e "Lo champagne, il più europeo tra i vini d'Europa"
estratto da: "L'Europa a Tavola" di Léo Moulin - Arnoldo Mondadori Editore
Monaci benedettini a tavola nel refettorio - Chiesa di Badia Fiorentina - Affresco del XV° secolo
Nel
Dictionnaire de gastronomie
leggiamo che «verso la fine dell'era merovingia i
conventi, detentori di tutte le tradizioni gastronomiche, si moltiplicarono
in Francia, dando così grande impulso all'arte culinaria». «Quasi tutti i
progressi compiuti dall'inizio del Medioevo nei diversi settori dell'
economia e della tecnica alimentare, devono essere attribuiti all'opera
metodica e perseverante svolta dalle istituzioni religiose» afferma J.
Claudian.
Il fatto è meno paradossale di quanto possa
sembrare. I monaci, costretti a una dieta rigida e a una vita monotona,
impiegavano volentieri il loro tempo a perfezionare le tecniche di
preparazione di quei pochi prodotti che erano loro permessi; si concedevano
inoltre qualche golosità in occasione della celebrazione di feste religiose
come la Pasqua, il Natale o il giorno del santo patrono.
D'altra parte, il vocabolario dell'epoca ci trae in
inganno. Quando ero bambino confesso di essere stato molto impressionato
dalle erbe e dalle radici di cui si cibavano i contadini di La Bruyère. Mi
capitava di immaginarli mentre dissotterravano grosse radici d'albero e
brucare l'erba dei prati...
Tutto ciò non è affatto negativo, proprio perché,
continuando a cucinare con molta cura piatti semplici e autentici, i monaci
hanno costituito l'origine della gastronomia.
La carne era spesso
proscritta o rigidamente razionata, tuttavia gli uccelli, essendo stati
creati contemporanea-mente ai pesci, non sempre venivano considerati carne
ed era quindi lecito cibarsene. 1 San Colombano, sebbene fosse a
questo proposito molto più rigido di san Benedetto, autorizzava le quaglie.
Sulla tavola dei monaci si
trova ogni tipo di pesce, 2 compresa la trota (a Natale). A Cluny
si vedevano arrivare perfino le cozze: tenera leccornia, ogni monaco ne
riceveva... una.
Raymond Dumay, osservatore
attento, ci fa notare 3 che le grandi tappe gastronomiche del
Medioevo sono i conventi, le abbazie, le metropoli religiose, «situate nelle
regioni già segnalate dai greci e dai romani». Ma grazie a Dumay ci
accorgiamo con stupore che la mappa, indicante i locali con due o tre stelle
di oggi, corrisponde, salvo qualche eccezione, ai percorsi della
ghiottoneria medievale. La grande cucina è prima di tutto un fatto di
tradizione.
Oltre alla birra (dei
trappisti, dei francescani ecc.) 4 troviamo l'assenzio al miele,
precursore del pastis,
l'idromele (d'origine greca e romana, che si beve
ancora oggi in Polonia), il sidro 5 e soprattutto il vino.
Ricordiamo infine che la
Francia deve lo Chateauneufdu-Pape
a Giovanni XXII, originario di Cahors, e che «il ruolo
dei monaci nella selezione dei vitigni e il perfezionamento della vinificazione
è stato predominante fino al XVIII secolo» (J. Claudian).
I monaci bevevano vino 6
non solo al naturale, ma anche aromatizzato (all'anice, al rosmarino, all'
assenzio: come aperitivo), o bollito e speziato con la cannella, i chiodi di
garofano, le mandorle dolci, con un po' di muschio e di ambra come l'
hypocras
(da
Ippocrate), o ancora con un' aggiunta di miele come il
pigmentum, bevuto il
Giovedì santo - dal cui nome deriverà la parola francese
piment, "peperoncino"
o "pimento" - e infine aromatizzato con chiodi di garofano, pepe e noce moscata
7 come il claret,
il cui nome si ritrova in inglese nella designazione
dei vini di Bordeaux. Ancora oggi, d'altra parte,
claret-cup significa
bevanda zuccherata a base di vino rosso.
I monaci erano gli unici a
possedere un laboratorio di farmacia, gli unici a raccogliere i fiori in
montagna e nei boschi, a dissotterrare le polpose e odoranti radici. Di
conseguenza solo loro erano in grado di fabbricare liquori come la
chartreuse, la
trappistine d'Aiguebelle,
la norbertine (che è l'elisir di padre Gauchez) - ma non la
bénédictine, liquore laico, anche se distillato
nell' abbazia di Fécamp. Inoltre erano i soli a produrre i vini speziati e
aromatizzati alle erbe, che vedremo fiorire alla fine del XVIII secolo con il
nome di vermut,
un prodotto così tipicamente italiano al punto di
avere un bel nome tedesco.
I monaci dell' abbazia di
Sénanque fabbricavano il sénancol,
i gesuiti erano soprannominati dai veneziani del XV
secolo Padri dell'Acquavite,
e perfino i severi camaldolesi distillavano un
liquore.
