IL MONACHESIMO FEMMINILE:
ORIGINI E SVILUPPO

Maria Venticelli *

Estratto da: “I Quaderni Del m.æ.S. - Journal of Mediæ Ætatis Sodalicium”, V. 7, - Università di Bologna 2004


* Relazione presentata in occasione degli "Incontri di Studio” del 17 aprile 2004.


 Il monachesimo femminile è tema di grande fascino e di grande complessità per la molteplicità degli aspetti che coinvolge. Vi si innestano infatti aspetti legati tanto alla sfera delle scelte individuali quanto a fattori di ordine sociale quali la condizione. la cultura, la mentalità, l’ideologia, i valori, le mete spirituali, il reale grado di autonomia delle donne. La spiritualità femminile, spesso insondabile, è indissolubilmente intrecciata con vari aspetti della vita religiosa di cui fanno parte l’organizzazione e la gestione delle fondazioni, la proprietà, il lavoro, i rapporti con il mondo, con il potere e con le istituzioni. Vita religiosa assai spesso difficilmente definibile, sempre al confine tra stato laicale e ‘regolare’, tra giurisdizione vescovile e monastica, tra vita attiva e vita contemplativa.

All'interno del mondo monastico si sono sviluppate personalità femminili di grande rilievo e spessore. Donne che si sono distinte per santità o cultura, come Scolastica, sorella di Benedetto, prima monaca benedettina; come Ildegarda di Bingen famosa per le sue profezie e le sue cure miracolose; come Eloisa, che sapeva il greco e l’ebraico e li insegnava alle sue monache; come Rosvita badessa di Gandersheim autrice di sei commedie in prosa rimata sui modello di Terenzio; come la badessa Herrada di Landsberg autrice dell’enciclopedia più nota del Medioevo, l’Hortus deliciarum, come Chiara, come Angela da Foligno, come Caterina da Siena che riuscì a riportare a Roma il papa da Avignone. Donne la cui vita sfuma in leggenda come quella, dolcissima e tragica, di Lucia di Settefonti, reclusa camaldolese morta a Ozzano (Bologna) nel 1156 [1], o donne che hanno dato origine a luoghi di culto importanti come ad esempio Angelica Bonfantini cui si deve l’origine del santuario di San Luca a Bologna [2]  .

Queste figure femminili rappresentano tuttavia l’eccezione e spiccano su quella moltitudine di monache, divenute tali per amore o per forza, di cui non è rimasta traccia. Donne senza storia, perdute nel silenzio nel quale, per volontà o per costrizione, hanno trascorso la vita.

Nella storia del monachesimo un capitolo a parte merita il fenomeno dei monasteri maschili e femminili dell’Ordine di Fontevraud sopravvissuto fino alla Rivoluzione francese. Separati ma contigui, questi monasteri si devono all’opera di Roberto di Arbrissel il quale, nel 1101, decise di stabilire a Fontevraud, a sud della Loira, una dimora per quanti seguivano la sua predicazione. Inizialmente la fondazione comprendeva diverse costruzioni: una per le religiose coriste, una per le donne provenienti dalla prostituzione, una per le lebbrose e una per gli uomini. Questi monasteri furono sottoposti all’autorità non di un abate, ma di una badessa, in quanto, affermava Roberto di Arbrissel, come il discepolo Giovanni era a servizio di Maria anche i fratelli dovevano essere a servizio delle monache [3]. La badessa doveva essere una vedova cioè una donna che avesse fatto un’esperienza matrimoniale [4].

Tema straordinariamente complesso dunque che meriterebbe uno studio ben altrimenti accurato e approfondito di quanto sia possibile in questa occasione perciò, senza alcuna pretesa di esaustività, in questa relazione cercherò di tracciare un quadro di estrema sintesi del monachesimo femminile a partire dalle lontane origini, caratterizzate dagli ideali di vita ascetica e contemplativa delle prime monache cristiane [5]. Nel corso del tempo quei primi ideali di ascetismo si preciseranno ed evolveranno anche sulla base delle modificazioni delle varie società e culture che si succedettero cosicché, all’iniziale anelito di trascendenza solitaria, subentreranno scelte di vita ritirata all’interno di comunità.

Come per tutti quei temi che attengono alla storia di genere, anche il fenomeno monastico femminile va studiato e interpretato tenendo conto sia delle specificità dell’essere donna sia dei caratteri della società e del tempo in cui esso si è sviluppato. Spesso infatti le distanze esistenti tra individui di estrazione diversa sono maggiori di quelle uomo/donna. I valori culturali, lo stile di vita e le idee politiche di una religiosa colta del XII secolo la accomunano molto di più ad un abate suo contemporaneo che non ad una contadina [6].

Le fonti per lo studio del monachesimo femminile non sono molte, un po’ per la naturale dispersione e un po' perché, sebbene non manchi la documentazione dei secoli centrali del Medioevo sulla ‘dimensione mondana ufficiale’ degli enti religiosi, quelle pervenute lasciano affiorare ben poco dei momenti e degli aspetti della vita condotta dalle donne nel chiuso dei monasteri [7]. Tra le fonti più importanti sono da annoverare i testi legislativi che comprendono le ‘regole’, le consuetudines e, in seguito, gli statuti. La Regola di un ordine religioso è il suo documento costituzionale, risultato di una lunga evoluzione. Tuttavia questi testi normativi vanno utilizzati con cautela perché nascono per regolamentare la vita religiosa degli uomini e raramente sono pensati per le donne [8]. Solo nel XIII secolo, con Chiara di Assisi, le donne avranno una regola attribuibile con certezza alla volontà di una donna, anche se nel suo testo il termine ‘regola’ è costantemente sostituito dall’espressione forma vitae [9]. Indagini comparative su testi normativi per uomini e per donne vigenti in determinati luoghi e tempi consentirebbero sia di fare luce sulla quotidianità delle monache al di là delle imposizioni previste dalia Regola, sia soprattutto, di definire quanto del fenomeno monastico sia ascrivibile alla specificità femminile e quanto invece sia da ricondurre a fattori sociali [10]. Altre fonti importanti sono i necrologi, cioè i codici contenenti i nominativi di coloro che, avendo beneficato il monastero o avendone fatto parte, avevano diritto, nel giorno anniversario della propria morte, alla preghiera delle spose di Cristo. Questi documenti si trovano soprattutto nella Germania del X secolo e nella Francia orientale dell’XI-XII secolo. In Italia invece sono piuttosto rari [11]. Utili testimonianze per studiare la gestione dei monasteri femminili risultano anche i libri di conti e i contratti agrari anche se, spesso, le religiose non hanno conservato l’archivio o la contabilità. L’isolamento religioso ha infatti celato non solo la vita delle monache, ma spesso anche gli archivi dei monasteri con la documentazione relativa al loro funzionamento. A partire dal xii secolo si moltiplicano le informazioni ricavabili da fonti tipicamente urbane e comunali quali i registri notarili, gli Statuti o le Riformanze dei Comuni dell’Italia centro-settentrionale. Resta invece scarsa la documentazione proveniente dall'interno delle comunità stesse.

