Il ruolo del monachesimo in Europa

di Pius-Ramon Tragan, O.S.B.

estratto da "Incontri di studio di Camaldoli 2002" - Edizioni Dehoniane
 

Il tema propostomi suggerisce molto più di quanto una riflessione come questa, piuttosto breve, può consentire. L’argomento richiede, poi, più di quanto io, come persona e come monaco, sia in grado di sottoporre alla vostra considerazione. Tuttavia, riflettere su questo tema ha rappresentato per me una sfida attraente, una quaestio che ha messo in moto le mie risorse intorno a un soggetto che per voi, per tanti altri e anche per me, è caro ed esaltante: l’Europa.

            Una prima constatazione. Il termine «Europa» rimanda a una realtà geografica e storica, ma allo stesso tempo ha sempre implicato e continua tuttora a implicare un’idea, un progetto, una visione del futuro. Lo stesso vale per il monachesimo: anch’esso è una manifestazione umana e religiosa reale, che si sviluppa in luoghi e tempi precisi, ma è anche, al contempo, un ideale, un progetto, una ricerca protesa verso il futuro. Per questo, le riflessioni seguenti si muoveranno all’interno del binomio realtà-progetto, in modo che, a partire dall’analisi della realtà attuale, si possa cogliere qualche luce per un’idea, un progetto, una visione costruttiva. Non solo rispetto a una nuova Europa, ma anche rispetto all’urgente necessità di un rinnovamento monastico. Se è vero che il monachesimo può essere fonte di ispirazione per la costruzione dell’Europa, è anche vero che l’Europa può incidere sul monachesimo in modo che i monaci possano rispondere, con rinnovata vitalità, alle esigenze di un nuovo progetto per una nuova comunità umana.

Europa e monachesimo:
un rapporto attuale?

            Un gruppo qualificato di abati e abbadesse benedettini ha sentito l’urgenza, in questo passaggio di millennio, di riflettere sulla presenza del monachesimo nella costruzione dell’Europa. Si tratta del «Groupe de Chevetogne», fondato nel 1992.1 Grazie alla pubblicazione dei risultati dei loro incontri, che si sono tenuti due volte all’anno, ho potuto scoprire la ricchezza dei temi svolti e un ventaglio di argomenti trattati sia da personalità politiche e persone esperte in diritto, sociologia, arte e teologia, sia anche da abati, abbadesse e monaci. Recentemente, un membro di questo gruppo, Clemente de la Serna, abate del monastero di Silos in Spagna, ha pubblicato un articolo su «I monaci nella nuova Europa».2 All’ultimo congresso degli abati benedettini nel 2000, due conferenze, quella di Jacques Delors dal titolo «Intorno ai valori» e quella di Timothy Radcliffe, «Il trono di Dio», hanno portato a tema il rapporto tra Europa e monachesimo.3 Di notevole interesse sono stati anche convegni e pubblicazioni su temi monastici in diversi paesi europei. In Italia, tra moltissime altre iniziative, basta pensare alle Edizioni di Camaldoli, alle Edizioni Scritti Monastici di Praglia, alle Edizioni Qiqajon di Bose, al Bollettino dell’AIM (Alliance Inter Monastères), ai convegni che hanno avuto luogo al monastero delle benedettine di Viboldone.4 Dal 27 agosto al 1 settembre prossimi poi, nel cuore dell’Italia centrale, si terrà un’intera settimana di studi monastici sul tema Il patrimonio monastico: risorsa per l’Europa.5

            Da anni, insomma, l’interesse per il binomio Europa-monachesimo è crescente, e molte sono state le riflessioni finora proposte sia sull’eredità umana e spirituale della tradizione monastica sia sull’orientamento che la nuova Europa dovrebbe avere per essere fedele alle sue radici più autentiche.

Approcci diversi

            Nella stragrande maggioranza degli studi in ambito monastico dedicati al tema del rapporto tra Europa e monachesimo predomina la constatazione del bisogno di spiritualità e della necessità di ideali e valori trascendenti che da sempre l’Europa ha avuto e che, per essa, sono tuttora essenziali. Si insiste, poi, sulle radici cristiane e sui valori umani, teologici e culturali del monachesimo; si sottolinea quale sia stata la sua incidenza su tutto il pensiero occidentale e, soprattutto, sulla vita dell’antico continente europeo; si raccomanda che anche nella nuova Europa gli stessi valori vengano conservati e coltivati, vissuti e trasmessi.

            Certo, è fuori di dubbio che l’Europa non dovrebbe perdere i grandi valori di umanità e di cultura che la contraddistinguono, e che, in parte, deve anche al monachesimo. Come è anche certo che essa, per garantire la dignità delle persone e delle comunità che la abitano, ha bisogno di un’anima, di una spiritualità, di significati e di valori forti. È anche indiscutibile che il monachesimo ha rappresentato un filone costitutivo nella formazione della grande Europa e che i monasteri sono stati per secoli, e dovrebbero continuare a essere, fonte di cultura e di spiritualità, luoghi di scambio al di là dei confini etnici e politici. Non occorre insistere su quanto è già stato fino a oggi giustamente sottolineato riguardo alla simbiosi tra monachesimo ed Europa e al carattere profetico che la missione monastica potrebbe avere anche nel nostro tempo: nella misura in cui, per abitare insieme la casa comune del vecchio continente, sono necessari civiltà, valori umani e spiritualità, diviene anche auspicabile che il monachesimo, grazie alla sua natura e alla sua tradizione, agli ideali e ai valori esemplari insegnati e tramandati dalla teologia dei padri dell’Oriente e dell’Occidente, resti significativo per questa nuova Europa che sta nascendo.6

