Monachesimo e mondo d'oggi
Estratto da "Pedagogia viva. Cîteaux 
novecento anni dopo" 
[1]
di Cristiana Piccardo O.S.B.
Jaka Book 1999
INTRODUZIONE
Le pagine che seguono non 
rappresentano uno studio ben documentato. Si tratta di semplici chiacchierate 
all'interno di una specifica comunità, tra persone note e amate, Uno scambio 
semplice e molto familiare su un'esperienza vissuta insieme, insieme sofferta, 
insieme sviluppata in alcuni orientamenti pedagogici che ci hanno aiutato a 
vivere una fedeltà a Dio, alla Chiesa, all'Ordine, alla Casa. Si tratta solo di 
lasciare che il ricordo affiori nel presente, che un passato germini nell’oggi, 
che la gratitudine per la misericordia ricevuta proietti nel futuro la speranza 
di cui abbiamo vissuto. Pagine povere dedicate alla comunità di Vitorchiano
[2], 
ricca delle sue figlie, delle sue fondazioni, della misericordia di Dio che in 
lei sovrabbonda senza misura.
Perché offrire alla pubblicazione, e 
dunque ad un lettore ignoto, queste pagine? Perché siamo certe che, nella 
dinamica delta salvezza, ciò che è stato importante e prezioso nella nostra 
piccolissima realtà può avere un significato che va ben oltre noi. Perché siamo 
certe che, nel respiro della Chiesa, ciò che è vissuto in un punto nascosto è a 
beneficio del tutto. Perché abbiamo sempre creduto e voluto che ogni nostro 
passo, ogni nostra, sia pur incerta, ricerca, fosse per il mondo. Infine perché 
abbiamo creduto e crediamo che il carisma monastico possa essere un talento 
prezioso proprio per questo nostro mondo di oggi; e ci sono momenti storici in 
cui ciò che solitamente rimane nascosto è bene sia detto.
Con la, così detta, morte delle 
ideologie, che erano pur sempre il tentativo di una risposta alla domanda di 
felicità che è al cuore di ogni uomo, non solo non esistono più oggi risposte 
convincenti o per lo meno l'utopia di una risposta, ma si verifica un 
attutimento delle domande. E la perdita di domande appare infinitamente più 
grave della perdita di risposte. Tuttavia c'è un passo ulteriore che val la pena 
di menzionare. In un vecchio articolo, ma non superato, di «Le Monde», un 
pensatore uruguaiano, Eduardo Galeano
[3], 
parlava di «rottura della memoria». Cito letteralmente il testo che mi sembra 
avere una certa importanza per definire il volto attuale del mondo:
«La cultura del consumismo che 
spinge verso il mercato condanna tutto ciò che vende alla immediata 
dimenticanza: le cose invecchiano in un batter d'occhio per essere rapidamente 
rimpiazzate da altre cose, altrettanto effimere. Lo shopping-center, tempio in 
cui si celebrano le messe dei consumismo, è un simbolo eccellente dei messaggi 
che dominano la nostra epoca; esso esiste al di fuori del tempo e dello spazio, 
non ha né età né radici, non ha memoria. La televisione è il miglior vettore di 
questi messaggi. C'innaffia di immagini che nascono per essere immediatamente 
dimenticate. Ogni immagine seppellisce l'immagine precedente e non sopravvive 
all’immagine successiva. Gli avvenimenti umani, divenuti oggetto di consumo, 
muoiono, come le cose, nell`istante stesso in cui sono utilizzati. Ogni notizia 
è senza legame con le altre, divorziata dal proprio passato e dal passato di 
ogni altra informazione. Nell’era dello zapping, l'eccesso di informazioni 
produce un eccesso di ignoranza. I mass media e la scuola non ci aiutano a 
capire la realtà e a ricostruire la memoria. La cultura consumistica che è 
cultura alienante, ci condiziona a credere che le cose succedono perché devono 
succedere. Incapace di riconoscere la sua origine, il tempo presente proietta 
sul futuro la propria ripetizione: domani è un altro oggi».
E conclude:
«Ma la memoria è viva, la 
memoria non contempla la storia, la memoria fa storia, è nell'aria che 
respiriamo. La memoria ci respira (...) A volte ci capita di rimpiangere un 
passato che ci inventiamo, e di preferirlo ad un presente che ci sfida, ad un 
avvenire che ci spaventa. La memoria non è un punto di arrivo, ma un punto di 
partenza. Non rinnega la nostalgia di un passato, ma preferisce la speranza, il 
rischio, le tempeste del presente. I Greci dicevano che la memoria era figlia 
del tempo e del mare: e non avevano torto».
Il papa nel suo messaggio per 
la Giornata Mondiale della pace del 1997 non ha esitato ad affermare: «Non si 
può rimanere prigionieri del passato: occorre, per i singoli come per i popoli, 
una sorta di ‘purificazione della memoria‘».
E la memoria è per Giovanni Paolo II la coscienza 
di un passato che germina nell’oggi come responsabilità dell'istante 
vitale in cui ci muoviamo e che si volge al futuro come speranza.
La domanda è chiederci se 
abbiamo ancora una memoria, se il mondo in cui viviamo respira ancora una 
cultura della memoria.
È affermazione ormai comune che 
il nichilismo ed il panteismo dettano troppi comportamenti umani e sociali 
dell'oggi. La percezione delle cose come illusorie o come il nulla che non 
veicola alcuna partecipazione dell’uomo all’Essere, o il confluire indistinto 
dell'esperienza umana in quel «mare dell'essere» proprio del panteismo, negano 
la dimensione autentica della persona, la sua individualità, la sua 
responsabilità. E, in certo qual modo, negano la sua memoria e la consegnano o 
all'arroganza del farsi dal sé, o alla percezione frammentaria nell'urto delle 
circostanze, o alla omologazione della propria individualità in un pacificante 
stordimento.
Appare nel mondo d'oggi il 
triste spettacolo di vite senza spessore di esistenza, prive non solo di memoria 
storica, ma di quella memoria ben più consistente che è la coscienza di 
un'origine, di una tradizione e di un destino. Da qui la radicale 
soggettivizzazione di ogni esperienza umana ed anche della religiosità e della 
morale, in cui un relativismo di credenze e di comportamenti etici è ormai 
eretto a sistema.