«Tutte le nostre bevande alcoliche e i nostri liquori sono necessariamente passati attraverso un periodo monastico, perché era allora l'unica soluzione» osserva Dumay. L'unica soluzione, perché i monaci erano gli unici ad avere riserve di vino, di frutta e di granaglie, e gli unici a possedere i mezzi finanziari e tecnici per la trasformazione, oltre all'intelligenza e allo spirito di osservazione, uniti all'ingegno, alla capacità di inventare nuovi prodotti, di saperli far invecchiare ecc.11
I monaci che lasciarono
l'Egitto, patria dell'alambicco, si trasferirono in Irlanda passando per le
isole Lerins, dove fondarono le più potenti e attive comunità monastiche che la
storia conosca. Poiché il clima della verde Eire non si addiceva alla
coltivazione della vite, fabbricarono una bevanda alcolica, che doveva fare il
giro del mondo, cioè il whisky,
o whiskey,
come dicono gli irlandesi. «Affermare che dal
monastero alla distilleria non c'è interruzione, bensì continuità, non è un
sacrilegio» scrive Dumay. Non a caso tre delle quattro distillerie che ancora
oggi sussistono in Irlanda si trovano in alcune delle città che furono sede di
famose abbazie. La leggenda che attribuisce a Saint Patrick l'invenzione del
whisky contiene perciò, come ogni leggenda, un fondo di verità. È in ogni caso un dato
di fatto che tra i primi distillatori vi siano il francescano Raymond Lulle e il
domenicano Albert le Grand.
Il fatto che i monaci
irlandesi, proprio perché monaci e irlandesi, viaggiassero in continuazione non
desterà certo stupore. Dal V al X secolo evangelizzarono l'Europa
settentrionale: la Scozia, l'Olanda, la Germania, la Polonia, i paesi scandinavi
e la Normandia, nazioni che i figli di san Benedetto non avevano ancora
raggiunto e che non avrebbero potuto raggiungere così presto. L'onda monastica
si estese fino alla Polonia dove diede origine a Danzica, patria della
goldwasser, e a
Cracovia, città della gastronomia polacca. Come si sa, questi paesi erano poco
adatti alla coltivazione della vite, ma sulle orme dei nostri avventurosi santi
si videro sgorgare fiotti di scotch,
di genièvre,
di schnaps, d'acquavit,
di vodka
e probabilmente anche di
calvados.
Raymond Dumay aggiunge all' elenco la grappa italiana,
che talvolta veniva aromatizzata alla ruta.
L’anice, padre del
pastis, dell'
anisette, dell'
ouzo greco,
dell' arrack libanese e del
raki
turco, viene da lontano. La coltivazione è complessa e
costosa. Nell' 851 compare nella storia dell'Occidente, e nel medesimo anno i
monaci dell' abbazia di Flavigny, in Borgogna, regalano tre preziosi libri su
questa pianta a papa Giovanni VIII.
Come dice Dumay «il
quadrilatero Vittel, Spa, Ems, Carlsbad... che delimita la grande area delle
acque termali, corrisponde anche alla grande zona delle acquaviti alla frutta»,
dall'elisir di Spa al liquore Becher's
della Cecoslovacchia. L'Europa ha sapientemente
disposto accanto a ogni sorgente, dono della natura, il corrispondente antidoto,
frutto dell'uomo: la mirabelle,
il kirsch,
la quetsche
e molte altre acquaviti, nate nei paesi dove fiorirono
le abbazie, irlandesi o benedettine, di Luxueil, di Saint-Gall, di Salisburgo,
di Fulda eccetera.
Dumay, sempre a caccia di correlazioni
alcolico-artistiche, non ha dubbi nello spiegare l'esistenza di Grünewald, Dürer,
Cranach e Holbein attraverso l'azione delle acquaviti alla frutta e l'età d'oro
degli olandesi attraverso il liquore di ginepro. Sullo slancio interpreta il
"brusco declino" della pittura tedesca (dopo Holbein), fiamminga (dopo Jordaens),
olandese (dopo Vermeer) come il risultato della vittoria della Riforma e della
Controriforma, ossia di due puritanesimi...
Un altro contributo
ecclesiastico: il rum,
inventato da padre Dutertre e padre Labat alla fine
del XVII secolo, epoca in cui don Pérignon stava percorrendo la via che doveva
portare dai vinelli della Champagne al gran vino di Champagne.
All'inizio fu una bevanda
molto rozza, destinata ai marinai per camuffare il cattivo sapore dell' acqua
putrida servita sulle navi, e per dar loro la forza di accingersi al lavoro
quando suonava il brandabbasso. L'esistenza dell' equipaggio dipendeva dunque
dalla presenza del rum.
Il possedimento delle terre produttrici di
rum fu la posta in
gioco di aspre lotte. Francia, Spagna, Paesi Bassi e Inghilterra, senza
dimenticare i pirati e i bucanieri, si disputarono, come al solito in modo molto
violento, le belle isole delle Antille, che si abbandonavano con disinvoltura al
vincitore del momento.
Come è già stato detto,
acquaviti, liquori e cordiali di ogni tipo facevano parte della farmacopea
medievale, ed è per questo motivo che i religiosi nutrivano grande interesse per
questi prodotti. Ne sono tuttora un esempio alcuni medicinali: l'acqua di
melissa, inventata dai carmelitani scalzi d'Italia, la polvere dei certosini,
ottenuta in origine da erbe coltivate nel loro giardino di Parigi in rue de
Vaugirard, le Jesuit's drops
e l'acqua di fiori d'arancio, che dobbiamo
probabilmente all'Ordine militare e ospedaliero di Rodi, divenuto più tardi
l'Ordine di Malta.
In seguito (pag. 252), i
nostri autori aggiungono: «Evidentemente la maggior parte dei formaggi
stagionati... ha come punto di partenza, come prototipi, formaggi rustici
tradizionali di ogni paese». Ma solo un ambiente artigianale altamente
specializzato è in grado di «perfezionare e tramandare, da una generazione
all'altra, tecniche così delicate e complesse». E concludono: «Simile attività
poteva svilupparsi e conservarsi solo nei laboratori monastici
[ibidem]
o nelle
collettività rurali, che vivevano all'ombra di queste istituzioni».
