I

LA SCIENZA NEI MONASTERI

Recupero di una dimensione culturale

Di Mauro Mazzucotelli

Estratto da “Cultura scientifica e tecnica del monachesimo in Italia” – Abbazia San Benedetto - Seregno 1999

 


 

La diffusione dello studio scientifico non ha mai rappresentato una stravaganza nel mondo religioso, tradizionalmente rivolto in maggior misura agli studi filosofici, teologici e in genere umanistici. La storia ecclesiastica offre esempi illustri di domenicani, barnabiti, gesuiti, minori, scolopi, somaschi, teatini ecc. i cui meriti sono spesso menzionati nei testi di storia delle scienze. Nel secolo scorso si diffusero saggi e opuscoli celebrativi dell’apporto di uomini di chiesa al progresso e alla diffusione delle scienze come quello Sopra i benefici degli ecclesiastici alle scienze (Bergamo 1832), dell’abate Severino Fabiani più volte stampato e capillarmente diffuso in tutta Italia o il voluminoso saggio storico-apologetico dell’abate Antonio Stoppani, il geologo lecchese, dal titolo II dogma e le scienze positive ossia la missione apologetica del clero nel moderno conflitto tra la ragione e la fede (Milano 1884). Erano momenti difficili per l’istituzione ecclesiastica che nella difesa dagli attacchi del positivismo si rifugiava nell’apologia e nell’esaltazione dei meriti scientifici attribuibili a religiosi sui quali sarebbe stata forse necessaria una illustrazione maggiormente serena.

Non è certo in questa direzione che si situano queste pagine che non hanno altra pretesa se non quella, di evidenziare, nell’ambito della cultura scientifica dei religiosi italiani, le tracce lasciate da una loro componente particolare: i monaci. Presso gli specialisti di storia monastica vengono quasi sempre considerati gli aspetti culturali legati alle scienze filosofiche, teologiche scritturali o canonistiche senza trascurare gli studi umanistici: storici, letterari, linguistici e artistici. E così anche per il saggio di G. Penco Monachesimo e cultura recentemente edito in questa stessa collana.

Il merito di aver proposto un primo approfondimento del problema scientifico nel monachesimo italiano va senz’altro attribuito a Menico Torchio, autore di diverse monografie sull’argomento tra cui L’osservazione della natura nell’alto medioevo, il contributo dei benedettini (1982), La valorizzazione etica e razionale della natura nella tradizione benedettina (1989) e con C. Roggero, di una sintesi dal titolo Studi ed uso razionale della natura nei benedettini italiani dell’evo moderno (1972).

È evidente che, trattando di scienza nel monachesimo in un arco di tempo esteso dal medioevo all’Ottocento inoltrato, il termine «scienza» assume significato un po’ diverso da quello oggi comunemente in uso. Vengono infatti accomunati autentici scienziati e umili cultori di certe discipline, geniali inventori di soluzioni tecniche e appassionati artigiani, opere concepite secondo criteri metodologici rigorosi e opere create liberamente seguendo l’inventiva personale, persino ispirate da credenze e tradizioni popolari.

Per questa ragione è inevitabile, nel nostro caso, assegnare alla categoria scientifica tutto quanto non è compreso nella cultura delle scienze sacre e umanistiche, incluse alcune materie filosofico-esoteriche come l’astrologia e l’alchimia oggi di difficile comprensione e situate in un ambito non certamente scientifico ma che, in un certo momento storico, hanno costituito un grande impegno culturale, supportato da profonde conoscenze matematiche e astronomiche.

La scienza monastica si è sempre sviluppata nel tempo parallelamente a quella della società laica: studiosi isolati in epoca medioevale, che aumentano nei secoli XV e XVI e si infittiscono nel secolo di Galileo col propagarsi delle scienze matematiche, e che raggiungono il culmine della diffusione e del prestigio accademico nel sec. XVIII. Ma, a differenza della scienza laica, quella monastica crollerà bruscamente e per sempre, insieme a tutto il suo mondo, con le soppressioni di fine Settecento. La lenta rinascita del monachesimo italiano dopo le soppressioni non ospiterà più nei chiostri l’interesse scientifico, esso non troverà più motivi di appartenenza presso le congregazioni che faticosamente si organizzeranno con altre istanze e altri preminenti interessi.