Già alla fine del IV secolo il movimento monastico è in piena espansione e compaiono le prime regole: quelle di Pacomio in Egitto, di Basilio in Cappadocia e di Agostino nell’Africa nord-occidentale. Fino all’VIII secolo comunque i testi normativi per le vergini consacrate a Dio ebbero scarsa diffusione [12] e, a partire dalla riforma carolingia essi, furono sostituiti dalla regola benedettina, come daltra parte era successo al monachesimo maschile.

Agostino, nei propri scritti, elogiando le donne dei Vangeli che seguirono Cristo e gli apostoli assistendoli nelle loro necessità quotidiane, favorì la nascita di monasteri femminili [13]. Queste prime regole monastiche sorgono nei monasteri doppi, in quei monasteri cioè composti da una comunità maschile ed una femminile stabilite in uno stesso luogo [14]. La versione femminile della Regola di Agostino presenta alcune divergenze rispetto a quella maschile. Le monache hanno ben tre autorità che si occupano di loro cioè la superiora, il prete e il vescovo, mentre i monaci agostiniani hanno un superiore e un prete; inoltre esse sono oggetto di maggiori preoccupazioni per le tentazioni carnali cui sarebbero soggette e di cui sarebbero facilmente preda [15].

Delle comunità femminili altomedievali gli studiosi non sono in grado di delineare con precisione quale regola seguissero, non è pertanto possibile conoscere appieno, ad esempio, lo stile di vita delle comunità con a capo le canonichesse [16] attestate a partire dalla metà dell’VIII secolo soprattutto in Germania. In queste fondazioni, che si distinguevano dai monasteri benedettini, entravano a far parte dame dell’aristocrazia che non rinunciavano ai beni propri e non pronunciavano voti solenni che impedissero loro un eventuale ritorno nel secolo. Esse conducevano una vita più libera e confortevole di quella delle monache e, tra le funzioni che spettavano loro, vi era anche la cura delle anime. La superiora delle canonichesse, l’abbadessa’ veniva consacrata dal vescovo e doveva aver compiuto i 40 anni [17].

Tra Due e Trecento le grandi fondazioni benedettine subiscono la concorrenza dei conventi fondati dal ramo femminile degli Ordini Mendicanti ed è a questi conventi che, sempre più spesso, si rivolgono le figlie e le vedove delle élites cittadine o signorili.

Il quadro delle comunità monastiche medievali è composto per lo più da fondazioni piccole, non molto ricche e talvolta gestite non bene. Spesso queste istituzioni versavano in condizioni di estremo disagio economico, dovuto alle insufficienti dotazioni iniziali, ai danni derivati da calamità di vario genere (incendi, inondazioni, ecc.), alle spese sostenute per ospitare i potenti o quelle per cause legali in difesa dei loro patrimoni (spesso insidiati dall’esterno, ma anche dall’interno della Chiesa). I conventi femminili dovevano inoltre fronteggiare spese sconosciute in quelli maschili quali gli stipendi, le pensioni e i benefici da pagare ai preti che dovevano assolvere i compiti spirituali presso le monache. Spesso poi i monasteri erano amministrati con una buona dose di incompetenza: non tutte le badesse erano efficienti donne d’affari! La povertà delle monache era talmente nota che Baldo degli Ubaldi, giurista perugino del XIV secolo, scrisse che il vescovo poteva attribuire automaticamente ai monasteri femminili le donazioni fatte genericamente ai poveri poiché “semper mulier declinat magis ad paupertatem quam vir et miserabilior est” e il diritto comune recepì il divieto, proclamato sempre da Ubaldo, per il vescovo di far arrestare le badesse a causa dei debiti contratti per sostenere le necessità dei monasteri [18].

Anche sulla cultura delle monache non si può dire molto È noto che nel mondo anglosassone esse raggiunsero un livello culturale elevato e furono persino maestre degli uomini loro contemporanei. Sappiamo ad esempio che la canonichessa di Gandersheim Rosvita, vissuta tra il 935 e il 973 ed appartenente ad una nobile famiglia della Sassonia, dedicò gran parte della sua vita allo studio e all’attività letteraria scrivendo drammi in prosa latina rimata e dichiarando che il suo impegno di poetessa e scrittrice era il solo modo per ringraziare Dio del talento di cui le aveva fatto dono. Non da meno fu la nota monaca tedesca Ildegarda von Bingen (1098-1179) conosciuta come la ‘Sibilla del Reno’. Nel corso della sua lunghissima vita, fondò due monasteri, compose musica sacra, scritti teologici e mistici, trattati scientifici e di ‘medicina naturale’, basata sull’uso di fiori e piante. Si occupò anche di riforma della Chiesa e dialogò con Federico Barbarossa e Bernardo di Chiaravalle. Un’altra badessa, Herrada di Landsberg, compose tra il 1175 e il 1185 nel monastero agostiniano di Sainte-Odile a Hohenbourg, in Alsazia, il celebre Hortus deliciarum, un’enciclopedia assai nota agli esperti che vi attingono notizie preziose circa le tecniche del tempo. Queste testimonianze sono tuttavia delle isolate eccezioni e in Italia piuttosto rare [19]. Lo scarso numero di manoscritti provenienti dai monasteri femminili anche dei secoli centrali del Medioevo sembrerebbe suggerire un livello culturale non molto elevato. Questo giudizio tuttavia può essere in parte corretto e mitigato considerando che per molti secoli del Medioevo non vi fu coincidenza tra capacità di lettura (molto più diffusa) e capacità di scrittura e, per molto tempo, donne pur in grado di leggere, scelsero di non lasciare memorie scritte [20].

Molte donne si fecero monache per amore, come forma di autorealizzazione, e moltissime altre vennero invece costrette con la forza, ma la maggior parte di esse, nell’un caso come nell’altro, è rimasta senza storia. In origine, le motivazioni che portarono le donne a scegliere una vita appartata, potevano derivare dagli aneliti escatologici del primo cristianesimo o rappresentare una fuga dalle persecuzioni contro i cristiani o dalle devastazioni delle invasioni germaniche. Potevano essere scelte forzate, ma potevano anche costituire uno strumento d’accesso ad una possibile realizzazione di sé. Sovente, così come i matrimoni erano concordati dai genitori e imposti a figli e figlie, la professione monastica femminile non dipendeva tanto dalla volontà della donna, quanto piuttosto da quella dei familiari. Ecco come la sociologa Ida Magli descrive la condizione femminile nell’Alto Medioevo: “la vita della donna era molto dura (...) senza potere economico, inserita nella struttura sociale soltanto attraverso il matrimonio, che di solito le viene imposto, destinata a morire giovanissima di parto, la donna della tarda Antichità e del Medioevo è quasi sempre analfabeta (è nel monastero che le si insegnerà a leggere perché possa recitare il salterio); (...) di se stessa è invitata a vedere solo la sua essenza di caput malorum e di strumento del diavolo”. In questo quadro il monachesimo rappresentò per le donne una scelta di autonomia e di autoaffermazione e non solo per l’accesso ad una alfabetizzazione (per la recita corale del salterio e, soprattutto, per la lectio divina personale sui testi della Scrittura) altrimenti impossibile. Dice ancora Ida Magli: “La donna ha trovato nella professione monastica un modo di ribellione alla sua condizione sociale, una possibilità di ricerca di se stessa (...). La donna si sottrae con il monachesimo al suo destino di ‘funzione’ per l’uomo e per la cultura [21].

