MONACHESIMO FEMMINILE MEDIEVALE:
REALTÀ E IMMAGINI ROMANTICHE
Capitolo nono
Estratto da “La figura della donna nel
Medioevo” a cura di Jean Leclercq O.S.B. – ed. Jaca Book 1994
1. Evidenza storica e immaginazione
In queste pagine vorrei ora mostrare che questa età medievale ebbe, e continua
ad avere, un influsso sulle idee - più precisamente, sulle immagini - di ciò che
la vita monastica femminile è o dovrebbe essere come logico effetto di quello
che era nel medioevo. Ora, molte delle nostre immagini del monachesimo medievale
sono segnate da due caratteristiche. Innanzitutto esse danno un'idea solo
parziale della situazione reale, e quindi si deve fare ogni sforzo per acquisire
un quadro completo di tutta la realtà. In secondo luogo questa stessa realtà è
stata semplificata, idealizzata, cristallizzata, resa univoca, e così è
diventata oggetto di legislazioni uniformi, più o meno stereotipate. Questo
processo iniziò nel periodo post-medievale, col concilio di Trento, e culminò
nel XIX secolo, subendo un forte influsso da parte del romanticismo. Oggi c'è
ancora qualcuno che con la massima naturalezza proietta queste immagini
semplicistiche non solo sulla stessa età medievale, ma anche sui nostri tempi di
quest'ultimo trentennio.
Siamo dunque di fronte all'esigenza di far luce su questi elementi culturali e
di distinguere non solo i fatti storici, ma anche le successive creazioni
dell'immaginazione, dalle realtà del Vangelo e dalla tradizione autentica. Una
tale necessità implica che si chiarisca la differenza tra la cultura e il
Vangelo e si svincoli la vita monastica di oggi dai legami col passato, siano
essi reali o immaginari. Questo è uno dei compiti più urgenti che oggi ci
incombono, e per realizzarlo occorre considerare diversi campi: il monachesimo
in generale, l'esercizio dell' autorità e la pratica dell' obbedienza, e in
particolare l'intero complesso del monachesimo femminile.
Molte delle immagini ereditate dal XIX secolo e dalla prima metà del XX
provengono da studi storici generali. Questi hanno i loro meriti e fino a poco
tempo fa erano gli unici praticabili. Oggi fortunatamente la storiografia
monastica sta facendo progressi, soprattutto grazie a un uso più diffuso della
sociologia, della psicologia, della statistica e perfino dell'informatica. A
causa di questi nuovi metodi e strumenti e anche di una considerazione più
attenta delle fonti stesse anziché delle sintesi o degli studi storici, è ora
possibile non solo indagare sulla storia delle istituzioni e sull'eredità
letteraria e dottrinale del monachesimo, ma anche conoscere la vita come era
veramente e quindi avere un ritratto più fedele della gente reale, dei monaci
che esistettero realmente.
Per offrire subito un esempio molto concreto del modo in cui si tende a riferire
pratiche cosiddette tradizionali - ma in realtà moderne - ai testi antichi
compresa la Regola di san Benedetto, vorrei raccontare un fatto che avvenne nel
1605, quando madre Maddalena Morteska ripristinò in Polonia, a Chelmo, la vita
benedettina femminile, dopo che era scomparsa a causa della Riforma. Delle
Costituzioni si occupò una commissione composta dal vescovo Peter Kostlea, in
veste di legato della Santa Sede, da Maddalena Morteska e da altre quattro
monache di Chelmo, e anche da alcuni teologi e canonisti, per la maggior parte
gesuiti. Quando si giunse al capitolo della Regola di san Benedetto che tratta
dell'abito, essi lessero: scapularem propter opera,
e tradussero «un
grembiule per il lavoro», cosicché a Chelmo la prima generazione di monache non
pensò mai di dover indossare permanentemente uno scapolare; esse vestivano
tuniche con cinture, portavano il cappuccio nel coro e i grembiuli quando era
necessario.
Più tardi, però, prevalse l'idea carmelitana di un sacro scapolare come la parte
più importante e solenne dell'abito, quasi fosse un reliquiario. Inoltre i
monaci benedettini erano indignati per l'interpretazione gesuita di quel testo,
da loro giudicata «incompetente». Un abate scrisse una lunga apologia dello
scapolare e arrivò a dire che su di esso vi era una disputa tra «i teologi del
nostro ordine», se fosse cioè un peccato mortale o veniale per un monaco andare
a letto senza uno scapolare! Alla fine la maggior parte dei monasteri femminili
accettò lo scapolare e talora questo avvenimento fu celebrato molto
solennemente. Il «grembiule» di san Benedetto era diventato un ornamento
benedettino. Non posso non ricordare, a questo proposito, il commento scherzoso
di una monaca, la quale disse che ai tempi di san Benedetto lo
scapolare - scapularem propter
opera - già
allora non era altro che un «opera dress», un vestito da
sera.
Vorrei ora indicare altri punti, più importanti di quello che ho appena
accennato, che meritano di essere studiati più a fondo. Riguardo a certe
questioni storiche, possiamo applicare, con qualche debita modifica, le parole
che il Signore ha detto sulla Verità che egli era e che insegnava: «La storia vi
farà liberi», liberi cioè dal passato, da quelle «tradizioni» che spesso sono
troppo recenti o pseudo-tradizioni. Oggi la provvidenza di Dio sembra condurci a
situazioni che sono più vicine alla tradizione reale ed alla nostra
immaginazione.