Anche nel monachesimo scientifico è possibile cogliere una duplice dimensione. Quella più razionale e speculativa della matematica, geometria, fisica, idraulica, ecc. che trova nell’esattezza della misura e nell’esperimento il suo sbocco naturale, e quella espositiva dell’osservazione dei fenomeni della natura, della documentazione e dell’analisi delle sue produzioni, della descrizione dei luoghi. Questi ultimi aspetti danno, a volte, l’impressione di sconfinare verso una dimensione più letteraria che scientifica. D’altro canto come non attribuire, ad esempio, valore documentaristico alle attentissime dissertazioni su Marco Polo e gli altri viaggiatori veneziani dell’abate Placido Zurla (1769-1834) e alla relazione del terremoto di Siena, dell’abate Ambrogio Soldani (1736-1808) che nel resoconto dell’accaduto procede con annotazioni di una puntualità quasi maniacale che ci fanno concludere che, in fondo, in quel momento storico, quello era il modo di rilevazione di un fenomeno naturale. Talvolta si incontrano dei monaci ai quali risulta difficile assegnare una specifica competenza scientifica tanto è vasta e poliedrica la loro cultura. Considerandoli cultori di una data materia si può correre il rischio di sopravvalutare un lato parziale del loro sapere, snaturando così la complessità della loro personalità intellettuale.

Essi rappresentano la grande erudizione scientifica che, accanto alla più sviluppata erudizione umanistica, delinea e completa la pienezza della vita culturale del chiostro. È davvero impressionante l’ampiezza del sapere di alcuni monaci del XVII secolo come il fogliante Camillo Stella o il camaldolese Clemente Mattei o il cassinese Gerolamo Ruscelli che, secondo le cronache e le testimonianze dei loro scritti, spaziarono dalla matematica alla geometria, alla trigonometria, alla fisica, all’astronomia, alla astrologia, alla cronologia, alle scienze del calendario, alla gnomonica, alla cartografia e magari anche ad alcuni aspetti della geografia e della meteorologia.

Ci si chiede che cosa rimanga oggi di questa cultura all’infuori della comprensibile storiografia celebrativa delle congregazioni. E il caso di rispondere: scripta manent. Manoscritti noti o ignorati giacciono negli antichi fondi archivistici dei monasteri, oggi spesso confluiti negli Archivi di Stato. Numerose sono anche le opere stampate lungo i secoli che compongono una ideale biblioteca scientifica monastica che pur non contenendo, se non eccezionalmente, testi fondamentali per il progresso della scienza, hanno arricchito di caratteri originali la produzione scientifica del nostro paese.

Gli esempi sono molti. Tra i più indicativi, che verranno illustrati nei prossimi capitoli, possono essere compresi il trattato di idraulica del cassinese Benedetto Castelli, le tavole astronomiche dell’olivetano di Vincenzo Renieri, la vasta produzione matematica del camaldolese Guido Grandi, l’illustrazione malacologica di Ambrogio Soldani, le opere botaniche dei vallombrosani Francesco Maratti e Fulgenzio Vitman. Alcuni libri ebbero un grande successo editoriale e scolastico. Sui testi di geometria di Ottaviano Cametti, abate vallombrosano, studiarono generazioni di studenti, i volumi di geografia del verginiano Luigi Galanti ebbero decine di edizioni. L’utile trattato di agraria di Vitale Magazzini, abate di Vallombrosa, edito la prima volta nel 1625, veniva stampato ancora a metà Ottocento mentre le lezioni di agricoltura e pastorizia del cassinese Barnaba Gregorio La Via si diffusero nelle università del mezzogiorno nel secolo scorso. La rete di contatti tra uomini di scienza italiani ed europei, fatta di scambi di notizie, lettere, relazioni accademiche, proposte, richieste di chiarimenti, passa anche attraverso i monasteri. Basta scorrere i più noti carteggi scientifici pubblicati per trovare corrispondenze di monaci.

Tra le pubblicazioni più recenti sono state proposte nella nota collana Archivio della corrispondenza degli scienziati italiani (Firenze, Olschki) ampie integrazioni al carteggio di Benedetto Castelli; il carteggio di Guido Grandi col matematico Jacob Hermann, e con l’abate Celestino Galiani, quello del celestino Gerolamo Saladini col matematico Teodoro Bonati, uno dei maggiori esperti di idraulica del XVIII secolo.

Viene ora da chiedersi in quale misura lo studio delle scienze partecipi alla genuina tradizione monastica e se, in qualche modo, sia stato istituzionalizzato nelle norme che regolano la vita del monastero.