Il monachesimo è stato un processo molto lento che, lungo più secoli, con uno sviluppo tutt’altro che rettilineo e costante, con pause, rotture, inversioni di tendenza, approda alla fine ad un assetto di generalizzata regolarità. Tra i numerosi fattori che contribuirono a questa sua graduale e complessa formazione e diffusione ebbe un ruolo importante il fascino suscitato dai grandi padri carismatici. Tornando dunque alle origini, nelle prime comunità cristiane, tra Tardo Antico ed Alto Medioevo, la spiritualità femminile si manifestò secondo forme per lo più individuali. La dedicazione a Dio della propria vita e l’allontanamento dalle tentazioni e dalle distrazioni dei mondo, vennero perseguiti sostanzialmente o attraverso l’ascetismo individuale (le virgines sacrae e le viduae sacrae, che decidevano di vivere al di fuori delle comunità) o tramite il monachesimo (le moniales, che vivevano in comunità femminili organizzate in luoghi segregati, ma vincolati per lo più alle città). Le donne che abbracciavano le forme di vita ascetica individuale appartenevano, per lo più, al ceto patrizio che lentamente aveva iniziato il processo di cristianizzazione. In genere restavano in famiglia, nella casa paterna osservavano l’astinenza sessuale, la temperanza più o meno rigida nel nutrimento e nel vestiario, il ritiro dalla normale vita mondana, gli esercizi giornalieri della preghiera e della meditazione sulle Scritture e, spesso, rinunciavano gradualmente alla proprietà. Entrambe queste forme (ascetismo e monachesimo) coesistettero non solo nella fase iniziale e si svilupparono poi nel tempo attraverso un lungo e complesso processo che condusse all’adozione di regole di vita particolari [22].

Varie le tipologie di vita ascetica: le virgines (nel rango spirituale occupavano il primo posto), le viduae sacrae (al secondo posto), poi le ex-coppie di coniugi (al terzo posto) che si votavano insieme alla vita ascetica senza entrare subito a far parte di comunità separate e vivevano ritirati in una proprietà di famiglia come frater et soror in Christo. Le virgines potevano pronunciare il propositum castitatis sia privatamente sia nel quadro d’una consecratio pubblica e solenne officiata dal vescovo locale, per le vedove invece non esisteva una cerimonia di iniziazione del genere. Per gli asceti uomini non ancora ammogliati non era prevista la consecratio solenne e pubblica davanti al vescovo locale e potevano pronunciare il propositum castitatis solo in privato manifestando la conversio unicamente attraverso il comportamento [23]. La vicinanza della Chiesa alle virgines si manifesta con l’approvazione di questa scelta di vita da parte di alcuni vescovi come Ambrogio vescovo di Milano, Zenone vescovo di Verona, Massimo vescovo di Torino ecc. In alcune disposizioni canonistiche, a partire da Damaso I (366-384) fino a Gregorio Magno (590- 604), si riscontrano disposizioni parzialmente differenti per le virgines e le viduae sacrae, queste ultime dovevano indossare un velamen, ma potevano non sottoporsi alla consecratio. In caso di violazione del propositum, potevano fissare esse stesse la penitenza, tuttavia non era loro consentito contrarre un secondo matrimonio. Le prime disposizioni imperiali rivolte a persone o gruppi dediti a forme di vita ascetica sono indirizzate non tanto ai monachi, ma alle virgines sacrae e contengono, tra l’altro l’elenco delle pene per la mancata ottemperanza ai voti presi, i provvedimenti relativi alla protezione di queste donne essendo prive di quella del marito e, da un certo momento in avanti, anche di quella del padre, la regolamentazione del diritto di proprietà e quello di successione [24].

Iniziative ascetiche di matrone come Marcella, Melania, Paola, Marcellina e tante altre sono attestate dagli scritti, e specialmente dalle lettere, di Girolamo, Ambrogio, Agostino, Paolino Nolano, Pelagio e costituiscono una delle pagine meglio note del primo moto monastico occidentale. Abbiamo notizie di comunità femminili già nei IV secolo a Verona (326), Roma (384 circa) [25] e, nel 372 il vescovo Ambrogio di Milano descrive la vita di un gruppo di donne bolognesi votate alla verginità. Tuttavia sappiamo pochissimo della vita delle donne in questi monasteria, si sa che vivevano sotto la direzione di una abbatissa in un complesso di costruzioni circoscritto ed isolato.

Emblematiche per la tipologia delle virgines e delle viduae sacrae non ancora organizzate in vere e proprie comunità a Roma nel IV secolo furono le vite di Marcellina e Marcella. Marcellina, sorella di Ambrogio è la prima donna dedita a vita ascetica che compaia dopo il soggiorno romano di Atanasio, vescovo di Alessandria tra i primi a portare in Italia la suggestione degli ambienti ascetici egiziani. Proprio Ambrogio descrive il rito liturgico della consecratio alla verginità (nella notte di Natale dell’anno 332) rendendo noti per la prima volta certi dettagli della cerimonia. Importanti elementi della vita ascetica di Marcellina, che continuò a vivere nella casa paterna insieme con la madre vedova, sono: l’astinenza sessuale, la continenza nel nutrimento, la riduzione delle visite, l’isolamento, la vita ritirata, il silenzio e la pratica diurna e notturna della preghiera e del canto dei salmi [26]. Marcella, vidua sacra di estrazione aristocratica, rivestì un ruolo decisivo nel processo formativo e nella diffusione dell’ascetismo primitivo a Roma. Il suo incontro con Girolamo (che giunse a Roma nell’anno 382), con il quale ebbe intensi colloqui riguardanti la lettura e lo studio delle Scritture, consentì la nascita di una famosa cerchia di vergini e vedove composte soprattutto da parenti e conoscenti di Marcella. Rimasta vedova dopo appena sette mesi di matrimonio respinse la proposta di un secondo matrimonio preferendo la vita ascetica. La sua condizione vedovile le consentì di raggiungere il ‘secondo gradino della castità’. Lasciò tutti i beni che non fossero necessari al suo sostentamento alla madre, rinunciò alle normali relazioni sociali praticate dalle dame del suo ceto, uscendo raramente e sempre in compagnia della madre o di una schiera di vergini o vedove, ridusse l’abbigliamento ad una semplice tunica rinunciando ad ornamenti di qualsiasi tipo, non si cibò di carne e consumò solo moderate quantità di vino [27]. La sua casa sull’Aventino, divenne punto di incontro di una cerchia di compagne di pari rango dedite a questo genere di vita. Morì qualche giorno dopo la conquista della città da parte di Alarico e delle sue truppe a causa delle gravi ferite infertele dai soldati goti.

