IL
MONACHESIMO COPTO
di Alberto
Elli
Aspetto
caratteristico del Cristianesimo egiziano, il monachesimo
è un fenomeno che riveste un’enorme importanza nella storia della Chiesa. Esso
ha lasciato un segno profondo non solo nella pietà, nell’etica e nelle
istituzioni della Cristianità copta, ma ha influenzato la Chiesa universale, in
Occidente come in Oriente. Ed è questo certamente il dono più importante della
Chiesa egiziana al mondo cristiano. Come ebbe a scrivere uno studioso francese,
Jean Vergote, in conclusione di un suo articolo su
L’Égypte, berceau du monachisme chrétien: “...
noi possiamo concludere, senza timore di esagerazione,
che il monachesimo è l’istituzione per mezzo della quale l’Egitto ha esercitato
l’influenza più. diretta e più. profonda sulla nostra civiltà occidentale e sul
corso della nostra storia”. Il movimento spirituale del
monachesimo, iniziato verso la metà del III secolo, ebbe infatti un fiorire e
uno slancio quasi miracoloso e oltrepassò ben presto non solo le strette
frontiere del mondo copto, ma anche quelle, ben più ampie, del mondo greco e
latino, diffondendosi in tutta l’ecumene cristiana: dopo un secolo e mezzo, esso
aveva ormai solide radici in Oriente e in Occidente, dalla Mesopotamia fino alla
Gallia e alla Spagna e, un po’ più tardi, fino all’Irlanda.
L’Egitto è
generalmente considerato culla del monachesimo, anche se diverse manifestazioni
del fenomeno monastico apparvero più o meno allo stesso tempo pure in
Mesopotamia, Siria, Cappadocia e anche in Occidente (Gallia, Italia e Spagna),
in continuità con le varie correnti ascetiche che caratterizzarono la vita della
Chiesa durante i primi secoli, in particolare nelle zone sotto l’influenza
giudeo-cristiana. Vero è, però, che il ruolo sostenuto dall’Egitto nella storia
del monachesimo primitivo fu straordinariamente vivido e che in nessun altro
paese la popolazione dei monaci fu così numerosa come nella valle del Nilo:
pertanto il monachesimo egiziano godette fin dall’inizio di una notorietà quasi
universale, grazie anche alle numerose opere letterarie a esso dedicate.
È importante notare
che, per quanto riguarda l’Egitto, il monachesimo non si sviluppò in
Alessandria, città di lingua e cultura greca, ma prevalentemente tra la
popolazione nativa, che parlava il copto, anche se molti dei primi monaci si
presentano come bilingui.
1. IL MONACHESIMO ANACORETICO E
LAUREOTICO
1.1 L’ascetismo
La perfezione
cristiana, predicata dalla nuova religione, trovò, a partire dai primi secoli
dopo Cristo, numerose persone che si sforzarono di viverla in tutta la sua
pienezza. Già se ne trovano tracce negli
Atti degli Apostoli, ma in seguito
divennero sempre più numerose.
La caratteristica di
quanti volevano applicare i consigli evangelici era la verginità, alla quale si
votavano sia gli uomini, detti
continentes, che le donne, dette
virgines (o
viduae, nel caso si trattasse di vedove).
Più tardi queste persone ricevettero il nome di
asceti, dal paragone che Clemente
Alessandrino traccia tra la vita cristiana e la preparazione ardua degli atleti.
Il termine greco
àskesis significa “esercitazione, esercizio ginnico”: come
l’atleta acquista e affina le sue capacità con l’allenamento prolungato, così
anche nella sfera etico-morale è possibile acquistare virtù con attenzione ed
esercizio. Nel contesto del primo monachesimo, l’ascesi non va quindi intesa
esclusivamente in senso negativo, come abnegazione o rinuncia a qualcosa, ma
soprattutto come “esercizio spirituale”. Clemente, tuttavia, considerava
negativamente l’ascetismo, la cui pratica riteneva segno certo della presenza di
un’eresia gnostica. La necessità della continenza, così come proclamata dagli
asceti, si basava infatti per lui su opinioni che nascevano
“dall’odio di ciò che Dio ha creato”. Egli considerava lo stato
matrimoniale superiore a quello verginale: le prove offerte dal matrimonio, dai
figli e dalle preoccupazioni domestiche renderebbero infatti più difficile e
meritorio il distacco da tutto ciò che non sia servizio di Dio.
Il termine
ascetismo non si
applica quindi soltanto agli esercizi di austerità, ma indica anche lo stato di
vita. All’inizio, questi asceti vivevano nel mondo, nelle proprie abitazioni,
praticando un ascetismo “domestico”: conducendo una vita di mortificazione e di
preghiera, tenendosi lontani dai lussi e dai divertimenti del mondo
pagano, essi si dedicavano alle opere di carità,
rimanendo in seno alle loro famiglie e senza separarsi dalla comunità dei
Cristiani.
È solo più tardi che
si manifestò la tendenza alla vita di comunità. Queste persone erano riunite in
“confraternite religiose”, dotate di una certa forma di organizzazione e
sottoposte al controllo del clero locale, specialmente del vescovo. Nella parte
greca dell’impero romano, i membri di queste confraternite erano chiamati
Filopónoi
“amanti della fatica” o
Spudaioi
“zelanti”. Oltre a partecipare alle cerimonie religiose come gruppi organizzati,
distinti sia dai laici che dai chierici, queste confraternite assicuravano anche
tutte le cure quotidiane che le varie chiese richiedevano. Ad Alessandria, i
Filoponoi
furono spesso utilizzati dalle autorità ecclesiastiche anche nelle
manifestazioni contro i pagani o per far pressione sui funzionari imperiali.
1.2
L’anacoretismo
All’ascetismo nel
senso indicato succedette
l’anacoretismo, a volte indicato anche come
eremitismo. I due termini, benché a volte usati quali sinonimi,
hanno tuttavia una diversa valenza.
Il termine greco
anakhóresis,
propriamente “il ritirarsi”,
designava, in Egitto, la “fuga
(nel deserto)” di tutti coloro, a volte intere comunità che, per un motivo o per
l’altro (spesso per sottrarsi all’oppressione fiscale o per motivi penali),
avevano bisogno di farsi dimenticare per un po’ di tempo. Tali motivazioni
sociali sono ben lungi dal dare una spiegazione adeguata al sorgere e allo
svilupparsi di un movimento così complesso come quello monastico, il quale fu,
assai più che una rivoluzione sociale, essenzialmente una rivoluzione
spirituale.
Il termine
eremitismo deriva
invece dal greco
eremia, “solitudine, deserto, luogo desolato” e
indica propriamente che tale forma di vita aveva nel deserto il suo ambiente
naturale. Dovrebbe pertanto più giustamente parlarsi di
anacoretismo eremitico o di
eremitismo anacoretico.
L’anacoretismo o
eremitismo è quindi uno stato di vita di
perfezione segregato dal commercio degli uomini, che vide persone isolate
(chiamate
anacoreti o
eremiti) ritirarsi in luoghi deserti,
appena al di fuori dei villaggi, in grotte o tombe abbandonate, e lì consacrarsi
alla preghiera, alla meditazione e a pratiche di severa ascesi. Per garantirsi
la sopravvivenza, l’anacoreta si dedicava anche a lavori manuali, per lo più la
fabbricazione di corde di fibre di palma e di panieri di giunchi, che vendeva
poi nei mercati dei villaggi.
Questa prima forma
visibile del movimento monastico, detta
monachesimo anacoretico, che costituisce
un secondo passo verso la vita religiosa propriamente detta, nasce direttamente
dagli ideali ascetici cristiani dei primi secoli. Prima di designare il monaco
che viveva nella solitudine del deserto, l’anacoreta era infatti colui che era
“solitario” (e questo è il significato della parola greca
monakhós) perché aveva rinunciato a
sposarsi, così da non avere altra preoccupazione che il servizio di Dio. La
separazione dal mondo attraverso l’anacoresi permetteva al monaco di realizzare
concretamente quella rinuncia al mondo che è l’elemento fondamentale dell’ascesi
cristiana.
I
testi ascetici della Chiesa ci forniscono tuttavia un altro aspetto, sovente
ignorato: la fuga nel deserto vista non come “uscita” dal mondo, per condurvi
una vita santa, lontana dalle tentazioni mondane, ma come “entrata” deliberata
nel deserto, come una spedizione, un’invasione, cioè, dei luoghi abitati dal
demonio, per liberarli dal male e renderli a Dio. Liberare la creazione dal
giogo del male e ristabilire quindi il dominio di Dio sul mondo intero
permetteva all’eremita di continuare l’opera di Cristo. Secondo questa
prospettiva, gli anacoreti non vanno considerati dei fuggitivi, ma, al
contrario, dei “pionieri” della Chiesa. Il diavolo stesso si lamenta con
Antonio:
“Dappertutto sono apparsi i
Cristiani e ormai il deserto è pieno di monaci” (ATANASIO,
Vita Antonii, 41, 4). Alcuni autori hanno
insistito sulla rottura messa in evidenza dal movimento monastico: si è mostrato
in particolare come la spiritualità del deserto espressa nella ricerca eremitica
sia un’innovazione in rapporto alla concezione egiziana, piuttosto negativa, del
deserto. Per gli antichi Egizi, il deserto era un luogo di pericolo, sede del
malvagio dio Seth, ma esso era anche collegato con la necropoli ed era quindi
visto come punto d’inizio del viaggio che conduceva dalla morte alla vita
eterna. Il Cristianesimo vi ha sostituito un’immagine biblica, idealizzata: sì
luogo della prova e della purificazione, ma anche dell’incontro con Dio, luogo
privilegiato di un’intimità tra l’uomo e Dio, di un Dio che ricerca l’uomo e
desidera accoglierlo nella sua intimità, di un Dio che vuole lasciarsi trovare
dall’uomo.