            Per quanto mi riguarda, però, vorrei approfittare di questa occasione per entrare nel binomio Europa-monachesimo da un altro punto di vista. Le riflessioni che seguono non hanno tanto di mira cosa sia il monachesimo in sé o quali siano i valori ideali7 con cui esso può contribuire a disegnare il profilo unitario, l’orientamento politico e l’organizzazione economica della nuova Europa. Esse intendono piuttosto porre la questione del modo, del come, concretamente e adesso, nel tempo che ci sta davanti, può aprirsi un’altra stagione di positiva interazione tra Europa e monachesimo o, meglio, tra la nuova Europa e una rinnovata tradizione monastica. Certo, come in altri tempi, il monachesimo può offrire al nostro continente le ricchezze della sua tradizione spirituale, rendere percepibile il senso della trascendenza e indicare la dimensione teleologica della storia. Il vero problema, però, non mi sembra tanto questo. La questione veramente cruciale è, a mio avviso, un’altra: quale progetto spirituale è realisticamente possibile per l’Europa di domani e in che modo, oggi, il monachesimo può essere una delle forze vitali che collaborano efficacemente, a partire dalla propria tradizione, a individuare i valori umani e spirituali per l’Europa che sta nascendo?

            A questo scopo, ritengo necessario partire da una breve analisi della realtà, cioè da quelle situazioni socio-religiose che connotano la vita dell’odierna società occidentale, situazioni certamente sentite e sofferte dagli attuali superiori delle comunità monastiche, ma che non possono non ingenerare una certa preoccupazione anche in coloro che hanno responsabilità nella costruzione dell’Europa. Proprio il modo di vivere e di pensare dominanti nella nostra società, infatti, devono realisticamente costituire il punto di partenza per determinare il modo e le possibilità di costruire e dare vita a una nuova Europa. I monasteri europei, del resto, sono nuclei comunitari che fanno parte di una precisa società e al loro interno vivono persone di questa nostra epoca, di questa nostra cultura, di questa nostra Chiesa. Esse portano dentro il monastero l’aria complessa che soffia oggi nella società occidentale e nella chiesa cristiana di questo nostro continente.

            Intendo sviluppare le mie riflessioni intorno a due nuclei. Il primo, ha funzione di preambolo; il secondo vuole essere, invece, una proposta.

Una lettura dell’attuale società

            Nel rileggere la società attuale8, un interrogativo si è fatto pressante: perché la vecchia Europa sta diventando di nuovo conservatrice? Una buona maggioranza dei cittadini europei usufruisce abbondantemente dei vantaggi del consumismo e nessuno vuole perdere il privilegio del benessere e del consumo. Quindi, per una grande maggioranza dei cittadini sono necessarie sicurezze e promesse di stabilità. Poco importa che il mondo circostante presenti crudamente lo spettacolo disumano della miseria e della povertà, della violenza e del terrorismo che opprimono tanti uomini, donne e bambini, popoli e continenti. Mi chiedo: la vecchia Europa non può fare altro che rimanere chiusa e indifferente? Fino a che punto è accettabile che gli europei stiano zitti di fronte alle agitazioni di popoli a noi vicini pur di non perdere i propri privilegi? Dobbiamo continuare a fabbricare armi per chi ne ha bisogno perché, nonostante sia immorale, è comunque redditizio? La globalizzazione economica incalza. L’ex cancelliere tedesco Helmut Kohl ha affermato: «l’Europa non può essere solo alleata degli Stati Uniti. Deve essere competitiva». Benissimo: competitiva, ma con quali metodi?

            D’altra parte, l’Europa di domani si va costituendo come società pluralista,9 multietnica e plurireligiosa. Sarà in grado di assorbire tutte queste tensioni? Saprà adattarsi a queste nuove realtà che velocemente la aggrediscono? Lo farà pacificamente? Voi stessi potete giudicare molto meglio di me se oggi l’Europa democratica (democratica, in realtà, più ad intra che non ad extra) è in grado di accettare, di fatto e non soltanto in linea di principio, la Dichiarazione universale dei diritti umani e di propugnarne la realizzazione per tutti i popoli. È sotto gli occhi di tutti, però, che il tipo di progresso in cui siamo immersi non crea fratellanza, ma individualismo. Dobbiamo forse pensare che è stato proprio questo il grande errore dell’Illuminismo?

            Ci troviamo, è vero, all’interno di uno di quei processi che chiedono tempi lunghi, secoli interi. L’Europa stessa, d’altra parte, ha già vissuto grandi processi di trasformazione. Possiamo pensare al periodo della diffusione dell’ellenismo nel bacino del Mediterraneo e nel Medio Oriente, quando, per la prima volta, si afferma l’ideale culturale e politico della koiné: la civiltà greca esplode in una infinità di filosofie e di religioni che divengono patrimonio di un mondo fatto ormai di diversità e di scambi, di molteplicità e di complessità. O al periodo in cui questo colorito insieme di filosofie e di religioni viene assimilato dall’impero romano e ciò prelude a una sua inevitabile frantumazione interna, mistificata solo illusoriamente dal ricorso al panem et circenses. O possiamo ricordare il tempo dell’alto Medioevo, quando i popoli del Nord hanno fatto nascere un’altra Europa. Certo, i processi di lunga durata possono essere valutati solo a distanza. Non possiamo esimerci, però, dal giudicare realisticamente il mondo in cui siamo immersi.

            Evidentemente, non è il caso in questa sede di guardare alla nostra società con pessimismo. Ho però presenti i risultati della recente indagine del Censis per l’Osservatorio europeo sui giovani dai 15 ai 30 anni nonché la lettera del presidente Ciampi allo stesso Osservatorio. Impressiona la barbarie del vocabolario corrente nei mass media e nelle scuole; preoccupano il degrado e la violenza tra i giovanissimi; sorprendono le dimostrazioni inconsulte degli impulsi primari tra gli adolescenti, ma anche all’interno delle famiglie; impensierisce il passaggio dall’homo sapiens all’homo videns; pone degli interrogativi il successo della cosiddetta cultura dell’effimero e inquieta l’indebolimento del rispetto civico e delle virtù umane.10

            Non vorrei drammatizzare.11 Nessuna realtà però, neppure quelle poco confortanti, può essere disconosciuta. Nel momento in cui vogliamo pensare l’Europa del futuro, sono importanti sia le esperienze del presente che quelle del passato, ma lo sono anche tanto le esperienze positive che quelle problematiche.12 Mai, infatti, si può pensare alla storia, a quella del passato come a quella attuale, senza tener conto di quell’ambiguità antropologica e sociale che ne rappresenta una costante ineludibile.