Sappiamo che le donne in Italia ebbero un ruolo importante nella costituzione di forme di vita ascetica. Ne abbiamo una conferma in una lettera di Gregorio Magno che riferisce di 3000 fanciulle nullatenenti dedite a pratiche ascetiche, rifugiatesi a Roma dinanzi al pericolo longobardo, al cui sostentamento doveva in parte provvedere la Chiesa [28].

Con la diffusione del monachesimo si sentì anche l’esigenza di definire sul piano giuridico le norme che dovevano regolare i rapporti tra questi nuovi centri religiosi (le comunità monastiche) e le strutture ecclesiastiche esistenti (l’episcopato). Punto di partenza fu il concilio di Calcedonia del 431 e, in seguito, anche l’imperatore Giustiniano intervenne sulle relazioni giuridiche tra religiosi e ordinario locale disponendo la dipendenza del cenobio da quest’ultimo [29].

In Gallia il monachesimo, sia maschile sia femminile, tramite i legami prima con il vescovo, poi con la nobiltà di corte merovingia e quindi con la dinastia regia, si trasformò abbandonando le forme di rigido distacco aristocratico dal mondo per abbracciare un’organizzazione del monastero ‘patrimoniale e familiare iro-franco’ di Colombano. Nella prima metà del VI secolo Cesario, prima monaco a Lérins e poi vescovo di Arles svolse un’opera costante di sostegno e di regolamentazione della prassi monastica. Il testo più importante è la Regula ad virgines (la prima regola femminile dell’Occidente), cui ho già accennato, che Cesario compilò per il monastero di san Giovanni in Arles, retto dalla sorella Cesaria, ma che trascese subito l’ambito locale ed esercitò duratura influenza sul monachesimo sia provenzale sia italiano, e non solamente femminile. Cesario vi si dedicò a più riprese, tra il 512 e il 534, e vi trasferì, con le opportune correzioni, le norme dell’ascesi e della vita comunitaria maschile, mettendo a profitto non solo i testi monastici più illustri, da Pacomio a Cassiano, ma anche l’esperienza personale, maturata negli anni del soggiorno monastico a Lérins e nella pratica pastorale. Successivamente, tra il 534 e il 542, Cesario stilò una Regula monachorum, che di fatto non è che un compendio della regola femminile. Nella Regola per le Vergini, Cesario indirizza la propria attenzione specialmente alla clausura.

La scelta religiosa della professione monastica nacque, come già accennato, come contrapposizione al mondo e alla società. Tuttavia ben presto, soprattutto nei regni romanogermanici, la diffusione di diverse fondazioni monastiche beneficiò del potere politico e della nobiltà. Così durante la dominazione longobarda il monastero femminile si legò al potere politico. Benché l’atteggiamento dei Longobardi fosse stato inizialmente ostile al monachesimo tanto da distruggere il monastero di Montecassino nel 577, successivamente, con la conversione dal Cristianesimo ariano a quello romano, l’istituzione monastica penetrò sempre più profondamente nella società longobarda. I monasteri rappresentarono sì una risposta all’esigenza dei nuovi valori religiosi, ma il potere politico longobardo li utilizzò anche come sostegno e garanzia di benessere per il regno in quanto strumento prezioso per accattivarsi le simpatie del papato. Spesso poi le fondazioni ecclesiastiche erano dovute alla volontà di sovrani o di personaggi di alto rango di legare propri beni ad un ente che garantisse le preghiere per il regno o per tutta la famiglia, secondo una concezione religiosa che interpretava la salvezza come compenso che si poteva ottenere mediante la preghiera altrui. La formula ricorrente nei documenti è pro remedio animae. Il fenomeno era tanto diffuso che Liutprando emanò disposizioni per evitare la consacrazione di serve da parte del padrone interessato a conseguire vantaggi spirituali. L’utilizzo del Cristianesimo come religio e la preoccupazione per la salvezza futura produssero nell’Italia longobarda (dalla fine del VII secolo.) un proliferare di chiese e monasteri, ubicati per lo più nei pressi di tombe di martiri e santi.

La diffusione del monachesimo femminile si deve anche all’affermarsi della patrimonialità fra i Longobardi e all’assegnazione alla donna di un certo ruolo economico. La mobilità dei beni patrimoniali femminili costituiva un ostacolo alla formazione di una solida e duratura fortuna familiare. I beni della donna infatti, pur essendo sottoposti alla tutela del padre, del fratello o del marito (mundualdo), non venivano mai inglobati completamente nelle loro proprietà. La donna vedova che si risposava infatti portava con sé il morgengab ricevuto dal primo marito e il faderfio ossia i doni che il padre o il fratello le avevano concesso al momento del matrimonio. Nel caso in cui non si fosse risposata, alla morte del padre ereditava non il solo morgengab, ma anche la dote versata dal marito defunto al padre della sposa (metfio). Entrando in monastero invece, la vedova portava con sé solo una parte del patrimonio: un terzo o metà, a secondo che vi fossero o meno figli. La monacazione femminile poteva dunque derivare non solo dal desiderio di ritirarsi dal mondo per vivere in preghiera, ma anche da un atto di costrizione perpetrato ai danni della congiunta da avidi parenti interessati ai suoi beni. Sempre Liutprando tentò di evitare monacazioni forzate vietando alle vedove di prendere il velo prima che fosse trascorso un anno dalla morte del marito. Le violenze potevano naturalmente essere commesse anche dal re. Sono noti i casi di donne nobili costrette a rifugiarsi nel monastero perché violentale o abbandonate come Teodote, “fanciulla nobilissima di stirpe romana, di corpo leggiadro ed ornata di biondi capelli lunghi quasi fino ai piedi” [30], violentata dal re longobardo Cuniperto e da lui collocata nel monastero pavese di Santa Maria Teodote oppure Ermengarda (o Desiderata) moglie ripudiata di Carlo.

Dunque i motivi e le ragioni all’origine delle fondazioni monastiche furono molteplici: da quelli politico-religiosi (ad esempio come inquadramento religioso delle popolazioni rurali) a quelli di carattere economico e strategico. I monasteri potevano fungere da presìdi per la difesa ed il controllo di determinati territori: così il monastero bresciano di San Salvatore che possedeva beni nella pianura padana, ma anche in Toscana e nei ducati di Spoleto e Benevento, oppure Bobbio fondato da San Colombano nel 613 in un'area strategica concessagli da re Agilulfo proprio al limite dei territori conquistati o Nonantola, voluto da Astolfo, che controllava le vie che conducevano a Bologna e quindi all'esarcato e in Toscana quindi in direzione di Roma. I monasteri assolvevano anche a funzioni di tipo pratico quali il riordinamento della rete stradale romana devastata dalle guerre e l’assistenza per viandanti o il ricovero per malati e bisognosi.