2. La dimensione delle comunità
Il primo punto che richiama l'attenzione, proprio perché è uno dei più evidenti,
riguarda la dimensione delle comunità. A partire dal XIX secolo molti di noi
pensano che la comunità debba essere normalmente grande tanto che la maggior
parte degli edifici monastici sono stati progettati e costruiti per almeno
cinquanta membri. Ma se esaminiamo i fatti alla luce delle statistiche, possiamo
senz'altro constatare che le comunità nel medioevo erano generalmente molto più
piccole. Alcuni monasteri che durante alcuni periodi raccolsero molti monaci
sono stati presi come normale esempio della maggioranza delle case. Casi così
eccezionali erano solitamente rivelati dalle cronache o da altri importanti
documenti. Ma se esaminiamo i cartulari e gli studi specifici che recentemente
ne sono stati fatti, possiamo vedere come la situazione generale e normale fosse
del tutto diversa. Per esempio, nel monastero cisterciense di Rifreddo, in
Piemonte, tra il 1231 e il 1334, il «numero delle monache era di venti circa».
In
Inghilterra, durante il XIII
e il XIV secolo, la popolazione media dei conventi cisterciensi oscillava tra i
10,2 e 12,4 membri. È degno di nota il fatto che tra il 1168 e il 1308 vi furono
cento ventitré ribellioni tra i conversi,
con una media di una ribellione
ogni 14 mesi. Solo in cinque di queste rivolte furono coinvolte monache
converse'.
In
Francia, nel 1760, la media della popolazione nelle comunità monastiche era di
27 ,3 membri. Durante i secoli XII e XIII nei monasteri cluniacensi della
provincia di Lombardia, il numero medio era 5. Il Dubois ha stabilito che
durante il medioevo la media dei membri dei priorati monastici rurali era di 2.
Egli giunse a una conclusione simile in un altro studio dedicato in particolare
alle case monastiche maschili, che nel complesso produssero più documenti delle
case femminili e sono state quindi oggetto di studi più frequenti. Ma i
risultati di questi ultimi, a ben vedere,. potrebbero essere validi anche per i
monasteri femminili. Bisogna inoltre tener conto del fatto che finora sono stati
studiati quasi esclusivamente gli ordini monastici maggiori. Sono ancora tutti
da scoprire gli ordini più piccoli, come per esempio quello dell'abbazia di
Sainte-Trinité-de-Tiron, e i piccoli gruppi o fondazioni che scomparvero dopo
una o più generazioni o si fusero con altri ordini, oppure semplicemente
sopravvissero senza attirare l'attenzione degli storici.
Per riassumere, vorrei indicare una delle conclusioni a cui sono giunto come
storico di lunga milizia: generalmente le comunità monastiche ebbero grande
prosperità e un alto numero di membri solo durante periodi eccezionali;
mantennero tutto sommato la loro osservanza senza essere numerose, e quasi
sempre vi riuscirono.
3. L’impatto della nobiltà
Come ha osservato uno storico a proposito di certi monasteri del XII e XIII
secolo, «le monache sembrano essere state relativamente poche, meno numerose dei
monaci: questo può essere dovuto alla loro origine, dal momento che esse
provengono generalmente da nobili famiglie». Può essere difficile negli Stati
Uniti - meno in Canada, specialmente nella provincia di Québec - capire quale
possa essere stata la costante importanza della nobiltà nella vita monastica
femminile e le forme di clausura che ne conseguirono. Parecchi esempi si
potrebbero aggiungere a quelli che sono già stati riportati altrove!, Per
esempio, sembra molto probabile che nella seconda metà del XIII secolo santa
Gertrude, detta la Grande, non poté diventare badessa di Helfta perché non era
di nobili origini. Tuttavia questo non le impedì di avere alte esperienze
spirituali e di lasciare un grande messaggio teologico. Il valore di quanto
scrisse non derivò dunque da nessun influsso secolare che poteva aver subìto, ma
dai suoi doni interiori di semplice monaca. Ma poiché tutto ciò sembrava
inconcepibile, venne fatta badessa postuma nel XVI secolo, grazie a una facile
confusione con la sua vera badessa, santa Gertrude di Hackeborn, e nell'
ottocento romantico fu considerata «la grande badessa»
(die grösse Abtissin).
Titoli come «il signor abate», «la signora badessa», «dom» e «dame», nel
significato che possedevano nell'Inghilterra del tardo medioevo, erano a quel
tempo indice della secolarizzazione della funzione spirituale.
Un altro esempio assai caratteristico si può osservare nella complessa serie di
edifici che costituiscono 1'odierno convento domenicano dell'Angelicum a Roma!.