            D’altro canto, in nessuna epoca sono mancati germogli di creatività e di bene, ed essi non mancano certo neppure oggi. Sarebbe lungo enumerare i molti elementi positivi del nostro tempo. Pensatori e politici, scienziati e tecnici, teologi e biblisti, ma anche associazioni, organizzazioni e movimenti, danno il meglio di sé in tutti i campi e tengono costantemente aperte le questioni di senso. È proprio sulla base della loro ricerca e del loro sforzo di orientare l’attuale transizione che prenderanno corpo le riflessioni che cercherò di proporre nella seconda parte di questa meditazione. Prima, però, una serie di domande ancora si impone.

Siamo noi gli ultimi cristiani?

            La domanda non è mia. L’ha posta il teologo domenicano Jean-Marie Tillard. La sua risposta può sembrare sconcertante. Secondo lui, una cosa è inesorabilmente certa: noi siamo gli ultimi testimoni di un certo modo di essere cristiani, di un certo modo di essere cattolici. La situazione reale delle Chiese e dell’Occidente cristiano è un tema troppo importante per eluderlo proprio quando si vuole pensare all’Europa del futuro,13 e il p. Tillard conosceva troppo bene la situazione socio-religiosa attuale e la storia della Chiesa perché non prendiamo sul serio la sua opinione.14

            Se consideriamo la situazione della Chiesa, anzi delle Chiese, non possiamo evitare un sentimento di disagio e di malessere. La nuova primavera che doveva seguire al concilio Vaticano II ha prodotto forse solo germogli poco vigorosi? Le nostre comunità cristiane sono travagliate da una crisi profonda. I banchi delle chiese sono vuoti. Le persone che ancora li occupano appartengono alla terza età. I catechisti si sforzano di parlare di Cristo a bambini e ragazzi che sbadigliano di noia. La conoscenza del Vangelo, così come viene proposta, non interessa. Il dialogo ecumenico e i rapporti interreligiosi, salvo in gruppi del tutto elitari, non progrediscono ma restano bloccati, sia pure per motivi diversi, tanto ai vertici delle Chiese sia nella sensibilità della gente. La grande crisi aperta dal modernismo non è stata risolta e ciò ha favorito, all’interno delle diverse comunità cristiane, la radicalizzazione di posizioni inconciliabili. Una parte dei credenti ritorna con rigidità al pensiero e alla prassi religiosa preconciliare. Sono gruppi tradizionalisti, minoritari, ma convinti e intransigenti, a-criticamente attaccati all’osservanza delle tradizioni, più che alla vitalità della Tradizione.

            Abbiamo anche assistito, d’altra parte, all’esplosione di movimenti carismatici che, con grande creatività e vivacità, si propongono come nuove cellule di rinnovamento ecclesiale, ma che non vogliono o non riescono a integrare i loro svariati orientamenti nella pastorale di insieme. Si tratta spesso di movimenti che corrono paralleli alla Chiesa locale, ciascuno con i propri adepti, persone generose e convinte, che si occupano però della propria vita spirituale e s’impegnano esclusivamente all’interno del proprio gruppo, rinunciando a essere fermento della grande Chiesa e della società postmoderna: poiché la loro fede riposa più sul fervore personale che non su una matura riflessione critica, diviene particolarmente difficile per loro inserirsi positivamente in una realtà articolata e complessa quale quella odierna.

            Ci sono poi i cristiani che hanno accolto lo spirito del concilio Vaticano II, ma che hanno sentito il peso di un’atmosfera ecclesiale inadeguata alla ricezione delle istanze conciliari e incapace di affrontare i gravi problemi di fondo che le Chiese dell’Occidente oggi si trovano davanti. Tra questi, alcuni sono rimasti fedeli, pazientemente sicuri, in attesa di una stagione ecclesiale più feconda. Preparano, silenziosamente, un rinnovamento serio e approfondito del pensiero cristiano. Altri si sono invece lasciati andare all’indifferenza. Fatto forse comprensibile, anche se poco ragionevole. Hanno nostalgia per le aperture di liberazione promosse dal Concilio, ma non hanno accettato che il processo di ricezione conciliare fosse lento e, spesso, anche doloroso.

            Infine, c’è la stragrande maggioranza dei battezzati che vivono nell’indifferenza totale, disincantati, al margine dei valori e della fede cristiana, senza nessun interesse per le questioni del senso dell’esistenza e della vita, cioè per quegli interrogativi che implicano anche un’apertura verso il trascendente.

            In questo quadro: che ne è del monachesimo?

            La maggioranza dei monasteri maschili e femminili europei cerca di mantenere viva la fiamma della tradizione ricevuta. Salvo alcune fortunate eccezioni, però, con uno sforzo enorme. Si tratta d’altra parte di una tradizione che, in molti casi, affonda le sue radici nella restaurazione romantica del secolo XIX, iniziata in Francia da dom Guérager, ripresa poi in Germania, passata in Italia per opera dell’abate Casaretto, diffusasi in Spagna e arrivata anche in altri continenti grazie all’influsso e alle fondazioni dei monasteri europei. Non bisogna dimenticare, oltre tutto, che il successo di tale riforma, che ha accompagnato più della metà del secolo XX, è stato favorito anche dal clima ideologico e politico che ha preceduto le due grandi e terribili guerre mondiali. Difficoltà e ripensamenti sono cominciati nella seconda metà del secolo scorso. Il calo di vocazioni è diventato sempre più sensibile e ancora oggi rappresenta un’emergenza molto grave. Da tempo sarebbe stato necessario un rinnovamento del monachesimo ma, per esempio qui in Italia, salvo in alcuni casi peraltro significativi come i Camaldolesi e la nuova fondazione di Bose, non è stato ancora possibile avviarlo e svilupparlo in modo coerente e con uno sforzo unitario. Il risultato è evidente. Le comunità tradizionali maschili e femminili si sono indebolite, sono invecchiate, e il loro peso culturale e spirituale è vistosamente diminuito.