La pratica di
ritirarsi nel deserto cominciò nella metà del III secolo, inizialmente come
conseguenza delle persecuzioni di Decio e di Valeriano e successivamente
favorita dallo sviluppo della Chiesa durante la “Piccola Pace” instaurata
dall’editto di Gallieno (262). Il primo caso noto di un cristiano ritiratosi in
eremitaggio è tuttavia quello del vescovo Narcisso II di Gerusalemme (circa
170-212), che all’inizio del III secolo, disgustato per una calunnia, si sarebbe
ritirato in solitudine nel deserto. Si citano anche i casi di Cheremone, vescovo
della città di Nilopolis, all’imbocco del Fayum, che ai tempi della persecuzione
di Decio sarebbe scomparso nel deserto della montagna arabica insieme con la
moglie, e del celebre Paolo di Tebe.
Col IV secolo, alla
fine delle persecuzioni, questo movimento conobbe uno sviluppo prodigioso, non
solo in Egitto, ma in tutto il vicino Oriente. E se nei secoli seguenti godrà di
minor favore rispetto ad altre forme di monachesimo, questa austera forma di
vita troverà sempre fedeli seguaci.
Numerose ipotesi
sono state avanzate per spiegare l’origine di questo fenomeno e, benché nel suo
spirito e nella sua dottrina la vita monastica sia essenzialmente cristiana, ci
si è sforzati di cercarne le radici in tendenze o istituzioni anteriori, sia
pagane che ebraiche.
-
Secondo alcuni studiosi, i precedenti dell’anacoretismo si ritrovano nel
movimento dei
Therapeutes del I secolo di cui ci parla
Filone di Alessandria, o in quello degli
Esseni, setta e confraternita giudaica nata nel II secolo a.C. e
durata per circa tre secoli, descrittaci da Giuseppe Flavio. Filone
Alessandrino, nato ad Alessandria verso il 20 a.C. e morto dopo il 40 d.C., fu
una delle personalità più in vista della cultura giudeoalessandrina del suo
tempo. Egli ci presenta questa specie particolare di gente pia, appunto i
cosiddetti
Therapeutes, come una comunità di tipo
monastico, anacoretico e cenobitico (ossia comunità nelle quali i membri
vivevano singolaramente, oppure in comune), maschile e femminile, dedita a una
vita ascetica severissima, strettamente contemplativa (a differenza dei
Therapeutes, gli
Esseni non praticavano una vita solamente
contemplativa, dedicandosi anche al lavoro). Basandosi sul doppio significato di
servire e
curare del verbo greco
therapéuo, il nome
Therapeutes venne loro assegnato, come
scrive Eusebio di Cesarea (EUSEBIO,
HE, II, 17, 3), che
tra l’altro presenta erroneamente i
Therapeutes come monaci della Chiesa cristiana, “o
perché, come medici, essi liberano dalle passioni del male le anime di coloro
che vengono ad essi e così le curano e le guariscono, oppure a causa del loro
puro e sincero servizio e adorazione del Divino”. Anche dopo la
scoperta dei manoscritti di Qumran, che permettono di meglio conoscere il
movimento degli
Esseni, non si
può assolutamente parlare di dipendenza del monachesimo cristiano da questo
movimento essenzialmente ebraico. Iniziato a fiorire nel IV secolo, quando ormai
Qumran era distrutta da secoli, in un periodo talmente lontano dal giudaismo e
opposto a esso che un’imitazione cosciente di una istituzione settaria giudaica
sembra essere esclusa, il monachesimo cristiano si è sviluppato secondo delle
linee proprie e in maniera indipendente. Ciò non toglie che tra i due movimenti
vi siano dei rapporti e delle rassomiglianze rimarchevoli (in particolare per
gli aspetti del celibato, della povertà e dell’autorità), non sufficienti,
tuttavia, a stabilire una dipendenza tra di essi; tali rassomiglianze, per
quanto grandi possano essere, possono facilmente avere la loro origine in uno
stesso clima spirituale nel quale si sono sviluppati l’Essenismo e il
Cristianesimo. Un’accurata analisi dei testi e di tutta la documentazione
storica e archeologica disponibile, porta infatti a individuare, al di là delle
apparenti rassomiglianze, delle diversità di fondo ben più significative.
Mentre, per esempio, per gli Esseni il celibato derivava dalla necessità di
mantenere la propria purità rituale (considerando essi impuro qualsiasi atto
sessuale), per i monaci cristiani la scelta celibataria nasceva dal desiderio di
non essere divisi tra Dio e il mondo. Gli Esseni, inoltre, pur mettendo i loro
beni in comune, non ricercavano la povertà (se erano poveri, lo erano per forza
delle circostanze, non per propria volontà), mentre i Cristiani praticavano la
povertà evangelica, per non appartenere più al mondo ma a Dio. Infine, mentre
per gli Esseni il potere era in mano ai sacerdoti della razza di Aronne, per i
primi monaci cristiani, quasi tutti laici, il sacerdozio era considerato quasi
incompatibile con lo stato monacale.
- per
altri si tratta della sopravvivenza di certe pratiche dell’antica religione
egiziana (i cosidetti
reclusi di Serapi e i
melanofori di Isi). Queste ipotesi, per
le quali non esistono prove decisive, sono ora generalmente respinte. Alcuni
papiri greci testimoniano l’esistenza di uomini, chiamati
kàtochoi, che conducevano una vita da
reclusi nel
Serapeum di
Menfi. I motivi di questa reclusione non sono molto chiari: secondo tutte le
ipotesi formulate, tuttavia, la reclusione dei
kàtochoi non appare essere ispirata da
alcun motivo religioso, essenziale, invece, nella reclusione monastica. Dediti
al culto della dea Isi e soliti indossare vesti di color nero (donde il nome),
anche i
melanofori di Isi
vivevano in ambienti consacrati, come reclusi. Anche in questo caso, comunque,
nonostante le rassomiglianze di questa istituzione col monachesimo cristiano, le
differenze sono tuttavia tali da rendere estremamente rischioso supporre una
qualche connessione tra i due fenomeni.
- Si è
anche avanzata l’ipotesi che la nascita del fenomeno dell’anacoretismo sia
dovuta all’influenza delle missioni manichee che raggiunsero l’Egitto a partire
dalla metà del III secolo. Benché un’influenza diretta della dottrina dualistica
di Mani sia poco probabile, non è tuttavia impossibile che il manicheismo abbia
contribuito a creare quel clima spirituale di cui si nutrì e in cui prosperò
l’ascetismo degli anacoreti.
- Più
recentemente, dopo la scoperta della Biblioteca di Nag Hammadi, è stata
suggerita l’influenza delle sette gnostiche.
Nessuna di queste
congetture è di per sé convincente; benché ognuna di esse presenti delle
analogie con l’ascesi cristiana (analogie che, d’altronde, si ritrovano nelle
discipline filosofiche o religiose più disparate, che rispecchiano tendenze e
impulsi psicologici profondamente radicati nella natura umana, quali il bisogno
di solitudine, di allontanamento dagli altri uomini, di emancipazione dalle
bassezze fisiche e dalla schiavitù degli agi), è illusorio voler dedurre da
esse, in particolare dai modelli pagani, la derivazione diretta delle prime
manifestazioni del monachesimo cristiano. Con certezza si può solo dire che,
come per tanti altri aspetti della religione cristiana in Egitto, anche
l’origine del movimento monastico è, al livello attuale delle nostre conoscenze,
ancora oscura.
È fondamentale,
comunque, sottolineare che il monachesimo, soprattutto nella sua prima
manifestazione anacoretica, è, nel suo spirito e nella sua dottrina,
un’esperienza autenticamente cristiana: le sue origini vanno ricercate in un
sincero desiderio di ascetismo, in uno slancio interiore a ritornare agli ideali
del Cristianesimo primitivo, in una nostalgia di un Cristianesimo più semplice,
più autentico, più vero.
A questa ricerca
delle radici profonde del Cristianesimo, si univa anche una nostalgia della
solitudine, diventata sempre più acuta man mano che cresceva il numero dei
Cristiani: il più alto grado possibile della perfezione personale poteva essere
raggiunto, più ancora che col ritiro dal mondo, con la solitudine. E fu in primo
luogo in Egitto che questa nostalgia poté concretizzarsi: dapprima gli asceti
lasciarono i loro villaggi e città e si stabilirono fuori dai centri abitati o a
qualche distanza da essi, occupando una grotta o un’antica tomba o una celletta
da essi stessi costruita. Poi, sempre più desiderosi di una solitudine assoluta,
avanzarono in profondità nel deserto, facilitati dal clima e dalla geografia
dell’Egitto che permettevano un isolamento completo. Alla base di questo slancio
e di questa nostalgia del deserto c’è una spiritualità nutrita alla tradizione
dell’Antico e del Nuovo Testamento, alle figure e agli esempi di Elia, di Eliseo
e di Giovanni il Battista. Il deserto era considerato anche il dominio
prediletto dei demoni e per gli asceti, che si consideravano gli eredi dei
martiri; esso era quindi teatro privilegiato per le loro battaglie contro di
essi, battaglie che occupano un ampio spazio nella letteratura agiografica
monastica.
È stata avanzata
l’ipotesi che il “successo” che le forme ascetiche hanno avuto in Egitto e in
Siria sia stato dovuto al fatto che in un’epoca libera da persecuzioni
l’ascetismo venne considerato una forma di martirio spirituale, un sostituto del
martirio fisico, che riempiva il vuoto creato dall’adozione del Cristianesimo da
parte degli Imperatori del tardo Impero romano. Di Antonio si diceva che
“viveva ogni giorno il
martirio della coscienza e combatteva le battaglie della fede” (ATANASIO,
Vita Antonii, 47, 1). Un passaggio del
testo della preghiera di Apollo, superiore del monastero di Bawit, nel Medio
Egitto, del VII secolo, mostra chiaramente come i monaci egiziani, che
continuavano nella loro persona la lotta intrapresa da Cristo contro Satana, si
confrontassero con i martiri antichi:
“Molti santi martiri sopportarono la sofferenza solo per un’ora o un giorno, ma
Apollo sopportò tutti i giorni le sue sofferenze ascetiche”. In
effetti, benché molte fonti agiografiche presentino il monachesimo come nato
dalla ricerca di un sostituto del martirio in un periodo in cui le persecuzioni
sono ormai finite - e come molti storici ancora affermano -, esso nasce
esclusivamente dal desiderio di un’obbedienza radicale alla volontà di Dio. Non
si sceglie questa vita per fare questo o quello, ma in risposta a una chiamata
che dà egualmente la forza di obbedire.