 

II

STUDIO DELLE «SCIENZE PROFANE» NELLE CONGREGAZIONI MONASTICHE ITALIANE

Nel monachesimo occidentale antico qualche indicazione sulla vita intellettuale del monaco e sull’organizzazione culturale del monastero si trovano in Cassiodoro (circa 485-580). Nella prefazione alle Institutiones, quasi una introduzione allo studio per i suoi monaci, indica come accanto al nucleo principale di studio costituito dalle sacre scritture trovi posto anche «saecularum litterarum compendiosa notitia». E nei frammenti («deflorata») sulle arti liberali, sono citate opere di aritmetica, geometria, astronomia. Analizzando poi i testi in vario modo confluiti nella biblioteca del «Vivarium» si notano traduzioni e trascrizioni di argomento matematico e geometrico come la Traslatio arithmetica Nicomachi e la Traslatio geometrica Euclidis di Boezio, gli scritti di agricoltura di Columella, De re medica di Celso, scritti di terapia di Ippocrate, Dioscoride e Galeno, l’Historia naturalis di Plinio, e ancora testi di cosmografia, astronomia, e opere di Tolomeo.

La regola di san Benedetto non specifica nulla riguardo allo studio dei monaci. Nell’ultimo capitolo vengono considerate «rectissima norma vitae humanae» le sole letture dell’Antico e Nuovo Testamento mentre vengono individuate come strumento di perfezione alcune opere di santi padri e la regola di san Basilio: «Nec non collationes patrum et instituta et vitas eorum sed et regula Sancti Patris nostri Basilii quid aliud sunt nisi bene viventium et obeodientium monachorum instrumenta virtutum?».

Per secoli i monaci raramente si scostarono da questo atteggiamento. Solo nell’evo moderno, e quindi in tempi relativamente recenti, nell’ambito delle consuetudini e delle costituzioni delle congregazioni comparve lentamente e con cautela qualche modesta apertura verso le scienze nelle prescrizioni per l’iter della formazione intellettuale dei monaci. Alcuni esempi tra i più significativi potranno chiarire il problema.

Fin dal XIV secolo i camaldolesi, con l’istituzione delle scuole abbaziali codificarono gli studi filosofici e teologici. Ma solo nel riordinamento della «ratio studiorum» a metà XVIII secolo furono previste come materie complementari al corso di filosofia la matematica, la chimica e le scienze naturali. Il rinnovamento degli studi portò indubbiamente a un’apertura verso la dimensione scientifica. Sorsero nei monasteri accanto alle biblioteche gabinetti sperimentali, osservatori astronomici, furono organizzati musei con raccolte archeologiche ma anche di fossili e di produzioni naturali.

Le costituzioni olivetane più antiche (1352 e 1445) trattando degli studi prevedevano soltanto quelli delle sacre scritture. Anche in seguito lo spirito che animava le considerazioni sullo studio nella congregazione non si discostò da queste indicazioni. È noto un trattatello sugli studi monastici scritto nel 1471 dall’abate generale Leonardo Mezzavacca, illustrato e pubblicato anni fa da Valerio Cattana. In esso l’abate generale esclude che i monaci possano studiare altro se non le sacre scienze. Lo studio delle lettere: grammatica, greco, ebraico, fu introdotto solo nella prima metà del Cinquecento. E, come in altre congregazioni, alcuni monasteri cominciarono a specializzarsi per specifici studi. Lettorati di filosofia furono stabiliti all’inizio del Seicento a Monte Oliveto Maggiore, Perugia, Verona e Cremona e dall’ampliamento di alcuni insegnamenti filosofici come la logica e la fisica naturale fu indirettamente introdotto lo studio di materie che si affermeranno in seguito autonomamente come le scienze matematiche e fisiche, la cosmologia, la meteorologia ecc. Diversi lettori di filosofia e teologia furono anche esperti cultori di matematica e di scienze ad essa collegate.