Si spiega facilmente la ragione per la quale i monasteri
hanno avuto un ruolo così decisivo nella produzione dei formaggi. Il mondo
monastico si presta molto naturalmente, attraverso i frequenti viaggi, alla
trasmissione delle tecniche, dei "segreti" e dell'abilità manuale. Solo
raramente rischia l'estinzione della propria stirpe, come spesso accade nelle
famiglie durante i sanguinosi secoli del Medioevo. È in grado di accumulare
riserve grazie all'arte di coltivare le terre e alle privazioni dei monaci.
Almeno all'inizio commercializza poco i propri prodotti. Cosa fare con l'orzo se
non la birra? E con l'uva se non il vino? E con le mele, se non il sidro? E con
il miele, se non l'idromele? E con la cera, se non candele per le serate di
studio? Cosa fare infine con il latte prodotto in abbondanza, se non il
formaggio?
Ed ecco perché dobbiamo ai
monaci così tanti e gustosi formaggi: il
maroilles, il
récollet 12 dei Vosgi, il cui nome
ricorda l'origine, il port-de-salut,
il saint-nectaire,
il
saint-paulin, il
mont des cats, il livarot,
il
gournay della
Normandia, il brie
della regione parigina, lo
chaliny della
Piccardia, i formaggi della Franca Contea e della Borgogna, il
béthune, il
pont-l'éveque che fu
inizialmente denominato angelot,
il parmigiano allo zafferano, il
munster (da
monasterium, "monastero"), il
saint-maur,
il maredsous,
il trappiste,
il formaggio di Orval, l'
herve, forse, e tanti
altri ancora. 13
Gli autori distinguono inoltre i formaggi rustici
(«alimenti pratici per il contadino») e i formaggi stagionati,
elaborati «nei paesi in cui la vita monastica era attiva
e la popolazione numerosa e raffinata». È questo soprattutto il caso della
Francia.
I formaggi stagionati sono «alimenti di lusso atti
principalmente a soddisfare il palato dell'uomo che non ha più fame». A partire
dal XVI secolo, il brie è un alimento delicatissimi et gustu suavis, cui i poeti
non esitano a dedicare poemi. Da questo momento, i grandi formaggi occuperanno e
conserveranno un ruolo importante tra gli alimenti essenzialmente edonistici,
come la frutta e i dolci: costituiranno, cioè, il dessert. Rispetto ad altri
dessert alcuni formaggi stagionati hanno un'ulteriore qualità, non certo
trascurabile e molto apprezzata dagli uomini della civiltà mediterranea: quella
cioè di sposarsi con il vino.
D'altronde, tra vini e formaggi esiste un'altra
affinità, che ancora una volta influisce notevolmente sull'atteggiamento
dell'uomo verso questi prodotti. Si tratta della valorizzazione territoriale e
geografica, cioè dell'importanza del territorio, in cui sono stati creati e da
cui ricevono, in un certo modo, le loro qualità e proprietà. I grandi vini, come
i formaggi particolarmente apprezzati, si definiscono in base a un' appartenenza
geografica precisa, che comporta una garanzia di qualità, di "nobiltà" e di
autenticità. Nel caso in cui la provenienza di prodotti di questo genere non sia
nota, il consumatore li considera, in modo conscio o inconscio, dei prodotti
"bastardi" di cui è logico diffidare.
D'altra parte i formaggi freschi, le diverse forme di
latte fermentato e il burro acquistano valore attraverso la nozione di
"freschezza", che si basa su una sfumatura del "gusto", cioè su una categoria di
sapore e soprattutto di odore, oltre che su una constatazione obiettiva, che
riguarda la data di produzione. Di grande importanza, nella mente del
consumatore, è anche il carattere "naturale". Un termine ricco di significato,
che dimostra l'autenticità di alimenti considerati tipici prodotti della
fattoria, espressione che evoca nell'immaginazione del cittadino, nostalgico
della campagna, la nozione di purezza, legata in un certo modo all'idilliaco
paesaggio della campagna lontana dalla promiscuità urbana. "Naturale" significa
alimento che ha conservato le proprietà originarie, non avendo subito passaggi
intermedi e non essendo stato "inquinato" o "adulterato" da venditori senza
scrupoli. Un simile atteggiamento è molto diverso da quello che il consumatore
ha nei confronti dei formaggi stagionati. È possibile affermare che la "qualità"
dei prodotti caseari freschi si basi molto meno sulle proprietà organolettiche
che sulla purezza e l'autenticità.
Tradizione, permanenza, prestigio, virilità da una
parte, ritorno alla natura, alla purezza, femminilità dall' altra: sono questi
senza dubbio i due poli tra cui oscillano le differenze di gusto nella società
di oggi. Di oggi? In realtà di ieri e di sempre.
S. Chapsa1 18 e J.
Descola 19 descrivono i tornei di ghiottoneria a cui si abbandonavano
gli Ordini nei giorni di festa. Ogni Ordine aveva la propria specialità, di cui
custodiva gelosamente il segreto: i carmelitani le frittelle al miele cosparse
di foglie di rosa e pagliuzze d'oro, la Congregazione di santa Caterina il
biancomangiare eccetera.
L'
ovos moles è il nome
di una delle specialità portoghesi, composta da una pasta a base di zucchero e
tuorli d'uovo, cotti nell'acqua di riso (ho mangiato qualcosa di simile a
Toledo: piccoli tuorli d'uovo bazzotti e zuccherati). L'origine è chiaramente
monastica.