1.3 Antonio
Il modello degli
eremiti è
Antonio. Nato verso la metà del III secolo in un villaggio copto
del Medio Egitto, Koma (Tkmene o Tkeman nei testi copti, Qiman al-Arus in quelli
arabi), da una famiglia benestante cristiana, e rimasto ben presto orfano, con
una sorellina di cui si prese amorevolmente cura, un giorno, quasi ventenne, udì
leggere in chiesa la parola che il Signore aveva rivolto al giovane ricco:
“Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello che
possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, poi vieni e seguimi!”
Sentendola irresistibilmente rivolta a sé stesso, abbandonò tutti i suoi beni
per seguire la parola evangelica, trascorrendo tutta la sua lunghissima vita
(250/251-356) nel deserto, in un ritiro sempre più rigoroso. Dapprima praticò
una vita di preghiera e penitenza in casa, poi, affidata la sorella a delle
vergini che ben conosceva perché fosse allevata nella verginità, seguì l’esempio
di altri asceti del suo tempo e si ritirò in una tomba non lontana dal villaggio
natale, uno degli innumerevoli sepolcri di cui era disseminato l’Egitto pagano,
dove visse fino a 35 anni. Infine,
disturbato dal
numero sempre crescente di persone che venivano a lui attratte dalla sua fama
per chiedergli preghiere e consigli, attraversò il fiume e si inoltrò nel
deserto arabico. Rimase vent’anni (circa 285-305) in un fortino romano
abbandonato nei pressi di Pispir (attuale Dayr al-Maimun), qualche chilometro a
Nord-Est di Beni Suef, dove, attorno a lui, si venne radunando la prima comunità
di eremiti; quindi, desideroso di vivere in maggior solitudine, si aggregò a una
carovana di beduini e andò a ritirarsi in una grotta ai piedi del monte Qulzum,
nello Wadi al-Arab, a circa trenta chilomentri dal Mar Rosso, in vicinanza del
luogo ove ora sorge il monastero di sant’Antonio
(Dayr Anba Antuniyus). Qui, dapprima solo
e poi con la compagnia di alcuni discepoli, visse per cinquantanni, fino alla
morte, avvenuta, all’età di centocinque anni, il 17 gennaio 356. Durante tutti
questi anni Antonio si recò solo due volte ad Alessandria; la prima nel 311, sul
finire della persecuzione di Massimino Daia, sperando, inutilmente, di poter
ricevere anch’egli il martirio; la seconda molto più tardi, nel luglio 337 o
338, per sostenere il vescovo Atanasio nella sua inflessibile lotta contro
l’arianesimo.
Antonio non fu certo
il primo a lasciare la famiglia per cercare di vivere la perfezione della vita
evangelica nella solitudine del deserto. Nella
Vita Copta di Pacomio, vengono attribuite
ad Antonio queste parole:
“'All’epoca in cui mi sono fatto monaco, non c’era sulla terra alcun cenobio,
perché potessi vivere in comunità; c’erano soltanto persone che si ritiravano in
disparte, un po’ fuori del villaggio: ecco perché anch’io ho vissuto una vita
anacoretica’”. Prima di lui, quindi, altre persone, da sole o in
gruppi, come l’eremita Paolo di Tebe, avevano consacrato la loro vita al Signore
nella verginità, penitenza e preghiera.
Paolo di Tebe
(234-347), appartenente a una famiglia ricca e colta, fuggì ancor giovane nel
deserto sulla costa del Mar Rosso durante la persecuzione di Decio. Trovato un
luogo adatto, che sembrava preparato apposta da Dio, costituito da una grotta
con vicino una sorgente e una palma, vi rimase permanentemente, abbracciando per
libera scelta un modo di vita che la necessità gli aveva dapprima imposto.
Secondo Girolamo, Antonio, tentato dal demone dell’orgoglio che gli suggeriva
che nessuno era più perfetto di lui, ebbe un giorno una rivelazione: una voce
celeste gli disse che ce n’era uno di gran lunga migliore: Paolo. Antonio si
recò quindi a trovare il vecchio eremita .
Sulla scia e
sull’esempio di Antonio, il fenomeno dell’anacoretismo raggiunse ben presto
l’aspetto di un esodo dai luoghi abitati; a buon diritto, quindi, egli ha avuto
il titolo di “padre del monachesimo”. Quando ancora era vivo Antonio, infatti, e
sul suo esempio, la pratica dell’eremitismo si diffuse in maniera sorprendente.
Il fascino della sua figura fu rafforzato e continuato dall’influenza
straordinaria esercitata dalla
Vita di sant’Antonio (Vita Antonii). “E così apparvero dimore di solitari sui monti e il
deserto divenne una città di monaci che avevano abbandonato i loro beni e si
erano iscritti nella cittadinanza dei cieli” (ATANASIO,
Vita Antonii, 14, 7).
Antonio
“fu il primo
monaco in senso tipico, più che in senso cronologico; [...] sembra accogliere
una tradizione precedente pur innovandola e perfezionandola” (L. CREMASCHI, a cura di,
Atanasio di Alessandria: Vita di Antonio; Antonio
abate: Detti-Lettere,
Milano 1995, p. 10). Egli è il continuatore e innovatore di una tradizione di
vita.
Benché Antonio non
conoscesse il greco e si servisse di interpreti quando doveva conversare con
Greci, ciò non significa affatto che fosse un illetterato, un contadino
totalmente ignaro della cultura del suo Paese e del suo tempo: i suoi scritti
mostrano che egli aveva una profonda conoscenza della Bibbia e dei temi e
concetti filosofici correnti e che fu per i suoi discepoli un vero maestro di
saggezza. A differenza dei monaci greci, tuttavia, che mostreranno una spiccata
tendenza allo studio delle lettere, Antonio privilegiò sempre l’essere
direttamente “educato da Dio”
(theodidaktos, come lo chiamò lo stesso ATANASIO,
Vita Antonii, 66, 2): egli era arrivato a
un tale stato di perfezione nella
sequela Christi da non essere più “istruito” dagli uomini, ma
direttamente da una “voce” divina.
1.4
II monachesimo semi-anacoretico o laureotico. Gli
insediamenti monastici dei deserti di Nitria, Kellia e Scete.
Sovente il futuro
eremita compiva un periodo di “apprendistato” presso un “anziano” già esperto
della vita ascetica, il quale, per formarlo all’umiltà e al rinnegamento della
propria volontà, gli richiedeva spesso i lavori più umili e più faticosi. Poteva
in seguito ritirarsi in solitudine, dove sarebbe stato a sua volta raggiunto da
altri aspiranti eremiti. Così spesso, più che una solitudine assoluta, certi
eremiti sceglievano una vita in semicomunità: al sabato e alla domenica si
riunivano in una chiesa per partecipare alla liturgia eucaristica, celebrata da
un monaco sacerdote, e prendere un leggero pasto in comune, detto
agàpe, mentre
per il resto della settimana ciascuno viveva nella propria cella, dedito alla
preghiera e all’attività manuale. Tale forma di colonia monastica,
comprendente la
possibilità sia della vita comune che di quella solitaria a diversi livelli, si
chiama
laura e questa
forma di semi-anacoretismo è detta
laureotica[1].
Mentre
l’anacoretismo è tipico della Tebaide, il monachesimo semi-anacoretico si
sviluppò in particolare nel Basso Egitto, soprattutto nei celebri eremitaggi dei
deserti di
Nitria, di
Kellia e di
Scete, nel Delta occidentale.
- Il
sito di
Nitria è posto un centinaio di chilometri a sud-est di
Alessandria, approssimativamente lungo l’attuale percorso Cairo-Alessandria. Il
nome deriva dal fatto che nella regione sono presenti laghi salati dai quali,
come nello Wadi al-Natrun, veniva estratto il
natron (carbonato di sodio), usato per la mummificazione dei
cadaveri o come detergente (esso viene ancor oggi estratto e utilizzato per il
candeggio del lino e per la produzione del vetro). In zona sono comunque
presenti anche numerose sorgenti di acqua dolce.
- Kellia
è più all’interno nel deserto, a circa diciotto-diciannove km da Nitria.
- Un
altro grande insediamento monastico sorse nel distretto di
Scete, zona
desertica di circa 30 km lungo il celebre Wadi al-Natrun. Una leggenda popolare
copta, che sarà ripresa anche dal sinassario arabo, narra che in quei luoghi
avrebbe soggiornato, durante la fuga in Egitto, la Sacra Famiglia e che il
Bambino Gesù li avrebbe benedetti, profetizzando la “vita angelica” che vi
sarebbe fiorita (la definizione “angelica” della vita dei monaci deriva dal loro
tenere lo sguardo rivolto costantemente a Dio, come quello dei cherubini e dei
serafini). Un’incerta ma popolare etimologia copta del nome fa risalire la
denominazione
Scete a un
aneddoto sul grande monaco Macario l’Egiziano: un cherubino gli avrebbe posto
una mano sul cuore, pesandolo come su una bilancia, perciò quel posto sarebbe
stato chiamato con un termine che significherebbe
“il luogo dove si pesano i cuori e i pensieri”.
Questa etimologia popolare continua anche nella tradizione araba, che
attribuisce a Scete il significato di
“bilancia del cuore”. La reale etimologia del termine non è
peraltro conosciuta; non è escluso che ci sia una qualche associazione fonetica
col termine
ascesi (“àskesis” in
greco).
Ammonio (o
Amun), contemporaneo di Antonio e appartenente quindi alla prima
grande generazione di monaci, fu il pioniere e fondatore della vita monastica
nel deserto di
Nitria. Qui Ammonio, che apparteneva a
un’agiata famiglia di Alessandria, si ritirò verso il 330, dopo diciotto anni di
vita fraterna, non coniugale, con la moglie che uno zio gli aveva forzatamente
imposto. Ammonio era un grande amico di Antonio e tra i due ci fu sempre una
grandissima stima; si scambiarono persino alcune visite, benché tra i rispettivi
eremitaggi ci fosse una distanza di tredici giorni di cammino. Uno degli
incontri avvenne nel 337/338, quando Antonio, nel suo secondo viaggio ad
Alessandria, passò da Nitria. È probabilmente in questa occasione che Ammonio,
su consiglio di Antonio, decise di abbandonare Nitria, poiché il luogo, nel giro
di pochi anni, era ormai sovrappopolato di monaci (il sito verà poi
definitivamente abbandonato nel VII secolo).