Le costituzioni cassinesi del 1520, stabilendo i nove monasteri sedi di studi comuni per tutta la congregazione, elencavano anche le discipline che costituivano il contenuto formativo. Non si va oltre la grammatica, canto piano, casi di coscienza, diritto canonico, logica. Anche le costituzioni del 1580 concedono al massimo le «umane lettere», nessun accenno a materie scientifiche se non la solita traccia indiretta nei corsi di filosofia naturale che, con quelli di logica, venivano organizzati nelle abbazie di Praglia, Polirone, Parma, Montecassino, Cava, Gaeta e Messina. Questa organizzazione degli studi persiste anche dopo l’istituzione del collegio di S. Anselmo a Roma, alla fine del XVII secolo presso l’abbazia di S. Paolo, dove sono organizzati i corsi di teologia e sacri canoni. Si può tuttavia ancora ipotizzare che attraverso l’insegnamento della filosofia, che nel collegio veniva trasmessa «ad mentem S. Anselmi», fossero proposte anche materie più indirizzate verso le realtà fisiche e non solo verso le speculazioni filosofiche. D’altra parte, scorrendo l’elenco dei docenti e degli alunni del collegio, si trovano i nomi dei cassinesi che accanto alla teologia furono importanti cultori di materie scientifiche, principalmente fisica e matematica come: Andrea Bina (1731-1802), Giovanni Alberto Colombo (1708-1777), Carlo Mazzacane, Bernardo De’ Rossi (1749-1827), Agostino Da Rabatta (1761-1831), Romualdo Rizzari e Pier Maria D’Agostino. Altre congregazioni italiane non si discostano da questi modelli.

Jean Mabillon (1632-1707) nel Tractatus de studiis monasticis (edizione veneziana in latino del 1745) e nella replica alle conseguenti obiezioni che gli mosse l’abate della Trappa Le Buthillier De Rancé (1626-1700), dimostra come gli studi non siano estranei alla vita monastica, ne illustra gli scopi sottolineandone le differenze. Ovviamente l’abate maurino si riferisce agli studi monastici tradizionali: le scienze sacre e quelle storiche. Non manca tuttavia al suo eruditissimo trattato qualche accenno alle scienze profane. In filosofia riconosce la necessità di approfondire lo studio della fisica, integrandola con un piccolo trattato «de sphaera» comprensivo quindi di geometria, calcolo, astronomia ecc.

Non ritiene di grande utilità per i monaci l’eccessivo approfondimento della matematica o la sperimentazione, attività che richiedono troppo impegno ed energie intellettuali che possono essere indirizzate altrove. Neppure reputa adatto ai monaci, anche perché soggetto a tutta una serie di pregressi impedimenti da parte dell’autorità ecclesiastica, lo studio dell’anatomia, della medicina e della farmacologia anche se, ammette, qualche conoscenza in queste materie può essere utile al singolo nella cura del corpo e della salute. Nessun impedimento per coloro che entrano in religione già in possesso di queste conoscenze, in pratica medici e speziali, che possono anzi esercitare la loro professione, superiori permettendo, assistendo il prossimo. Lo stesso vale per gli studi di aritmetica, geometria, per la scienza dell’astrolabio. Chi prima dell’ingresso in monastero, magari in gioventù, si è dedicato a questi studi non è obbligato a ripudiarli o ad abbandonarli completamente.

Comunque nella Bibliotheca ecclesiastica mabillonica, il lungo elenco che chiude la terza parte del trattato, accanto alle opere filosofiche di autori antichi e recenti sono numerose quelle di storia naturale: l’Historia naturalis di Plinio con il vasto commento del gesuita Giovanni Arduino (Parigi, 1685), l’Historia naturalis quadrupedum, avium, piscium, insectorum... (Amsterdam 1657) di J. Jonhston, il Theatrum insectorum (1634), completato sulle osservazioni del naturalista inglese E. Wotton, di T. Muffet, l’Historia naturalis animalorum, avium... (Bologna 1599-1616) di Ulisse Aldovrandi, l’Historiam piscium (1686) e l’Historia avium (1676) di F. Willughby, le Exercitationes de differentiis et nominibus animalium (Oxford 1677) di G. Charlton, Mémoires pour servir à l’histoire des plantes (Parigi 1679) di D. Dodart ecc. Tra i testi di matematica per i quali, come per i testi di medicina, sono indicati i cataloghi di varie biblioteche, sono citate opere del Clavio (1537-1612), e i Nova experimenta phisicomechanica (1679) del Boyle (1627-1691), mentre le opere di cronologia e geografia occupano un lungo elenco di quattro pagine.