Forse una seconda 
caratteristica del mondo attuale potrebbe essere quella che chiamano la «quarta 
guerra mondiale del neoliberalismo». Sembra che, dopo la bomba atomica che 
distrusse Hiroshima, sia nata la bomba al neutrone che distrugge la vita 
rispettando le costruzioni esistenti, per arrivare oggi alla bomba finanziaria 
che distrugge le nazioni (e di conseguenza l'identità dei popoli) facendole 
diventare una semplice pedina nel gioco della mondializzazione economica. Una 
guerra planetaria contro l'umanità, la sua memoria culturale, le sue differenze 
artistiche o scientifiche, le sue libere scelte di modalità di produzione e 
mercato, di sopravvivenza e sviluppo secondo il genio tipico di ogni popolo. Il 
fenomeno di un imbarbarimento economico indice di un imbarbarimento culturale le 
cui linee anonime di collegamento sono egregiamente fornite dai mass-media e 
dall'esplosione informatica. Si sviluppa logicamente una mentalità e una cultura 
di mercato. A parte le conseguenze sociologiche di tale cultura - accumulo e 
manipolazione della ricchezza, aumento della povertà in aree sempre più vaste, 
permeate di disoccupazione e precarietà, aumento della criminalità organizzata 
sorto le forme più svariate -, è la trasformazione culturale e si direbbe 
antropologica ciò che più colpisce. Una cultura di mercato inevitabilmente 
elimina, come prassi normale (ed è tale «normalità» che spaventa), l'inutile e 
propone l'efficiente; scarta la gratuità di ogni spazio e tempo per coltivare 
solo l'intensa commercializzazione, non edifica cattedrali, ma centri 
commerciali; non respira in silenzi contemplativi, ma si condensa in discoteche 
in cui è sovrano il rumore e l'oblio dell’individualità; non costruisce memoria, 
ma inghiotte voracemente il passato, con la sua densità storica, nell'effimero 
di una moda immediata che scompare così come nasce.
Si potrebbe accennare anche 
all'angoscia dell'intensa settorializzazione a cui assistiamo. In qualsiasi 
campo della vita individuale e sociale si procede ormai per specializzazioni 
estremamente settorializzate. Per diagnosticare una malattia occorre ormai 
consultare una decina di specialisti diversi e per curarla ci si deve muovere in 
settori assistenziali ed ospedalieri ben compaginati in unità ben differenziate. 
Il problema non è la specializzazione, ma la totale perdita di una visione 
unitaria della vita, dell'uomo, del mondo: si raggiunge forse il dato specifico, 
ma non si riesce più ad inquadrarlo nel mistero della persona, nella complessità 
unitaria dell'uomo e della vita. Certamente non è da ascriversi alla 
settorializzazione sociale e antropologica il tremendo pullulare di sette 
religiose o pseudoreligiose emergenti ovunque, e tuttavia si è tentati di 
applicare la settorializzazione culturale che frammenta la convivenza sociale 
anche alla dimensione religiosa dell'uomo, e al suo desiderio di felicità e di 
infinito, che si canalizza verso forme gnostiche che riducono la visione 
unitaria dell'uomo e del suo destino ad esperienze estremamente limitanti e 
parziali, ammantate di iniziazione misterica, di emozioni pseudomistiche e della 
metafisica dell'autoaffermazione.
Brevissimi spunti del volto 
contingente del mondo in cui viviamo e che domani si diversificherà ancor più in 
infinite modalità espressive nella veloce trasformazione sociale. Di fronte a 
questa realtà e alla sua provocazione si pone il monachesimo di oggi e di 
sempre, e la domanda sul suo significato è ineludibile. Che cosa è mai il 
monachesimo?
Il monachesimo non è un 
tentativo di risposta; non è un sistema di credenze; non è nemmeno una specifica 
religione: il monachesimo è una visione dell'uomo e del suo destino; della vita 
e del suo divenire; del tempo e della sua dimensione escatologica; dello spazio 
e della sua proiezione oltre la precarietà del limite contingente, che 
scaturisce come sorgente viva dal mistero della creazione, dell'incarnazione, 
della redenzione, della resurrezione e della trasfigurazione. È, cioè, una 
visione esistenziale che procede dalla fede, nella fede, verso la fede totale. 
Il monachesimo prorompe dalla costante ricerca umana di pienezza di senso e di 
significato; è tensione vitale verso la felicità: è memoria che trascende il 
tempo, ampiezza escatologica del futuro; è movimento di conversione e 
trasfigurazione dell'essere: parte dall'incarnazione e all'incarnazione ritorna, 
per incontrare nella persona unica ed infinita del Figlio di Dio, salvezza e 
destino, principio e fine, la pienezza della vita e la fonte di ogni 
sussistenza.
In questa cultura del non senso 
(«cultura della morte», diremmo con Giovanni Paolo II), il monachesimo si 
propone come il senso positivo dell'uomo e della vita, si propone come spazio di 
umanità nuova. Viktor Frankl
[4], 
il fondatore della logoterapia, afferma di avere un unico interesse primario 
nella sua vita: «Ho trovato il significato della mia vita nell’aiutare altri a 
trovare nella loro vita un significato». Un'affermazione che, in parte, esprime 
anche la realtà monastica: ricupero di un significato o, meglio, esperienza 
umana che riceve dal Figlio di Dio pienezza di contenuto; un significato così 
radicale della vita e del destino da poterlo proporre al mondo come esperienza 
di vera umanità.
Dalla ricchissima tradizione 
cisterciense emerge, a mio parere, esattamente questo: una particolare ricchezza 
di umanità, una visione dell’uomo, della vita, del tempo, dello spazio, che 
danno dimensione di gratuità e bellezza all’esperienza umana; una concezione 
della relazione e della convivenza che spazia nel campo dell'amicizia e della 
comunione come spazio connaturale; il significato di una conversione verso una 
trasfigurazione, «conformazione», che supera l'angusto limite dell’ambiziosa 
affermazione mondana e dà all’uomo un'immensa possibilità di incontro con 
l`infinito e con il reale. È quindi la proposta di un senso alla cultura del non 
senso, Viktor Frankl fa un'altra affermazione interessante: «Se cerco la ragione 
più nascosta della motivazione per la quale ho creato la logoterapia, posso 
menzionare una cosa soltanto: la pietà per le vittime del cinismo 
contemporaneo». Ed è impressionante che uno scienziato, uno psichiatra, denunci 
il cinismo contemporaneo (e che cosa è più evidente del non senso, come cinismo 
dell'epoca) come la malattia più contagiosa e mortale dell'epoca in cui viviamo.
