LA TRADIZIONE MONASTICA
della coltivazione di piante officinali
Estratto dall’introduzione al libro “La farmacia di Dio: Antichi rimedi per la salute, il buon
umore, la bellezza e la longevità dalla tradizione monastica e francescana”,
Anna Maria Foli,
Edizioni Terra Santa 2021
Fin dalla loro creazione i monasteri sono stati non soltanto luoghi di preghiera
e meditazione, ma anche di operosità e accoglienza. Oltre a radunare uomini
dediti all'ascesi e alla contemplazione divina, infatti, spesso offrivano un
rifugio temporaneo ai tanti pellegrini e ai viaggiatori di passaggio.
Per questo motivo al loro interno si organizzarono centri di assistenza medica,
ospizi e ricoveri che inizialmente furono riservati ai pazienti interni al
convento, ma che con il tempo si aprirono a utenti esterni rappresentati da
poveri, bisognosi e malati.
Poco per volta ospitalità monastica e attività ospedaliera vengono quasi a
coincidere: non a caso i termini "ospizio" e "ospedale" provengono dalla stessa
radice latina
hospes,
"ospite".
All'interno di queste strutture diventa così necessaria la presenza di figure
specializzate in grado di preparare medicamenti naturali destinati a curare
disturbi più o meno gravi. Queste persone ricevono gran parte della loro
formazione dai confratelli che li hanno preceduti, ma si dedicano anche, più o
meno autonomamente, allo studio di testi classici sulle piante officinali e
sulla medicina, che spesso sono i monaci stessi a tradurre dal greco o
dall'arabo.
Le opere più apprezzate e conosciute sono quelle di Ippocrate e soprattutto di
Galeno. Il primo, considerato il fondatore della medicina scientifica in Grecia,
è sicuramente il medico più famoso della sua epoca. Disponiamo di pochissimi
dati certi su di lui, ma gli viene attribuito un
corpus
di circa settanta testi composti fra gli ultimi decenni del V secolo a.C. e la
prima parte del IV.
È greco anche Galeno di Pergamo (129-201 d.C. circa), molto stimato per la sua
razionalità e il legame con la logica aristotelica, che con la sua visione ha
dominato la scena della filosofia e della scienza occidentali per tredici
secoli, fino al Rinascimento. Dal suo nome deriva la galenica, cioè l'arte del
farmacista di preparare i farmaci nel suo laboratorio. Nei secoli X e XI è
particolarmente noto il suo trattato
De simplicium medicamentorum temperamentis ac facultatibus;
sono molto conosciuti e apprezzati anche quello di Dioscoride Pedanio
[1],
De Materia Medica,
l'anonimo
Medicina Plinii
e
il
De viribus herbarum
di Oddone di Meung, La capacità degli studiosi e dei religiosi di servirsi di
fonti storiche e di culture antiche di vari tipi e origini porterà anche
all'istituzione della famosissima Scuola Salernitana, fondata nel IX secolo, che
riceve dai monaci un contributo decisivo anche grazie all'opera di Alfano
(1015/1020 - 1085), frate di Montecassino, medico e importante esponente della
prima e più importante istituzione medica europea nel Medioevo, considerata da
molti l'antesignana delle moderne università.
IL GIARDINO DEI SEMPLICI
Già nel VI secolo la Regola di san Benedetto prevede la presenza in ogni
monastero di un
infirmarius,
un monaco «pieno di amore di Dio, attento e premuroso» destinato alla cura dei
malati. È lui che distribuisce bevande, elettuari, medicine e gli altri rimedi
che la scienza del tempo mette a disposizione, gestisce l'infermeria mantenendo
acceso il fuoco e curando l'illuminazione notturna e provvede con pazienza alle
richieste dei confratelli indisposti.
Un altro compito di grandissima importanza che gli è affidato è la coltivazione
delle erbe medicinali (simplicia
medicamenta)
in un orto botanico, che viene chiamato
hortus sanitatis
o "giardino dei semplici". In alcuni casi, invece, questa incombenza spetta a un
frate giardiniere che lo supporta in questa attività.
Uno di questi giardini viene descritto nei dettagli in un'antica pergamena di
origine medievale: vi sono presenti sedici diverse specie vegetali (fra cui
rosa, cumino, giglio, salvia e rosmarino) che spesso sono scelte e coltivate non
solo per la loro utilità, ma anche per il loro valore simbolico.