In Canada sono soprattutto le
comunità religiose a custodire, nei vecchi libri dei conventi, i segreti delle
antiche ricette francesi. I dolci sono numerosi: le
rissoles,20
le croquignoles,21
le talmouses,
calzoni ripieni di mele e marmellata (mentre le
talmouses d'un
tempo erano tortini di formaggio), mele sorpresa, biscotti all'anice,
brioches,22
janoises (biscotti sottili e zuccherati) eccetera.
"Una
chopine 23
di melassa, un cucchiaio da tè di bicarbonato
di soda disciolto nella melassa, grande come un uovo di burro lavorato, due uova
ben sbattute, mezza tazza di latte, un cucchiaino da minestra di zenzero, un
quarto di cucchiaio da tè di sale. Aggiungere la farina in quantità sufficiente
per conferire alla pasta la consistenza di una normale torta. Imburrare lo
stampo, versare la pasta e fare cuocere in un normale forno moderatamente
caldo."
Nel medesimo convento si preparavano, in occasione di
alcune festività, e con gran divertimento delle Madri e dei bambini, i cavalli
di pan pepato. Nel giorno della sua festa, la Madre Superiora distribuiva un
enorme dolce agli allievi esterni, un tempo reclutati tra le famiglie più povere
della città, soprattutto fra gli irlandesi immigrati. Ancora oggi, nella città
di Quebec, le Sorelle della Carità distribuiscono a Natale i cavalli di pan
pepato.
NOTE:
1
2 Per forza di cose, essendo la Quaresima e i digiuni
rigidamente osservati, in ogni paese i monaci si sono specializzati nella
piscicoltura. In Germania e in Polonia allevavano le carpe (a quanto pare pesci
importati dalla Cina nel XVII secolo). In Borgogna si deve loro la fecondazione
artificiale dei pesci, mentre in Irlanda la pesca organizzata del salmone.
4 Si faceva distinzione tra la "birra dei Padri",
alquanto forte, e la "birra dei conventi", destinata alle donne. Sembra che la
birra inglese di Burtonon- Trent debba il suo particolare sapore alle sorgenti
calcaree della regione, ricche di gesso. È forse opportuno ricordare che in quel
luogo nell'anno 1000 i benedettini vi avevano fondato un'abbazia e che
probabilmente vi fabbricarono della birra?
5 Dalla Normandia la coltivazione del melo e la
produzione del sidro passarono in Inghilterra, dove prosperano tuttora.
6 È stato
calcolato che nel XIV secolo i monaci austriaci bevevano da due a quattro litri
di vino al giorno (cfr. Philibert Schmitz,
Histoire de l'Ordre de Saint Beno/t,
tomo V, pag. 29). In
realtà gli uomini del Medioevo non bevevano mai
l'acqua senza l'aggiunta di qualche liquido
meno tossico: vino, sidro, succo di frutta o estratti di scorza (R. Latouche).
7 È ovvio che nel XIII secolo san Bernardo criticasse
severamente una simile pratica.
8 I vivaisti certosini di Parigi occupavano, ne] XVII
secolo, 27,5 ettari di terreno tra l'Osservatorio, il Val-de-Gràce e il
Lussemburgo. Si deve ai religiosi la diffusione del noce e dell'olivo nella
provincia di Padova e degli alberi da frutto nel Vivarese. A Doberan (Austria) i
monaci avevano costruito una serra sperimentale per studiare la germi nazione
dei semi. Nell'Europa centrorientale si deve loro la coltivazione del papavero,
destinato a supplire alla mancanza dell'olio per l'illuminazione.
9 Alla sua fondazione un'abbazia cistercense in Sardegna
ricevette 10.000 pecore, 1.000 capre, 2.000 maiali, 500 giumente, 100 cavalli...
Nell'VIII secolo l'abbazia di Fulda possedeva 15.000 aratri. Nel 1300 Winchester
contava 2.000 montoni selezionati.
10 Il clementino è il risultato di un incrocio naturale
tra 'il mandarino e il melangolo ed è stato scoperto nel 1902 dal frate Clément
nell'orfanotrofio di Missergain. È l'abate Thivolet che ha "prodotto" la fragola
di Virginia. È il canonico Valeriano (XVI secolo) che ha diffusola coltivazione
del fagiolo. È l'ordine di Malta che trasporta la terra dalla Sicilia a Malta
per coltivare l'arancio. È il padre Plumier che scopre l'arachide nelle Antille,
che le dà un nome e la diffonde. Dobbiamo ancora ai religiosi il gelso, la
begonia, la camelia portata dal Giappone dal padre gesuita G.I. Kamel
(1661-1706), il caffè brasiliano e tante altre cose.
11 La stessa osservazione vale anche per i formaggi.
12 Formaggio prodotto dai
frati recolletti. [N.d.T.]
13
Compreso, se prestiamo fede a Padre Lélong, il
camembert, di cui Marie Harez ricevette la
ricetta da un prete refrattario...
14 Pasticcini a base di crema
pasticciera. [N.d.T.]
15 Piccoli pan pepati.
[N.d.T.]
16 Dolci di pasta sfoglia.
[N.d.T.]
17 Un tipo di frittelle,
denominate "peti di suora" o "sospiri di suora".
[N.d.T.]
18
La Vie quotidienne au Portugal en
1775.
19
La Vie quotidienne au Pérou, 1710-1820.
20 Pasticcini rustici.
[N.d.T.]
21 Pasticcini croccanti.
[N.d.T.]
22 Una sorta di panettoncini.
[N.d.T.]
23 Antica misura francese di
capacità pari a mezzo litro. [N.d.T.]
il più europeo tra i vini d'Europa
Dieci motivi mi inducono a credere che lo champagne sia
il più europeo dei vini, anche se lo sono per definizione e in ugual misura
tutti i vini d'Europa. Mi sembra tuttavia che lo champagne sia quello
maggiormente carico di significati e di caratteristiche europee, ed è per questo
che lo propongo come il più europeo dei vini.