2. L'uomo, 
la vita, il tempo e lo spazio
nella tradizione cisterciense
Un tentativo di 
risposta monastica al mondo d’oggi si situa:
-          
al livello della memoria o 
meglio del «ricupero di memoria»;
-          
al livello della dignità e 
grandezza dell’uomo di fronte ad una mentalità di mercato che lo depaupera 
della sua identità;
-          
all’insegna di una visione 
unitaria dell’uomo e del suo destino, nello spazio e nel tempo, di fronte 
all'attuale frammentarietà esistenziale nella quale siamo immersi, di fronte al 
settarismo e al relativismo incontrollabile che oggi respiriamo.
I padri cisterciensi hanno una risposta stupefacente alla problematica moderna 
proprio a livello antropologico. Un'antropologia che ricorre in tutta la 
patristica cisterciense come una linea precisa di congiunzione di un pensiero 
comune. Essi considerano l'uomo come il capolavoro dell’amore di Dio: l'uomo 
creato per amore; frutto dell’espansione straripante dell'intrinseco amore 
trinitario, essenza stessa della divinità. È il capolavoro della creazione, 
destinato a partecipare all’infinita pienezza della vita di Dio in un cammino di 
libertà e conformazione che la coscienza e il desiderio sostengono. Un sigillo, 
quindi, di positività amante che l’atto creatore di Dio imprime nell’uomo e che 
nulla potrà cancellare, nemmeno la più inconcepibile negatività della ribellione 
e del peccato umano. Egli trae significato da un'origine amante e riveste l'uomo 
di bellezza e dignità incancellabile.
Tale visione dell’uomo e della vita è totalmente unitaria, unificata e 
unificante, perché è l’amore stesso di Dio che, penetrando l'uomo, lo strappa 
alla frammentarietà e alla divisione del peccato e lo rende capace di varcare il 
limite terreno e temporale della propria contingenza, già nell'oggi, per mezzo 
della carità.
In Baldovino di Ford, che esprime una delle visioni antropologiche più compiute 
e precise, e più care alla patristica cisterciense, troviamo l’affermazione: 
«Dio non ci ha amato nell’apparenza e dall’esterno, quasi alla superficie del 
nostro essere, ma ci ha amato dal di dentro, dalla più profonda interiorità del 
nostro stesso essere, quasi visceralmente»
[5], 
e il Dio che ama l’uomo senza misura, nel dono trinitario e perfetto di se 
stesso, riconduce costantemente l’uomo dalla frammentarietà del suo disordine 
interiore ed esteriore all’unità essenziale della forma creativa originaria, e 
lo dilata nella carità per l’abbraccio conformante della Sua misericordia.
Unificazione e dilatazione vanno, in Baldovino di Ford, di pari passo: vittoria 
sulla frammentarietà e approdo all’unificazione nell’amore si condensano nella 
sua antropologia. Ed è interessante cogliere in Baldovino come l’allontanamento 
dall’amore di Dio, vera consistenza dell’uomo, decentri l’uomo da se stesso e lo 
separi dalla sua stessa identità: «Coloro che vagabondano al di fuori di se 
stessi, e camminano verso desideri molteplici e fallaci, si allontanano come 
insensati dal proprio cuore e si volgono alle stravaganze della menzogna». Da 
qui la concezione dello spazio come interiorità. Lo spazio è permanere al cuore 
del proprio cuore: «L’uomo che vive in disaccordo con la sua ragione e si è 
allontanato dal suo centro vitale (dal suo cuore) è come privato della sua 
terra, e vive esule, sradicato da se stesso, nella regione della dimenticanza e 
della dissomiglianza». Solo l’uomo che ritrova le sue radici e che capta la sua 
umanità al cuore del mistero della creazione e, in particolare, l’uomo che 
incontra il mistero della redenzione balza dalla dimenticanza alla memoria, 
dalla dissomiglianza della frammentarietà alla verità della sua unificazione 
nell’identità filiale. Ricupero di verità e memoria che non solo tocca l’uomo 
nella sua essenza, ma anche nella relazione. Di fatto quando l’uomo elimina 
interamente dal suo cuore l’amore mondano e unifica il suo sguardo interiore, 
lasciandosi permeare dalla divina carità, il suo essere si fa spazio di 
accoglienza, capacità di comunione, trasparenza di verità, concentrazione di 
unità nella libertà. E da tale spazio interiore che sgorga l’amore del prossimo, 
un amore che in Baldovino si fa tenero e forte, autentico e penetrante, denso di 
memoria e di significato.
La vita monastica riconduce l’uomo a se stesso, alla sua umanità, al suo cuore, 
alla sua identità. Il cammino necessario è quello dell'obbedienza, in cui 
l’amore si fa carne del quotidiano e stabilisce la somiglianza con il Figlio che 
«imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5,8). «La carità - mediante 
l’obbedienza - sottomette tutto a Dio, tutto dispone secondo il suo decreto e 
consiglio, accoglie ciò che è indispensabile, indica ciò che è necessario, 
sceglie ciò che è migliore». L’uomo, a causa del peccato, si è fatto estraneo a 
Dio (l’estraneità è uguale ad assenza di memoria), ed estraneo a se stesso. 
Vincere l’estraneità del cuore, la smemoratezza dell’anima, è l’ascesi monastica 
che Baldovino propone come essenziale al cammino della conversione a Dio. Solo 
il cuore che sempre più tende ad offrirsi consapevolmente e totalmente a Dio 
ridiventa familiare all’uomo stesso, cessa l’estraneità e l’uomo rientra nella 
sua terra: la terra del suo cuore. Il cuore non offerto permane estraneo 
all’uomo: è il cuore donato a Dio che diventa proprio all'uomo, terra benedetta 
della sua identità e della sua libertà.
«(Ora il tuo cuore non ti appartiene, non è terra tua), ma se comincerai ad 
amare Dio nella misura in cui Dio ti chiede di amarlo, giungerai ad amarlo 
sempre più totalmente ed allora il tuo cuore sarà perfettamente tuo (...) Dio è 
un creditore generoso e retribuisce senza misura il debitore che paga tutto 
quello che può, affinché possa pagare sempre più e possedere sempre più 
vastamente la sua terra».