Pur avendo un'origine puramente utilitaristica, infatti, questo luogo assume
anche una valenza religiosa. Considerato un emblema del paradiso e quindi privo
di peccato, è contrapposto al bosco, popolato dalle fiere selvatiche e immagine
del male. Un altro elemento essenziale al suo interno, naturalmente, è l'acqua.
Lo spazio riservato alla coltivazione delle piante medicinali fa parte del più
ampio
hortus conclusus
(cioè "recintato"), il tipico giardino medievale annesso ai conventi, ai
castelli e talvolta anche ai palazzi dei nobili. La Regola benedettina
stabilisce la presenza in ogni abbazia di un'area specifica suddivisa in
frutteto, giardino con piante ornamentali e due orti: uno destinato alla
coltivazione delle piante commestibili per la mensa dei frati, e l'altro
riservato alle erbe officinali.
I monaci, gli eremiti e gli anacoreti seguono una dieta prevalentemente
vegetariana e quindi sono naturalmente portati a interessarsi di vegetali, di
cui sperimentano direttamente le proprietà terapiche. Non si limitano però a
coltivarli, ma raccolgono anche quelli che crescono spontaneamente intorno al
monastero e poco per volta acquisiscono una vasta conoscenza dell'ambiente
naturale e delle risorse che offre.
Ovviamente i prodotti della terra vengono usati in cucina, ma in parte
riforniscono anche la farmacia interna al monastero, dove sono preparati i
rimedi naturali destinati ai malati. Qui inizialmente sono radunati alcuni
mortai, qualche alambicco e una quantità limitata di piante medicinali, ma con
il passare del tempo sorgono quelle che vengono chiamate "spezierie", laboratori
sempre più specializzati e dotati di molti strumenti di lavoro.
I religiosi e gli addetti alla preparazione di medicamenti acquisiscono sempre
più conoscenze e capacità e man mano che i preparati riscuotono successo, la
loro fama si diffonde anche all'esterno, tra gli abitanti dei paesi che sorgono
nelle vicinanze del monastero. Questi cominciano a consultarli per ottenere
diagnosi e cure contro vari tipi di malattie, anche se nutrono un po' di timore
nei confronti dei frati, che ritengono quasi simili a maghi o stregoni.
I servizi "medici" vengono forniti gratuitamente ai bisognosi e forse anche per
questo motivo ben presto l'attività inizia a essere ostacolata. Le critiche non
arrivano tanto da chi non si fida della competenza scientifica dei monaci, ma da
chi, svolgendo la medesima professione negli ambienti urbani, non sopporta una
concorrenza che viene ritenuta sleale.
Oltretutto i conventi non solo ricevono lasciti e donazioni che ne aumentano in
maniera spropositata i patrimoni, ma sono anche esentati dal pagamento di
imposte e tributi.
Sono soprattutto gli speziali, antenati degli odierni farmacisti associati in
corporazioni, che chiedono insistentemente di impedire ai consacrati l'esercizio
della professione medica al di fuori dei conventi. Non si accontentano nemmeno
delle disposizioni ecclesiastiche, che stabiliscono che il servizio prestato
all'esterno debba essere gratuito e svolto
amore Dei erga omnes
[2].
Gli affari dei laici risultano intralciati proprio dalla gratuità di questa
attività.
Uno dei motivi che spinge la Chiesa a limitare comunque le uscite dei monaci per
curare i pazienti è anche il fatto che quelli che intraprendono gli studi di
medicina spesso sono portati a trasferirsi in città. Anche per questa ragione si
susseguono varie ordinanze contro l'esercizio di questa arte da parte dei
consacrati: il Concilio di Reims (1131), di Roma (1139 e 1215), di Tours (1163),
i decreti pontifici del 1227 e 1268, le decretali di Alessandro III (1180) e di
Onorio III (1219) operano in tal senso.
Inizialmente è anche presente un'opposizione interna: i Francescani e i
Cistercensi si dichiarano contro i Benedettini e le loro attività in campo
medico. Questi ultimi, però, ormai hanno creato centri così potenti da riuscire
a evitare le scomuniche sinodali.
In realtà, fin dal 1292 gli stessi Francescani avevano autorizzato alcuni
confratelli a seguire corsi di medicina a Parigi.
LE SPEZIERIE
Nell'alto Medioevo sono soltanto i Benedettini a ospitare nei loro monasteri una
spezieria aperta al pubblico, ma ben presto sono seguiti da Domenicani,
Francescani, Certosini, Cappuccini, Camaldolesi, Carmelitani e Gesuiti. A un
certo punto, addirittura, proprio grazie alle ampie conoscenze
medico-fitoterapiche acquisite dai monaci viene ritenuto opportuno affidare agli
ordini religiosi anche la gestione degli ospedali e degli ospizi esterni alla
struttura religiosa.