Vi avevano sede un convento per monache nobili, un altro per quelle non nobili,
un terzo per quelle che si erano convertite dall'ebraismo o da altre forme di
vita, e ve n'era, non lontano, anche un quarto, in via dell'Umiltà, dove ora si
trova il North American College, riservato a un'altra categoria di monache. Nel
convento per monache nobili, il primo piano - che nei palazzi romani viene
tradizionalmente chiamato «piano nobile» - era occupato proprio da quelle
monache. Al piano superiore viveva la loro servitù, ogni serva aveva un cucinino
e, probabilmente per aver d'occhio i bisogni delle loro signore, un buco nel
pavimento. Sappiamo anche che in America latina situazioni simili sono durate
sino a tempi relativamente recenti. Fu papa san Pio V a far costruire i conventi
in quello che doveva diventare l'Angelicum, durante un periodo di particolare
fervore dopo la riforma della Chiesa romana. Nell'America latina ciascuna delle
signore spagnole che entravano in un monastero aveva come serva una ragazza
indiana, alla quale dava un nome e che lavorava per lei in un cucinino. Queste
converse erano chiamate «Sorelle dell'Obbedienza», come se le monache che le
tenevano con sé non fossero obbligate a obbedire!
E naturalmente era un dovere per queste monache essere eleganti, come imponeva
la loro condizione sociale. Nell'abbazia di Stanionski, in Polonia, tutte le
monache erano provviste di una testiera da parrucchiere per poter avere un'
acconciatura adeguata alla loro particolare forma di bellezza. La badessa poi
aveva diritto a una testiera dipinta! Ancor oggi sono conservate due collezioni
di questi arnesi. Può anche darsi che altre consuetudini tipiche. di questo
mondo nobiliare siano sopravvissute e vengano ancora praticate in alcune zone
dove esiste una contrapposizione tra le congregazioni ricche e quelle più
povere. A dir la verità, mi sono chiesto se non fosse proprio così quando per la
prima volta notai che i religiosi del Nord America si servivano di suore
messicane per i lavori di cucina e di lavanderia, che le suore nord americane si
rifiutavano di fare.
4. Vocazione monastica e verginità
Come si è già dimostrato altrove, fu solo durante il :XIX secolo che la
consacrazione delle vergini venne associata con la solenne professione delle
monache benedettine. La storia di questo tema della consacrazione verginale. può
essere agevolmente illustrata da un'antologia di
Vite di alcune celebri
badesse e monache; ma dalle interpretazioni agiografiche è facile passare a
conclusioni dottrinali affrettate. Queste informazioni devono infatti essere
integrate da altre fonti.
Un gruppo di queste ultime - che tra l'altro costituisce un particolare genere
letterario - è formato dai romanzi e dai poemi che parlano delle mogli di
cavalieri che entravano nel monastero, o quando i loro mariti erano ancora in
vita o dopo la loro morte dovuta a una guerra, a una disgrazia o ad altre cause.
La formula usata in tali circostanze è che le donne «prendevano il velo».
Talvolta si afferma esplicitamente che lo facevano come atto di fedeltà ai loro
mariti defunti.
Fino a che punto è possibile conoscere con precisione il numero delle monache
che entravano in monastero dopo aver contratto matrimonio? Un altro gruppo di
documenti che può offrire delle informazioni su tale questione è quello dei
cartulari: sulla base dei loro dati si dovrebbero fare delle statistiche. In uno
dei rari studi condotti in questa linea, riguardante l'abbazia benedettina di
San Giorgio a Ronceray, quella della Trinità di Caen e il priorato di Marcigny
nel periodo che va dal XII al XIII secolo, è stato possibile stilare elenchi di
dozzine di monache, indicandone i titoli e spesso anche i rapporti di parentela.
Qualcuna è detta essere figlia del tale, altre sono designate come moglie
(uxor)
o vedova (vidua)
o anche madre
(mater) del tal altro. Per
ciascuna di queste monache, indipendentemente dal loro precedente stato civile,
gli storici parlano di «consacrazione». Queste donne erano «consacrate», ed
essere consacrate voleva dire ricevere o prendere il velo. Gli esempi di cui
disponiamo si riferiscono tutti a donne di origine nobile. A Ronceray su 73
monache di cui ci sono noti i nomi e i titoli, 22 erano vedove o matrone: le
vedove erano il doppio rispetto alle mogli. Vedove e matrone costituiscono
dunque il 30,13 % delle monache. Per quanto riguarda Marcigny, sappiamo che vi
erano 17 donne sposate e 17 vedove. Nel complesso rappresentano più della metà
di tutta la comunità; infatti esattamente il 53,30% aveva contratto matrimonio.
E questo, ricordiamolo, avveniva in una fondazione dell' abbazia di Cluny, dove
si propugnava la vocazione autentica.
Le ragioni per cui donne sposate si separavano dai loro mariti per entrare in
monastero erano varie. Talvolta abbiamo come unica fonte romanzi o poemi amorosi
secolari; questo se non altro era un mezzo per lasciar libero il marito e
permettergli di sposare un'altra donna. L'interpretazione pratica del diritto
canonico contemplava casi di questo genere ed esistono diversi documenti che lo
confermano. Per quanto riguarda le vedove, il monastero offriva a queste donne,
private del marito, una protezione e una sicurezza materiali che la società
secolare non poteva procurare. Altre vedove, come si è già detto, prendevano il
velo per fedeltà alla memoria dei loro mariti defunti, e così erano dispensate
dall'obbligo di contrarre un secondo matrimonio. Da tali atteggiamenti
spirituali e psicologici scaturirono alcune belle poesie, in cui troviamo versi
come questi:
e rinuncerò a tutte le comodità della vita.