In Baldovino la purificazione del cuore, che si opera solo attraverso l’amore di 
Dio che libera il cuore dall’amore mondano, è legata all’immagine che egli ha di 
spazio. Quando Baldovino parla di spazio non comunica solo un’idea di ampiezza, 
ordine, bellezza che viene dall'orientamento di ogni cosa e di ogni atto al suo 
fine ultimo; non è nemmeno unicamente l’immagine della terra promessa, la terra 
del cuore, finalmente resa all’uomo che ricupera la sua figliolanza; lo spazio 
ha in Baldovino un riferimento preciso alla comunità monastica. Permanere nello 
spazio che la Provvidenza ci ha assegnato, grazia della stabilità e della 
convivenza; fedeli all'ordine stabilito da Dio, secondo la vocazione ricevuta, 
concordando con l’obbedienza all’armonia voluta dal Padre, è come creare quella 
musicalità universale, quella melodia infinita a cui Baldovino presta il nome di 
«cetra», proponendoci una comparazione di grande sensibilità poetica. 
L’obbedienza e la permanenza stabile ed umile al proprio posto nella comunità 
hanno una risonanza melodica immensa. E nella propria comunità che il plettro 
della carità muove le corde individuali dell’unica cetra e fa risuonare nella 
convivenza l’ineffabile melodia della vera reciprocità
[6].
Dall’antropologia Baldovino passa all'ecclesiologia come normale conseguenza: la 
visione dell’uomo in cui l’amore di Dio crea spazi di memoria come origine e 
identità, e di obbedienza liberante, apre l'accesso alla terra promessa della 
vita ecclesiale, in cui la reciprocità crea consonanze melodiche che già sulla 
terra hanno la perfetta sintonia del cantico eterno del paradiso. La Chiesa è il 
luogo del popolo liberato, dell’umanità ricondotta all’armonia fontale della 
creazione.
Commentando i versi di Clemente Rebora:
«Quando si eleva il cuore all’amoroso dono
non più s’inventan gli uomini,
ma sono...»
don Luigi Giussani dice: «Quando il cuore si eleva a percepire che tutto è dono, 
quando fa tale scoperta, allora gli uomini non s'inventano più, non inventano 
più se stessi, non si fingono, non debbono immaginarsi, ma finalmente sono. 
Acquistano quella consistenza che di fronte ai loro occhi hanno le stelle». E 
Baldovino direbbe: quella consistenza che crea l’infinita melodia di una cetra 
ben accordata, da cui il plettro dell’amore trae la bellezza dei cori angelici. 
O meglio, direbbe che finalmente l’uomo non si inventa più perché si scopre al 
cuore stesso del mistero trinitario, e in quell’amore che è il sigillo 
indelebile della sua umanità incontra «quella consistenza che di fronte ai suoi 
occhi hanno le stelle»
[7].
I concetti di memoria, spazio, unità, dignità, grandezza dell’uomo 
fluiscono dalla visione e dalla dottrina di Baldovino con una semplicità e 
immediatezza che, a distanza di otto secoli, ancora stupisce ed è risposta 
all’oggi con evidenza profetica.
Un altro padre cisterciense dall’antropologia attualissima, profonda e unificata 
è certamente Aelredo di Rievaulx che concepisce l’uomo precisamente come 
memoria, intelligenza e amore
[8]. 
Nella struttura essenziale dell’uomo è impressa la forma, cioè 
l’indelebile sigillo trinitario. Colpisce in questo padre, come già in Baldovino 
di Ford, l’insistenza sull'indelebilità della forma:
«Per l’uso perverso del suo libero arbitrio l'uomo si è allontanato dal Sommo 
Bene (...) Per l’affetto disordinato del suo cuore, e il prevalere dell’umana 
superbia, l’immagine di Dio si è corrotta nell’uomo (...) Tuttavia l’impronta 
della divina Trinità permane nella natura trinitaria dell’anima razionale, 
perché nonostante la sua miserabile condizione, tale impronta è stata 
indelebilmente impressa nella sua essenza»
[9].
L’uomo si è allontanato da Dio, erra nelle regioni dell’estraneità e della 
dissomiglianza, è catturato dalle tenebre dell'umana concupiscenza e dal limite 
di ogni frammentarietà, e tuttavia in lui mai si cancella la divina impronta 
trinitaria, indelebilmente impressa nella sua stessa essenza, poiché tale 
impronta deriva dall’incorruttibile essenza trinitaria. Da tale visione 
antropologica fluisce la teologia di Aelredo e la sua dottrina dell'ascesi 
dell’amicizia, su cui costruisce il cammino della conversione monastica e la 
grazia della convivenza fraterna; un’ascesi dell'amicizia che appartiene alla 
medesima forma trinitaria impressa nella persona umana, poiché nella Trinità 
Santa tutto è reciprocità, mutua fedeltà, infinita penetrabilità e scambio 
d’amore. Colpisce in Aelredo il senso profondo dell’uomo, di tutto ciò che 
riguarda l'umano; della relazione, della convivenza fraterna che lui concepisce 
come fonte concretissima di santificazione. L’amicizia infatti non è un 
sentimento, ma un’opzione di fede e di ragione che esige una purificazione e un 
dono incondizionato di sé, ed è sempre vittoria su ogni tentazione di 
possessività ed egoismo. Egli definisce l’amicizia appunto come:
«La mutua sollecitudine per il bene dell’altro, la mutua riverenza e stima, la 
gioia per il progresso dell’altro come fosse il proprio progredire, il pianto 
per la caduta dell’altro come fosse la propria caduta»
[10].
È come la conferma che veramente al di fuori di un atteggiamento cordiale e 
sincero di amicizia verso l’altro, verso l’uomo, ogni relazione è menzogna.
L’altro, l’uomo, ha in Aelredo una profonda risonanza evangelica, e tocca il 
concreto esistenziale per umanizzarlo nel respiro delle beatitudini: «Fare ogni 
sforzo per sostenere il pusillanime, per sollevare chi è infermo, per consolare 
chi è triste, per sopportare l’irascibile»16. Ed arriva ad una tale 
delicatezza di tratto che chiede ai suoi monaci di fare in modo che «l’errore 
non ricada mai su chi lo ha commesso perché non debba arrossirne, ma colui che 
ha visto l’altro commettere l’errore ne assuma il peso come fosse stato lui 
stesso a commetterlo, di modo che l’amico senta che colui che deve essere 
perdonato più che se stesso è l’amico del suo cuore».
