cristiana è essenzialmente una mistica oggettiva, ed è il monachesimo che assicura l’oggettività dell’esperienza interiore perché non separa mai questa da quella. Sia nel monachesimo fuori dal cristianesimo che in quello cristiano, il silenzio e la solitudine sono mezzi essenziali, necessari all’esperienza di Dio. Quello che è proprio del monachesimo cristiano è il carattere oggettivo di questa esperienza. La vita religiosa, prima di essere conoscenza di una dottrina, prima di essere impegno morale, è una storia. Il monaco non vive la sua vita.

Troppo facilmente dimenticando questo legame col mistero della Chiesa, con la liturgia, la vita religiosa diviene una gnosi. È la originalità e la grandezza della mistica cristiana questo carattere oggettivo dell’esperienza mistica. Il monaco nella sua solitudine vive una reale comunione con Dio. Dio non vive un’eternità senza tempo, non vive un’immensità senza luogo, ma l’uomo che vive nel tempo si incontra realmente con Lui; così in ogni luogo può avvenire l’incontro: e Dio non lo strappa a quei condizionamenti che sono propri della sua natura di uomo, perché Dio stesso si è fatto uomo con lui, pur non cessando di essere Dio.

Come in Cristo Gesù la natura umana e la natura divina sussistono inseparabili nella loro distinzione, così nella vita del monaco si fa presente nella sua distinzione il tempo e l’eternità; il luogo dove ha preso stabile dimora e l’immensità divina.

Certo, ogni esperienza è propria di un soggetto, ma sarebbe vuota quella esperienza che non dipendesse da una realtà oggettiva che si impone allo spirito dell’uomo. Nella sua esperienza di Dio il monaco non tanto si ferma su di sé, quanto piuttosto è abbagliato e paralizzato nelle sue potenze dalla presenza di Dio. Si può dire che proprio nell’essere sopraffatto dalla realtà oggettiva che si impone al suo spirito, l’uomo conosce Dio. Di qui l’importanza che ha per il monaco la liturgia della Chiesa che fa presente il mistero di Cristo e di Dio. L’esperienza mistica non è tuttavia la reazione a una realtà che si impone necessariamente e naturalmente allo spirito; è invece l’incontro di due libertà: la libertà di Dio che vuole comunicarsi all’uomo e la libertà dell’uomo che si apre nella fede ad accogliere Dio. L’uomo, se non è cieco, non può non vedere il sole che si offre al suo sguardo; parimenti, egli non potrebbe mai avere una conoscenza sperimentale di Dio se Dio non gli si volesse rivelare; allo stesso modo, l’uomo non potrebbe conoscere Dio senza la fede e la fede suppone l’intelligenza ma è atto libero di amore. «Credo perché amo», è l’insegnamento di un monaco, del beato Guglielmo di San Teodorico.

Mentre l’uomo in qualche modo entra in possesso di quelle cose che conosce, nella conoscenza di Dio è Dio stesso, al contrario, che possiede l’uomo e lo trasforma facendolo partecipe della sua vita. La vita monastica, proprio per questo, in un modo del tutto speciale, realizza la vocazione dell’uomo che nella conoscenza di Dio trascende ogni creatura e trascende finalmente anche se stesso. Dio è l’unico e sussiste in un’eterna infinita comunione di amore nelle Persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Nel cammino dell’uomo verso il suo fine anche l’uomo è unico e solo: per questa sua solitudine egli è chiamato ed è realmente «monaco». La sua solitudine è esperienza di una presenza di Dio nel Cristo e in Cristo presenza di tutto e di tutti. Uno nel Cristo, come voleva san Pier Damiani, egli è tutta la Chiesa, è tutta l’umanità.

Quale dunque è il contenuto di questa esperienza interiore?

Trasformato in qualche modo nel Cristo, egli partecipa al rapporto del Cristo col Padre, al rapporto del Cristo con gli uomini. È rapporto profondo e totale, e il Cristo nella sua divinità è uno col Padre ed è uno con tutta l’umanità. Nella sua unione con Dio l’uomo vive una pace inalterabile, una gioia pura, ma soprattutto diviene lode di grazia e di gloria. Nella sua unione con tutti gli uomini invece il monaco vive la responsabilità dell’universale peccato e fa suo il lamento di Adamo, come in pagine di alta poesia ha scritto Silvano del Monte Athos.