Il monachesimo oggi

            Cosa ci si può aspettare da questo monachesimo che è, se non moralmente, fisicamente decadente? Cosa possono offrire i monaci e le monache,15 persone certamente virtuose, ma che hanno appena le forze per non mandare in rovina le grandi abbazie dove abitano? Certo, l’Europa di oggi può trovare ancora in alcuni monasteri una testimonianza viva del monachesimo ma, nel suo insieme, la vita monastica così come è concepita, trasmessa e vissuta dalla maggioranza dei monaci, pur essendo in sé lodevole, non può essere, né tanto meno potrà essere nel futuro, una forza esemplarmente incisiva né potrà contribuire alle grandi trasformazioni in atto in Europa.

            In questo momento, sembrano avere una qualche vitalità solo i monasteri che hanno fatto una scelta di vita ispirata a un’antropologia, un’ecclesiologia e una spiritualità cosiddette tradizionali e, per questo, considerate autentiche, ma che in realtà sono ideologicamente arcaiche e organizzativamente assolutistiche. In epoche di grandi mutazioni come la nostra tali monasteri possono resistere perché offrono a coloro che ricercano una fuga huius mundi uno stile di vita fortemente strutturato, chiuso e rassicurante. Sono monasteri piramidali in cui nulla può essere messo in questione. Sono comunità a volte anche numerose, ma ancorate a una visione antropologica, a una concezione teologica e a una struttura organizzativa che appartengono a un’epoca pre-critica e che non possono certo offrire un pensiero, una cultura, un linguaggio, in una parola, un modello cristiano realmente significativo per il mondo attuale, in grado cioè di incidere in una Chiesa e in una società che hanno bisogno di riflessione, di fratellanza umana, di pensiero teologico vivo, di un’appropriazione critica della storia, della Tradizione e della stessa rivelazione biblica. Sono monasteri che credono che la loro missione sia quella di essere dei parafulmini che proteggono dalle tempeste del mondo e si presentano come riserve protette di una fede, di una teologia e di un modello di vita fermi al Medioevo. Nella nostra Europa, tali comunità sussistono come mondo chiuso in sé, salvaguardato e sostenuto da persone ostinate nelle tradizioni, a cui non conviene la ricerca, a cui non dice niente il coraggioso motto del pensiero moderno sapere aude, ma non dice più nulla neppure l’atteggiamento dinamico ed esigente proposto da san Benedetto – patrono d’Europa! – di quaerere Deum, o il motto di sant’Anselmo, fides quaerens intellectum. Tali monasteri possono avere, forse, incidenza in altri paesi e continenti. Non, però, nell’Occidente cristiano.  

            A volte, guardando alla nostra società occidentale, alla situazione ecclesiale e alla debolezza di tanti monasteri, viene la tentazione di pensare che la stagione di un monachesimo significativo per l’Europa appartenga solo al passato. Una spiritualità e un ordinamento comunitario che perdurano come se niente fosse cambiato nei secoli, né il modo di pensare, né la visione dell’universo e dell’uomo, né la sensibilità, né il ritmo della vita non sembrano proponibili in una società postmoderna.

            Nonostante questo, molti monaci – e anch’io – vogliono credere, invece, che una nuova vitalità dei monasteri è possibile.16 Che è ancora possibile, cioè, trovare un modo in cui questa vitalità possa di nuovo diventare reale e efficace. Si tratta solo, forse, di una possibilità, di un progetto, di un esperimento. Ma un’alternativa che si opponga all’odierno immobilismo, al laissez faire, laissez aller, un’alternativa contraria alla fuga in avanti favorita dall’attuale e complesso pan-spiritualismo va almeno ricercata. Non solo in nome del monachesimo. Anche in vista dell’Europa. Le persone e i gruppi oggi hanno bisogno di essere orientati, di essere indirizzati verso ideali ragionevoli, verso uno scopo concreto, attuabile, e che implichi, al contempo, una dimensione ideale, un’apertura e un approfondimento spirituali. Che coinvolga ragione e sensibilità, logos ed eros, materia e spirito.

L’impegno monastico

            Mi sembra possibile parlare del monachesimo come fonte di ispirazione per la costruzione della nuova Europa solo a una condizione. Che si affronti il problema di una revisione della mentalità e delle tradizioni ricevute dalle epoche precedenti, sociologicamente, culturalmente e anche spiritualmente non solo diverse, ma anche lontane dalla nostra. Se la Chiesa non può più essere come prima, neppure il monachesimo può rimanere semper idem. Un monachesimo immobile, che confonde la Tradizione con le tradizioni, è solo lo specchio di comunità fisicamente invecchiate e ripiegate su se stesse. Come punto di partenza può valere questo principio: se non si converte, se non affronta seriamente il problema di una radicale trasformazione di mentalità, cioè se non trova un nuovo equilibrio tra i due fondamenti della vita monastica, ora e labora, il monachesimo non potrà certo pretendere di incidere sulla vita della Chiesa né potrà incidere, di conseguenza, sulla vita della società e dell’Europa nascente.17 Non può essere la preghiera, l’ora, l’unica caratteristica distintiva del monaco, e non si può considerare il labora solo un complemento secondario, senza dare spazio all’ascesi dello studio e senza riconoscere il valore della vera umiltà che viene dal sapere.