Il concetto di
pharmacia
nasce quindi proprio all'interno dei conventi; il termine indica il luogo
preposto alla vendita esclusiva di prodotti medicamentosi, che diventerà il
modello anche per le farmacie "laiche". I documenti relativi ai monasteri attivi
tra il XVII e il XVIII secolo attestano praticamente ovunque la presenza di
spezierie e orti dei semplici.
Con il passare degli anni, però, la figura del monaco speziale subisce una
trasformazione: mentre in una prima fase ha il compito di preparare i rimedi
ordinati dal medico, successivamente opera piuttosto come responsabile della
sorveglianza e dell'amministrazione della farmacia monastica. La realizzazione
dei medicinali viene infatti affidata a figure esterne stipendiate dalla
comunità, che spesso però hanno l'obbligo di risiedere all'Interno.
Per esempio, la spezieria del monastero di San Pietro a Modena è affidata nel
1610 a un professionista secolare che viene pagato 50 ducati l'anno, ma che è
obbligato a rispettare una speciale clausola inserita nel contratto: mentre
svolge la sua attività dev'essere assistito da un frate delegato dall'abate.
Inoltre tutti i prodotti devono essere venduti a un prezzo minore di quello
praticato all'esterno e distribuiti gratuitamente ai frati e ai poveri.
Un'altra situazione particolare è quella della Francia del Cinquecento: in
questo Paese i religiosi, giuridicamente, non possono gestire la spezieria e
fornire prodotti a un'utenza esterna senza essere iscritti alla relativa
corporazione di mestiere, che ha il compito di seguirli e tenerli sotto
controllo. In pratica poi continuano a rifiutare tali restrizioni e infatti
molti si lamentano della loro concorrenza sleale. Questa situazione è ancora
tale poco prima della Rivoluzione del 1789, che mette all'asta tutte le farmacie
conventuali.
Esistono molte farmacie monastiche che continuano a svolgere la loro attività
ancora oggi. Oltre a quelle citate di seguito insieme ad alcuni prodotti
realizzati al loro interno, sono rinomate quella di Trisulti, la Certosa di
Pavia e di Firenze, Montecassino e molte altre.
Alle spalle del convento dei padri cappuccini del Santissimo Redentore di
Venezia, fondato nella Giudecca nel 1576, è ancora presente l'antico orto
affacciato sulla laguna in cui venivano (e vengono) coltivati ulivi e viti,
alberi da frutto, ortaggi ed erbe aromatiche. La spezieria, rimasta pressoché
intatta, è rimasta attiva fino al 1956.
All'interno delle mura della città vecchia di Dubrovnik (Croazia), dentro
l'antico monastero francescano, è ancora possibile visitare la vecchia farmacia
fondata nel 1317, inizialmente riservata ai frati e successivamente diventata
pubblica. Nei suoi locali sono conservati libri molto preziosi di farmacologia e
medicina, centinaia di ricette mediche e strumenti risalenti al XV secolo. È
ancora in funzione e continua a proporre alcune preparazioni realizzate secondo
le antiche ricette.
L'antica spezieria di Santa Maria Novella a Firenze è ritenuta la farmacia
storica più antica di tutta Europa. Già nel 1381, infatti, i Domenicani
vendevano l'”acqua di rose", un rimedio che veniva usato come disinfettante
soprattutto nei periodi di epidemie. I frati coltivavano le piante medicamentose
in un orto attiguo, distillavano erbe e fiori, preparavano essenze, elisir,
pomate, balsami e rifornivano la vicina Farmacia di San Marco, fondata e gestita
dallo stesso Ordine, i cui prodotti erano esportati addirittura nelle Indie e in
Cina. Accanto alla struttura sorge una cappella, che era situata in quella
posizione per permettere agli infermi di seguire la santa messa rimanendo
sdraiati nel letto. Oggi svolge essenzialmente la funzione di profumeria ed
erboristeria e conserva al suo interno una notevole collezione di materiale
scientifico (termometri, mortai, bilance, misurini).