Nel corso dello
stesso anno, Ammonio diede quindi inizio alla fondazione dell’eremitaggio di
Kellia, più
all’interno nel deserto. In questo insediamento, le celle (è questo il
significato del nome
Kellia) dei
monaci erano sparse su un’area più vasta e ad una più grande distanza l’una
dall’altra e dalla chiesa.
Lo sviluppo di Scete
come colonia monastica cominciò quando il monaco
Macario l’Egiziano, così chiamato per
distinguerlo dal suo grande contemporaneo
Macario Alessandrino (i due Macario erano noti anche coi nomi di
Macario il Grande e di
Macario il Cittadino), vi si ritirò
trentenne verso il 330. A lui ben presto si unirono i primi due discepoli - i
due “giovani stranieri” ai quali la tradizione assegna i nomi di Maximus e
Domitius, detti “i Romani”, e che identifica in due principi, figli illegittimi
dell'imperatore d'Occidente Valentiniano I (364375) - e quindi una numerosa
comunità di monaci, desiderosi di vivere seguendo il suo esempio e i suoi
insegnamenti. All’inizio, a Scete non vi era chiesa e quindi non era possibile
la celebrazione dell’Eucarestia e i monaci si recavano fino alla chiesa di
Nitria, lontana circa 70 km. Più tardi, verso il 340, Macario venne ordinato
presbitero e attorno a lui sorse la prima chiesa di Scete; alla sua morte, verso
il 390, in Scete esistevano ben quattro insediamenti monastici[2], ognuno chiaramente definito
da un nucleo con una chiesa centrale, alla quale facevano riferimento le celle
disperse nei dintorni.
La tranquillità che
regnava nella vallata di Scete, diventata ben presto il baluardo del monachesimo
copto, fu più volte disturbata da incursioni e razzie di briganti, provenienti
dalle oasi di al-Kharga e Dakhla o dall’oasi di Siwa: nel 407-408 Scete fu
devastata dalla bellicosa tribù libica dei Mazici e altre sanguinose incursioni
avvennero nel 410, nel 434 e nel 444. In tutti questi assalti, le costruzioni
monastiche vennero saccheggiate e distrutte e i monaci temporaneamente dispersi
(molti si rifugiarono in Palestina) o portati via come prigionieri; numerosi
furono anche i monaci uccisi, come, nel 407, il famoso Mosè l’Etiope,
ex-brigante, di carnagione nera e di statura gigantesca, e, nel 444, i
“quarantanove martiri di Scete”[3].
Nelle comunità
laureotiche i sacerdoti furono sempre molto pochi e in genere era il monaco
anziano, rispettato per le sue virtù e per la santità della sua condotta, che
veniva ordinato presbitero. Il frugale pasto in comune dell’agàpe, in genere più
consistente di quello consumato giornalmente nelle singole celle e destinato a
rinsaldare i reciproci legami di fraternità, si celebrava nel silenzio il sabato
pomeriggio, prima della celebrazione delle funzioni liturgiche. Questo pasto
aveva inizialmente luogo nella chiesa stessa; più tardi nei pressi della chiesa
sorse un refettorio, con magazzini annessi. Poiché a questi pasti comuni
partecipavano centinaia di monaci, fu ben presto necessario eleggere un economo
incaricato della gestione del magazzino. Un secondo pasto in comune, o almeno
una distribuzione di pane e di vino, avveniva la domenica, dopo la celebrazione
dell’eucaristia, prima che ogni monaco prendesse la via del ritorno verso la
propria cella.
Benché costituissero
una strettissima minoranza, non mancarono tra i monaci del Basso Egitto anche
degli stranieri, riconoscibili dai loro nomi. Tra i più celebri si possono
citare Evagrio Pontico (345-399), maestro spirituale di Palladio, Arsenio,
proveniente da Costantinopoli (già precettore dei principi Arcadio e Onorio,
figli dell’imperatore Teodosio I, era poi fuggito da Costantinopoli, ritirandosi
a vita monastica nel deserto della Nitria; temeva infatti che Arcadio, infatti,
al quale da giovane aveva fatto infliggere una dura punizione, avesse deciso,
ora che era salito al trono, di vendicarsi), e i “due Romani” Maximus e
Domitius, che sono all’origine del monastero di al-Baramus nel deserto di Scete.
1.5
Caratteristiche della vita anacoretica e laureotica
Tra le principali
caratteristiche della vita anacoretica e laureotica si possono citare:
l’isolamento, spesso però relativo; la preghiera; il lavoro manuale per il
proprio sostentamento; l’austerità, spesso durissima; l’assenza di un superiore
religioso e di una regola vera e propria, sostituita da tradizioni orali
veneratissime, consistenti nei detti e nelle massime dei Padri precedenti,
venerati per la loro saggezza.
Il lavoro e il
“risiedere nella propria cella” sono i due aspetti caratteristici di questa vita
monastica; benché non manchino esempi, il monachesimo itinerante, così diffuso
in Siria, era in Egitto praticamente un’eccezione. Il monachesimo individuale,
errante, fu comunque la forma primitiva del monachesimo. Questi monaci
indipendenti, esseri passionati ed “estremisti” nelle loro manifestazioni e di
cui certi racconti ci assicurano che vivevano “come bestie selvagge” nelle
montagne del deserto, alla ricerca di un’innocenza paradisiaca o angelica, senza
legami con nessuno e con nessun luogo, poco controllabili, acquistarono col
tempo una cattiva reputazione: sotto il nome di
remnuoth (“solitari,
uomini di solitudine”) o di
sarabaiti (“erranti”?), vengono presentati come una specie
degenerata di anacoreti.
La preghiera, come
il lavoro, doveva essere il più possibile continua: essa comprendeva, oltre alla
recita dell’uffizio divino a determinate ore del giorno, anche la
meléte,
consistente non solo nell’atto del riflettere e del meditare, ma soprattutto in
una vera e propria ripetizione, a volte silenziosa, più spesso a voce alta, di
un versetto biblico appreso a memoria, o di una breve preghiera più o meno
direttamente ispirata alla Scrittura (la tradizione
latina ha espresso
questo modo di pregare col termine molto vivo e plastico di
ruminatio. Da quanto detto, pertanto, la
meléte non corrisponde
affatto al concetto moderno più noto e diffuso di
meditazione, termine col quale viene
invece spesso tradotta). Essa accompagnava il monaco durante tutta la sua
giornata.
Scopo fondamentale
del lavoro, che non doveva mai essere tale da nuocere alla perfezione
spirituale, era quello di mettere in grado gli eremiti di provvedere alle
necessità della loro vita quotidiana. Coloro che si consacravano completamente
alla
theoria
(“contemplazione, riflessione”), come alcuni gruppi estremi di asceti, quali i
Messaliani, erano delle eccezioni.
Inoltre, i miseri guadagni che i monaci ottenevano vendendo presso i mercati dei
villaggi i lavori d’intreccio con fibre di palma, quali stuoie o cesti (molti
asceti, tuttavia, provavano scrupolo a chiedere denaro in cambio dei propri
prodotti ), o prestando la propria opera per la mietitura delle messi,
permettevano loro di fare elemosine ai più poveri. Infine, il lavoro veniva
sentito anche come un dovere e considerato utile alla disciplina spirituale,
come difesa contro le insidie dell’accidia
(taedium), la malattia della solitudine, ossia quel vago
sentimento di svogliatezza, scoraggiamento, negligenza e tristezza che, benché
non certamente tentazione esclusiva dei monaci, è sempre in agguato per quanti
conducono una vita solitaria e monotona, portandoli al desiderio di fuggire, di
sottrarsi a un cammino che si presenta infinitamente lungo e faticoso.
Non bisogna pensare
che la dura ascesi corporale praticata dai Padri del deserto implicasse il
disprezzo del corpo. Essi ben sapevano dalla Bibbia, con la quale ogni giorno
nutrivano incessantemente la propria spiritualità, che la creazione di Dio è
buona e perfetta; ma poiché l’ascesi si prefigge di trasformare il corpo sotto
l’azione dello Spirito Santo e di purificare l’anima, trasfigurando tutto
l’essere a immagine del Cristo risorto, nella loro ascesi era fondamentale il
digiuno: la fame di Dio doveva supplire alla fame di cibi terreni. Al digiuno, a
volte strettissimo, si aggiungevano le veglie e il rifiuto delle comodità. A
queste forme di ascesi corporale si accompagnava anche l’ascesi mentale, la
“custodia del cuore”: lo sforzo, cioè, di essere in continua conversazione con
Dio, anche durante il lavoro, sfuggendo tutti i pensieri che potevano
distogliere da questo colloquio mistico e non solo, ovviamente, quelli cattivi,
ma anche quelli inutili. I lavori d’intreccio con le fibre di palma erano
particolarmente indicati per questo, perché, per la loro semplicità, diventavano
ben presto “automatici” e permettevano ai monaci di tenere il loro pensiero
continuamente rivolto a Dio. Queste pratiche ascetiche dovevano tuttavia essere
subordinate all’umiltà, alla discrezione, alla carità e all’obbedienza, per non
portare all’orgoglio e alla vanità.
Nella loro apparente
semplicità e rudezza, i Padri del deserto si sforzarono di vivere nella maniera
più integrale possibile l’insegnamento del Vangelo. Essi non furono dei “saggi”
nel senso ordinario del termine, ma, con l’aiuto dello Spirito, essi ricercarono
con umiltà e perseveranza la saggezza cristiana, “celata ai potenti e rivelata
agli umili”. Per la maggior parte i monaci erano gente semplice, non istruita, e
molti non conoscevano il greco. Di alcuni monaci più o meno colti ci è giunta
tuttavia notizia, come Ammonio, Eulogio, Evagrio Pontico e Diocle. In generale,
i monaci respingevano la scienza, vista come parte del mondo dal quale erano
fuggiti e come costante pericolo di distrazione dalle cose divine e di
tentazione all’orgoglio. Tuttavia, ciò non significa affatto, come spesso ancora
si sente dire, che la maggior parte dei monaci fosse analfabeta; come si vedrà,
le regole del monachesimo pacomiano esigevano esplicitamente che tutti i monaci,
e le monache, imparassero a leggere; il leggere era infatti considerato un
esercizio spirituale, una parte dell’ascesi, un aspetto centrale e
indispensabile dell’allenamento spirituale (già nella
Vita Antonii, 4, 1, si menziona l’“amore
dello studio” tra gli elementi dell’ascesi). L’esistenza stessa di una gran
parte della letteratura copta, nonché le nostre conoscenze circa le numerose
biblioteche monastiche, sono prova dell’alto grado di alfabetizzazione
riscontrabile presso i monaci, sicuramente superiore a quello presso la
popolazione.