Il primo motivo è il seguente.
Il vino di Champagne ha
origini doppiamente cristiane: non solo è il risultato degli studi di un
ecclesiastico, ma è anche il frutto della coltivazione della vite che ha origini
religiose.
Parlare di vino nell' alto
Medioevo vuol dire tener conto dei difficili problemi di trasporto e di costi,
l che venivano superati o evitati coltivando la vite un po' ovunque,
preferibilmente vicino a un corso d'acqua navigabile (e molti all'epoca lo
erano, poiché il pescaggio delle imbarcazioni era limitato), o vicino a una
strada, quando questa esisteva! Ma poteva anche succedere, come ci riferisce R.
Latouche, che una città di una certa importanza come Reims, dove Clodoveo si era
fatto battezzare, promuovesse la coltivazione di viti su terreni che, a prima
vista, potevano non sembrare particolarmente adatti. È il caso dei vigneti della
Champagne.
D'altra parte, simile in
questo a tanti altri prodotti e a tante altre scoperte della nostra storia, lo
champagne deve la sua creazione a un monaco benedettino dell'austera
Congregazione di Saint - Vanne, celleraio dell' abbazia di Hautevillers. Il suo
nome era don Pérignon (1638-1715).2 Fu lui che, alla fine del XVII
secolo, "inventò" lo .champagne. Ricordiamo brevemente come don Pérignon riuscì
a trasformare questo
vin gris,
che non aveva particolari qualità se non quella di una
leggera tendenza a produrre bollicine, nel vino color biondo oro a noi così
familiare.
Don Pérignon scoprì il
vantaggio che poteva trarre dalla caratteristica proprietà dei vini
champenois di
fermentare parzialmente durante la prima fase, e di intorpidirsi durante
l'inverno per risvegliarsi in primavera. Da un vino che fino ad allora faceva
solo bollicine ottenne un gran vino frizzante. È un esempio dello spirito di
osservazione, tipicamente europeo, senza il quale non è possibile elaborare
alcun metodo scientifico; la scienza e la tecnologia sono contemporaneamente
figlie e madri dell'Europa.
Il secondo merito di don Pérignon consiste nell' avere
mescolato, contro tutti i preconcetti dell'epoca - un'altra dimostrazione della
peculiare capacità di innovazione occidentale -, uve prodotte da viti coltivate
su terreni differenti, garantendo così una grande stabilità della qualità e
probabilmente un gusto migliore.
Réné Gandilhon, nel
fondamentale libro sulla Naissance du
Champagne, ha descritto il nostro uomo in
azione. Otto o dieci giorni prima della vendemmia si faceva portare «parte
dell'uva destinata a comporre la prima cuvée,
che assaggiava a digiuno la mattina del giorno
seguente, dopo averla lasciata un' intera notte all'aria aperta sulla sua
finestra». Gandilhon precisa che «a seconda delle annate, del tempo, del gusto
dell'uva, dei diversi vigneti, egli componeva le sue
cuvées, sposando
l'uva di un dato vitigno con quella di un altro, senza mai sbagliarsi»,
ottenendo così delle cuvées
proporzionate «di diversi gradi di perfezione».
Inoltre si vendemmiava preferibilmente «quando c'era nebbia», oppure rugiada; il
nostro esperto enologo sottoponeva la scelta dell'uva, la sgranatura dei
grappoli e così via a regole altrettanto precise e minuziose, elaborate nel
tempo.
Nel XVIII secolo i religiosi
di Hautevillers non si limitavano a mescolare solo diversi tipi di uva ma anche
differenti tipi di vino, con grande scandalo dei vignaioli. Constant Bourquin
protesta contro l'estensione di questa pratica che «fa passare nelle
cuvées tutti gli
asprini della Champagne». A suo parere don Pérignon, un buon artigiano del vino,
aveva voluto assemblare solo i crus
che circondavano l'abbazia «per farli cantare insieme
in un'unica sinfonia», come poeticamente scrive. Tutto questo è possibile.
Tuttavia siamo poi così sicuri che il nostro monaco, desideroso di guadagno e
azzeccagarbugli – nel solo interesse della sua comunità - "assemblando" non
abbia avuto un secondo fine commerciale? Comunque sia, lasciamo a lui il merito
di avere inventato così "nobili" miscugli, e di avere sperimentato che il vino
di Champagne blended
era migliore. Non è cosa da poco, anche se sono stati
poi «una cinquantina di esperti anonimi e dimenticati» a contribuire al successo
dello champagne moderno, come ci riferisce Frank Schoonmaker, e anche se alcuni
commercianti hanno poi approfittato della pratica di mescolare vini, per così
dire, di diversa qualità.
Chissà se don Pérignon
aggiungeva al vino del liqueur de tirage
uno sciroppo di zucchero di canna (attualmente 26 gr
per litro), al fine di garantire la presa dello zucchero, come fanno oggi tutti
i produttori? È quasi certo che non lo facesse; si affidava poi ai benefici
effetti della luna di marzo, travasando solo in quel momento, cioè tra il 10 e
il 14 del mese. Cosa poteva valere un simile vino non
chaptalisé3
durante gli anni in cui la maturazione dell'uva
non era sicura? Spumava altrettanto bene? Sorge questo dubbio, anche se non
bisogna mai dimenticare che i nostri antenati erano meno esigenti.