Nel 1705 nasce a Cagliari la prima farmacia dei padri cappuccini presso la
chiesa di Sant'Antonio di Padova sul colle del Buoncammino, che naturalmente
disponeva di uno spazio riservato alla coltura di erbe officinali. Il suo scopo
era provvedere anzitutto alle necessità interne dell'infermeria conventuale;
pare infatti che in seguito all'utilizzo di alcune medicine guaste somministrate
da farmacisti laici, molti frati fossero morti o rimasti invalidi. Oltre a
questo, però, provvedeva anche ai bisogni della popolazione. La sua direzione
venne affidata a padre Geremia da Amalfi, che fece fabbricare il vasellame con
il proprio nome e l'effigie di san Francesco con le stimmate. In seguito alla
soppressione degli ordini religiosi, anche i Cappuccini dovettero lasciare il
convento e si rifugiarono in via Giardini, dove continuarono l'attività
farmaceutica. Nel 1907 tornarono alla chiesa del Buoncammino, dove venne
costruito un nuovo convento. La farmacia, riattivata solo nel 1957, si occupò
della distribuzione dei farmaci gratuiti ai poveri fino alla sua chiusura, nel
1989.
Anche nei monasteri femminili esiste la figura della "speziala" o "aromataria",
i cui doveri sono addirittura specificati in alcuni manuali per confessori. A
Padova, per esempio, nel 1769 sono presenti venti conventi femminili dotati di
altrettante spezierie.
Le conoscenze delle religiose in ambito medico-scientifico sono testimoniate
dalla presenza, nelle biblioteche interne, di libri e manoscritti che trattano
di questi argomenti.
È ben documentata, ad esempio, l'attività in campo farmaceutico delle religiose
bolognesi: quelle del Corpus Domini erano famose per il loro cerotto e
l'"elettuario di Calybes", quelle di San Pietro Martire per l'unguento alle
rose", quelle di San Gervasio per il "vino di ciliege" e quelle di San Lorenzo
per l'”estratto di cappone".
Fra il Sei e il Settecento, inoltre, le monache producono anche medicamenti
seguendo le prescrizioni di ricette mediche, in diretta concorrenza con le
botteghe degli speziali.
In alcuni monasteri si svolgono addirittura corsi sulle scienze farmaceutiche:
già nel 1309 nella sede dei Domenicani di Montpellier una sessantina di frati
insegna fitoterapia ai confratelli provenienti da altri conventi.
A Vallombrosa, accanto alla famosa spezieria presente dal 1689 nasce una scuola
di botanica frequentata da illustri naturalisti, tra cui l'abate Virgilio Falugi
(1626-1707), una delle grandi figure della storia botanica italiana, autore
delle
Prosopopoeiae botanicae.
La perdita delle dotazioni delle farmacie conventuali italiane è dovuta in gran
parte alla soppressione napoleonica degli ordini religiosi del 1810,
disposizione confermata dallo Stato unitario (1866). A volte, per sottrarsi
all'incameramento, i frati affidano le loro risorse migliori a famiglie
compiacenti, sperando di poter continuare in qualche modo la loro attività.
Alcuni capitoli dell’introduzione sono stati tralasciati
GLI ERBARI MONASTICI
«Se le particolari esigenze del luogo o la povertà costringono i fratelli a
raccogliere personalmente i frutti della terra, non si rattristino. Allora sono
veri monaci, quando vivono del lavoro delle loro mani» (48,7-8). Così scrive san
Benedetto da Norcia nel 534 nella sua Regola, invitando a rispettare il famoso
principio dell'"Ora et labora". In questo modo, indirettamente, dà anche un
forte impulso all'attività dei religiosi addetti alla coltivazione delle piante
officinali destinate alla spezieria del monastero.
Oltre che della produzione di rimedi naturali, spesso i monaci si occupano
personalmente anche della classificazione delle varie piante, creando erbari
riccamente illustrati di cui sono rimaste alcune copie conservate in diverse
biblioteche. Si tratta di una particolare categoria di libri che contiene
campioni di erbe schiacciate ed essiccate, soprattutto medicinali, con brevi
descrizioni delle loro caratteristiche e delle loro virtù. A partire dal
Quattrocento questi testi cominciano a essere dotati di disegni anche molto
dettagliati.
Erbario è anche il nome assegnato al locale in cui vengono conservate e
manipolate erbe e foglie, radici e bacche dalle proprietà curative raccolte nei
campi o coltivate nell’hortus
botanicus del convento. Una volta essiccate, sono custodite nell'armarium
pigmentariorum, un armadio dalla struttura robusta e vietato
ai "profani", chiuso in modo tale da non lasciar filtrare troppa aria e
soprattutto luce, per mantenere inalterate le proprietà terapeutiche delle varie
specie.