La vita di questi
Padri del deserto, almeno nei primi tempi, non era vincolata da regole scritte,
basandosi sull’insegnamento tradizionale degli anziani, trasmesso oralmente.
Anche Antonio, infatti, non diede alcuna regola, né scritta né orale, ai suoi
numerosissimi discepoli: le Sacre Scritture, lette e meditate senza tregua,
dovevano bastare e gli esempi degli anziani costituivano un modello pratico di
vita (la
Regola di sant’Antonio, la più antica regola egiziana che sia
stata concepita per una laura e non per un cenobio e la cui stesura risale a un
periodo imprecisato tra la fine del V secolo e il 630, è apocrifa; solo san Saba
(439-532) nel V secolo promulgò una vera regola per gli eremiti, che tuttavia
non ci è pervenuta). Molte volte gli anziani, richiesti di un consiglio,
rispondevano citando brani della Scrittura, mostrando così di essere pienamente
coscienti dell’inadeguatezza della loro parola paragonata alla Parola di Dio.
Presso gli
insediamenti laureotici, veniva tuttavia tacitamente riconosciuta una certa
autorità al sacerdote incaricato di celebrare le funzioni religiose: a lui
infatti spettavano le decisioni più importanti, come accettare quanti chiedevano
di diventare monaci, dare loro l’abito monacale, lo
skema, e anche espellere dalla comunità
chi si fosse eventualmente dimostrato indegno dell’abito che portava. Infatti,
pur conducendo ognuno la propria vita spirituale secondo il proprio ritmo, un
minimo di organizzazione comunitaria era tuttavia indispensabile anche per le
laure.
1.6
La reclusione e la simulazione della follia
Accanto agli
anacoreti che vivevano in isolamento assoluto e a quelli che praticavano il
monachesimo laureotico, alcuni monaci spinsero il loro desiderio di separazione
dal mondo al limite estremo della
reclusione. Questa particolare forma monastica, considerata una
varietà della vita anacoretica, fu molto praticata soprattutto dai monaci di
Siria; essa era tuttavia diffusa anche in Palestina, in Mesopotamia, in Asia
Minore e in Egitto, dove fu, per un certo tempo, praticata dallo stesso Antonio.
La reclusione deve
essere distinta dal semplice “risiedere nella propria cella”, osservanza alla
quale si attenevano i monaci del deserto e destinata a favorire il
raccoglimento. Costoro, in particolare gli anacoreti laureotici, potevano
lasciare le loro celle per rendersi mutuamente visita e soprattutto per
partecipare, alla fine della settimana, al pasto in comune e alla celebrazione
liturgica. I reclusi, invece, restavano perennemente chiusi nella loro cella,
non uscendone neppure per recarsi alla chiesa: normalmente era un sacerdote che
si recava saltuariamente presso di loro per celebrare l’Eucaristia. Un laico di
fiducia portava loro il cibo e ritirava i lavori manuali da vendere. Alcuni vi
si applicarono con uno scrupolo eccessivo: la cella nella quale vivevano era
così stretta e angusta da non permettere né la posizione eretta né quella
coricata; inoltre essa era priva di ogni altra luce e di ogni altra aerazione
che non quelle che filtravano attraverso una semplice fessura del tetto. In
qualche caso la cella, senza tetto, esponeva il recluso ai rigori del gelo e al
calore del sole. Non era necessario ritirarsi nel deserto per praticare questo
genere di vita, al quale si dedicarono anche molte donne (si citano i nomi di
Alessandra, IV-V secolo, e di Maria Alessandrina, VI-VII secolo), per le quali
esso era più indicato che non l’anacoresi nel deserto. Il più famoso di questi
reclusi fu Giovanni di Lykopolis, vissuto per cinquantanni anni in una grotta,
che non lasciò fino alla morte (fine 394 o inizio 395) e nella quale non entrò
mai nessuno.
Altra formula
radicale di monachesimo era la simulazione della follia: l’individuo, ritenendo
in tal modo di manifestare una rinuncia totale alla propria volontà, si faceva
passare per “semplice di spirito”. Anche donne praticarono questa forma ascetica
estrema: si ricordano Isidora la Stolta e Onesima, venerate dalla chiesa siriaca
ma vissute in Egitto.
2. IL MONACHESIMO
CENOBITICO
2.1 Pacomio
Accanto
all’anacoretismo nelle sue diverse varianti (la cosidetta
formula antoniana del monachesimo), nella
prima metà del IV secolo si sviluppò in Egitto un’altra forma di monachesimo, a
opera di
Pacomio (“L’aquila”): il
monachesimo cenobitico
(o
pacomiano), col quale
la vita religiosa ebbe un ulteriore sviluppo. A volte si trova l’espressione
monachesimo antoniano, posto sullo stesso
piano e in contrapposizione al
monachesimo pacomiano: tuttavia, mentre Pacomio è l’inventore del
tipo di monachesimo che a lui si richiama, Antonio non ha “inventato” nulla:
egli è solo il più noto rappresentante del monachesimo anacoretico, che viene
pertanto a volte indicato col suo nome (corretta è invece l’espressione
succitata: “formula antoniana del monachesimo”). Nato
da genitori pagani verso il 287, nella Tebaide, forse a Diospolis Parva, nella
regione di Esna (Shne, la Latopolis dei Greci), Pacomio conobbe il Cristianesimo
nel 312, durante il servizio militare nell’esercito romano: arruolato di forza
durante la campagna di Massimino Daia contro Licinio, venne rinchiuso in una
caserma a Tebe insieme coi suoi compagni e qui restò profondamente edificato dal
gesto di carità di alcuni Cristiani, che si presero amorevolmente cura di loro,
vedendoli nell’afflizione. Promise così che se fosse stato liberato dalla triste
condizione in cui si trovava avrebbe servito il Dio dei Cristiani per tutta la
vita, amando tutti gli uomini. Il giorno dopo venne inviato insieme con le altre
reclute ad Antinoe e qui, giunta notizia della vittoria di Licinio, furono tutti
congedati. Pacomio però non tornò a casa, ma si fermò nel villaggio di Sheneset
(Khenoboskion nei testi greci; odierna Qasr al-Sayyad), in Alto Egitto, sulle
riva destra del Nilo, dove trascorse tre anni praticando l’ascetismo e dove,
nella notte di Pasqua del 313, ricevette il battesimo. Desideroso di praticare
la radicalità evangelica, Pacomio divenne discepolo del monaco Palamone, un
anacoreta che viveva nei pressi del villaggio, vivendo in obbedienza presso di
lui per quattro anni. È in questo periodo che una voce interiore lo esortò a
costruire un monastero, per accogliere i molti monaci che sarebbero accorsi
presso di lui. Palamone, riconoscendo in ciò la volontà di Dio, lo esortò a dare
inizio alla sua opera. Pacomio si stabilì allora nel villaggio di Tabennesi,
presso Dendera, nella Tebaide, sulla riva orientale del Nilo, dove numerosi
discepoli
si riunirono ben
presto attorno a lui, attratti dalla sua fama; il primo fu il fratello maggiore
Giovanni, seguito poi da Psentaesi, Surus e Psoi.
Nonostante le
difficoltà iniziali, dovute alle incomprensioni e alle opposizioni dei primi
discepoli, tra i quali lo stesso Giovanni, che mal comprendevano questa
“rivoluzione” nella tradizione monastica, il numero dei monaci crebbe così
velocemente che egli, dopo aver organizzato la comunità di Tabennesi, si trovò,
verso il 329, quasi costretto a fondare per essi, nei pressi di Phbow (odierna
Faw al-Qibli, non distante da Nag Hammadi), a qualche ora di marcia da
Tabennesi, una seconda comunità (chiamata, con termine greco,
koinonia, da
koinós “comune”) monastica, che divenne
in seguito la casa principale. A queste due prime comunità, altre ne seguirono,
così che alla morte di Pacomio esistevano già ben dieci monasteri, alcuni da lui
direttamente fondati, altri costituiti da colonie di monaci laureotici che
avevano chiesto e ottenuto di essere aggregati alla koinonia pacomiana,
accettandone le regole. A volte erano i vescovi stessi che chiedevano
espressamente a Pacomio di fondare delle comunità nelle loro diocesi, anche se
non mancarono casi di opposizione da parte della gerarchia ecclesiastica, che
angustiarono gli ultimi anni della vita di Pacomio. Nella regione di Tabennesi
sorsero anche tre conventi femminili: due furono fondati da Pacomio stesso e la
direzione del primo di essi, fondato verso il 340 a Tabennesi, fu affidata alla
sorella Maria; un terzo venne fondato successivamente dal discepolo Teodoro a
Becne. Per tutti i suoi monaci, Pacomio fu sempre un vero padre spirituale,
aiutato in ciò da un eccezionale carisma di discernimento spirituale, che gli
faceva leggere nel cuore.
Il fondatore della
koinonia morì nel 347,
“il 14 del mese di pakhons, alla decima ora del giorno” (ossia
alle quattro del pomeriggio del 9 maggio), durante una grave epidemia di peste
che causò la morte di moltissimi monaci. Alla sua morte migliaia di monaci
abitavano nei monasteri pacomiani, anche se il numero di essi è variamente
riportato dagli storici[4].