Frank Schoonmaker, a proposito
di don Pérignon, afferma che «fu senz'altro tra i primi a sperimentare i tappi
di sughero, allora molto rari in Francia», al posto della stoppa oliata (o
ricoperta di sego!) utilizzata all'epoca. È rilevante il fatto che don Pérignon
- e poco importa se fu un altro - prese in prestito dalla Spagna il tappo di
sughero, senza il quale sarebbe stato impossibile produrre lo champagne, il più
vivace dei vini. In realtà non c'è niente di sorprendente in tutto questo. Come
monaco era sempre al corrente delle novità, poiché i religiosi dell' epoca,
eterni pellegrini, erano eccellenti agenti di diffusione delle nuove tecniche e
dei nuovi prodotti: letamazione della terra, piante sconosciute, liquori e
acqueviti, ingrassamento dei maiali, allevamento dei tacchini. Avremo in seguito4
occasione di riparlarne; per ora è essenziale constatare che, senza la Spagna,
lo champagne non avrebbe potuto essere messo a punto.
Senza la Spagna e senza... l'Inghilterra. Poiché per
contenere, nel senso proprio del termine, vini di pressione pari a quattro,
cinque atmosfere, dovevano essere utilizzate bottiglie meno fragili di quelle
utilizzate in Francia e in Italia. Era necessaria la spessa, scura e pesante
bottiglia oggi a noi familiare, messa a punto in Inghilterra tra il 1660 e il
1670. È inutile dire che, conformemente a un' antica tradizione, il diritto
dell' "invenzione" dello champagne e della sua bottiglia è stato a lungo
controverso. Come è logico, l'autore inglese l'attribuisce all'Inghilterra.
Bollinger, Deutz, Heidsieck,
Krug, Mumm, Roederer, Taittinger, Moet: chi
non si è mai domandato il motivo per cui così tanti champagne, e tra i più
illustri, portano nomi di derivazione germanica?
Nel 1829 Jacques Bollinger, originario del Wurttenberg,
indusse la famiglia della moglie, i conti di Villermont, a commercializzare
alcuni suoi prodotti. I figli introdussero poi lo champagne sul mercato
americano.
La ditta
Deutz e Geldermann è
stata fondata a Ay, nella Champagne, da William Deutz e Pierre Geldermann,
entrambi originari di Aix-la-Chapelle. Anch'essi hanno contribuito a diffondere
il gusto dello champagne nel mondo.
Florenz-Louis Heidsieck,
originario dello SchleswigHolstein, sposò nel 1785 la figlia di un negoziante di
lana di Reims (nella storia della Maison
ci sono altri nomi di simile derivazione:
Piper, Kunkelmann, Walbaum).
Uno dei suoi nipoti, Charles-Henri, esportò lo
champagne in Russia nel 1811. Il saggista Forbes constata che l' espansione
dello champagne (Ruinart, Heidsieck, Jacquesson)
ha seguito da vicino gli eserciti di Napoleone
in Germania, in Moravia, in Polonia. Due delle attuali grandi
Maisons sono state
fondate all'epoca di Napoleone: Henriot
nel 1808 e Pierre
Jouet nel 1811. Ah! se la Francia di Napoleone
si fosse limitata solo a questo tipo di invasione...
Joseph Krug fondatore dell'omonima ditta era originario
di Magonza, allora città libera. Estese in seguito la sua attività in America.
Il protestante P.A. Mumm era originario di Rudesheim,
sul Reno, dove la famiglia possedeva importanti vigneti. La ditta è stata
fondata nel 1827.
È un certo monsieur Dubois che
nel 1765 fondò quella che doveva diventare la
Maison Roederer. Tutto quel che si sa della
famosa ditta è che fu diretta all'inizio del XIX secolo da N.H. Schreider. Non
avendo figli chiamò al suo fianco il nipote, Louis Roederer, che diede
all'azienda un grande impulso, oltre al famoso nome rapidamente conosciuto negli
Stati Uniti, in Inghilterra e perfino in Russia, fino allora feudo esclusivo
della Veuve Clicquot,
del Moet
e del Ruinart.
È su richiesta del cantiniere dello Zar, lamentatosi
del fatto che le bottiglie destinate all'Imperatore fossero identiche a quelle
aperte dai suoi sudditi, che fu creata la bottiglia di champagne in vetro bianco
esistente ancora oggi: il famoso Cristal
Roederer.
Anche Taittinger è un nome di
origine germanica, che alla corte di Carlo V apparteneva a uno scudiero
dell'Imperatore. Ma per quanto lontano si possa risalire nella storia della
Maison, si sa
solo che si trovava in Lorena, da dove emigrò dopo la guerra franco-tedesca del
1870.
I Moët sarebbero (molto) "alla
lontana" di origine olandese ("Moet" in olandese). Inoltre, contrariamente a
quanto è stato spesso detto, il fondatore della
Maison Jacquesson (nel 1798) non è d'origine inglese, ma è nato a Chàlons il 5 agosto 1778. Lo
"Champagne dell'Imperatore" non poteva non essere francese!
È quindi evidente che anche senza lo spirito
d'intraprendenza germanico lo champagne sarebbe stato conosciuto in tutto il
mondo. Il dinamismo tedesco ha forse contribuito a diffonderne il gusto più
velocemente in paesi lontani. Non è comunque poco. Ed è un punto in più a favore
della nostra tesi sul carattere europeo dello champagne: Francia, Spagna,
Inghilterra, Germania. È stato necessario il contributo di quattro nazioni, per
far saltare il tappo (che, detto tra parentesi, è un'eresia) in tutti i paesi
del mondo.