Risulta suggestivo nell’elenco del Mabillon la ricorrenza anche dei temi filosofico-zoologici come De la connaissance des animaux (Parigi 1650) di De La Chambre, il Traité de l’âme des bêtes (Lione 1676) di Pardies e un anonimo Traité de la circulation des esprits animaux (Parigi 1682). L’impressione è che per Mabillon gli studi scientifici, anche se non indispensabili alla specifica formazione del monaco, possano essere utili complementi della sua formazione personale. D’altra parte l’istituzione monastica, pur non prevedendolo esplicitamente, non ha mai ostacolato l’aspetto scientifico della cultura affidandolo alla iniziativa, alla predisposizione e all’ingegno personale. E di fatto la dimensione personale emerge indiscutibilmente nello studio scientifico non contraddicendo ma completando i valori di chi ha scelto di vivere la propria vita nel chiostro. In fondo però, a ben vedere, la cultura scientifica è forse il lato meno caratterizzante della vita del monastero. Le cosiddette scienze profane costituiscono l’aspetto più laicale della vita intellettuale monastica e, per loro stessa natura, accomunano chi abita nel monastero a chi vive nel secolo.

I monaci cultori di scienze diventano membri di accademie, insegnano all’università o in scuole pubbliche, sono consiglieri di principi e governanti. Hanno necessità di viaggiare di relazionarsi con personaggi e centri lontani. Come non ricordare i viaggi per i mari del Levante del naturalista camaldolese Guido Ignazio Vio alla ricerca di specie marine, le peregrinazioni per l’Europa del cistercense Silvio Boccone, quelle per l’Italia di Ambrogio Soldani, le faticose erborizzazioni sulle montagne della Toscana dei botanici vallombrosani Biagi, Falugi, Tozzi e Vitman o quelle nell’agro romano di Francesco Maratti? L’atteggiamento dei superiori verso questi monaci che, in fondo, con la reputazione ed il credito di cui godevano, recavano lustro alle proprie congregazioni fu, quasi sempre, di grande attenzione. Il prestigio derivante dalla loro attività facilitava il superamento della difficile convivenza delle esigenze dello studio scientifico con le regole e le consuetudini della vita monastica. Sono frequenti i permessi per viaggiare, i finanziamenti per le pubblicazioni. Tutto questo procurò frequentemente un inevitabile disagio nel vivere la propria condizione religiosa. Ciò si verificò soprattutto nel XVIII secolo quando le scienze tra i monaci raggiunsero lo sviluppo più ampio ed esponenti di quasi tutte le congregazioni erano presenti nelle università. Si avverte quasi una specie di incompatibilità tra la loro situazione monastica ed il loro pubblico ruolo di docenti. Frequentemente vengono dispensati dalla vita claustrale ed abitano fuori dal monastero: accadde per gli olivetani Vincenzo Renieri professore a Pisa e Giuseppe Benedetto Cassinis matematico a Bologna, Napoli, Cremona e Padova, per il vallombrosano Fulgenzio Vitman botanico milanese che risiedeva a Brera, per il cassinese Giovanni Battista Cassiani Ingoni matematico a Parma, per il celestino Gerolamo Saladini matematico a Bologna.

A Pisa, per facilitare la vita ed i doveri dello stato religioso dei monaci impegnati in attività accademiche la congregazione di Vallombrosa acquistò nel 1786 il monastero di S. Torpé.

Il contrasto tra la scelta della vita dedicata a Dio e la passione per lo studio della scienza risulta superabile, come appare analizzando singole vicende e biografie della maggior parte dei monaci, in una stabile coerenza personale tra l’ascesi e lo studio, tra l’osservanza della Regola di san Benedetto e quella delle leggi che regolano il cammino della ricerca e della speculazione scientifica. In fondo, la qualità peculiare del sapere scientifico comune a molti monaci che si sono occupati di scienza, in modo del tutto simile ai loro colleghi secolari, si spiega in una dimensione molto personale, in un atteggiamento mentale di fronte alla scienza che nulla togliendo alla autonomia della sua metodologia ne pone in risalto la propedeuticità verso un equilibrio interiore razionale ed armonico, ben evidenziato dalle parole che Antonio Genovesi (1712-1769) scriveva a un giovane in procinto di intraprendere gli studi della carriera ecclesiastica: «Ella — scriveva l’abate napoletano — vuole essere un teologo: ma non il sarà mai senza un poco di aritmetica, di geometria e di fisica; poiché quelle le formeranno l’arte di ragionare e questa le farà conoscere il primo libro di Dio ch’è il mondo».

 


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26 maggio 2024                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net