Verso la fine dell'VIII secolo un elemento nuovo si inserisce nella vita dei monasteri Non sono più solo l’abate o la badessa a controllare la vita del cenobio e ad amministrarne i beni, non è più solo il vescovo a garantire la corretta disciplina, ma a queste figure si aggiunge la protezione (defensio) del fondatore. L’esercizio della protezione si esplicò nell’intervento nella nomina dell’abate o della badessa che era spesso la figlia o la sorella del fondatore, fosse re, conte o duca. Già nell’Alto Medioevo il controllo dell’elezione abbaziale era un efficace ed ambito strumento di intervento negli affari del monastero, dato che all’abate o alla badessa faceva capo tutta l’amministrazione del patrimonio, e di cui egli avrebbe potuto disporre anche privatamente. Poteva anche accadere che si creassero vere dinastie di badesse appartenenti alla famiglia del fondatore, in Italia ad esempio nel monastero di San Salvatore, poi Santa Giulia, di Brescia edificato dentro la città e fondato probabilmente da Ansa moglie di Desiderio, in età carolingia, accanto alle badesse legittime vennero nominate delle ‘rettrici’. In questo periodo il monastero mantiene e consolida i legami con il potere politico, che abbiamo visto caratterizzare l'epoca longobarda, e alla protezione regia si sostituisce quella imperiale che concede ampliamenti di patrimoni, privilegi ed immunità. Il rapporto tra monachesimo e potere politico si sviluppa inquadrandosi nel contesto del più ampio rapporto fra Chiesa e nobiltà. Nei secoli anteriori all’XI vengono fondati, soprattutto per iniziativa regia, illustri centri monastici che manifesteranno tutto il loro prestigio e la loro potenza economica nei secoli centrali del Medioevo.

All’inizio del nuovo millennio il quadro delle fondazioni femminili nell’Italia centro-settentrionale si presenta vasto e articolato nel territorio. Nei secoli successivi solo poche fondazioni riusciranno a mantenere un carattere duraturo mentre molte piccole comunità si formeranno rapidamente per poi, altrettanto rapidamente, scomparire lasciando poche tracce nella documentazione superstite [31]. Nei XII secolo si costituiscono intrecci di interessi e obiettivi comuni tra governo comunale ed enti monastici" [32]. Pur in mancanza di dati precisi in merito si può tuttavia ragionevolmente affermare che la proprietà ecclesiastica copriva almeno la metà dell’intero patrimonio fondiario-immobiliare di una città e delle campagne circostanti. Tratto comune alla maggior parte dei monasteri (tanto femminili quanto maschili) era il possesso di case, date in affitto, intorno alla sede monastica e dei terreni coltivabili nelle zone vicine. Ciò rendeva l’ente un punto di riferimento tanto sul piano insediativo quanto su quello della organizzazione economico-artigianale. Spesso monache e badesse provenivano da famiglie del contado e ciò rimarca l’ampio vincolo esistente tra società cittadina e zone rurali [33]. È evidente che la gestione del patrimonio monastico formato da così grandi estensioni di terre e beni immobili con le attività ad essi connessi, conferiva ai titolari - la badessa, i sindaci e i procuratori che la affiancavano, di solito membri maschili della sua cerchia familiare - consistenti diritti e poteri [34]. Spesso poi l’essere proprietario di beni nelle campagne limitrofe significava per una chiesa o per un monastero esercitare poteri giurisdizionali, veri e propri diritti di signoria, cosicché il titolare dell’ente diveniva il dominus loci. Nel caso di enti cittadini l’esercizio di forme di signoria rappresentò una delle linee maestre attraverso cui i comuni cittadini realizzarono, a partire dalla fine del XII secolo, la conquista del contado. Tra i casi di monasteri femminili che esercitarono diritti di signoria è noto quello del monastero milanese di San Maurizio su alcune località della Brianza. La badessa dell’ente, in quanto domina, emanò per la prima volta nel 1215 degli statuti che vennero poi aggiornati in due occasioni nel corso dello stesso secolo [35].

Legami molto stretti dunque quelli tra monasteri femminili e società civile fra XI e XII secolo. Spesso alla fondazione di nuove comunità sono ora interessati non più i membri dell’antica aristocrazia, ma persone legate ai ceti emergenti, quelli mercantili-imprenditoriali. Usualmente diviene badessa la donna che, in seguito ad un evento eccezionale, ha contribuito alla formazione della nuova comunità, di cui non è precisata la regola e che, almeno in una prima fase, istituisce legami stretti con il contesto religioso oscillando tra eremitismo, cenobitismo, assistenza ospedaliera. È il caso di molte fondazioni dell’Italia nord-occidentale, come quello di San Giovanni del Deserto a Gontardo. Nel 1193 una certa Berlenda de Levate, donna di facili costumi, in seguito ad una visione, si recò dalla pia Matilda de Pontevico ed insieme fondarono la chiesa di San Giovanni Evangelista, su terra donata a tale scopo al vescovo Sicardo (1185-1215) da un certo Egidio de Dovaria [36]. Per gli aspetti non solo spirituali, ma anche politici e strategici, almeno fino al XIII secolo l’esperienza monastica femminile non si differenzia in maniera sostanziale dalla parallela esperienza maschile e anche la gerarchia ecclesiastica contemporanea attribuisce alle comunità di monache un ruolo che non esalta alcuna specificità al femminile [37].

Se fino alle soglie del Duecento il desiderio delle donne di attuare la loro vocazione religiosa era avvenuta sotto la guida spirituale di un padre confessore ora, a partire dalla fine del XII secolo e poi nel XIII secolo, cominciarono a perseguire un’ideale di santità tramite non una vera e propria regola ma attraverso un propositum, unendo cioè il lavoro alla preghiera e praticando una vita in comune in domibus propriis, vuoi come vergini vuoi come sponsae senza sottostare alla professione di voti solenni e perpetui. Accanto al monachesimo di matrice benedettina o mendicante, si sviluppò il fenomeno delle incarcerate o recluse donne cioè che, non potendo praticare l’eremitaggio in luoghi selvaggi perché troppo pericoloso, scelgono di vivere completamente sole, isolate in una cella [38]. Questa forma di monachesimo venne attuata un po’ ovunque ed ebbe grande sviluppo soprattutto nel Basso Medioevo.

Nel corso del Duecento divennero più difficili i rapporti tra società e monasteri, che invece nei secoli XI-XII erano stati caratterizzati da reciproci vantaggi. Con il movimento di riforma ecclesiastica da una parte e le profonde divisioni all’interno della società cittadina dall’altra - la crisi degli ordinamenti comunali e l’inasprirsi dello scontro con l’Impero - con il diffondersi dell’eresia e raffermarsi di nuove forme religioso-devozionali collegate all’esperienza mendicante, la dialettica società/monasteri divenne più incerta. Negative furono le ripercussioni per i monasteri femminili tanto che si assiste ad una progressiva riduzione numerica delle comunità e, soprattutto, a forme di decadenza morale delle monache i cui comportamenti non si confacevano agli ideali di rinuncia al mondo che la vita del chiostro imponeva. I chiostri cominciarono così a chiudersi gradualmente in forme di clausura più o meno rigida e le monache furono veramente escluse dal mondo [39].