I casi in cui si prendeva il velo per fedeltà al marito morto spiegano l'alto
numero di monache che erano state sposate. Sebbene un monaco anonimo di Mainz
avesse composto nel XII secolo un Pontificale
che comprendeva un rituale
per la consacrazione delle vergini, di esso esistevano pochi manoscritti e il
suo uso era piuttosto limitato-".
5. Vocazioni forzate e felicità
Durante alcuni periodi molte monache venivano portate nel chiostro in tenera
età. Questo però non significa che non decidessero mai liberamente del proprio
stato religioso e non avessero una vera vocazione. Vi furono tuttavia alcune
donne che non giunsero mai a una libera accettazione, almeno a giudicare da
certe poesie come «il lamento della monaca infelice». È difficile stabilire fino
a che punto questo genere di facile satira esprimesse una situazione reale
oppure fosse semplicemente un luogo comune sfruttato da goliardi che volevano
fare sfoggio del proprio talento e intrattenere un pubblico secolare. Nella
Biblioteca Vaticana è conservato l'unico manoscritto della più famosa tra queste
canzoni, che inizia con le parole Plangit nonna fletibus.
li testo entra
in dettagli concreti che, sebbene divertenti, ne rendono difficile
l'interpretazione. Esiste una riduzione ritmica in lingua inglese, in quattro
strofe, di cui riportiamo le prime due:
Poor me, poor nun
shut out of the sun,
deprived of all fun
when life's barely begun!
Povera me, povera monaca
cui la vista del sole è impedita,
di ogni divertimento privata
quando la vita è appena incominciata!
I crawl from my cell
to swing that cracked bell,
to gnaw a psalm stale,
a bad canticle ...
Mi trascino dalla mia cella
per suonare la fessa campanella,
per consumare un salmo stantio
e uno sgradevole cantico ...
Va tuttavia sottolineato che questi lamenti di monache infelici non sono molto
numerosi, né più frequenti di quelli di donne infelici perché «mal sposate».
Questo parrebbe confermare un fatto osservato da diversi storici: il sistema
educativo e l'ambiente sociale sembrano aver favorito l’incremento non solo di
buoni monaci, ma anche di monaci felici. Abbiamo, riguardo alle monache, una
testimonianza assai esplicita che risale al XVII secolo. Si tratta di madre
Angelica, che a Port-Royal diventò non solo una monaca fervente e poi badessa,
ma anche una riformatrice severa. Di lei così scrivono i suoi più recenti
biografi: «Era divenuta monaca suo malgrado, e lo si comprende chiaramente da
una conversazione di qualche anno prima, durante la quale aveva rivelato, a suo
nonno Marion, che era sfortunata ad essere la seconda figlia, poiché se fosse
stata la maggiore si sarebbe potuta sposare. Ma dal momento che era stata
portata in monastero contro il suo desiderio, e proprio dai suoi genitori che
ora cercavano di opporsi alla sua decisione, voleva vivere la vita monastica
fino in fondo e far seguire alle sue consorelle le regole in ogni loro
dettaglio, senza opporre alcuna resistenza».
6. I paradossi della clausura
Altrove si è già parlato delle forme, dei gradi e-dei motivi della clausura
femminile (nel capitolo 10 dello stesso libro). Ma vale la pena di illustrare
questo argomento con altri esempi, perché si corre il rischio di proiettare sul
passato immagini che appartengono al presente. .
Per esempio le monache cisterciensi - al contrario di quanto a volte si pensa -
originariamente non avevano grate, come si può vedere nel monastero di Coiroux,
fondato da santo Stefano di Obazine nel XII secolo. Queste monache si
affiliarono all'ordine cisterciense solo più tardi e in realtà non vivevano come
le autentiche monache cisterciensi del XII secolo, che invece conservarono, a
quanto pare, le stesse forme di clausura dei monaci sotto l'autorità della loro
badessa. Ancora nel XIII secolo, le monache cisterciensi della Fiandra non
avevano una stretta clausura: andavano a lavorare nei campi, durante il periodo
del raccolto stavano diversi giorni nelle fattorie e nelle cascine, andavano in
città per i loro commerci. Ma nessuna di queste attività impediva alle loro
comunità di essere tra le più ferventi dell'Ordine e di produrre quelle sante e
quelle mistiche che tutti conosciamo.
Dall'XI secolo, i superiori maschi erano stati incaricati di stabilire le norme
della reclusione, ma questo non accade più nei secoli successivi. Nella seconda
metà del XIV secolo troviamo un caso interessante: a un'intera congregazione di
monaci benedettini viene imposto lo stesso stile di clausura delle monache -
nella specie quello delle Clarisse - su pressione del fondatore dell' abbazia di
Valladolid, re Giovanni I. Egli infatti provava una particolare gioia nel vedere
i monaci rinchiusi proprio come le monache, con delle grate, degli sportelli
girevoli per le vivande e solo una porta per entrare e uscire. Le monache erano
chiamate las beatas
e i monaci los beatos.