            È indispensabile che i monasteri diventino creativi,18 e molti possono ancora farlo. Ma devono rivedere e ripensare non pochi principi che stanno alla base della vita claustrale. Devono farsi aiutare da persone realmente competenti a leggere la realtà socio-politica e religiosa nella quale sono inseriti e nella quale sono chiamati a vivere la loro testimonianza evangelica. Ma devono anche interrogarsi a fondo sull’opportunità di persistere in un’interpretazione della regola e in osservanze che replicano modelli di spiritualità che, se sono nati in fedeltà al carisma proprio della Regula Benedicti, sono divenuti ormai sterili. Penso all’episodio evangelico del fico sterile di Mt 21,18s. Se un monastero non è disposto a rivedere il suo cammino e non accetta una conversione profonda, se non diviene capace di accogliere il principio secondo il quale, sia umanamente che spiritualmente, la vita non è sterile solo se coniuga insieme persistenza e cambiamento, non potrà essere in grado di gestire la tensione creatrice insita tanto nelle persone che nelle comunità. Se non riesce a mantenere indissolubilmente uniti mutazione e continuità, il monachesimo rimarrà un albero arido. Solo insieme questi due principi sono, per l’individuo e per il monastero, fonte di vita, di maturità umana e di santificazione evangelica.

            Le comunità monastiche che non sono disposte a leggere la regola alla luce del Vangelo, e non viceversa, e che non si aprono a una coraggiosa ermeneutica delle proprie tradizioni continueranno a proporre un progetto di vita monastica che rassicura i candidati, che attira persone che hanno bisogno di essere eterodirette e che, per carattere o debolezza, cercano nel monastero, sia pure in buona fede, un rifugio nella loro fuga mundi. La formula, nella sua semplicità, è accattivante: tu devi consacrare la tua vita a Dio nella preghiera e nell’obbedienza; le tue attività sono del tutto secondarie. Il monaco – si dice ormai con uno slogan – deve stare lì e fare «semplicemente il monaco». Con questo si intende, comunemente, che il compito del monaco è pregare. Affermazione indiscutibile, perché esprime una parte dell’ideale benedettino: ora. Solo una parte, però. L’altra condizione, il labora, è però molto più importante di quanto normalmente si pensi, perché la persona umana si esprime anche attraverso il lavoro e si realizza mettendo le sue migliori capacità al servizio della comunità, della Chiesa e della società. Un lavoro, però, di taglio intelligente, intellettuale. Nel secolo XII sant’Anselmo, arcivescovo di Canterbury, chiedeva con insistenza ai novizi dell’abbazia di Bec, in Normandia, di leggere Virgilio! Chi lo consiglia oggi?

            Ogni monastero non può più fare a meno, allora, di definire il suo progetto comunitario, il suo labora. Un progetto sul quale far convergere, direttamente o indirettamente, l’impegno di tutti i monaci. Un progetto che non è soltanto l’ufficio corale e la santificazione della propria vita. Un progetto che non dipende soltanto dalle scelte ideali dei monaci o dalla volontà dei superiori. Dipende dalla natura stessa della comunità monastica: essere una Chiesa domestica dentro la grande Chiesa, essere una comunità dentro un determinato ambito sociale. Definire i monaci come coloro che vivono in comunità nell’obbedienza e che pregano insieme per tutta la Chiesa, sostenuti da chi chiede le loro orazioni, non basta. Il monachesimo occidentale non può perdere la caratteristica che gli è più propria: la vita monastica è tensione ed esercizio, lungo l’itinerario dell’intera esistenza, verso un continuo progresso umano e spirituale dei suoi membri.19 Non si può continuare quindi a vivere, nel mondo occidentale del terzo millennio, secondo le strutture feudali del medioevo o secondo le norme della domus romana. Alla luce del Nuovo Testamento, i monasteri devono ripensarsi come una ecclesia nel senso più genuino, una habura (membri di un gruppo esseno;ndr), una fraternità, che vive nel comune dialogo sull’agire umano e sull’agire divino e nella condivisione di un progetto. La loro completezza sta nel portare a termine, in modo qualificato, tutto ciò che è richiesto per collaborare all’umanizzazione della società, attraverso il raggiungimento di un alto livello di sapere scientifico e umanistico, biblico e teologico,20 e attraverso la diffusione del Vangelo tra gli uomini in modo qualificato. Il progetto comunitario va definito, allora, tenendo conto degli obblighi ecclesiali del monaco e dei doveri del monastero verso la società. In Occidente i monaci non sono monaci del deserto, non vivono tra le sabbie dell’Egitto! La vita eremitica rimane un’eccezione. L’interazione tra società e monastero deve essere creativa, vitale, stimolante perché i monaci possano dare il meglio di sé.

            Quando un monastero, attraverso la collaborazione di tutti i suoi membri e nella misura adatta al singolo monaco, è in grado di proporsi questo compito e riesce a rendere visibile il suo progetto, i frutti non tardano a venire. Penso allo scriptorium monastico del Medioevo, focolare di cultura classica e cristiana; penso alla congregazione benedettina dei Maurini. Penso al gusto estetico, a quel principio secondo il quale i monaci possono rinunciare a tutto meno che a scrivere bene. Certo, un progetto del genere, che forse sarebbe meglio definire una «missione», ha bisogno di persone che, nella serietà della propria esistenza e nel saggio sostegno fraterno, sentono l’esigenza di cercare la dimensione trascendente della propria vita e di sviluppare, attraverso l’ascesi dello studio e non attraverso ascesi fittizie, la propria persona e la propria intelligenza al servizio della Chiesa e della società. Sono convinto che anche tra i «giovani lasciati al presente», come vengono definiti dai sociologi i giovani di oggi, ci sono alcuni disposti a vivere in profondità e coerenza un ideale religioso e un lavoro comunitario per il bene della società.