Ritroviamo qui il clima inconfondibile delle beatitudini e il volto mansueto e 
sacrificato del Cristo che muore sulla croce assumendo come proprio il peccato 
dell’umanità: «Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno» (Le 23,34). 
L’altruismo dell’amicizia arriva in Aelredo a questo spazio di perdono all’amico 
che non solo gli impedisce di arrossire e sentirsi confuso per l’errore 
commesso, ma si sostituisce nell’umile espiazione, assumendo su di sé la colpa 
altrui e la sua conseguenza. Una sostituzione di umanità che paga con la propria 
vita, reputazione, stima, la liberazione dell'altro dal suo proprio male, 
nell’ascesi di un’amicizia senza calcoli. Siamo al vertice di una visione 
dell’uomo che raggiunge, in Aelredo, l’offerta crocifiggente del più consumato 
altruismo e della più feconda reciprocità.
Vertici che possiamo ritrovare solo in taluni grandi santi di oggi come 
Massimiliano Kolbe, che incarna certamente l’ideale estremo della visione 
aelrediana, o Teresa di Calcutta, o sconosciuti santi senza aureola come Etty 
Hillesum, la giovane ebrea miscredente morta ad Auschwitz, che scriveva:
«Ovunque si è, ciò che conta c esserci al cento per cento: il mio fare consiste 
nell’essere (...) La realtà è qualcosa che bisogna prendere su di sé con tutto 
il suo dolore e con tutte le sue difficoltà, c intanto che la si sopporta la 
nostra pazienza aumenta (...) E se si distruggono i preconcetti (del dolore) 
allora si libera la vera vita e la vera forza che sono in noi, c allora si avrà 
la forza di sopportare il dolore reale, nella nostra vita e in quella 
dell’umanità (con l’infinita pazienza dell’amore)»
[11].
O in talune espressioni di Mounier, quando parla della sua piccola Françoise 
demente:
«Che senso avrebbe 
tutto questo se la nostra bambina fosse soltanto una carne malata, un po’ di 
vita dolorante e non invece una piccola, bianca ostia che ci supera tutti, 
un’immensità di mistero e di amore che ci abbaglierebbe se lo vedessimo faccia a 
faccia (...) Non dobbiamo pensare al dolore come a qualcosa che ci viene 
strappato, ma come a qualcosa che noi doniamo, per non demeritare di questo 
piccolo Cristo che si trova in mezzo a noi (...) Non voglio che si perdano 
questi giorni, dobbiamo accettarli per quello che sono: giorni pieni di una 
grazia sconosciuta»
[12].
Siamo apparentemente in una condizione sociale diversa da quella espressa nella 
tematica dell’amicizia che ci viene da Aelredo, ma la visione dell’uomo che 
comunque emerge, è così colma di rispetto e di miracolo per la grandezza della 
sua natura che ci ritroviamo a distanze incommensurabili dall’immagine dell’uomo 
mercato, comune alla cultura moderna. D'altronde Giovanni Paolo II a Longchamp 
non ha esitato ad affermare, parlando a un milione di giovani:
«Amare consiste anzitutto in servire. Colui che non accetta di servire non può 
essere discepolo di Cristo. Al contrario colui che serve riceve la promessa 
della salvezza eterna (...) Servire è il cammino della felicità e della santità 
(...) Il trionfo e la gloria di Cristo passano per il sacrificio e il servizio. 
Non c’è amore più grande di colui che dà la vita per i suoi amici (e la vita non 
si dà solo morendo, ma anche servendo). Perché è l’amore che salva il mondo, 
costruisce la società e prepara l’eternità (...) Che l'amore e il servizio 
siano, giovani di tutto il mondo, la prima regola della vostra vita»
[13].
La Chiesa, nel suo più alto magistero, conferma una tradizione di umanità che 
fiorisce da sempre nell'Ordine Cisterciense ed è come la linfa segreta che 
unisce i membri di una comunità e le comunità dell’Ordine tra loro: la legge 
dell’amicizia, l’imperativo della reciprocità, il gaudio del mutuo servizio, la 
forza del profondo rispetto che sa riconoscere nella ricchezza della differenza 
l'unicità del comune carisma.
La stessa dimensione di umanità fluisce a noi da ogni scritto di san Bernardo. 
Trarre dalle sue opere quel contenuto di umanità, che vorremmo qui sottolineare 
come tentativo di risposta al rischio di disumanizzazione contemporaneo, è 
impossibile in breve spazio. Ci basta citare alcune espressioni tratte dalle 
Lettere che manifestano lo spessore e la qualità di umanità di Bernardo 
nella relazione, Lettere in cui usa sovente un linguaggio che rasenta una 
sconcertante tenerezza:
«Tu piangi, carissimo figlio Rainaldo (...) Non riesco a non affliggermi se ti 
affliggi tu e, udendo le tue preoccupazioni e le tue angosce, a non essere 
anch’io preoccupato e angosciato (...) Già abbastanza e più che abbastanza mi 
tormento perché son privo di te, perché non ti vedo, non godo il dolcissimo 
sollievo che mi viene da te, sì che quasi mi pento d’averti allontanato da me. E 
per quanto la carità obbligasse a questo, quale che sia la necessità per cui 
t’ho mandato dove non mi è possibile vederti, ti piango come se tu mi sia 
mancato»
[14].
O nella famosa 
lettera a Guglielmo di Saint-Thierry:
«Dio, che scruti i 
cuori, unico sole di giustizia che illumini differentemente le anime, io l’amo 
perché è tuo il dono c suo il merito. Questo Tu lo sai ed io lo sento, ma fino a 
qual punto io l’ami, Tu lo sai ed io l’ignoro. Tu solo, o Signore, che elargisci 
a noi questo dono. Tu solo conosci l’estensione del suo amore per me, del mio 
per lui»
[15].