L’affermarsi degli Ordini Mendicanti e la diffusione dei movimenti ‘apostolici’ e delle eresie fecero emergere l’esigenza di un rinnovamento che il mondo monastico- penitenziale femminile accolse con fervore moltiplicando in maniera sorprendente il numero delie comunità per circa tre secoli, grosso modo dal concilio Lateranense IV (1215) al concilio Lateranense V (1512-1517) [40]. Quasi in ogni centro demico dell’Italia centro-orientale, già Stato della Chiesa, dove erano stati fondati uno o più conventi Mendicanti, erano stati anche eretti duc o più monasteri di donne.

Con papa Gregorio IX [41] gran parte del movimento penitenziale dell’Italia centro-settentrionale di inizio secolo XIII venne inserito nell’Ordine damianita, il primo ordine femminile nella storia della Chiesa sottratto alla giurisdizione dei vescovi locali e sottoposto al controllo «diretto della Santa Sede [42]. Non mancarono comunque i casi di donne che ricercavano una propria identità al di fuori dell’Ordine delle damianite/clarisse. Ne è un esempio il monastero di Santa Maria Maddalena a Matelica che, a differenza dei monasteri damianiti, non venne esentato dalla giurisdizione ordinaria del vescovo di Camerino. Diversamente dalle comunità di obbedienza vescovile tuttavia, le religiose non dovettero assumere una regola (aunam de approbatis) a norma della costituzione lateranense, ma fu loro consentito di rimanere delle semplici oblate, pur formando una comunità religiosa [43]. Comunque per tutto il XIII secolo la maggior parte delle nuove fondazioni seguirono la regola benedettina o agostiniana (prevalse quest’ultima) e quasi tutti i monasteri rimasero sotto la giurisdizione del vescovo diocesano che, personalmente o tramite sacerdoti addetti alla cura monialium provvedeva alla visita periodica del monastero; ne confermava la superiora, canonicamente eletta, disponeva il concentramento delle religiose [44].

Con la costituzione Periculoso (1298). emanata da papa Bonifacio VIII a tutte le religiose che avevano emesso i voti solenni venne imposta la clausura con il divieto per chiunque di accostarsi ai Monasteri delle Monache e di parlare con esse senza il dovuto permesso del Custode. La clausura rigidamente controllata dai vescovi diocesani, finì per incrementare la nascita di Eigenklöster, cioè di monasteri privati fondati da signori laici. Questi monasteri costituirono una scappatoia giuridica per sottrarsi alla visita e alla correctio dei vescovi diocesani, ai quali la Periculoso aveva affidato l’applicazione della legge sulla clausura [45]. Un’altra scappatoia giuridica per sottrarsi alla legge della clausura furono i terzi ordini che non ricadevano sotto la Periculoso e che accoglievano donne che avevano fatto voti semplici (semireligiose) [46].

Qualche cenno sui poteri temporali e spirituali delle badesse.

Il termine abbatissa, che designa la donna a capo di un’istituzione monastica deriva dall’aramaico abba, padre. Lo troviamo, per la prima volta in occidente, nel 314 a Roma sulla tomba di una certa Serena abbatissa nella chiesa di Santa Agnese fuori le mura. Secondo la regola di san Benedetto la carica era elettiva e, una volta eletta dalla comunità, la badessa riceveva la benedizione episcopale e le insegne del suo grado: l’anello, la croce pettorale e il pastorale [47].

La giurisdizione religiosa delle abbadesse delle prime istituzioni è piuttosto problematica da definire. Avevano il potere, secondo le regole dei quattro antichi ordini (Donato, Cesario, Colombano, Basilio), di benedire, velare e confessare le monache [48]. L’esercizio di questi poteri limitava drasticamente i contatti e gli incontri tra monache e preti, che, nei santi padri, suscitavano grande preoccupazione [49].

La carica abbadessale si sviluppò e assunse caratteri liturgici con la diffusione del monachesimo benedettino. In età carolingia la presenza delle monache sull’altare, la benedizione impartita agli uomini dalle badesse e l’ordinazione delle monache erano la norma, finché, con Carlo Magno, questi poteri vennero considerati degli ‘abusi’ ed aboliti. Il divieto di velare le monache fu energicamente ripetuto da Graziano evidentemente l’abuso, nonostante il divieto dell’imperatore, si era protratto [50].

La donna a capo di una grande istituzione benedettina esercitava praticamente tutti i poteri temporali degli abati e dei signori feudali e quindi assicurare un’abbazia importante ad una donna rappresentava, per la famiglia della nobiltà da cui essa proveniva, una indubbia attestazione di potere ed era come assicurarle un vescovato [51]. Nelle abbazie maggiori gli intermediari con il mondo, 1 ministri di culto e i segretari erano rappresentati da preti e un advocatus, nominato in genere dal vescovo ma sottoposto all'approvazione della badessa.

In questi grandi compiessi monastici - come ad es. Santa Giulia di Brescia che possedeva enormi estensioni di terra in 60 differenti villaggi o Nonantola che ogni anno inviava 12 converse alla casa dipendente di San Michele Arcangelo a Firenze per lavorare la lana e le camicie di lino [52] - alla badessa spettava l’amministrazione delle proprietà da cui dipendeva il benessere materiale di tutta la comunità. Ma, spesso, come abbiamo visto, sapienza e capacità nel condurre gli affari del convento difettavano.

In generale i monasteri dipendevano da un vescovo o da un conte. La diretta dipendenza dal papa poteva essere richiesta o a causa di frequenti scontri tra abbazie e vescovi oppure se nullius. Le abbazie che potevano godere di protezioni potenti tendevano a svincolarsi dal controllo dell’ordinario e a richiedere la diretta dipendenza dal papa poiché in questo caso il vescovo non poteva visitare una abbazia esente [53].

La giurisdizione civile, più o meno estesa e più o meno ampia a seconda dell’importanza dell’abbazia e del potere personale dell’abbadessa, era simile a quella di altre signore feudali che esercitavano direttamente in nome proprio o indirettamente per conto di mariti assenti o minori, il potere di governare e amministrare i territori e le genti loro affidate [54]. Il potere personale della badessa traeva origine e forza dalla qualità dei suoi legami familiari ed includeva anche la giurisdizione penale. L’abbazia di San Benedetto di Conversano (in Puglia) aveva dei luoghi appositi destinati alla funzione di carceri del monastero per l’uso della giurisdizione civile e spirituale della badessa e dalla documentazione superstite risulta che, in tempi diversi, parecchi furono gli ecclesiastici che vi vennero ospitati. La badessa aveva anche il diritto/dovere di visitare i monasteri che le erano soggetti, ad eccezione di quelli che prevedevano la cura delle anime, anche contro eventuali pretese del vescovo [55].