L’impegno europeo

            Posso parlare dell’Europa solo indirettamente, cioè in quanto soggetto di dialogo con il monachesimo, e le mie osservazioni sono giustificate solo nella misura in cui riconosciamo non soltanto che il monachesimo ha rappresentato una delle radici nella costituzione dell’Europa antica, ma anche che il rapporto tra monachesimo ed Europa è sempre stato di reciprocità. Certamente, lungo i secoli il monachesimo ha contribuito in modo efficace a dare all’Europa una dimensione umana e trascendente, un valore culturale e cristiano. Ma è altrettanto vero il contrario: l’Europa ha contribuito a dare al monachesimo occidentale un assetto proprio, una struttura organizzativa, una spinta creativa alle attività dei monaci. Se l’Europa deve molto al monachesimo, altrettanto si deve dire che il monachesimo deve molto all’Europa. 21

            Oggi ciò significa che, se la nuova società europea lavorerà per darsi un progetto, questo favorirà anche il rinnovamento del monachesimo. L’Europa deve perseguire un modello di organizzazione sociale, con una sua struttura e delle leggi proprie, che sia un modello aperto a tutte le dimensioni della persona umana. Un’Europa, cioè, che non si limiti soltanto a sottostare agli imperativi della finanza e alle regole del mercato e non riconosca come unica dinamica vitale solo quella della concorrenza nella produzione dei beni di consumo. Una società che non imponga uno stile di vita basato su modelli di omologazione. Un’Europa forte, ma non chiusa in se stessa. Un’Europa che non accetti che l’unico linguaggio della globalizzazione sia quello della finanza e del mercato, noncurante dello sfruttamento e della sopraffazione che attanagliano interi paesi o interi continenti.

            Fedele alle sue radici culturali, l’Europa che nasce non dovrebbe limitarsi a dichiarazioni di principio, ma dovrebbe difendere, nelle situazioni concrete, quelle dimensioni della persona umana che immediatamente non sembrano produttive, perché non forniscono beni di mercato, ma che sono invece ricchezze indispensabili e, a lunga scadenza, largamente redditizie: la dignità dell’individuo e la convivenza civica, il livello culturale dei singoli come delle associazioni. Soprattutto: il valore di quel sapere che comporta ragionare e analizzare, argomentare e dimostrare, chiedersi-il-perché sia dei principi alla base della tecnica e della scienza sia dell’esistenza umana, interrogarsi sul valore e sul possibile destino della vita umana, riflettere sulla storia delle idee, delle culture e delle fedi religiose che hanno segnato il cammino dell’intera storia umana.

            Europa e monachesimo non avranno possibilità di vivere una nuova interazione se i governi civili non avranno a cuore la formazione pre-universitaria, universitaria e soprattutto la ricerca. Essi devono dimostrare un interesse palese per promuovere la formazione delle nuove generazioni. Devono difendere apertamente, con decisione e chiarezza tutto il sapere, sia quello umanistico sia quello tecnico. È indispensabile che i cittadini della nuova Europa ereditino i valori del patrimonio storico, culturale, religioso, che fanno parte del loro codice genetico. Non si può mettere da parte un immenso patrimonio culturale per favorire l’affermazione di una mentalità omologata che ha perso il contatto con le proprie radici. Anche la nuova Europa deve costruirsi tra continuità e novità, tra stabilità e rinnovamento, tra convinzioni e critica, tra conservazione e cambiamento.

            Se il progetto della nuova Europa non prevedrà una ripresa di civiltà, di saggezza, di formazione integrale, se si andrà alla ricerca di un sapere soltanto specialistico, se non ci si adopererà per il superamento degli egoismi individuali sulla base di un’istanza etica fondata sul ragionamento, il monachesimo stesso sarà il primo a soffrirne. I monaci si sono adattati alle società in cui sono vissuti. Hanno ricevuto molto da esse. Non possono vivere senza un contesto con cui dialogare e interagire. Monachesimo ed Europa non sono mai esistiti, né possono esistere come universi separati. L’uno e l’altra non possono che convergere: solo se la società europea avrà di mira un livello di istruzione e di formazione umana per tutti i cittadini, il monachesimo, fondato sulla fede e sulla spiritualità evangelica, potrà dialogare con essa e mettere a sua disposizione la sua predilezione per la sapienza, intesa non solo come conoscenza delle cose spirituali e trascendenti, ma anche come intelligenza di quelle umane e immanenti.

A mo’ di conclusione

            Un primo passo deve essere dunque – lo ripeto – un impegno forte e coraggioso da parte dei responsabili della società civile, delle Chiese cristiane e dei singoli monasteri per elevare, a tutti i costi, anche con grande sacrificio, il livello di istruzione e la ricchezza intellettuale delle persone e dei gruppi, sia civili sia monastici. Le autorità dell’Europa e i superiori dei monasteri devono trovare il coraggio per investire cospicue risorse economiche, ma soprattutto umane, nel sapere, inteso nel senso più ampio e più profondo del termine. Esse hanno il compito fondamentale di non lasciarsi bloccare dalle difficoltà immediate, ma di promuovere la formazione tecnica, scientifica e umanistica delle persone, di diffondere l’ideale di un’alta qualità accademica, tecnica o artigianale, di mirare a una maturazione umana integrale che dia spessore alla vita e senso al tempo.

            Purtroppo, però, non mi sembra che i paesi europei abbiano avuto il coraggio, in questi ultimi anni, di intraprendere una politica che rilancia i valori dell’istruzione, dell’università e della ricerca,22 nel senso più integrale. Soprattutto, non mi sembra che abbiano affrontato seriamente la questione di una seria crescita culturale dei loro cittadini. Né vedo, nei monasteri, la volontà di promuovere una formazione dei monaci umana e culturale di alto livello.