2.2
Struttura e regola delle comunità pacomiane
Col crescere del
numero dei monaci che, attratti dalla sua fama, venivano a lui, Pacomio si rese
ben presto conto della necessità di incanalare e di disciplinare con leggi e
insegnamenti fermi e precisi l’onda impetuosa dell’entusiasmo monastico. È così
che divenne il primo legislatore del monachesimo, stendendo per i suoi monaci
una “regola” per la vita religiosa in comune
(cenobitica; da
koinós “comune” e
bios “vita” ): l’attività della comunità,
centrata sui tre capisaldi della preghiera, della disciplina e del lavoro,
veniva così regolata fin nei minimi dettagli. E questa organizzazione
“giuridica”, gerarchizzata e centralizzata, è la principale differenza tra la
formula antoniana del monachesimo e il monachesimo pacomiano. Tale regola fu
detta “dell’angelo” perché,
secondo la leggenda, Pacomio l’avrebbe ricevuta dall’alto. Nonostante tale
leggenda, che la vuole ispirata direttamente da Dio, la regola pacomiana non fu
concepita come un tutto in sé concluso, ma si formò gradualmente, sotto la
pressione degli avvenimenti, accompagnando, con successive aggiunte, variazioni
e precisazioni, la non facile crescita della comunità. Il centro della vita
monastica non era più la venerata tradizione orale tipica degli anacoreti, ma ad
essa si sostituiva una regola scritta, il cui modello era desunto dalla
Scrittura e il cui principio fondamentale era il servizio ai fratelli, lo stesso
gesto di disinteressato amore che aveva fatto di Pacomio, pagano, un innamorato
di Cristo. Si evitava inoltre ogni esagerazione nelle pratiche ascetiche,
riportandole a un livello accessibile all’uomo medio; pur lasciando a ogni
monaco la facoltà di imporsi mortificazioni più severe, si sottolineava come la
perfezione non consistesse in un’ascesi rigorosissima, ma in una stretta
osservanza della regola. Da un movimento che si affidava alla pietà individuale
degli anacoreti, il monachesimo venne trasformato, da Pacomio e dai suoi
successori, in una formidabile organizzazione, pilastro fondamentale della
Chiesa Copta. Anche per i monaci pacomiani valevano ovviamente i due principi
fondamentali della vita anacoretica: condurre una vita ascetica e assicurarsi il
sostentamento col lavoro delle proprie mani. Ma mentre presso gli anacoreti
questi fini erano perseguiti individualmente, nel cenobitismo ci si muoveva in
un quadro collettivo, che impediva anche tutte quelle stravaganze ascetiche alle
quali spesso gli anacoreti si dedicavano.
A causa dei numerosi
discepoli di cultura greca che erano entrati a far parte della koinonia
pacomiana e che non conoscevano il copto, le regole di Pacomio e dei suoi
successori Teodoro e Orsiesi vennero ben presto tradotte in greco. Una
traduzione latina fu poi eseguita da Girolamo
(Pachomiana latina). La
Pachomiana latina contiene in effetti quattro differenti testi; la
loro analisi rivela concezioni diverse dell’autorità e della comunità,
difficilmente riconducibili a un’unica persona e corrispondenti pertanto con
molta probabilità a tempi e situazioni diverse; essi rispecchierebbero il
graduale cammino di istituzionalizzazione della
koinonia: dalla pura regola evangelica dell’amore fraterno stilata
inizialmente da Pacomio si giunge, per successive aggiunte e modifiche, a una
regolamentazione minuziosa, che sarebbe opera dei successori Orsiesi e,
soprattutto, Teodoro. È tale rigida regolamentazione finale che ha fatto
paragonare da molti la
koinonia a una caserma rigorosamente
organizzata.
Secondo la
prefazione alla
Pachomiana latina
di Girolamo, ogni monastero pacomiano (“villaggio” se ci si attiene alla
terminologia copta, o “cenobio”,
coenobium, con termine occidentale) era, come tutti i villaggi
copti dell’epoca, circondato da un alto muro e al suo interno si trovavano da
trenta o quaranta “case”, ognuna delle quali ospitava gruppi di quaranta
fratelli; tre o quattro case costituivano una “tribù”. I monaci erano suddivisi
nelle varie case a seconda dei lavori che venivano loro affidati: vi era così la
casa dei contadini, dei fratelli incaricati dell’accoglienza degli ospiti, degli
incaricati del forno, ecc. Oltre alle “case”, destinate ad accogliere le celle
dei monaci, altre costruzioni permettevano lo svolgimento delle varie attività
vitali della comunità: di queste, la più importante era certamente la chiesa,
luogo di riunione (sinassi) per le
pratiche religiose comuni, ma si trovavano anche un refettorio, un forno, delle
officine per le diverse attività artigianali svolte dai monaci, stalle, depositi
e magazzini, un’infermeria, una portineria e una foresteria per gli ospiti. Come
per i Padri del deserto, anche per i monaci pacomiani l’attività principale
consisteva nella fabbricazione di stuoie e di ceste, da vendersi nei mercati dei
villaggi vicini; accanto a questa attività tradizionale dei monaci, se ne
aggiungevano comunque molte altre, indispensabili per la sopravvivenza di
comunità così numerose, quali il lavoro dei campi e la pastorizia, nonché le
molteplici occupazioni interne alla comunità stessa, dai lavori di lavanderia
alla preparazione del pane, ai vari lavori nei laboratori artigianali,
all’accoglienza degli ospiti, alla cura dei malati. Autorità suprema di ogni
monastero era un superiore (pater
o
princeps monasterii
nella traduzione di Girolamo, “l’uomo dell’assemblea”,
prome ent-soouh in copto), al quale,
oltre al compito generale di vigilare sull’intera comunità, spettavano alcune
funzioni in particolare, quali decidere l’accoglienza tra i novizi di quanti si
presentavano alla portineria chiedendo di essere ammessi alla koinonia o
l’allontanamento di quei monaci che si erano mostrati indegni di rivestire
l’abito monacale, sovraintendere alle molteplici attività lavorative dalle quali
dipendeva la sopravvivenza materiale del monastero, vigilare sul rispetto delle
regole; il suo compito principale era tuttavia quello di provvedere alla
formazione spirituale dei monaci, al quale ottemperava con le catechesi tenute
nei giorni di sabato e domenica. I padri di tutti i monasteri riconoscevano poi
come loro capo il padre del monastero di Phbow.
Ogni casa era
presieduta da un preposto
(praepositus, o “l’uomo della casa”,
prome enpei nei
testi copti); a lui spettava il compito di vigilare su tutto ciò che accadeva
all’interno della casa, aiutato in questo suo ministero da un “secondo”
(secundus), la
cui importanza è però variamente considerata nei diversi testi. A questa
funzione amministrativa, egli aggiungeva anche quella di padre spirituale dei
fratelli della sua casa: due volte alla settimana, nei due giorni di digiuno di
mercoledì e venerdì (i giorni di digiuno erano limitati a due, così da
conservare le forze anche per tutte le altre attività di interesse per la
comunità; i monaci che desideravano praticare un’ascesi alimentare più rigorosa
dovevano farlo senza ostentazione: era consuetudine, infatti, mangiare col
cappuccio abbassato sulla fronte, così che nessuno potesse vedere quello che
mangiavano gli altri[5]), egli
teneva loro una catechesi biblica, il cui argomento serviva poi come tema di
meditazione continua durante la giornata lavorativa.
Fondamentale nella
formazione spirituale dei monaci pacomiani era lo studio assiduo della Bibbia: è
dalla Bibbia, dall’Antico come dal Nuovo Testamento, che venivano tratti quegli
esempi viventi che dovevano servire ai monaci come modelli di spiritualità. I
Praecepta di
Pacomio raccomandano con insistenza la necessità dello studio della Bibbia (già
nella prima metà del IV secolo sarebbe esistita una versione in copto sahidico
di quasi
tutta la Bibbia), e
richiedono esplicitamente che tutti conoscano a memoria almeno il Salterio e il
Nuovo Testamento. Il rispetto di questa regola imponeva che tutti i monaci
sapessero leggere, fatto degno di rilievo in un Paese e in un periodo in cui
l’alfabetizzazione, soprattutto nell’ambiente contadino, dal quale la stragrande
maggioranza dei monaci proveniva, era decisamente scarsa. Gli analfabeti
venivano diligentemente istruiti e costretti a imparare a leggere, anche
controvoglia.
La regola pacomiana,
nata dall’esperienza, venne, secondo l’esperienza, sempre più perfezionata.
Sulle orme di Pacomio, uno dei grandi riformatori della vita cenobitica fu
Shenute “Figlio
di Dio”, in arabo
Shenuda. Vissuto a cavallo tra il IV e il V secolo, fu
archimandrita del celebre
Dayr Anba Shenuda o
Dayr al-Abyad (Monastero Bianco) di
Atripe, presso Sohag, a sud di Akhmim. Nessuna fonte greca, né storica né
letteraria, menziona Shenute: questo rimane uno dei grandi misteri della
tradizione cristiana greca in Egitto.
Shenute nacque
intorno al 348 nel villaggio di Shenalolet, moderno Shandanil, sulla riva
occidentale del Nilo, nella regione di Akhmim, e da ragazzino aiutò i genitori
pascolando le pecore. Verso il 371 abbracciò la vita monastica, entrando nel
monastero di cui era superiore lo zio materno Pjol. Dopo la morte dello zio, nel
388 gli succedette nella direzione del monastero e ben presto introdusse una
regola per i monaci molto più dura e rigorosa di quella di Pacomio, secondo i
cui precetti si era fino ad allora retta la vita della comunità. Come già per i
monaci pacomiani, anche quanti volevano entrare nel suo monastero dovevano
rinunciare a tutti i loro beni materiali e fare voto di condurre una vita pura.
La vita di comunità, la cui pietra miliare era l’obbedienza, venne regolata fin
nei minimi dettagli da regole precise; per i trasgressori erano previste
punizioni severissime, anche corporali. Shenute fu inflessibile con sé stesso e
con gli altri: si narra che avesse mandato al supplizio un assassino che, mosso
dal rimorso per un vecchio crimine, era venuto a cercare un aiuto spirituale;
scrisse anche una lettera alle monache di un convento nel quale fissava, per le
varie infrazioni alle regole del monastero, l’esatto numero di colpi di bastone
da infliggere alle sorelle. Si racconta anche che un monaco, percosso da Shenute
stesso per una trasgressione alle regole, fosse morto per la durezza dei colpi
ricevuti. La severità della regola fu tale da provocare talvolta dei fremiti di
indisciplina e di ribellione; tuttavia, nonostante questa durezza di vita, il
fascino della persona di Shenute - al quale non fu insensibile neppure il
patriarca Cirillo, che, a quanto pare, lo volle con sé al Concilio di Efeso del
431 - fu tale che, secondo la versione araba della
Vita di Shenute, il Monastero Bianco, che quando Shenute divenne
abate contava circa trenta monaci e si estendeva su una superficie di neppure
cinque acri, giunse, vivente ancora il grande abate, a occupare un’area di circa
tredicimila acri e a ospitare ben duemiladuecento monaci e milleottocento
monache.