Tutto questo derivò da
una reazione contro la rilassatezza di quel tempo, che neppure la bolla
Benedictina, promulgata da Benedetto XII, aveva potuto correggere. Per
evitare il pericolo che i monaci uscissero troppo spesso, per affari o per
guadagnarsi da vivere, li si obbligò a fare «il voto di reclusione,
el voto
de encierramento». Vennero introdotte nella formula della loro professione
alcuni termini che non comparivano nella Regola di san Benedetto:
stabilitas
perpetuae inclusionis. Questa formula fu mantenuta fino a quando la
congregazione venne soppressa nel 1835, anche se ormai quella norma non era più
applicata. Tuttavia questi monaci, per un certo numero di anni, ebbero il
compito di riformare le case monastiche femminili, ed è facile comprendere che
vi imponessero la loro stessa clausura. Naturalmente dovevano chiedere una
dispensa speciale dal loro voto solenne di clausura. Originariamente avevano il
permesso di uscire solo in caso «di epidemia, di carestia o di incendio». Ma
inevitabilmente la porta si apriva sempre più spesso per permettere ai monaci di
avere incontri
di tipo politico
o ecclesiastico. Perfino gli abati non potevano uscire durante l'Avvento e la
Quaresima. Se un monaco usciva doveva rientrare il giorno stesso e se qualcuno
infrangeva questa regola di stretta clausura veniva messo a pane e acqua per
tanti giorni quanti si era assentato. Solo il medico e il
sagrador, cioè
l'uomo che faceva i salassi ai monaci, avevano il permesso di entrare. Tuttavia
un monaco poteva parlare con la madre o con la sorella in una delle cappelle
della chiesa e non era obbligato a vederle dietro a una grata.
Tutto ciò fu voluto da un re e si dovette attendere l'approvazione del papa.
Oggi, quando si riflette molto sul fatto di concedere alle monache la stessa
clausura dei monaci, il passato offre almeno un esempio in cui la clausura delle
monache venne imposta ai monaci. Ovviamente questo criterio e la sua
applicazione pratica dipendono solo dalle circostanze sociali e culturali. Dopo
il concilio di Trento, sotto l'influsso di san Carlo Borromeo, l'uniformazione
della clausura per le monache portò tutti gli ordini femminili allo stesso
livello, nonostante le loro diverse tradizioni ed esigenze. Da allora in poi
alla clausura fu riconosciuto un valore supremo.
Per quanto riguarda le grate, se ne possono ancora trovare in ogni luogo dell'
antica conquista spagnola, dal nord della California al sud dell'America latina:
sono un' eredità della cultura ispano-arabica. Ancor oggi, come già per diversi
secoli durante l'occupazione islamica della Spagna, esse costituiscono sia un
ornamento sia un ricordo del modo in cui i Musulmani erano soliti tenere le
donne in casa. Al di fuori di questi paesi, non sempre fu facile imporre l'uso
di grate a tutte le monache di clausura. In Svizzera, per esempio, si racconta
che quando, nel XVIII secolo, fu inviato un nunzio per imporne l'obbligo, tutti
i cantoni immediatamente promulgarono un decreto che vietava ai fabbri di
costruire grate. Questo è solo uno dei tanti esempi che dimostrano come si possa
scansare una legge senza rifiutarla. Si narra anche la storia di una badessa e
di alcune monache che dovevano andare con un carro a costruire una nuova
fondazione. La badessa sapeva che sarebbe passata davanti alla sua casa natia;
ottenne il permesso di fermarsi lì, ma non di scendere. Il carro si fermò sotto
il portico dell'entrata, e con le sue consorelle consumò un lauto pranzo che le
era stato portato sul carro.
7. Dipendenza sacramentale?
Dalle origini del monachesimo fino al XlI secolo, i monaci e le monache spesso
andavano a confessarsi da altri monaci o dagli abati, da monache o da badesse.
Se il capitolo generale dell'ordine cisterciense del 1228 e poi, all'inizio del
XIV secolo, il papa Bonifacio VIII impedirono alle badesse di confessare,
significa che esse lo facevano. Tra la prima metà del XII secolo e i secoli XIII
e XIV accadde dunque che la confessione monastica fu assimilata, o meglio
sostituita dal sacramento della penitenza: questo fatto si può ricondurre a ciò
che padre Ladislas Orsy chiamava «l'evoluzione della Chiesa»!. Per molto tempo
le monache erano riuscite, riguardo alla confessione, a fare a meno dei preti,
mentre per l'Eucaristia avevano bisogno di un sacerdote. Tuttavia alcuni
manoscritti conservati nella Biblioteca Vaticana e altrove mostrano che, tra il
X e il XII secolo, i monasteri di monaci e monache potevano avere «celebrazioni
eucaristiche senza sacerdoti». Una volta che il pane e il vino erano stati
consacrati, le comunità dei monaci e delle monache potevano non solo ricevere,
ma anche «prendere» la santa Comunione come parte centrale di una liturgia che
comprendeva una salmodia introduttiva, la confessione, le litanie, una serie di
orazioni che preparavano alla comunione, l'accompagnavano, la collegavano al
sacrificio della messa e ne spiegavano gli effetti, e, infine, il
ringraziamento. Si è sempre insegnato che uno degli effetti dell'Eucaristia era
la remissione dei peccati e la riparazione delle loro conseguenze. Così quei
servizi liturgici senza sacerdoti erano celebrazioni sia eucaristiche sia
penitenziali. Questa pratica più tardi cambiò, quando cambiò la teologia e
quando si giudicò che i sacerdoti fossero in numero sufficiente per celebrare la
messa e per ascoltare la confessione di tutti i monaci e di tutte le monache.