Con papa Innocenzo III alle abbadesse venne impedito di assolvere alla funzione di confessare le monache - consuetudine che riduceva il contatto, considerato pericoloso, con l’altro sesso - e quindi di assolverle o condannarle. Questo divieto poneva una grande limitazione al potere di giurisdizione anche temporale della abbadessa, che così aveva maggiori difficoltà a farsi ubbidire da monache e preti riottosi. Conciliare i rilevanti poteri attribuiti alle badesse con gli impedimenti dovuti al sesso relativi all’incapacità di comminare le sanzioni riservate alla potestas clavium (cioè il potere di rimettere le colpe) non era semplice. La soluzione trovata fu la seguente: la badessa non poteva assolvere o scomunicare direttamente, poteva, però, ordinare ai chierici che le erano sottoposti di farlo nei confronti di coloro che lei indicava e ai chierici era fatto obbligo di obbedire [56], potere confermato anche nell’ambito del diritto civile da Alberico da Rosciate (giureconsulto vissuto nella prima metà del XIV secolo). Aveva inoltre il potere, riconosciutole da Giovanni XXII, alla metà del XIV secolo, di istituire, concedere e revocare uffici, benefici e prebende.

In conclusione qualche esempio di locutio per signa, la comunicazione non verbale utilizzata nei conventi, dove l’osservanza del più stretto silenzio costringeva le monache ad esprimersi, soprattutto nell’ora del pranzo, per mezzo di gesti: “... la suora che desiderava del pesce doveva “agitare le mani in posizione obliqua, come fanno i pesci con la coda”; se voleva del latte doveva “tirare il mignolo della mano sinistra come se stesse mungendo”; per la mostarda doveva “appoggiare il naso alla parte superiore del pugno destro e sfregarlo”; per il sale doveva “pizzicare col pollice e l’indice destro il pollice sinistro”; se voleva del vino doveva “muovere l’indice su e giù sul polpastrello del pollice all’altezza dell’occhio .,.”[57].



[1] Sappiamo pochissimo di questa religiosa: resta la leggenda del cavaliere vanamente innamoratosi di lei che fu miracolosamente liberato dalla prigionia durante una crociata in Terra Santa

[2] Nell’anno 1192 Angelica donò il terreno ai Canonici di S. Maria di Reno per la costruzione di un monastero. Alla sua morte, nel 1244, la sua comunità si trasforma in monastero femminile. Sulla manifestazione Un Passamano per San Luca, ideata e promossa da Rolando Condanni che ha riscosso tanto successo, si consulti il sito: <passamanopersanluca.it/>.

[3] Regole monastiche femminili, a cura di L. Cremaschi, Torino 2003, p. 385.

[4] R. Pernoud, Medioevo. Un secolare pregiudizio, Milano 1995, pp. 110- 111.

[5] Ho affrontato questo tema in occasione del seminario Impronte monastiche nell'Europa medievale svoltosi a Santa Vittoria in Matenano CAP) dal 27 al 29 agosto 2002, cui ho partecipato insieme ad insigni studiosi, tra i quali Rolando Dondarini, docente dell’Ateneo bolognese (presidente del Centro di Studi farfense, presidente del M.AE.S. e presidente del Laboratorio Multidisciplinare di Ricerca Storica), Giancarlo Andenna, Teresa Bacchi, Hubert Houben, Valter Laudadio, Tersilio Leggio. In questa relazione ho tenuto soprattutto conto degli studi contenuti in II monachesimo femminile in Italia dall'alto Medioevo al secolo XVII, Atti del Convegno (Santa Vittoria in Matenano, 21-24 settembre 1995), a cura di G. Zarri, Negarine (VR) 1997, cui si rimanda per approfondimenti e bibliografia.

[6] Accolgo le considerazioni in proposito di G. Barone, Come studiare il monachesimo femminile, in II monachesimo femminile in Italia, cit., pp. 1-15.

[7] E. OCCHIPINTI, Il monachesimo femminile benedettino nell'Italia nordoccidentale (seco, xi-xii), in Il monachesimo femminile in Italia, cit., pp. 121- 133: 132.

[8] Tant’è vero che Eloisa, scrivendo a metà del xii secolo ad Abelardo, lamentava proprio il fatto che le donne fossero costrette a vivere secondo una regola scritta non per loro, quella di san Benedetto, poiché non esistevano testi legislativi pensati specificamente per esse. Cfr. Barone, Come studiare il monachesimo femminile, cit., pp. 1-15: 5. Nella comunità monastica del Paracleto, diretta da Eloisa, alla regola principale, quella di Benedetto, si affiancarono le Istituzioni redatte probabilmente proprio da Eloisa. Cfr. Regole monastiche femminili, cit., p. 375.

[9] Regole monastiche femminili, cit., pp. 393-395

[10] Ad es. negli Ordinamenti che Francesca Romana dette alla sua comunità di Tor de’ Specchi nella prima metà del xv secolo (tra il 1433 e il 1440). insieme ai grandi valori di povertà ed obbedienza mutuati dalla Regola di san Benedetto, si trovano anche riferimenti alla cura dei capelli, il cui lavaggio è regolato dalla superiora, al tempo concesso alla conversazione (che è vietata ad esclusione del momento della preparazione del pane e di altre attività manuali). Regole monastiche femminili, cit., pp. 393-395

[11] Sono noti il necrologio eli Santa Giulia di Brescia, quello napoletano e beneventano.

[12] Cioè le Regole di san Basilio (IV sec.); di san Cesario (VI sec.) la cui Regula ad virgines è la prima regola femminile non dipendente da un modello maschile e favorì la diffusione della clausura; di san Colombano (VII sec.); di san Donato (VIII sec ), la cui Regola fuse quelle di Benedetto, Cesario e Colombano. Regole monastiche femminili, cit., p. 28 e pp.173- 174.

[13] M. Carpinello, Il monachesimo femminile, Milano 2002, pp. 13 ss.

[14] CaRpinello, Il monachesimo femminile, cit., pp. 16-17; Regole monastiche femminili, cit., p. 21. Ben diverso è il monastero ‘misto' che raduna insieme uomini e vergini, poi vietato dal II Concilio di Nicea convocato dall’imperatrice Irene. Al Canone XX si legge: “(....) stabiliamo, che d'ora in poi non possano più fondarsi monasteri misti; ciò, infatti, si risolve per molti in scandalo e disorientamento. I monasteri per uomini e donne esistenti si attengano fedelmente alla regola del nostro santo padre Basilio, e si conformino alle sue disposizioni. Non vivano in uno stesso monastero monaci e monache, perché l'adulterio suole accompagnare la coabitazione. Il monaco e la monaca non abbiano possibilità di parlarsi a tu per tu. Un monaco non dorma presso il monastero delle monache e non si trattenga a mangiare da solo con una monaca. E quando da parte maschile devono esser fatti pervenire alle monache i generi necessari alla vita, questi siano presi in consegna dalla badessa del monastero delle donne fuori della porta, alla presenza di una monaca anziana Anche nel caso che un monaco volesse vedere una sua parente, parli con lei alla presenza della badessa, con poche e brevi parole, e subito si ritiri”.

[15] Ad esempio il testo raccomanda di non "eccitare la concupiscenza” quando le monache escono dal monastero, di non andare mai in due, ma sempre almeno in tre, di lavarsi, una volta al mese, il corpo. Carpinello, Il monachesimo femminile, cit., p. 17.