Lo champagne è europeo anche
per altri motivi. Non esiste un altro vino in cui collaborino a tal punto
l'opera della natura e l'azione dell'uomo, l'artigianato quotidiano e la scienza
più avanzata, la tecnica più rigorosa e il gusto più raffinato. «Si vendemmia
come se l'uva fosse oro» scrive Dumay. Si pigia senza violenza. Ogni bottiglia è
remuée ("agitata") a mano, in modo da far scendere il deposito della fermentazione nel
collo. In seguito viene dégorgée
("sboccata") sempre a mano. Vi si aggiunge del
liqueur d'expédition,
un miscuglio a base di zucchero di canna candito
disciolto in vini di Champagne di grande qualità (a volte nell'acquavite di
qualità superiore). A seconda della quantità immessa nella bottiglia, il vino
viene detto extra-sec, gout américain
("gusto americano"),
sec, demi-sec o
doux. Il
non-dosé fa
eccezione.
Constant Bourquin è contrario
a un metodo simile, che considera un' eresia, anche perché don Pérignon non
l'avrebbe mai utilizzato. «Chi potrebbe mai pensare» scrive «di ammorbidire un
Montrachet, uno Chambertin,
uno Chateau-Lafite
con un infuso di sciroppo di mele?» Dal suo
punto di vista il solo champagne, degno di questo nome, è quello che non ha
ricevuto alcuna aggiunta, lo champagne brut de
brut, detto anche
brut nature o
brut zéro. Perché il
preteso brut stesso è leggermente edulcorato (da 0,25 a 2%)! Con la caratteristica franchezza
Bourquin spezza, come sempre, una lancia in favore del vino naturale, che non
sopporta alcun inganno. «Secondo me, solo questo è il vero champagne, anche se
non tutti sono d'accordo. Tutti gli altri vini sono degli spumanti più o meno
buoni, adatti tutt'al più a terminare un pranzo di nozze popolare.»
In generale condivido
l'opinione di Bourquin, sebbene sia un po' brutale, tuttavia la natura umana è
debole e complessa. Infatti lo zucchero e tutto quello che è dolce non mi piace,
se non sotto forma di miele (e in particolare di miele greco liquido); non
apprezzo neanche lo champagne gout américain
o demi-sec,
che tanto piace a mia madre. È una signora
molto anziana, che deve questo gusto alle umili origini, all'età e a una
femminilità caratteristica dei primi anni del Novecento... Ogni volta che vado a
trovarla devo perciò bere del demi-sec
che, benché io non lo ami particolarmente, non posso
rifiutare. E comunque, quando mia madre non ci sarà più, se mi capiterà ancora
di dover bere dello champagne demi-sec
lo farò senza ripugnanza, poiché il suo gusto sarà
legato al ricordo. Non mi stancherò mai di ripeterlo: noi mangiamo e beviamo in
compagnia dei nostri ricordi, anzi assaporiamo i nostri stessi ricordi.
Ma ritorniamo all'oggetto del
nostro studio. Lo champagne dosé,
o assolutamente naturale, è comunque una creazione
dell'uomo. Por essendo il meno naturale dei vini è tuttavia un autentico
prodotto della natura, assoggettata e rispettata, della terra e della luce della
Champagne e infine del tempo (dai cinque ai sei anni). Il Tempo, la Natura e
l'Uomo: un'ipotetica trilogia europea.
Un'altra caratteristica europea è rappresentata dalla
regione viticola Champenoise, la più piccola d'Europa e probabilmente del mondo:
appena 12.000 ettari, ossia l'equivalente della superficie di Parigi. Il più
famoso di tutti i vini non deve quindi la sua rinomanza alla quantità, ma alla
qualità. È bene che gli europei lo sappiano, perché a volte si sentono
schiacciati dalle masse russe, cinesi o indiane: noi non siamo mai stati
numerosi, solo il 25/30% dell'intera umanità, tuttavia abbiamo sempre avuto un
ruolo molto importante sulla terra. Quello che conta è la qualità.
Di questi 12.000 ettari, circa
10.000 sono coltivati da 20.000
propriétaires-récoltants, parte dei quali
vendono l'uva alle grandi aziende; altri (quasi 10.000), detti
récoltants-manipulants,
addirittura producono il vino. Un centinaio di
Maisons de Champagne,
che coltiva solo il 15% dei vigneti, commercializza
circa 1'80% della produzione.
Ogni azienda ha un "segreto",
una ricetta di fabbricazione e delle tradizioni proprie, anche se vi sono sempre
delle innovazioni. È il caso dell' R.D. (Récemment
Dégorgé, "recentemente sboccato") di Bollinger,
delle "cuvées speciali" di Piper Heidsieck e dei
millésimes.
Lo champagne non è il prodotto standardizzato
di una gigantesca sovchoz
o di una grande cooperativa, bensì il risultato di
lunghe lavorazioni artigianali e il frutto di diversi vitigni, microclimi,
comuni, pendii, viticoltori e di altri innumerevoli particolarismi. Devo forse
ripetere il solito leitmotiv?
Le caratteristiche di ogni
tipo di champagne si ritrovano non solo nel gusto
(sec, doux, brut ecc., di cui si è già parlato) e nelle tradizioni delle diverse
Maisons ma anche nel
continuo affinamento e perfezionamento, di cui sono un esempio il famosissimo
blanc de blancs,
proveniente dalla sola uva bianca (poiché il vino di
Champagne è per il 75% il prodotto di uve nere), e i
crémants, vini dotati
di minore effervescenza (a causa di una più debole aggiunta, prima della seconda
fermentazione, di liqueur de tirage).
Prima dell'”invenzione” di
don Pérignon, il colore dei vini della Champagne era chiamato "occhio di
pernice": «chiaretto, fulvo, rosato, giallino tra bianco e rosso», come scrive un cronachista citato
da Dumay. Da questo particolare vin gris
è stato ottenuto uno champagne
rosé, secco e
leggero, definito dagli abitanti della Champagne "alquanto originale".