Sappiamo che durante tutto il medioevo molti monasteri di monaci, per
amministrare i sacramenti, mantennero preti diocesani come cappellani. Ma in
alcuni periodi la dipendenza sacramentale dei monaci e delle monache nei
confronti dei sacerdoti fu sicuramente diversa.
8. Promozione femminile: il problema della motivazione
In uno studio che, nonostante sia considerato vecchio, è ancora assai valido,
Henri-Irenée Marrou ci offre, con tutte le sfumature che sempre ravvivano i suoi
lavori, informazioni ampie e precise sulle ragioni che portarono un così grande
numero di donne, nei primi secoli del cristianesimo, a intraprendere una vita di
verginità. Queste motivazioni, consapevoli ed esplicite, sono state spesso
formulate dagli scrittori ecclesiastici e vengono indicate come l'origine di una
totale ed esclusiva unione con Cristo. Ma l'amore per lo Sposo è anche
considerato preferibile a un'altra forma di unione: quella del matrimonio, in
una società influenzata da un passato non-cristiano, in un ambiente che in
realtà non era ancora del tutto cristianizzato e nel quale lo stato di vita
matrimoniale faceva sentire molto duramente i suoi effetti. Tutto ciò si
manifestava nella vita concreta: le donne infatti erano giudicate una specie
inferiore e, a causa del comportamento immorale di molti uomini la cui violenza
sfociava in erotismo brutale, comprensibilmente esse vedevano nel rifiuto del
matrimonio uno strumento di difesa, una libertà, una sorta di promozione. Come
reazione a questa immoralità, si diffusero, sia all'interno sia al di fuori
della Chiesa, dottrine sulla purezza - diverse forme di encratismo - che
propagarono un disprezzo a oltranza per qualsiasi forma di attività sessuale.
È assai significativo che un aumento delle vocazioni femminili alla fine dell'XI
secolo coincidesse con lo sviluppo di un nuovo genere di letteratura-cortese o
popolare-in cui si cantava la lode di un certo tipo d'amore, definito «puro»,
che per alcuni serviva da copertura a forme di erotismo raffinato. Possiamo
allora comprendere perché vi fossero certi cristiani che preferivano un'altra
strada. C'era infatti anche il «rovescio della medaglia», poiché in alcuni
luoghi abbiamo la testimonianza di amicizie puramente spirituali tra monaci e
monache e tra altri religiosi e religiose.
Le eresie che più tardi sarebbero comparse sotto il nome generico di
«catarismo», avevano alcuni punti in comune con le antiche «teorie dualistiche»
che, secondo il Marrou, «spiegano il mondo e l'uomo mediante l'azione e la
reazione di due opposti principi, il Principio del bene e quello del male». Se
il catarismo proponeva, per sfuggire il male, una via verso una «purezza» che
certamente non aveva nulla a che fare con gli ideali della Chiésa, il
monachesimo permetteva di realizzare, nei confini dell'ortodossia, un'
aspirazione che ugualmente veniva dalle profondità dell' animo e che esprimeva
lo stesso fenomeno culturale. Tutto il contesto culturale delle vocazioni
monastiche medievali attende ancora di essere studiato in modo obiettivo, senza
pregiudizio e senza il rischio di ridurne la portata.
Un aspetto che non deve mai essere trascurato, quando si esamina il monachesimo
femminile durante tutto il medioevo, è quello del costante afflusso nei
monasteri da parte della nobiltà, che in alcuni periodi, a quanto sembra, fu
particolarmente intenso. Finora gli storici hanno studiato i vari ambienti alla
luce dei testi spirituali - agiografie, trattati dottrinali, lettere altri
documenti - e dei testi storici - cronache e resoconti -. Queste ricerche hanno
messo in evidenza alcune delle ragioni esplicite per cui le donne si facevano
monache, insieme con quelle del loro seguito. Altre forti motivazioni si possono
ritrovare nei testi giuridici, in particolare nelle risoluzioni riguardo ai
problemi sollevati dagli statuti per le monache nell'ambito del diritto canonico
o dai casi di coppie sposate che si separavano di comune accordo per poter
entrare nei monasteri. Si deve poi tener conto dei vari tipi e gradi di
parentela, dei diritti di proprietà e di ciò che da essi dipende, secondo i
diversi luoghi e periodi, e dei diritti feudali; vi sono donne che non
riuscivano a sposarsi o che venivano abbandonate dai loro mariti legalmente o
per altri motivi, quando per esempio essi partivano per le guerre e per le
crociate. Per alcune donne, infine, entrare in monastero significava avere un
tetto materiale, oltre che un'opportunità per progredire spiritualmente.