Proprio in questa esperienza noi riconosciamo la grande originalità dell’esperienza cristiana in confronto all’esperienza dell’uomo fuori del cristianesimo. L’uomo sente e conosce di essere figlio di Dio, ma anche realizza una sua solidarietà, anzi, una sua unità coi peccatori. Proprio per questo, mentre col Cristo ascende al Padre, discende anche nel più profondo abisso del suo nulla e del peccato del mondo e si sente l’ultimo dei peccatori.

È stato detto che nella vita della Chiesa si prolunga il mistero dell’incarnazione divina. Si deve anche dire che nel tempo della Chiesa si prolunga e si fa presente la passione redentrice del Cristo. La presenza del Cristo nei sacramenti divini è ordinata alla presenza del Cristo nell’uomo e in modo speciale nel monaco, che vuole vivere radicalmente la sua vocazione cristiana.

L’esperienza mistica non è certo privilegio del monaco. Ogni cristiano può e deve aspirare all’unione mistica con Dio in Cristo Gesù; tuttavia possiamo dire che all’esperienza mistica il monaco è positivamente ordinato più di ogni altro cristiano, per avere egli escluso ogni fine intermedio nel tendere a Dio solo. Ma non è per sottrazione che egli rinuncia a vivere un impegno nel mondo: in realtà, se consegue questa conoscenza sperimentale di Dio, egli anche vive in Dio una unione più intima con gli uomini e Cristo lo associa a sé nella sua stessa missione per la salvezza del mondo.

Così la conformazione del monaco a Cristo, anzi una certa trasformazione in Lui, non lo separa dagli uomini, ma neppure lo unisce a loro in un suo comune inserimento nella società, nel riconoscimento di una sua funzione nel mondo: piuttosto unisce gli uomini a lui per sollevarli nella sua stessa ascensione al Padre, meta ultima al cammino dell’uomo.

 

(Ndr: Ho tralasciato il paragrafo “Quale mistica?

 

L’ESPERIENZA DI DIO NEL MONACHESIMO

Non volevamo certo fare uno studio sulla mistica di Gregorio e tanto meno su quella di Bernardo; abbiamo cercato di semplificare, e può sembrare che abbiamo contrapposto una mistica della Sapienza a una mistica del rapporto. In verità non vi è una vera mistica della Sapienza che non implichi anche un rapporto, anzi l’unità è ordinata al rapporto, il rapporto d’altra parte suppone una certa unità.

Ogni contrapposizione sarebbe del tutto falsa; quello che abbiamo detto dunque voleva soltanto mettere in evidenza una certa differenza di tono, una qualche maggiore preferenza della natura sulla persona o della persona sulla natura, preferenza che d’altra parte dipende dal temperamento e dalla cultura del mistico. È vero che la mistica cristiana non potrebbe mai rinunciare a riconoscere nella persona il termine ultimo di ogni esperienza mistica. Potrebbe l’uomo entrare in rapporto con Dio se Dio nella Persona del Verbo facendosi uomo non fosse entrato in comunione con lui? D’altra parte la salvezza nel cristianesimo non è l’assorbimento della persona nell’unità dello spirito, ma piuttosto la sussistenza eterna della persona nel suo rapporto col Verbo divino.

La distinzione delle persone sussistenti nel Cristo si impone per sé: il Figlio si distingue dalla Madre, lo Sposo si distingue dall’anima sposa, il Maestro dai discepoli. Come potrebbe giustificarsi una comunione degli uomini senza questa distinzione che fa reale il rapporto di ogni uomo con l’altro uomo, di ogni uomo con Dio? Anzi possiamo dire di più: tanto più il rapporto è intimo e profondo tanto più la distinzione tende a una vera contrapposizione dell’uno dall’altro. Così nella Trinità divina il Padre dal Figlio; così nel cristianesimo la Vergine Madre dal Figlio, Gesù benedetto.

Prima di vedere in modo più generale quella che è l’esperienza di Dio propria nel monachesimo, ci è sembrato utile fare questa precisazione. Del resto altre precisazioni si sarebbero dovute fare a proposito di quanto abbiamo detto sull’amore della Scrittura in Gregorio e in Bernardo.