La sua influenza,
nonché il suo potere e il suo prestigio, furono grandi anche presso la
popolazione della regione circostante, che vedeva in lui un
leader nazionale, un avvocato dei poveri
contro le prepotenze dei ricchi padroni terrieri, greci e copti. Numerosissimi
erano i visitatori che venivano a sentire i suoi sermoni o a chiedergli consigli
o benedizioni; tra questi non pochi erano i monaci di Scete o di altri monasteri
pacomiani, ma anche vescovi, funzionari statali e comandanti militari. In una
delle tante incursioni dei predoni Blemmi che in quel periodo devastarono la
Tebaide, ben ventimila persone trovarono rifugio tra le mura del Monastero
Bianco.
La durezza
dell’archimandrita non si diresse solo contro i monasteri, ma, come narra il suo
successore e biografo Besa, anche contro i pagani, ancora numerosi soprattutto
tra le classi più agiate: nei suoi scritti, molteplici sono gli insulti contro
le superstizioni pagane e spesso egli tradusse in azione questi suoi violenti
sentimenti, conducendo di persona attacchi contro i templi pagani e i loro
frequentatori, distruggendo e bruciando.
Come molti altri
monaci, tra i quali Paolo di Tebe e Antonio, anche Shenute ebbe una vita
lunghissima, più che centenaria: secondo la tradizione copta, morì infatti nel
466, alla veneranda età di centodiciotto anni.
Shenute non fu solo
un grande riformatore monastico, ma anche il fondatore nonché maggiore autore
originale della letteratura teologica copta; a lui va il merito di aver portato
il copto, utilizzato fino allora quasi esclusivamente per traduzioni, al rango
di lingua letteraria pienamente autonoma. Shenute fece inoltre del suo Monastero
Bianco un centro di produzione e di raccolta culturale: è qui, infatti, che
venne compiuta la standardizzazione del testo copto-sahidico della Bibbia, che
si diede un notevole impulso alla traduzione di quelle opere dei Padri greci
ritenute adatte a essere introdotte nella cultura copta e che si formò una
grande biblioteca di opere copte.
Quando, dopo
Calcedonia, l’organizzazione ufficiale dei pacomiani scelse la parte
calcedoniana, si originò una scissione all’interno dell’organizzazione stessa;
molti monaci (come Abramo di Farshut, Apollo, Manasse e Mosè), rimasti fedeli
alla tradizione di Dioscoro, lasciarono i monasteri pacomiani e si fecero
fondatori di nuove comunità, le quali non si richiamarono più in maniera diretta
ed esplicita alla regola di Pacomio, ma, seppur non tutte, a quella di Shenute.
2.4
Rapporti tra il monachesimo cenobitico e quello
anacoretico-laureotico
La storia del
monachesimo egiziano viene sovente presentata come una successione di tappe dove
le più recenti hanno soppiantato le più antiche. In realtà, la formula
semi-anacoretica ha costantemente incontrato un successo più diffuso e
soprattutto più durevole della successiva esperienza cenobitica. Il monachesimo
pacomiano è rapidamente scomparso dopo la conquista musulmana: senza dubbio era
troppo economicamente legato alle strutture dell'Egitto bizantino, ma senza
dubbio anche corrispondeva meno alle aspirazioni profonde che avevano fatto
nascere e avevano alimentato l'ideale monastico pensato all'egiziana.
Paradossalmente è in Occidente che il modello pacomiano ha conosciuto la sua più
grande diffusione e si è perpetuato fino a noi. Attualmente, i monasteri che
sussistono in Egitto si iscrivono di più nella tradizione antoniana-laureotica
che in quella di Pacomio o di Shenute, o piuttosto presentano una forma mista:
una laura mutata progressivamente in monastero di tipo semi-cenobitico, ma che
continua a tenere rapporti organici con gli eremitaggi situati in prossimità.
Abbastanza presto, quindi, si osserva una sintesi tra i tipi antoniani e
pacomiani adottata dai membri di colonie monastiche. Soprattutto per ragioni di
sicurezza, gli eremiti sentirono sempre più il bisogno di vivere in comune al
riparo di un muro, pur riservandosi luoghi e tempi di solitudine più profonda.
Si passò quindi gradualmente da una colonia anacoretica a una concentrazione di
conventi, trasformando il semi-anacoretismo delle origini nel semi-cenobitismo
attuale.
All’interno del
monachesimo egiziano è possibile scorgere tracce di una certa dialettica, se non
di una polemica, riguardo all’anacoretismo, nelle sue varie forme, e il
cenobitismo, su quale cioè dei due tipi di vita sia da preferirsi. Benché il
cenobitismo segua cronologicamente l’anacoretismo, molti, sia in Egitto che in
Palestina, consideravano la vita cenobitica come preparazione alla vita
anacoretica ed eremitica. Senza essere prima purificati nel crogiuolo della vita
comune non si sarebbe stati maturi ad affrontare i pericoli e i rischi della
vita solitaria.
Inutile sottolineare
come la letteratura pacomiana sostenga invece la preminenza della vita
cenobitica su quella anacoretica (la
Vita Copta di Pacomio fa riconoscere allo stesso Antonio che il
cenobitismo è migliore dell'anacoretismo). La vita in comune, caratteristica
specifica della
koinonia e
differenza sostanziale tra le colonie anacoretiche e i monasteri pacomiani, ha
la sua ragion d’essere in sé stessa e non è considerata in funzione della vita
eremitica. Viene infatti spesso evidenziato il pericolo dell’orgoglio e di una
ricerca individualistica della perfezione a cui si espongono coloro che si danno
alla vita anacoretica. Nella
Vita Copta di Pacomio, laddove si parla del digiuno, limitandolo a
due soli giorni, si legge: “Coloro
che si dedicano a pratiche di tal genere, come quelli che si ritirano in
solitudine, sono esentati da uffici terreni, che li disturberebbero; ma spesso
si può constatare che si lasciano comodamente servire da altri, e che sono
orgogliosi o pusillanimi, o vanitosi, alla ricerca di inutile gloria umana”.
La via della carità
nel servizio reciproco viene da Pacomio contrapposta alle pratiche ascetiche, a
volte bizzarre, alle lunghe preghiere e ai continui digiuni degli anacoreti.
Parlando dei
“fratelli più. piccoli nel cenobio ”, i quali
“non
si danno a grandi esercizi e ad un ascetismo esagerato, ma procedono
semplicemente, in obbedienza e spirito di servizio, in purità ed osservanza
delle regole”, Pacomio osserva che
“agli occhi degli anacoreti” essi “non conducono una vita perfetta, e sono
considerati di molto inferiori”,
e invece “sono
molto superiori agli anacoreti, perché procedono nello spirito di servizio”.
La
koinonia è anche il luogo in cui i monaci
imparano a correggersi e a sostenersi a vicenda, nell’esercizio della carità;
rispetto alla vita solitaria, pertanto, la vita in comune presenta il vantaggio
della “correzione fraterna”, tema poi ampiamente ripreso da Basilio di Cesarea
(329-379).
Segno della natura
comunitaria dei monaci pacomiani non era solo l’eguaglianza nel vestiario e nel
nutrimento e la cieca e fiduciosa obbedienza ai superiori, ciò che non avveniva
nelle laure, ma anche la povertà individuale, pur in una relativa prosperità
comunitaria. I monaci che entravano nei monasteri pacomiani dovevano infatti
abbandonare tutti i loro beni, mentre quelli che entravano nelle laure li
conservavano.
3. IL MONACHESIMO FEMMINILE
Non bisogna pensare
che il monachesimo, in tutte le sue forme, fosse un’esperienza esclusivamente
maschile. Come il già citato fenomeno delle
virgines e delle
viduae dimostra, fin dai primi tempi del
Cristianesimo anche numerose donne cercarono di vivere la perfezione evangelica.
Anche se non numerose quanto gli uomini, furono
molte in Egitto le
donne che si consacrarono al Signore scegliendo di vivere lo stato monacale; e
benché la grandissima maggioranza avesse abbracciato la vita cenobitica[6], non
mancarono tuttavia donne che praticarono l’anacoretismo, nel senso più stretto
del termine.
L’agiografia
orientale ci ha tramandato il ricordo di numerose donne che si distinsero nelle
pratiche ascetiche. Molto spesso i particolari delle vite di queste donne sono
leggendari e si trovano sovente ripetuti, con leggere variazioni, per personaggi
diversi, divenendo argomento “topico” a sostegno della tesi che anche le donne,
i
vasi deboli
della tradizione monastica, possono giungere a un alto grado di perfezione e di
ascesi. Frequenti sono, per esempio, i casi di prostitute che si pentono e
abbracciano la vita monacale in espiazione dei loro peccati, oppure di donne
della nobiltà che abbandonano gli agi della loro condizione per vivere la
povertà evangelica, oppure ancora il caso di donne che, travestite da uomini,
vivono in mezzo agli uomini e la cui identità viene scoperta solo al momento
della morte. Questi racconti, pertanto, avevano lo scopo di indurre gli
anacoreti a non inorgoglirsi, perché anche le donne erano state capaci di fare
quello che avevano fatto loro. È stato fatto giustamente notare come i Padri del
deserto praticassero l’eguaglianza dei sessi nelle cose dello spirito,
considerando le donne idonee a trasmettere le dottrine spirituali; accanto alla
paternità spirituale dei grandi monaci troviamo così anche la maternità
spirituale delle
amma, le
“madri”, modelli e riferimenti di vita ascetica per tutte quelle donne che
abbracciavano una vita di consacrazione totale a Dio. Ne è prova il fatto che
gli apoftegmi delle “madri” sono inseriti tra quelli dei padri, nel loro giusto
ordine alfabetico, e non aggiunti in coda, a mo’ di appendice che si potrebbe
sospettare aggiunta.