Accanto alle attività agricole e alla preparazione di medicamenti, quindi, molti
religiosi si impegnano con assiduità ad approfondire le conoscenze in campo
botanico producendo una serie di opere molto interessanti dal punto di vista
storico e scientifico.
Evangelista Quattrami, frate agostiniano, trascorre gran parte della sua vita in
giro per l'Italia a raccogliere piante medicinali. Studia botanica e teologia a
Roma, dove diventa discepolo del Collegio dei medici della città, ma continua
per molti anni a coltivare erbe e a distillarle. Nel 1586 scrive un testo sulla
peste, con l'intento di preservare i confratelli dal contagio, e nel 1597 un
trattato sulla teriaca, una sorta di antidoto universale molto in voga sino al
XVIII secolo.
Anche molti Francescani si dedicano agli studi e alla scrittura: Gregorio da
Padova, naturalista e speziale, redige nel 1663 una farmacopea manoscritta
ricchissima di quelli che definisce «sperimenti segreti» e Donato da
Roccadevrando, speziale del convento di Forniello, si occupa di alchimia e
scrive testi sull'arte distillatoria.
I membri di questo Ordine, poi, si specializzano in modo particolare nella
creazione di erbari. Uno dei più importanti è quello di fra Fortunato da Rovigo,
nato nel 1638, che arriva nel convento di Padova come aiuto infermiere ed è
allievo di Gregorio da Padova, dal quale apprende il segreto della preparazione
di una miracolosa panacea, detta "polvere dell’Algarotto". Studia botanica,
inizia una corrispondenza epistolare con studiosi italiani e stranieri e ne
conosce personalmente un gran numero.
Trasferitosi a Verona, comincia la redazione di un erbario, che completa
recandosi più volte sul Monte Baldo, famoso in quell'epoca per la ricchezza
della sua flora. Inoltre coltiva personalmente le specie più interessanti in un
orto vicino al convento. La sua raccolta si arricchisce di preziosi esemplari
grazie a molti confratelli missionari che gli inviano o gli portano piante e
semi da ogni parte del mondo.
In seguito riassumerà i risultati delle sue ricerche in un primo testo in sei
volumi,
Tavola di Montebaldo fiorito (1690), purtroppo andato perduto, di
cui rimangono solo le prime 54 carte.
Il primo tomo era forse la bozza di un'opera più vasta che Fortunato compone
subito dopo e che doveva comprendere sette volumi in-folio. Riesce a completarne
soltanto sei, mentre il settimo viene ultimato dal suo allievo, fra Petronio da
Verona, che ne aggiunge un ottavo utilizzando il copioso materiale già raccolto
dal maestro, ne redige un nono di indici e note e abbellisce il primo e l'ultimo
di acquerelli e disegni a penna. L'opera, dal titolo
Theatrum Plantarum, è rimasta manoscritta ed è conservata nel
Museo di Storia naturale di Verona.
Come si legge nelle ultime pagine, prima di redigere il suo erbario Fortunato
aveva consultato le opere di ben 348 naturalisti, riportando sotto ogni
esemplare il nome di chi l'aveva descritto per primo.
L'autore è estremamente preciso e dimostra una grande competenza: le piante
presenti sono addirittura 2.352 e ognuna viene esaminata e studiata in modo da
evidenziarne tutte le parti utili a identificarla.
Un altro erbario molto interessante è quello del francescano minore Carlo
Francesco Berta, nato nel 1722 e ordinato sacerdote con il nome di fra Zaccaria,
botanico e naturalista di gran fama, tanto da essere chiamato a insegnare alla
cattedra di botanica di Ferrara. Da buon speziale, cura l'orto del convento ed
esercita la sua attività fino all'età di ottantotto anni.
Lascerà alla biblioteca del Collegio Alberoni di Piacenza tutti i testi che
aveva riunito durante la sua vita, tra cui un volume composto dallo stesso frate
con 148 tavole a colori raffiguranti specie autoctone ma soprattutto esotiche e
un famoso erbario con tavole del Morandi, pittore e naturalista milanese e
iconografo dell'orto botanico di Torino.
È francescano anche padre Giuseppe di Massa Ducale, farmacista speziale
dell'Arcifarmacia dell’Aracoeli a Roma, che nel 1738 crea un erbario contenente
oltre quattrocento piante officinali. Nella sua introduzione leggiamo:
Herbis, non verbis fiunt medicamina vitae.
Herbis, non verbis curantur corporis artus.