9. Il monachesimo cluniacense in Lombardia
Esiste tuttavia un genere di documenti che da questo punto di vista non è stato
quasi mai studiato, e che è costituito da registri, redazioni di contratti e
atti di vendita, d'acquisto, di donazione e di fondazione direttamente stipulati
dalla badessa e dalle monache. Uno studio recente e assai documentato ha tentato
di trattare questa materia. È limitato nel suo intento, poiché considera solo le
case cluniacensi in Lombardia, ma proprio per questo è estremamente preciso e ha
aperto una nuova via di ricerca che potrebbe essere proseguita nella stessa
linea. In questo studio si può vedere, più chiaramente che altrove, come la vita
monastica fosse per molte donne non solo un rifugio per difendersi da una
società che aveva poca stima per il loro sesso, ma anche, nello stesso tempo, un
modo per liberarsi dalle restrizioni e dai limiti che quella società imponeva
loro. Era una condizione che dava loro la possibilità di agire, di impegnarsi,
di svolgere un ruolo più attivo all'interno di quella stessa società. Le monache
si trovavano così allo stesso livello degli uomini. Nella vita secolare le donne
erano costrette a rinunciare a molte esperienze riservate ai mariti; nel
monastero i loro privilegi dovevano essere acquisiti dopo aver abbandonato i
mariti e la vita nel secolo.
Tutto ciò si manifestava in modi diversi secondo le diverse aree. Nel campo
sociale le monache godevano di un' autonomia che permetteva loro di agire senza
dipendere dagli uomini, sia da quelli che appartenevano al clero sia da quelli
sposati. Tuttavia dovevano ricevere il consenso di un abate o di un «consulente»
laico che aveva il compito di curare e difendere i loro interessi, ma questo
avveniva dappertutto, tanto per i monaci quanto per le monache. Esse però
godevano della personalità giuridica: potevano firmare documenti nelle loro
funzioni di badesse o di monache. In linea di principio, almeno - e sembra che
questo avvenisse spesso -, le decisioni venivano prese dopo aver consultato la
comunità, come prescrive la Regola di san Benedetto. E benché sia rara per quel
tempo una specifica testimonianza della partecipazione delle donne al lavoro di
amministrazione, esistono tuttavia molti registri che contengono delibere
capitolari e provano come le donne potessero esercitare le più grandi
responsabilità, cosa che non avrebbero mai potuto fare se fossero vissute nel
secolo.
Una simile condizione, come qualsiasi altra, aveva però i suoi inconvenienti.
Per esempio il continuo dedicarsi al settore tecnologico, per usare
un'espressione dei nostri giorni, al miglioramento del terreno, a nuovi metodi
di coltivazione, alla creazione di canali e soprattutto alla costruzione e alla
manutenzione di mulini. Le monache di Cantù avevano ben cinque mulini, che
costituivano la loro principale fonte di rendita. L'amministrazione, gli
affitti, le permute e gli investimenti erano tutti trattati direttamente dalle
badesse, anche se questo qualche volta le costringeva a violare la clausura. Il
sacerdote ha un ruolo solo spirituale - l'amministrazione dei sacramenti -,
anche se a volte, per certi affari da trattare in luoghi lontani dal monastero,
le monache dovevano servirsi del loro cappellano, monaco chierico, come
«procuratore». Tuttavia poteva capitare che una comunità riuscisse a fare a meno
di un prete per tali servizi anche per un periodo di dieci anni. I monasteri
femminili esercitavano un diritto di «sovranità» sui propri beni e proprietà,
oltre che sulle proprie case; incassavano le decime ecclesiastiche che spesso
ricevevano per legge. Venivano loro fatte donazioni da parte di chiese private e
le badesse avevano il diritto di nominare chierici o monaci in qualità di
titolari. Il diritto di proprietà concedeva alle monache anche il potere di
coercizione (honor et districtus).
A tutto questo va aggiunto il potere
spirituale che esse esercitavano su tutti i fedeli e talvolta sui grandi e sui
potenti. Sappiamo di recluse che erano consigliere di principi e di re, perfino
riguardo agli affari di governo. Il prezzo di una tale fecondità di vita era
l'astinenza sessuale e la rinuncia a essere madre affinché la maternità potesse
fiorire in un' altra forma per queste «figlie spirituali», così come avvenne
mediante la preghiera per le monache di Cernobbio.
Questa attività autonoma consentiva alle monache «di vivere e di incarnare il
messaggio evangelico nel loro mondo particolare» e nel loro particolare contesto
sociale. Naturalmente questo non costituiva il fine ultimo delle vocazioni, ma
accadeva come normale esito e frutto di una tale vocazione, ed era parte di quel
«centuplo» che veniva promesso e dato come premio nella vita terrena. Questa
attività, che era legata alla vocazione monastica delle monache ma anche a
quella dei monaci e del clero, era accettata come tale e nessuno tentava di
eliminarla. Era parte integrante della vita di tutta la comunità, soprattutto
quando la fondazione veniva fatta da una donna o per volontà di una donna,
oppure realizzata personalmente dalle monache quando queste avevano la
responsabilità diretta degli affari del monastero.
Una tale situazione aveva, come ogni altra, il suo lato negativo. Come il clero
e i monaci, anche le monache si trovavano coinvolte nei conflitti del loro
tempo, che rischiavano di limitare i loro propositi e fini spirituali; anche per
loro vi era il costante pericolo della secolarizzazione, e quindi la necessità
di combatterla o di prevenirla. Un' amministrazione sprovveduta poteva mettere a
repentaglio la loro stessa esistenza. Il numero delle vocazioni che venivano
accettate in un monastero dipendeva dalle entrate che la comunità aveva.