Tale ricchezza di umanità poggia da un lato sulla percezione, nitidissima in 
Bernardo, che tutto fluisce alla presenza di Dio e che la relazione umana, 
l'amicizia, la profonda reciprocità è solo continuazione e manifestazione 
dell’intima essenza dell’amore trinitario, della presenza del Signore tra gli 
uomini e del costante dialogo d’amore fra l’anima e Dio. Dall’altro lato, la 
ricchezza umana di Bernardo poggia sulla libertà, frutto della verità che 
costituisce in lui una ricerca continua e che non lo fa mai esitare a 
rimproverare duramente il peccato nel peccatore che ama:
«Oh ragazzo insensato! Chi ti ha sedotto a non assolvere i tuoi voti che proprio 
le tue labbra avevano formulati? (...) E questo te lo dico, figlio, non per 
confonderti, ma per ammonirti come un figlio carissimo perché, anche se hai 
molti educatori nella dottrina di Cristo, hai purtroppo pochi padri (...) Ti 
piango perché mi sei stato sottratto, ti reclamo perché mi sei stato portato via 
con la forza. Non posso trascurare le mie viscere, perché insomma, essendomene 
stata staccata una parte non piccola, il resto non può che torcersi dal dolore»
[16].
Il rimprovero risuona forte dentro una quasi incredibile tenerezza che ha 
accenti materni più che paterni, rivelatrice di una forza affettiva e di una 
libertà del cuore che possono sorgere solo dalla coscienza certa dell’identità 
ontologica dell’uomo, creatura amata e voluta da Dio Padre. E ben sappiamo che 
la dissomiglianza è, in Bernardo, la perdita dell’identità ontologica della 
creatura umana. Bernardo non ne fa mai un problema morale, ma solo e sempre un 
problema ontologico. Ed è qui la sua grandezza, come in fondo la grandezza di 
visione di tutto il Medioevo, che parla di ontologia più che di etica. Ed infine 
la grande umanità di Bernardo nasce da quella grande umiltà che lo 
contraddistingue e che è il riflesso dell’amore alla verità che alimenta la sua 
visione della vita e dell’umanità. Una coscienza, quindi, dei suoi limiti che 
rende la sua anima, così come la sua capacità di affezione, assolutamente 
libere:
«Ho respinto ben a ragione da me con lo scudo della verità le altisonanti 
denominazioni di signore e di padre, con le quali credevi di onorarmi, ma non di 
onerarmi; al loro posto scelgo coerentemente per me le denominazioni di fratello 
e di compagno di servitù, sia perché è la stessa per noi l’eredità che ci è 
toccata, sia perché la nostra condizione è uguale»
[17].
Interessante in 
Bernardo anche la concezione di tempo e spazio. A parte la sua classica visione 
del tempo come «giorno che spira» (la creazione), che «cospira» (il peccato 
dell'umana ribellione), che «respira» (la conversione), che «espira» (la morte), 
che «aspira» (il desiderio)
[18]- 
per cui lo spazio temporale si riduce al «giorno» in cui memoria, coscienza, 
desiderio, costituiscono la dinamica perennemente vitale della temporalità 
aperta all’eterno -, è utile accennare qui anche alla sua idea di vecchiaia e 
giovinezza, che si connota nell’immagine evangelica dell'uomo terreno e 
dell’uomo celeste.
«La vecchiaia è nel cuore, nella bocca e nel corpo attraverso i quali abbiamo 
peccato in pensieri, in parole e in opere. Nel cuore sono i desideri carnali e 
mondani, cioè l’amore della carne e del mondo. Anche nella bocca c’è una doppia 
vecchiaia: l'arroganza e la calunnia. E nel corpo c’è la duplice vecchiaia della 
pesantezza e del crimine. Questa è l’immagine dell’uomo vecchio (...), ma se si 
escludono dal cuore i desideri mondani e carnali per far posto al desiderio di 
Dio e della vita eterna; se si allontanano dalla bocca l’arroganza e la 
detrazione e al loro posto sgorga la confessione vera dei nostri peccati e il 
giudizio buono del nostro prossimo; se al posto della pesantezza e del crimine 
germogliano dal nostro corpo la continenza e l’innocenza, allora l’uomo si 
rinnova ed entra nella perenne giovinezza dei santi»
[19].
Il desiderio è in 
Bernardo l’immagine dello spazio fra il tempo e l’eterno. L’aspirazione intensa 
del cuore colma le distanze e riempie lo spazio di speranza e di attesa:
«Voglio con tutte le mie forze seguire l’umiltà di Gesù: desidero abbracciare 
per così dire con le braccia dell’affetto ricambiato Colui che ‘mi ha amato e ha 
sacrificato se stesso per me’ (Gal 2,20): ma è necessario anche che io mangi 
l’Agnello pasquale. Se infatti non avrò mangiato la sua carne e bevuto il suo 
sangue, non avrò vita in me stesso. Altro è seguire Gesù, altro è abbracciarlo, 
altro è mangiarlo. Seguirlo è un proposito salutare; amarlo e abbracciarlo è un 
gaudio solenne; ma mangiarlo significa la vita beata»
[20].
Lo spazio è ancora la morada, cioè la dimora, che Bernardo distingue in
tabernacolo, atrio e casa. Il tabernacolo ha un tetto, ma 
non fondamento: è portatile, perché i giusti non trovano spazio Fra le cose 
effimere dell’esistenza temporale, ma lo spazio del loro respiro è solo il 
Signore; tuttavia ha un tetto, cioè la copertura e la difesa della grazia 
divina. E la loro fede, che è il fondamento, non è nelle cose della terra, ma 
nel Signore. L'atrio è 
vasto ed è vicino alla casa, ed è lo spazio di coloro che hanno già 
abbandonato la strettezza della carne e respirano in ampi spazi di vita. 
Bernardo pensa a coloro che già hanno varcato la soglia della vita, ma si può 
pensare anche a coloro che, nella libertà dello Spirito, hanno raggiunto la 
vastità dell’amore. E l'atrio - ci insegna Bernardo - ha un fondamento, 
ma non ha un tetto perché lo spazio dell’atrio è colmo dell’amore di Dio, e già 
sul cemento incorruttibile della Fede l’uomo spazia nell’amore e si muove verso 
un'infinita pienezza.