Herbis, non verbis fiunt unguenta saluti.
Herbis, non verbis redeunt in corpora vires.
[3]
Oltre che dedicarsi alla redazione di erbari, i religiosi scrivono anche testi
sull'esercizio pratico dell'arte medica e farmaceutica. A Venezia, nella famosa
farmacia conventuale dei Cappuccini della Giudecca, sul finire del Cinquecento
fra Francesco del Bosco da Valdobbiadene, detto il Castagnaro (1564-1640),
entrato in convento del tutto illetterato, si appassiona talmente all'attività
che svolge da scrivere
La pratica dell'infermiero. Diviso in sei trattati, il libro
contiene la descrizione sommaria delle malattie con i relativi rimedi, come
radici purganti, fiori, frutti, alberi, lacrime, grassi, acqua, vini, sciroppi,
elettuari, pillole, succhi, bagni artificiali, estratti, essenze, sali e molto
altro. Il testo ottiene un buon successo e viene ristampato più volte.
Molto interessante risulta un'altra opera, composta anch'essa da un francescano,
che illustra molto dettagliatamente le attività dell'addetto alla preparazione
di medicamenti. Nel 1679 fra Francesco Sirena pubblica a Pavia
L'arte dello speziale, in cui evidenzia quanto sia importante la
formazione per chi si dedica all'arte farmaceutica. Insiste poi sul fatto che lo
speziale debba mettersi al servizio del medico, che per sua natura non ha
competenze né pratiche né manuali per preparare i rimedi e deve quindi
rivolgersi a chi è più esperto di lui.
Il suo testo, quindi, è tutto centrato sul "fare" più che sulla teoria e per
questo utilizza uno stile poco elevato ma facilmente comprensibile, ricorrendo
quando necessario anche a termini dialettali. Ripete gli stessi avvertimenti più
volte e chiarisce che tutto quello che scrive è stato ampiamente sperimentato ed
è quindi degno di fiducia: seguendo le raccomandazioni proposte sarà possibile
realizzare composti efficaci, ma sempre uguali per colore, odore e sapore. I
prodotti secondo l’autore devono risultare belli e buoni: questo è il compito
dello speziale e quello che tutti si aspettano da lui.
L'opera comprende ben 1.216 ricette suddivise in sedici capitoli; nel testo
vengono riportati nel dettaglio i vari processi di preparazione e gli strumenti
di lavoro da utilizzare. Alambicchi, vasi, distillazione, succhi di erbe,
sciroppi, decotti, infusi, polveri medicamentose, oli, unguenti e cerotti
medicati sono solo alcuni degli argomenti trattati.
Tra le curiosità troviamo la descrizione dei "troscici
[4] di vipera", realizzati con la carne
di questo serpente, da cui si ricava un decotto che viene poi mescolato con del
pane grattugiato. Per la preparazione occorre trovare un esemplare femmina,
catturarlo possibilmente nel mese di maggio in luoghi montuosi, ucciderlo, e poi
togliergli la pelle e le interiora lavando tutto con il vino bianco.
Un altro preparato piuttosto particolare è l’"olio volpino", realizzato cuocendo
una volpe intera senza le interiora in acqua e olio, con aggiunta di timo e
aneto. Il tutto viene poi colato per ricavarne un olio, di cui però il Serena
non indica né le proprietà, né l'uso consigliato.
La ricchezza delle voci trattate, la minuziosità delle descrizioni di procedure
e metodologie e le innumerevoli fonti citate dall'autore fanno pensare che
L'arte dello speziale sia stato un manuale indispensabile per
molti farmacisti dell'epoca.
[1]
Dioscoride Pedanio (40-90 d.C. circa), medico, botanico e farmacista
greco che esercitò a Roma ai tempi dell'imperatore Nerone.
[2]
"Per amore di Dio nei confronti di tutti".
[3]
"Con le erbe, non con le parole si fanno i medicamenti utili per la vita
/ Con le erbe, non con le parole si curano le membra del corpo / Con le
erbe, non con le parole si realizzano gli unguenti utili per la salute /
Con le erbe, non con le parole ritornano le forze nei corpi".
[4]
I troscici sono realizzati con polveri mischiate con acqua o succhi di
varia natura; l'impasto viene poi suddiviso in rotelle che si fanno
asciugare all'ombra. L'aspetto finale è quello delle nostre pastiglie,
di cui rappresentano gli antesignani.
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10 giugno 2021
a cura di
Alberto
"da Cormano"
alberto@ora-et-labora.net