Talvolta, quando dei Benedettini non erano più in grado di mantenere il proprio
monastero, si tentava di sostituirli con le Clarisse, che ricevevano sempre
ricche donazioni.
Se alle monache veniva riconosciuta un'autonomia definitiva, era perché avevano
dimostrato di esserne capaci. Questo doppio riconoscimento - autonomia giuridica
e possibilità di esercitarla - che fu sempre più frequente verso la fine del
medioevo, più tardi venne sostituito dai canonisti e, nelle istituzioni, dal
crescente potere degli Ordini maschili. Così, quando una donna entrava in
monastero, non perdeva la sua capacità giuridica, anzi aveva realmente le
possibilità per esercitarla, possibilità sconosciute per le altre donne che
vivevano nel mondo. Questo era vero non solo per le badesse e le priore, che
generalmente provenivano dalle classi nobili e quindi avevano già il potere
della nobiltà, ma valeva anche per tutte quelle monache che si riunivano nel
consiglio o nel capitolo.
10. Conclusioni.
La realtà permanente:
Sponsa Christus
L'espressione sponsa Christi
si trova frequentemente nella letteratura
patristica e medievale. Ispirata a numerosi passi dell' Antico e del Nuovo
Testamento, fu dapprima applicata in modo particolare a tutta la Chiesa, poi,
molto più tardi, a ciascuno dei suoi membri, uomini o donne, e fu spesso
lasciata al femminile proprio per associarla più facilmente alla parola
anima: ogni anima cristiana è considerata sposa di Cristo. La Vergine Maria
ne era l'esempio più tipico. Oggi questa espressione viene sempre più spesso
riferita a quei cristiani che si sono consacrati a Dio, in particolare nella
vita religiosa e ancor più specificamente nella vita monastica femminile, come
confermano libri e documenti. È un'evoluzione legittima, ma restrittiva; non
dobbiamo dimenticare che ogni cristiano, di qualunque sesso, che viva o no nel
celibato, è membro della Chiesa e con lei «sposa» di Cristo.
Se la formula possiede questo significato universale, è perché esso prima di
tutto le deriva da colui senza il quale nessuno avrebbe diritto di essere membro
della Chiesa, cioè da Cristo Signore. Occorre porsi in questa prospettiva più
ampia per difendersi dai pericoli di un linguaggio che è troppo tecnico e che
rischia, per così dire, di monopolizzare, limitandolo al vocabolario e
all'ambiente monastico, un titolo che ha un significato infinitamente ricco.
A dire il vero, il problema è stato sollevato in un penetrante studio che non ha
ricevuto l'attenzione che merita. Il suo autore è un monaco benedettino, che vi
mescola tre discipline: medicina, psicologia e teologia.
È Damien Debuisson dell'abbazia di La-Pierre-qui-Vire (Théologie
mariale et mystère du couple, in «Église et théologie» 6 (1975)).
Partendo da premesse ispirate alla filosofia del simbolismo e alla tipologia
paolina, egli giunge a questa conclusione: «L'unione nello Spirito Santo del
Padre e del suo Verbo è la Fonte archetipa dell'unione tra Cristo e la sua
Chiesa, tra l'uomo e la donna». Si chiede inoltre «se ciò che è specificamente
originale nella relazione maschio/femmina non possa essere analogicamente
trasposto nella suprema relazione tra il Padre e Cristo ... È possibile
individuare nella sottomissione di Cristo al Padre non solo risonanze di
carattere filiale, ma anche 'femminili', e questo non può forse valere, oltre
che per il Verbo incarnato - in quanto uomo - nei riguardi di Dio, anche per il
Verbo nel suo rapporto trinitario con il Padre?». Insomma, esiste una «relazione
sponsale» tra la parola di Cristo e il Padre. Questo dialogo d'amore e questo
bacio scambiato nello Spirito sono quelli tra la sposa e il suo promesso.
L'autore si serve qui della metafora del bacio, già usata dai Padri antichi e
poi da teologi più recenti, da Scheeben a Mulhen, quella stessa metafora che
anche san Bernardo di Clairvaux sviluppò nel XII secolo con eccezionale
precisione. Metafora che non dice tutto, ma che evoca un insondabile aspetto del
mistero trinitario, che è un archetipo di tutto ciò che è umano, perché
Ishsa,
la Parola, è «la Sposa eterna, la Sapienza creatrice» e «il Figlio di Dio è
di volta in volta lo Sposo promesso di suo Padre e la Sposa di sua Madre».
Questo è solo un inadeguato riassunto di uno studio lungo e molto complesso, ma
se non altro mostra come ci sia interesse per una ricerca che tenta di
prolungare una tradizione senza falsarla. In questa linea sembra allora
plausibile parlare di tutti e due gli aspetti del mistero, della Sponsa
Christi e anche di Sponsa Christus. Questo è il linguaggio di chi
cerca di collocare la vita monastica femminile non solo nel contesto della
Chiesa e di Cristo, ma anche nella vita della Santa Trinità.
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15 novembre 2014 a cura di Alberto "da Cormano " alberto@ora-et-labora.net