[16] Originariamente erano quelle donne pie che, a partire dal iv secolo, assicuravano lo svolgimento di certe funzioni nelle chiese orientali. In seguito, nell’Occidcnte cristiano il termine venne usato per indicare quelle vergini e vedove che avevano fatto voto di castità, senza tuttavia essere sistematicamente legate a delle Chiese. Più tardi le canonichesse regolari si distinsero dalle secolari per la divisione dei beni e la cessazione della vita comunitaria. I paesi germanici che aderirono alla Riforma mantennero l’istituzione delle Damenstiften, canonichesse secolari. Per indicare l’abitazione di canonici e canonichesse nelle due Regole approvate dal concilio di Aquisgrana, la Institutio canonicorum e la Institutio sanctimonialium, suo corrispondente femminile, vengono usati i termini claustrum e monasterium. P. Smiraglia:Monasterium - Ecclesia '. Storia di istituzioni ed evoluzione semantica, «Pan», XVIII-XIX (2001), pp. 481-492: 491.

[17] Carpinello II monachesimo femminile, cit., pp. 64-6.5. 

[18] M. T. Guerra Medici, Sulla giurisdizione temporale e spirituale della abba dessa, in II monachesimo femminile in Italia, cit., pp. 75-86: 85. 

[19]  Sappiamo che nel XVI secolo la badessa Giovanna Piacenza teneva nel proprio monastero di San Paolo di Parma incontri culturali, letterari e filosofici e forse anche politici e, nel 1518, chiamò il Correggio perché affrescasse il suo salotto così da renderlo più gradevole e propizio alle conversazioni. Il Correggio dipinse quella che oggi si chiama la Camera di San Paolo, usando moduli pittorici innovativi, oltre che in sé di altissimo livello. La Chiesa, disturbata da queste manifestazioni pochi anni dopo proibì alla badessa le conversazioni culturali e costrinse il monastero alla clausura. La camera del Correggio restò così chiusa e sconosciuta per due secoli (il Vasari non la conosceva) fino al Settecento, quando il monastero cessò di esistere.

[20] Barone, Come studiare il monachesimo femminile, cit., p. 15.

[21] Le citazioni di Ida Magli sono tratte da Regole monastiche femminili, cit., pp. XIV-XV

[22] Vedi supra.

[23] G. Jenal, II monachesimo femminile in Italia era lardo-antico e medioevo, in li monachesimo femminile in Italia, cit., pp. 17-39: 32.

[24] Jenal, Il monachesimo femminile, cit., pp. 35-37.

[25] Jenal, Il monachesimo femminile, cit., p. 29.

[26] Jenal, Il monachesimo femminile, cit., p. 23.

[27] Jenal, Il monachesimo femminile, cit., p. 25.

[28] Jenal, Il monachesimo femminile, cit., p. 19.

[29] Per la parte che segue sui rapporti tra monachesimo e potere politico, cfr. M. Bettelli Bergamaschi, Monachesimo femminile e potere politico nell'alto medioevo, in II monachesimo femminile in Italia, cit., pp. 41-74: 67. 

[30] Così la descrive Paolo Diacono, Historia Langobardorum, V, 37.

[31] E. Occhi pinti, II monachesimo femminile benedettino nell’Italia nord- occidentale (secc. XI-XIII), in Il monachesimo femminile in Italia, cit., pp. 121-133: 123.

[32] Occhi pinti, Il monachesimo femminile benedettino, cit., p. 124.

[33] Occhipinti, Il monachesimo femminile benedettino, cit., p. 126.

[34] Occhipinti, Il monachesimo femminile benedettino, cit., p. 125.

[35] Occhipinti, Il monachesimo femminile benedettino, cit., p. 127.

[36] Occhipinti, Il monachesimo femminile benedettino, cit., p. 129.

[37] Occhipinti. Il monachesimo femminile benedettino, cit., p. 121.

[38] Famosa a San Gallo la cella di Wiborada, martirizzata nel 946 dagli Ungheresi; a Melz quella di Ava, la più antica poetessa di lingua germanica. Carpinello, Il monachesimo femminile, cit.. p 87.

[39] Occhipinti, Il monachesimo femminile benedettino, cit., p.133.

[40] Cfr. M. Sensi, Monachesimo femminile nell’Italia centrale (sec. XV) in II monachesimo femminile in Italia, cit., pp. 135-168: 139 ss.

[41] Al secolo Ugolino Conti (Anagni 1170 - Roma 1241) nipote di Innocenzo III, cardinale nel 1198, vescovo di Ostia nel 1206. Eletto nel 1227, protesse lordine francescano, contribuendo alla redazione definitiva della sua Regola e di quella delle clarisse. Canonizzò San Francesco, Sant'Antonio e San Domenico. Per due volte, nei 1227 e nei 1239, scomunicò Federico II, pur avendo concluso con lui nel 1230 la Pace di S. Germano. Nel 1232 istituì il Tribunale dell’Inquisizione e lo affidò ai domenicani. Tentò senza successo un’unione con la Chiesa orientale. Nel diritto canonico è importante la sua compilazione della raccolta delle decretali pontificie che entrarono a far parte del Corpus iuris canonici.

[42] Sensi, Monachesimo femminile nell'Italia centrale, cit., p. 142.

[43] Sensi, Monachesimo femminile nell'Italia centrale, cit., p. 143.

[44] Sensi, Monachesimo femminile nell’Italia centrale, cit., p. 148.

[45] Sensi, Monachesimo femminile nell’Italia centrale, cit., p. 151.

[46] Sensi, Monachesimo femminile nell'Italia centrale, cit., p. 152.

[47] Guerra Medici, Sulla giurisdizione, cit., p. 75.

[48] Guerra Medici. Sulla giurisdizione, cit., p 79.

[49] Guerra Medici, Sulla giurisdizione, cit., p. 80.

[50] Guerra Medici, Sulla giurisdizione, cit., p. 79. Graziano, monaco camaldolese nato sul finire deliba secolo, insegnò teologia nel monastero dei Santi Naborre e Felice a Bologna e, a partire dal 1139, iniziò la raccolta, l’ordinamento e l'armonizzazione di tutte le leggi ecclesiastiche (desunte dalla Scrittura, dai Padri della Chiesa e dalle risoluzioni conciliari) in un’opera imponente intitolata Concordia discordantium canonum, nota come Decretum Gratiani ed anche Corpus iuris canonici. Da questa opera si suole far iniziare il diritto canonico

[51] Guerra Medici, Sulla giurisdizione, cit., p. 76.

[52] Guerra Medici, Sulla giurisdizione, cit., p. 77.

[53] Guerra Medici, Sulla giurisdizione, cit., p. 76.

[54] Guerra Medici, Sulla giurisdizione, cit., p. 77.

[55] Guerra Medici, Sulla giurisdizione, cit., p. 78.

[56] Guerra Medici, Sulla giurisdizione, cit., p. 82.

[57] In una delle liste di gesti inventati per le monache, se ne trovano elencati ben 106! Eileen Power, Vita nel Medioevo, Torino 1966, pp. 89-90.

 


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23 gennaio 2024   a cura di Alberto "da Cormano"   Grazie dei suggerimenti   alberto@ora-et-labora.net