Preferiscono infatti limitarsi al loro liquore d'oro che, come scrive il poeta
americano Alan Seeger, morto in Champagne nel 1916,
«concentrates the sunshine and the beauty of the
world».
Si può anche bere champagne
nature, o
calme, come si
diceva un tempo, cioè un vino imbottigliato prima della seconda fermentazione,
un vino bianco (Côte de Blancs)
o rosso (Bouzy),
«molto vicino alla natura», scrive La Reynière,
«un po' ... fraterno, e rustico nella sua eleganza». In una civiltà come la
nostra è positivo che, nel caso di un vino così sofisticato come lo champagne,
il ritorno alla natura sia ancora possibile.
Lo champagne è senza dubbio l'unico vino a essere bevuto
e conosciuto in tutto il mondo. Nel 1909 il numero delle bottiglie vendute
ammontava a 39 milioni (di cui 26 destinati all'esportazione), mentre
attualmente raggiunge all'incirca gli 80 milioni, di cui quasi 35 esportati. Nel
1970 sono stati prodotti 1.580.000 ettolitri, mentre solo 635.000 nel 1971. Una
«catastrofe» scrive «La Revue des Vins de France» del gennaio-marzo 1972. La
raccolta del 1973 è stata per quantità la seconda del secolo. Gli stranieri
hanno assorbito più di 44 milioni di bottiglie, ossia quasi un terzo delle
vendite, pari a un miliardo di franchi francesi, rispetto a un quarto di dieci
anni fa. I primi due clienti stranieri sono Gran Bretagna e Italia, che hanno
aumentato il volume degli acquisti rispettivamente del 26% (10,3 milioni di
bottiglie) e del 21 % (9,8 milioni di bottiglie ).
Gli altri clienti importanti sono nell'ordine: Belgio,
Stati Uniti, Germania, Svizzera, Olanda, Canada, Venezuela, Messico e... le
truppe della NATO in Germania, che precedono la Danimarca con più di 350.000
bottiglie. Le spedizioni si fanno, praticamente, in tutti i paesi del mondo.
Lo stesso Bismarck, il Cancelliere di Ferro, di cui
nessuno potrà mettere in dubbio l'attaccamento al suo paese, diceva: «Il
patriottismo si ferma davanti allo champagne». È «un vino senza terra» scrive
ancora Dumay, opponendolo agli altri vini che «hanno sempre un po' di terra nel
fondo della bottiglia»: il che spiegherebbe in parte il suo universalismo.
Inoltre, è stato il vino più imitato: dall'Unione Sovietica alla California,
alla Germania all' Austria, all'Italia e alla Spagna, non esiste paese che non
abbia tentato di produrlo con esiti più o meno soddisfacenti. Universalità,
diffusione delle tecniche e dei metodi: anche questo è tipicamente europeo.
Ho riservato per ultima, è il
caso di dirlo, la decima caratteristica che fa dello champagne il più europeo di
tutti i vini d'Europa. Come ho già detto, è l'unico vino a essere il risultato
di un taglio, l'unico cioè a essere fatto con vini provenienti da diversi
crus locali e a
volte, quando l'annata è mediocre, anche da
cuvées di annate precedenti.
È il solo caso conosciuto in cui, contro ogni
aspettativa, il taglio dà un composto superiore a ognuno dei suoi componenti. Mi
auguro che succederà così per l'Europa intera...
Per completare il quadro sul carattere europeo dello
champagne, è opportuno segnalare che l'abbazia di Hautevillers, dove nacque e
venne portato sul fonte battesimale, fu non solo un centro di grande cultura ed
erudizione, in contatto con i bollandisti di Bruxelles e gli austeri maurini di
Saint-Germain-des-Prés (don Jean Mabillon e Thierry Ruinart), ma anche la sede
di un' Accademia erudita, diretta da don Barthélemy Senocq. Lasciamo credere ai
puritani che tra l'arte del vivere bene e la cultura vi sia necessariamente
antinomia. Vivere bene? Non vorrei che il mio lettore pensasse alla
folkloristica e falsa immagine dei monaci mangioni e gaudenti, cara ai clericali
del libero pensiero. I reverendi padri di Hautevillers applicavano infatti alla
lettera la rigorosa Regola della Congregazione. Inoltre, come tanti altri
religiosi di grande virtù dell'epoca, non poterono sempre resistere ai severi
appelli del vescovo di Ypres, Giansenio. In fondo lo champagne, vino per
eccellenza della gioia e della luce, è «l' opera, anzi il capolavoro, di un
austero ambiente giansenista» (Réné Gandilhon).
Decisamente, l'Europa è ricca di molte contraddizioni.
Si ricorda inoltre che
l'abbazia di Hautevillers, appartenente oggi alla
Maison Moet-Hennessy,
è diventata una Fondazione "per il dialogo delle
culture". Il primo incontro ha avuto luogo nell'ottobre 1974, sotto il doppio
segno della cultura e dello champagne. La millenaria tradizione dell'abbazia è
quindi ancora viva, grazie all'aiuto spirituale dello champagne.
NOTE:
1
Cfr. il capitolo La cucina dei monaci.
2 In
francese l'appellativo "don" è dom: don Pérignon è quindi dom Pérignon, come il
nome dello champagne. [N.d.T.]
3 Al cui mosto, cioè, non era stato
aggiunto lo zucchero prima della fermentazione.
[N.d.T.]
4 Cfr.
capitolo La cucina dei monaci.
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21 giugno 2014 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net