Se vogliamo ora determinare meglio in che consista questa esperienza di Dio, noi dobbiamo prima di tutto considerare in che modo il monaco vive un suo rapporto con Dio o meglio ancora come Dio entra in rapporto con l’uomo. Dio è puro Spirito: nell’atto stesso della sua rivelazione Dio si comunica all’uomo. Il monaco vive questa comunione con Dio attraverso quella stessa rivelazione che Dio gli fa di se stesso. A differenza della mistica di altri ordini religiosi, il monaco vive prima di tutto in un costante contatto con la natura. È la natura che gli rivela Dio. Il voto di stabilità non lo sottrae al fascino di una creazione che, nello splendore della sua bellezza, è come il primo sacramento di Dio. Le valli ombrose, le sorgenti delle acque, la musica del vento nella foresta, le cime innevate dei monti: tutta la natura è sempre presente al monaco; egli vive lo stupore di questa bellezza che porta un riflesso, sia pure lontano, della bellezza di Dio. Non potrebbe farne a meno, così come l’uomo non può fare a meno, per vivere, di respirare. Forse non ne è nemmeno cosciente. Come noi si respira senza prendere coscienza che la vita dipende dal nostro respiro, così il cristiano vive nella natura. Il non avere consapevolezza riflessa di quello che la natura è per l’uomo, non vuol dire che egli non viva in forza di questo contatto, in forza di questa comunione con una natura che è il primo sacramento di Dio. È certo comunque che se la creazione è una rivelazione alla quale l’uomo non può sottrarsi, Dio si rivela in un modo ancora più personale e più vivo nella Parola che Dio stesso ha rivolto all’uomo fin dalle origini: di qui l’importanza che ha avuto nel monachesimo la lectio divina, la Parola di Dio.

Abbiamo accennato qualcosa quando abbiamo scritto poche parole sull’esperienza mistica di Gregorio e di Bernardo: ma quello che abbiamo detto non è esclusivamente di loro; la loro esperienza mistica in dipendenza dalla Parola è certamente in loro più grande che negli epigoni; tuttavia non vi è una spiritualità monastica che non affermi l’importanza fondamentale di questo contatto con Dio nella Parola.

La spiritualità del monaco è soprattutto la spiritualità dell’ascolto. Ogni comunione umana ha nella parola il suo mezzo fondamentale: nella Parola di Dio ha il suo fondamento anche la comunione dell’uomo con Dio. È l’Antico ed è il Nuovo Testamento, ma Dio continua a parlare anche dopo che si è chiuso il canone delle Sacre Scritture. Nel monachesimo russo sono libri divini pari alla Sacra Scrittura anche le opere dei Padri, anche gli scritti dei santi. Così nel cristianesimo il monaco si nutrirà dagli scritti di Gregorio, di Bernardo, di Anselmo, di Pier Damiani... La rivelazione suprema comunque trascende la parola dei libri ispirati: è Cristo medesimo, il Verbo fatto carne. La mistica nei monaci è sempre un contatto vivo col Cristo nella sacra liturgia; in modo sovrano nella S. Messa. Nella celebrazione eucaristica non si fa presente Gesù senza la presenza del monaco, sacerdote e unica vittima con Cristo Signore.

È la Messa che dovrebbe consumare l’unione nuziale dell’uomo con Dio, è nella celebrazione eucaristica che l’uomo accoglie il dono di Dio che è il Figlio Unigenito e in Lui si trasforma divenendo figlio nel Figlio. Ma la celebrazione eucaristica non è separabile nella vita monastica dalla preghiera del giorno: tutta la vita del monaco è una sola liturgia e in questa liturgia deve realizzare la trasformazione del monaco nell’immanenza reciproca di Dio nell’uomo e dell’uomo in Dio.

L’esperienza mistica non conosce né può conoscere una sorgente più sicura, inesauribile, ricca della liturgia, perché nella vita del tempo, Dio non si dona con maggiore liberalità, né realizza più efficacemente la sua unione con l’uomo. La dipendenza dell’esperienza mistica dall’atto liturgico ha fatto sì che il monachesimo abbia sentito sempre che la sua attività vera, il suo lavoro, era la celebrazione liturgica, anche se alcune volte il tempo dedicato alla celebrazione era tale, per la sua lunghezza, da rendere impossibile una partecipazione viva e ardente. Comunque rimane vero: se si è preferita a volte una liturgia più sobria, fu per dare al monaco un tempo maggiore per una sua meditazione e partecipazione al Mistero.

Nella liturgia l’atto dell’uomo non sostituisce l’atto di Dio, ma l’atto di Dio si fa presente nell’atto dell’uomo, e l’atto dell’uomo è il Sacrificio del Cristo nel quale ha il suo compimento la storia degli uomini e la vita dell’universo.