            A volte, mi viene perfino da pensare che le autorità civili, come quelle ecclesiastiche e monastiche, non siano veramente interessate a una seria formazione intellettuale di tutti i cittadini, o dei monaci e delle monache, per precisi motivi politici. Mi viene la tentazione di pensare che ai detentori dell’autorità sembri più facile governare una società, o una comunità, in cui la maggioranza degli individui riceve una formazione mediocre perché ritengono che un insieme di pecore si affida al pastore più docilmente di quanto un gruppo di individui capaci di riflettere e di ragionare si affidi all’autorità. Continuo a chiedermi, anche ora davanti a voi, se questo atteggiamento da parte delle autorità affonda le sue radici in una sorta di pessimismo antropologico, secondo il quale alla cattiveria umana solo un’autorità può porre rimedio, o risponde piuttosto a una strategia di governo perché semplifica il compito di mantenere l’ordine. È un fatto che la Chiesa e i monasteri tendono a salvaguardare il modello di monarchia teocratica che hanno ripreso dall’Europa medievale, mentre l’Europa attuale sembra far fatica a salvaguardare la ormai lunga tradizione di democrazia che ha alle sue spalle. Non potrebbero, l’una e l’altra, ispirarsi reciprocamente se condividessero lo stesso bisogno di rinnovamento?

            Certo, il vero senso di ecclesia, cioè di comunità, di popolo di Dio, di corpo di Cristo in cui tutti i membri hanno una funzione insostituibile, in cui non c’è differenza tra giudeo e greco, tra schiavo e libero, tra uomo e donna, in cui governare è servire e i deboli sono i privilegiati di Cristo, può rimanere un riferimento ideale valido per entrambi, per il monachesimo come per l’Europa, dato che affonda le sue radici tanto in un filone del pensiero ellenista che nell’esperienza cristiana primitiva. Ma il problema serio resta sempre quello del come. Come dare corpo oggi a tale riferimento ideale, quali sono strategie e modalità praticabili per fare della società e delle Chiese europee, almeno tendenzialmente, luoghi di promozione dei singoli e di solidarietà collettiva, di radicamento nella polis e di apertura al presente e al futuro di Dio?

            Al riguardo, mi sembra indicativa una tendenza del pensiero attuale che riprende alcune delle radici più genuine della cultura europea perché coniuga insieme dimensione intellettuale e dimensione etica. Non a caso viene definita back to Aristotle. Non vuole essere una sorta di nostalgia del passato, ma esprime il convincimento che solo il ritorno al passato, a volte, è in grado di aprire il futuro. Secondo il sociologo Amitai Etzioni,23 è divenuto indispensabile recuperare l’idea di virtù. Non nel senso deformato di norma ascetica, ma nel senso di ricerca del benessere, della felicità, dell’eudaimonia. Per Etzioni, la «nuova regola d’oro» di una società democratica sta proprio nel recupero di questo senso di virtù che coniuga insieme ordine e autonomia, etica del soggetto ed etica comunitaria, che evita entrambi gli estremi, quello di un’antropologia individualista, da una parte, e quello della coazione comunitaria, dall’altra. Questo equilibrio richiede un paradigma morale che, a sua volta, richiede fondamenti ragionevoli e soluzioni ponderate. Solo una paideia che comincia nella prima fase del processo di maturazione, solo una formazione umana e un’istruzione che permettano all’individuo di imparare a pensare, a capire, a ragionare lo renderanno autonomo e al contempo responsabile, in grado di cercare il proprio benessere restando però vincolato alle esigenze della polis e della comunità.

            Forse, progetto europeo e rinnovamento monastico possono trovare proprio nella ricerca di alcuni valori nucleari condivisibili la spinta a una nuova forma di feconda interazione. In fondo, l’attuale esigenza del pensiero filosofico di andare back to Aristotle, non è poi molto distante dalla riscoperta di quella sapienza che il monachesimo cristiano ha ricevuto dalla tradizione scritturistica. Di essa la Bibbia dice: «Suo principio assai sincero è il desiderio d’istruzione; la cura dell’istruzione è amore; l’amore è osservanza delle sue leggi; il rispetto delle leggi è garanzia di immortalità e l’immortalità fa stare vicino a Dio. Dunque il desiderio della sapienza conduce al Regno. Se dunque, sovrani dei popoli, vi dilettate di troni e di scettri, onorate la sapienza, perché possiate regnare sempre» (Sap 6,17-21).

 

NOTE

          1 Si può consultare il sito www.euro-monastery.ch. Esiste anche il fascicolo Groupe de Chevetogne, Eléments de réflexion. Secrétariat: C. Vael, Monastère de Chevetogne, B-5590 CHEVETOGNE, 2000, con il progetto e l’orientamento del Groupe nonché un riassunto dei lavori realizzati fino all’anno 2000.

          2 «Los monjes en la nueva Europa», Vida Nueva n. 2329, 18 maggio 2002.

          3 Ambedue le conferenze sono pubblicate nel Bollettino dell’AIM 70, 2000. Si può consultare la pagina web: www.aimintl.org.

          4 Cf. E. Bianchi, Quali strutture di maturazione nella vita religiosa? Qiqajon, Magnano (BI) 1989; Id. Non siamo migliori. La vita religiosa nella Chiesa, Qiqajon,  Magnano (BI) 2002; Aa.Vv., Un monastero alle porte della città, Atti del convegno per i 650 anni dell’Abbazia di Viboldone, Vita e Pensiero, Milano 1999; Regula Benedicti Studia, Annuarium Internationale 20, Erzabtei St. Ottilien 1999; G. Tamburrino (a cura di), Europa e terzo millennio: una sfida per il monachesimo, Edizioni scritti monastici, Abbazia di Praglia 1999; M. Cerezo Rellán, Monjes para el tercer milenio, Ediciones Montecassino, Zamora 2000; G. Penco, Monachesimo e cultura, Seregno 1993; E. Bargellini (a cura di), Camaldoli ieri e oggi, Camaldoli 2000; G.I. Gargano, Camaldolesi nella spiritualità del novecento, Quaderni Camaldolesi 15, EDB, Bologna 2000; P.-R. Tragan, «Attività pastorale dei monaci o irradiamento monastico delle comunità», San Benedetto (Parma), 6(2000), 7-28.37-45; Id. «Vida monástica: una conversión continua», Nova et Vetera, 54(2001), 323-355.

          5 I promotori sono La scuola di memoria storica europea, Centro studi farfense, Centro studi avellaniti, Il Segno dei Gabrielli editori.