E infine la morada della casa che non ha né tetto né fondamenta. Il suo 
fondamento è dato dall’eterna beatitudine e il tetto ne è la perfezione e la 
consumazione. La casa, la morada per eccellenza è dunque la vita eterna, 
ma tutto quaggiù può diventare morada se il desiderio sospinge l’uomo, 
attraverso la fede e lo spazio ampio e magnanimo dell’amore, verso la patria del 
Cielo.
E difficile a questo punto individuare in forma specifica l’apporto del pensiero 
e della spiritualità cisterciense alla problematica esistenziale dell’uomo 
moderno, ma è certo che tale tradizione monastica è tutta così impregnata di 
umanità, di coscienza ontologica della identità, grandezza e libertà dell’uomo; 
così vera nel gaudio della sua umiltà e nella dinamica del suo incoercibile 
desiderio, così amante di Dio e dell’uomo, fino all’impeto della più dolce 
tenerezza materna e paterna insieme, che già di per sé colma di speranza 
l’angoscia contemporanea ed è risposta all’ansia di destino che rende vivo ogni 
uomo.
[1] Nota del 
redattore del sito.
San Bernardo e i Cistercensi (da Dizionario di Storia della Chiesa di Di Guy 
Bedouelle - Edizioni Studio Domenicano).
Anche se S. Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) non ha 
fondato l’Ordine dei Cistercensi, fu tuttavia per quarant'anni il 
promotore, l'ispiratore e il vero simbolo di questa applicazione 
rigorosa della Regola di S. Benedetto da Norcia. E' infatti proprio 
all'interno dell`Ordine di Cluny che nasce l`esigenza di una vita più 
austera e più solitaria, nella quale siano vietate tutte le 
compromissioni finanziarie e materiali, e ci si dedichi all'educazione 
dei giovani e all’assistenza dei poveri.
Roberto di Molesme e Stefano Harding, giovane monaco 
inglese venuto in Europa Continentale per i suoi studi, ottengono il 
permesso del legato pontificio di fondare a Cîteaux - nel 1098 - 
un'abbazia dove seguire un'interpretazione letterale e rigorosa della 
Regola benedettina, caratterizzata dal lavoro manuale, dall`ascesi, dal 
silenzio e dalla solitudine.
Prima di ritornare a Molesme, Roberto lascia a Cîteaux 
un nuovo abate, Alberico, al quale succede Stefano Harding. Dopo le 
difficoltà iniziali, il nuovo Ordine si rafforza con l’entrata di 
Bernardo di Fontaine-lès-Dijon, accompagnato da una trentina di parenti 
e amici. Cîteaux si da allora una sua struttura con la “Carta della 
carità” redatta da Stefano Harding nel 1119. L'uniformità e la severità 
dell'osservanza si accompagnano all'autonomia delle abbazie unite dal 
vincolo della “carità” e dalla figura dell'abate della comunità 
fondatrice. Invece della centralizzazione preferita da Cluny, l'Ordine 
cistercense è fondato su uno scambio reciproco di doveri - ispirati da 
profonda carità - tra le abbazie figlie e le abbazie madri, tra le quali 
le cinque capostipiti: Cîteaux, La Ferté, Pontigny, Clairvaux, fondata 
da S. Bernardo, e Morimond.
Il successo dell’Ordine cistercense è subito immenso: 
alla morte di S. Bernardo esso conta già 343 abbazie. I monaci 
provengono sia dal laicato sia dalle abbazie cluniacensi, il che provoca 
per tutto il XII secolo delle frequenti polemiche, che la lettera 
inviata da Pietro il Venerabile, abate di Cluny, a S. Bernardo, 
ammirevole per spirito di pace, non riesce a placare che in parte.
Il 
successo di Cîteaux si spiega sia con la sua capacità di integrate il 
bisogno di ritornare alla severità delle abitudini cenobitiche - assai 
diffuso nell'XI secolo - innestandolo sull’antica Regola benedettina, 
sia con il suo riuscito tentativo di inserire nella vita religiosa le 
esigenze della riforrna gregoriana. I fratelli conversi cistercensi - 
che svolgono il ruolo degli operai salariati di Cluny -, incaricati di 
molte attività agricole, abitano in "fienili" separati dalle abbazie, e 
assicurano un`efficace organizzazione materiale.
Ma è essenzialmente 
la figura di S. Bernardo, presente in tutti i grandi avvenimenti della 
cristianità del suo tempo, che dona a Cîteaux il suo prestigio. Troviamo 
S. Bernardo in tutte le grandi contese dell'epoca: egli è un 
riformatore, e viene anche chiamato a svolgere un ruolo decisivo nella 
cristianità quando - a partire dal 1130 - uno scisma divide la Chiesa 
romana
tra Anacleto II (morto nel 1138), della famiglia Pierleone, e 
Innocenzo II, del quale S. Bernardo prende senza esitazione le difese al 
Concilio di Etampes. S. Bernardo è anche il consigliere del papa Eugenio 
III, che era stato suo discepolo, e al quale S. Bernardo dedica il 
trattato De consideratione, nel quale afferma che l’umiltà del Pontefice 
è la forza stessa del Papato. Si trova proprio in questo trattato la 
formulazione della dottrina detta delle “due spade", che servira poi a 
teorizzare la “teocrazia” medievale (la supremazia del Papa anche 
nell’ambito temporale). Su ordine di Eugenio III, S. Bernardo predica 
anche la Seconda crociata, prima a Vezelay, poi in Germania.
Dal 
punto di vista intellettuale lo scontro più aspro Bernardo lo sostiene 
contro Abelardo, mostrando nell’insegnamento di questo teologo alcuni 
aspetti che potevano portare all’eresia. Al Concilio di Sens S. Bernardo 
rifiuta l'applicazione della dialettica in teologia, preferendo 
un'analisi più ammirativa e contemplativa del mistero; e di ciò troviamo 
vari esempi nel suo Commentario al Cantico dei Cantici e nel suo 
trattato De diligendo Deo.
[2] 
Nota del redattore del sito: la descrizione che segue è ricavata dalla 
prefazione del libro.
La comunità monastica trappista di Vitorchiano, cui l’Autrice (madre 
Cristiana Piccardo, monaca trappista) si riferisce in vari passi del 
libro, nacque nel 1875 a San Vito, in Piemonte, vicino a Forino, come 
fondazione del monastero francese di Vaise (Lione, Francia). 