Se pertanto la liturgia è al centro della vita della Chiesa e della vita del monaco, ne deriva che l’esperienza mistica è essenzialmente una partecipazione al mistero pasquale che proprio per la liturgia si fa continuamente presente nella Chiesa perché gli uomini possano parteciparvi.

Non solo dunque l’esperienza mistica dipende dall’atto liturgico, ma è l’atto liturgico che dà all’esperienza mistica il suo vero contenuto. Il monaco vive la morte e la resurrezione del Cristo. Quanto si è scritto sul colore della veste del monaco è un richiamo precisamente a questo contenuto: i monaci «neri» debbono fare presente nella Chiesa il mistero della morte di Gesù; i monaci «bianchi» fanno presente invece la sua resurrezione.

L’esperienza mistica è dunque una partecipazione alla morte e alla resurrezione del Cristo.

Per sé nella rivelazione cosmica Dio non si rivelava come persona, non entrava in un rapporto personale con l’uomo, ma l’uomo che viveva una sua dipendenza da questa rivelazione aveva la percezione del sacro, la percezione di una presenza. Questa presenza diveniva la presenza di un Dio personale nella rivelazione profetica. Dio usciva dal suo silenzio ed entrava in comunione con l’uomo mediante la parola che era Legge, annuncio profetico, proposta di amore. Dio comunque rimaneva velato. L’uomo può cercare il volto di Dio, ma solo nel Cristo Dio acquista un volto; solo con la rivelazione ultima, Dio entra in comunione reale con l’uomo. Il monaco che vive questa ultima rivelazione di Dio, non vive più la solitudine: la sua vita è comunione con un Dio dal quale si sente amato e che egli ama finalmente «con tutto il suo cuore, con tutta la sua anima, con tutte le sue forze».

Prima di quest’ultima rivelazione l’uomo vive una ricerca di Dio dolorosa perché Dio, anche se parla, è lontano, anche se annuncia una sua venuta, di fatto lascia l’uomo nell’impotenza di poterlo raggiungere. L’esperienza mistica in queste prime rivelazioni è piuttosto drammatica; è esperienza per l’uomo di solitudine e di impotenza. Accendono il desiderio dell’uomo, ma non lo appagano; cresce via via il desiderio e col desiderio la pena. L’esperienza mistica invece che dipende dalla rivelazione ultima è sentimento vivo di pace. L’anima è colma di pace e di dolcezza, come insegna l’ Imitazione di Cristo, vive un’intimità e familiarità stupenda con Dio. Allo sforzo impotente dell’uomo a raggiungere Dio ora subentra l’esperienza di una amicizia, di una intimità serena, di una gioia segreta e pura.

La conoscenza di Dio è la vita eterna, secondo il IV vangelo. Questa conoscenza è, nel cielo, la visione che ci fa eternamente beati, è, nel tempo, quel processo di rivelazione che Dio ci fa di se stesso. Al processo della rivelazione risponde il processo nell’uomo di una fede che, divenendo sempre più viva e luminosa, anticipa in qualche modo nella contemplazione la vita stessa del cielo. La conoscenza di Dio diviene esperienza di una trasformazione dell’uomo. Il tema della trasformazione dell’uomo si ricollega al tema dell’uomo-immagine di Dio.

Non dobbiamo dimenticare che il monaco è l’erede della mistica di interiorità di san Gregorio, ma il monachesimo dipende anche da Agostino nel privilegiare il versetto della Genesi secondo il quale l’uomo è stato creato a immagine e secondo la somiglianza di Dio. Dio si è donato all’uomo e abita ora nel suo cuore. Il cammino del monaco è il suo discendere nel fondo più intimo di sé, dove abita Dio. In questo fondo si compiono le nozze dell’anima col Verbo, da questo fondo si leva «la stella del mattino» (1 Pt 1, 19) che annuncia il giorno che viene.

Scrive san Paolo ai Corinzi: «Noi tutti a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3, 18). Il testo è fondamentale: ci dice qual è la condizione al processo dell’uomo che termina nella trasparenza dell’uomo in Dio; la condizione è la vita nella Presenza. Dio che abita nel suo intimo fondo attrae a sé l’anima e in sé la trasforma.

 

Illuminato dallo Spirito, battezzato nel fuoco,

chiunque tu sia: monaco, vergine, sacerdote,

tu sei trono di Dio,

sei la dimora, sei lo strumento,

sei la luce della divinità.

Tu sei Dio,

sei Dio, Dio, Dio...

(Cantico di san Sergio)

 


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12 giugno 2024                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net