          6 I valori del monachesimo che sono tuttora validi per la società europea sono, tra gli altri, il fatto che il monachesimo è un fenomeno umano che cerca e crea la riconciliazione. Il monachesimo è la prassi del dominio sulla contingenza nell’ambito della vita umana. I monasteri sono luoghi in cui l’essere umano cerca di superare la destrutturazione che risulta dalla crescente complessità della vita e dei rapporti. L’ascesi trova il suo senso in quanto mira a ridurre la complessità, poiché la complessità diventa indomabile e irriducibile fino al punto di provocare angoscia e patologie psichiche nel quotidiano del nostro tempo. La ricerca del trascendente, di Dio, considerato come essere perenne, in contrapposizione alle modificazioni del paesaggio della peregrinazione umana e la prassi di una vita ascetica sono le due condizioni maggiori per ridurre la complessità. Il monachesimo conduce a qualificare le relazioni. Questa qualità determina il valore della persona. Ottenere rapporti di qualità è stata una pretesa del monachesimo di tutti i tempi. Il monachesimo cristiano, inoltre, sostiene il proprio stile di vita, l’ascesi e i buoni rapporti umani sulla fede e sulla sequela di Cristo. Il monachesimo può essere considerato come una grande terapia, fisica, psichica e spirituale: Cf. Ll. Duch, «El monaquismo y el siglo futuro», Quadernos Verapaz, 12(1994), 160-165.

          7 È ben conosciuta e sempre ripetuta l’identità generica dei monaci: «chiamati a formare comunità di preghiera e di lode, dove Dio è amato con timore (senso della trascendenza) e dove la fascinazione degli idoli viene rifiutata. L’ascesi monastica consiste nel lavoro, in uno stile di vita sobrio e nella condivisione. I monasteri potrebbero mostrare che si può “vivere diversamente” insieme, nel rispetto dei più piccoli, senza escludere lo straniero. Chiamati anche a formare comunità radicate nella storia e in un luogo particolare. Il senso di appartenenza a una comunità stimola l’unificazione delle vite frammentate. L’accoglienza offre questa possibilità nello stesso modo in cui essa dimostra concretamente la diversità istituzionale dentro l’unità dell’ideale monastico». In queste riflessioni, consideriamo questi punti come presupposti.

          8 Su questo tema la letteratura è sterminata. Come opera orientativa sul postmoderno si può citare J.-F. Lyotard, La condition postmoderne, Paris 1979; N. Lühmann, Soziale Systeme. Grundriss einer allgemeiner Theorie, Frankfurt a.M. 1984; G.Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985; M. Calinescu, Cinco caras de la modernidad: modernismo, vanguardia, decadencia, kitsch, postmodernismo, Madrid 1991; Ll. Duch, Temps de Tardor. Entre modernitat i postmodernitat, Montserrat 1990.

          9 L. Dumond, Ensayos sobre el individualimo. Una perspectiva antropológica sobre la ideología moderna, Madrid 1987; H. Béjar, El ámbito íntimo. Privacidad, individualismo, y modernidad, Barcelona 1990; Id., La cultura del yo. Pasiones colectivas y afectos propios en la teoría social, Madrid 1993; Ll. Duch, Sinfonia inacabada, Montserrat 1994, 34-94.

          10 G. Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Laterza, Roma-Bari 1997.

          11 Per una visione realista, anche se piuttosto negativa dell’epoca presente, cf. J. Baudrillard, L’illusion de la fin où la grêve des événements, Galilée, Paris 1992.

          12 In questa prospettiva, interessante l’articolo di P. Stefani, «Spiritualità dell’imperfezione», Regno-Att. 12,2002,387 e la bibliografia lì citata.

 

          13 Cf. Ll. Duch, Reflexions sobre el futur del cristianisme, Montserrat 1997.

          14 J.R.M. Tillard, Som nosaltres els últims cristians, Barcelona 1998;tr. it.:Siamo gli ultimi cristiani?Lettera ai cristiani del Duemila, Queriniana, Brescia 1999.

          15 In queste riflessioni, quando si parla dei monaci si intende sempre, senza distinzione, il monachesimo maschile e quello femminile: cf. C. de la Serna (a cura di), Mujeres del absoluto. El Monacato femenino. Historia, Instituciones, Actualidad, Studia Silensia XII, Abadía de Silos 1986.

 

          16 Cf. Ll. Duch, «El monaquismo y el siglo futur», in El cristianismo en el siglo XXI, Cuadernos Vera Paz, 1994; Id., «El futuro del monaquismo», Nova et Vetera, 41(1996), 125-138.

          17 Cf. R. Luise, La visione di un monaco. Il futuro della fede e della Chiesa nel colloquio con Benedetto Calati, Cittadella Editrice, Assisi 2000.

          18 Cf. I. Gargano, «Monachesimo cristiano alla fine del secondo millennio: luci e ombre», in G. Tamburrino (a cura di), Europa e terzo Millennio: una sfida per il monachesimo, Edizioni scritti monastici, Abbazia di Praglia 1999, 19-50.

 

          19 Cf. P. Sequeri, Sensibili allo spirito. Umanesimo religioso e ordine degli affetti, Glossa, Milano 2001.

          20 Sullo sfondo «protoaristotelico» che può segnare il monaco, cf. J.C. Elvira, La comunidad monástica como ámbito de educación moral. Comunicación dada en el Instituto Monastico de S. Anselmo, Roma 2002.

          21 Ciò non vuol dire che gli influssi dell’Europa sul monachesimo siano stati sempre positivi. Il monachesimo classico europeo, per esempio, ha portato il peso di una visione del mondo di tipo feudale e clericale e ancora fatica a liberarsene.

 

          22 Cf. R. Prodi, Governare l’Italia. Manifesto per il cambiamento, Micro Mega, Roma 1995, 32-34.

          23 A. Etzioni, The New Golden Rule. Community and Morality in a Democratic Society, New York 1996.

   


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21 giugno 2014                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net