L’isolamento di San Vito, che oltretutto non permetteva un’autonomia dal 
punto di vista economico, suggerì un trasferimento della comunità nelle 
vicinanze di Roma, dove già esistevano due comunità trappiste maschili. 
Il trasferimento avvenne nel 1898 a Grottaferrata. Iniziò così un 
periodo segnato, in modo del tutto particolare, dalla figura di una 
badessa straordinaria, Madre Maria Pia Gullini. Fu lei ad inaugurare 
un'epoca nuova per la formazione della comunità. Certo, le sofferenze 
causate dalla seconda guerra mondiale ebbero un peso nel deterioramento 
della salute delle suore e, allo stesso tempo, l'inesorabile avanzata 
dell’espansione urbana di Roma indusse una seconda volta i superiori ad 
optare per un trasferimento della comunità, questa volta più lontano da 
Roma, in un luogo con clima più salubre. Venne offerto un terreno vicino 
al paese di Vitorchiano, 6 chilometri ad est di Viterbo. In questo luogo 
l’Autrice entrò, come postulante, nel 1958 e lì svolse il suo servizio 
di badessa, negli anni che vanno dal 1964 al 1988. La comunità di 
Vitorchiano ha fondato, in quegli stessi anni, altre cinque case figlie 
in altrettanti Paesi: Valserena in Italia, in provincia di Pisa (1968); 
Hinojo in Argentina (1975); Quilvo in Cile (1981); Humocaro in Venezuela 
(1982); Gedono in Indonesia (1987). Viene da chiedersi: come è 
possibile, per una sola comunità, realizzare una tale espansione 
attraverso i continenti? E ancora: di quanto si è impoverita la comunità 
fondatrice? Bene, al termine dell'abbaziato di Madre Cristiana, 
Vitorchiano ha continuato con la badessa che le è succeduta, Madre 
Rosaria Spreafico, con una sesta fondazione: Matùtum nelle Filippine 
(1995). E dopo quest'ultimo sforzo per fondare, Vitorchiano è tuttora, 
con 73 sorelle presenti, la comunità di monache trappiste più numerosa, 
e con l’età media più bassa di tutto l’Ordine, Le ragioni di una tale 
fecondità, i principi, le esperienze e la saggezza che hanno permesso 
tutto ciò costituiscono la materia del presente libro.
[3] E. Galeano, Les 
"oublis" de l’histoire officielle. Memoires et malmemoires, in
Le Monde diplomatique, agosto 
[1997],
[4] V.E. 
Frankl, La vita come compito. 
Appunti autobiografici, SEI, Torino 1997.
[5] Baldovino 
di Ford. Trattato XIII, 535 C. 
Nostra traduzione. 
Pain de Cìteaux 39, Chimay 1975, p. 150. 
Ogni riferimento testuale alle opere di Baldovino di Ford farà capo 
all'edizione curata dal p. Robert Thomas, Pain de Citeaux, Chimay 
1973-1975 (PdC).
[6] L’immagine 
della cetra è sviluppata da Baldovino nel
Trattato IV, 433 D ss., PdC 
36(1973), pp. 48ss.
[7] L. 
Giussani, Il dramma di Clemente 
Rebora, in Le mie letture, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 
1996, p. 57.
[8] Aelredo di 
Rievaulx, De Speculo Caritatis, 
Libro I, cap. 
III. 9, in Corpus 
Christianorum, Continuatio Mediaevalis, I, Brepols, Tumhout 1971, p. 
16 (tr. it. 
Lo specchio 
della carità, Cantagalli, Siena 1985, p. 90).
[9] Ibid.,
Libro I, cap. IV, 12-13 , p. 
17 (tr. it. cit., pp. 91-92).
[10] 
Aelredo di Rievaulx, De Spiritali 
Amicitia, Libro III, 101, 
in Corpus Christianorum, cit., 
p. 340. Nostra traduzione (tr. il. in Aelredo di Rievaulx,
L’amicizia spirituale, Città Nuova, Roma 1997, pp. 138-139). 
Citazioni seguenti 
dal Libro III, 102.
[11] E. Hillesum, 
Diario 1941-1943, tr. it. 
Adelphi, Milano 1985, pp. 222-224.
[12] 
E. Mounier, Lettere sul dolore, 
tr. it. Biblioteca Universale Rizzoli. Milano 1995, lettera del 20 marzo 
1940, pp. 61-62.
[13] 
Giovanni Paolo II, Parigi - Champ de Mars 21 agosto 1997,
Servire è la via della felicità e della santità, in «La Traccia», 
7-8 (1997), pp. 824-826.
[14] 
San Bernardo di Clairvaux, Lettera 
7.3, A Rainaldo abate di Foigny. Nostra traduzione.
Opere di San Bernardo, Vl/1, Scriptorium Clarevallense, Milano 1986, 
pp. 331-333.
[15] 
Id., Lettera 85, in Opere, cit., p. 415.
[16] 
Id., Lettera 1, A Roberto, suo 
nipote, che dall'Ordine Cisterciense si era abbassato al 
Cluniacense, in Opere, cit., 
pp. 17-19.
[17] 
Id., Lettera 72, A Rainaldo abate 
di Foigny, in Opere, cit., 
p. 331.
[18] 
San Bernardo. Sermones super 
Cantica Canticorum, LXXI1, I-IV, in
Sancti Bernardi Opera, II, 
Leclercq-Rochais, Roma 1958 (SBO) (tr. it. di D. Turco,
Sermoni sul Cantico dei Cantici, 
II, Ed. Vivere In, Roma 1996, pp. 283-291).
[19] 
Id., Sermo 69,
De Diversis, in SBO, cit., VI/1, Roma 1970 pp. 303-304. Nostra 
traduzione (tr. ir. Sermoni 
Diversi. Ed. Vivere In. Roma 1997. pp. 337-338).
[20] 
Id., Lettera 190,
A papa Innocenzo II, par. 25, 
5, in Opere, cit., p. 833.
Ritorno alla pagina iniziale "Storia del Monachesimo"
  
| 
Ora, lege et labora | 
San Benedetto | 
Santa Regola | 
Attualità di San Benedetto 
 
 |
 
Storia del Monachesimo | 
A Diogneto | 
Imitazione di Cristo | 
Sacra Bibbia |
25 luglio 2019   
            a cura di
Alberto
"da Cormano"        
      
alberto@ora-et-labora.net