Gli
Apophthegmata
Patrum ci hanno tramandato il ricordo di tre di queste
amma: Teodora, Sara e Sindetica,
“donne virili, alle
quali Dio ha concesso la stessa forza di volontà degli uomini’ (PALLADIO,
HL,
41).
-
Teodora era una donna sposata che decise di abbandonare la vita coniugale per
seguire la propria vocazione allo stato monacale. Per sfuggire alle ricerche del
marito, che avrebbe potuto riconoscerla in qualche convento femminile, si
travestì da uomo e, col nome di Teodoro, si ritirò in un monastero ad Ovest di
Alessandria. Qui visse praticando un ascetismo rigoroso e sopportando dure
prove, come quando venne ingiustamente accusata di essere il padre di un bambino
che una ragazza aveva avuto illegittimamente e che aveva abbandonato presso la
sua cella. Soltanto alla sua morte, nel comporre il corpo, i monaci si accorsero
che si trattava di una donna.
- Sara
visse per sessant’anni in una cella provvista di una terrazza sul Nilo e si
racconta che in tutto questo periodo non abbia mai abbassato gli occhi per
vedere il fiume, in segno di mortificazione. Fu molto celebre presso i monaci,
che spesso si recavano in visita da lei, venendo anche da molto lontano, come da
Scete o persino dalla regione di Pelusio.
-
Molto popolare nella Chiesa bizantina, Sindetica, di famiglia nobile, visse nel
IV secolo nei pressi di Alessandria, dove i suoi genitori, di origine macedone,
si erano trasferiti. Dopo aver praticato fin da giovinetta un’austera vita
ascetica in casa, si ritirò in un luogo solitario, praticando il digiuno e la
preghiera. La sua fama attirò molte giovani, desiderose di condurre vita
monastica sotto la sua direzione.
Oltre al già citato
caso di Teodora, non mancano altri esempi di donne vissute in incognito nel
deserto, sotto abiti maschili[7]. I casi più famosi sono
quelli di Apollinaria, di Ilaria e di Anastasia, la cui realtà storica è
tuttavia grandemente incerta, di Eugenia, di Eufrosina e di Atanasia.
Di altre donne la
tradizione ci ha lasciato il ricordo. Benché non avesse condotto vita monastica
in Egitto, ma in Palestina, dell’Egitto era originaria Maria Egiziaca (circa
344-421), celebrata nella Chiesa d’Oriente la quinta domenica di quaresima quale
esempio di contrizione. La storia esemplare di questa donna si diffuse negli
ambienti monastici orientali a partire dal VI secolo e venne a volte,
erroneamente, considerata come la storia degli ultimi anni di vita di Maria
Maddalena. Secondo il racconto, Maria viveva da giovane ad Alessandria, dove
praticava la prostituzione. Un giorno, per curiosità, si imbarcò su una nave con
dei pellegrini che si recavano a Gerusalemme e si pagò il viaggio seducendo
molti dei suoi compagni. Ma a Gerusalemme, mentre cercava di entrare nella
chiesa del Santo Sepolcro, sentì una forza invisibile che le impediva
l’ingresso. Subito si pentì della sua vita dissoluta e dopo un giorno di pianto
potè entrare nella chiesa a venerare la croce. Quindi, uscita da Gerusalemme,
attraversò il Giordano e visse per quarantasette anni nel deserto. Un
presbitero, zosima, la trovò
per caso, ascoltò la
sua storia e le diede la comunione. Ritornò da lei l’anno successivo, in tempo
per seppellirla, e un leone lo aiutò a scavare la fossa.
Altre storie di
prostitute pentite circolavano negli ambienti monastici, come quelle di Pelagia
di Antiochia, di Taide e di Maria. Si tratta di racconti quasi fiabeschi, non
privi di fascino, in cui si può cogliere ancora l’eco di una fede semplice e
profonda.
4. I
RAPPORTI TRA
IL MONACHESIMO E LA GERARCHIA ECCLESIASTICA
Il
monachesimo fu un fenomeno essenzialmente laico: almeno fino alla fine
del V secolo pochi monaci furono preti, anche se l’opinione comune che essi
abbiano sempre mostrato un’attitudine ostile nei riguardi delle ordinazioni va
respinta; i documenti papirologici mostrano chiaramente che già dalla metà del
IV secolo esistevano presbiteri all’interno delle varie comunità monastiche, a
volte in numero ben al di là dei bisogni pastorali.
Così come doveva
essere libero dal mondo, il monaco sentiva di dover essere libero anche nei
riguardi della struttura ecclesiastica. Lungo tutta la storia del monachesimo
egiziano di questi secoli affiora sempre un certo antagonismo tra i monaci e la
gerarchia ecclesiastica, alla cui base si trova la concezione, già diffusa nel
II secolo, che i Cristiani si potevano dividere in due classi: gli “spirituali”,
tra i quali si riconoscevano i monaci, e i Cristiani del mondo, tra i quali
potevano essere considerati anche i
clerici. Solo verso la fine del IV e nel
corso del V secolo i vescovi riuscirono ad avere una maggiore influenza sui
monaci nelle loro diocesi, tuttavia senza ottennere da questi molto di più di
un’alleanza.
Come risulta dalla
letteratura monastica, molti monaci facevano di tutto per non essere ordinati
sacerdoti (solo coi secoli VI e VII si osserverà un processo accelerato di
clericalizzazione degli ambienti monastici). Il monaco Isacco, per esempio,
quando seppe che venivano a prenderlo per ordinarlo prete, fuggì a nascondersi
in un campo e venne scoperto solo grazie a un asino che andò a pascolare accanto
a lui. Ammonio, uno dei monaci più noti del deserto della Nitria, si tagliò
persino l’orecchio sinistro pur di non essere ordinato prete; nonostante questa
mutilazione, che gli valse il soprannome di
Parote “dall’orecchio tagliato”, il
vescovo di Alessandria Timoteo era disposto a conferirgli ugualmente gli ordini:
soltanto minacciando di tagliarsi anche la lingua, fu infine lasciato in pace.
Sono noti anche casi di monaci che, una volta ordinati diaconi, preti e persino
vescovi, non vollero mai esercitare il loro ministero, ritenendosi indegni del
compito.
Non bisogna quindi
vedere in questo rifiuto degli ordini sacri un sentimento di superiorità dei
monaci verso gli ecclesiastici, di disprezzo per il sacerdozio, quanto un senso
di indegnità dinanzi a simile grandezza, nonché il desiderio di sfuggire alle
glorie e agli onori terreni. Non è neppur estranea la volontà, più o meno
inconscia, di continuare a godere dell’indipendenza nei riguardi della sempre
crescente autorità del vescovo di Alessandria. Anche Antonio e Pacomio, i
massimi esponenti del movimento monastico del IV secolo, condivisero questo
sentimento di indipendenza. Benché Antonio avesse sempre mostrato una grande
reverenza verso il clero, egli fu sempre un laico e stette anche parecchi anni
senza accostarsi all’Eucarestia, poiché la chiesa e il sacramento erano visti
semplicemente come aiuti sussidiari.
Nei primi anni della
koinonia, non
vi erano presbiteri tra i monaci: per la celebrazione dell’Eucarestia del sabato
sera, Pacomio conduceva i suoi monaci alla chiesa del paese vicino; la domenica,
invece, era il presbitero del paese che veniva a celebrare presso la cappella
del monastero. Pacomio, infatti, non voleva chierici tra i suoi monaci, per
paura che gelosie e vanagloria causassero discordia nella comunità. Solo in un
secondo tempo Pacomio acconsentì ad accogliere dei chierici tra i suoi monaci,
imponendo loro però che si attenessero in tutto alla regola come gli altri
fratelli, senza alcuna distinzione o favoritismo di sorta. Convinto, secondo la
tradizione monastica antica, che il monachesimo era per sua natura di carattere
laicale, Pacomio stesso rifiutò l’ordinazione che il vescovo Atanasio voleva
accordargli: preavvertito, fuggì, nascondendosi al patriarca. Atanasio mostrò
comprensione per il gesto di Pacomio, riconoscendo che egli era fuggito da “ciò da cui vengono gelosie,
discordie e invidie” e da una “grandezza
vana e temporanea” e promettendogli che non avrebbe mai avuto la
carica presbiteriale.
Pur di assicurare un
legame tra il Cattolicesimo e il monachesimo, che era allora la componente
maggiormente visibile del Cristianesimo egiziano, e minimizzare così la sua
tendenza naturale a diventare indipendente e separato dalle istituzioni
ecclesiastiche, i patriarchi di Alessandria si videro quindi costretti, a volte,
a scovare dei monaci riluttanti per ordinarli diaconi o presbiteri, nonché a
cercare di stringere buone relazioni coi loro rappresentanti. Iniziatore di
questa politica di alleanza tra la gerarchia ecclesiastica e il movimento
monastico fu il patriarca Atanasio, le cui tendenze ascetiche, ben note, gli
permisero di godere dell’amicizia e della fedeltà di
Antonio e di Pacomio
e, attraverso essi, della maggior parte dei monaci, fieramente leali ai loro
capi spirituali. La
Vita Antonii non è stata infatti scritta solo per glorificare
Antonio, del quale Atanasio aveva comunque una grandissima stima, ammirandone
l’esemplare vita ascetica, ma anche nell’intento, presentando il rispetto e
l’amicizia che il grande monaco mostrava per il suo vescovo, di cementare la sua
alleanza coi monaci egiziani. Atanasio dedicò i primi anni del suo pontificato a
visitare i vari circoli monastici e le comunità ecclesiastiche del Basso e
dell’Alto Egitto, anche per ottenere una ratificazione e un supporto popolare
alla sua controversa elezione. E anche in seguito, in tutta la sua carriera,
egli si sforzò sempre di ottenere la devozione dei monaci.
I
benefici ottenuti da Atanasio con questa sua alleanza coi monaci sono
chiaramente dimostrati dal fatto che fu proprio presso i monaci, in particolare
quelli pacomiani, che egli cercò e trovò rifugio durante il suo terzo e quarto
esilio, spostandosi da un monastero all’altro. Le relazioni amichevoli tra
l’arcivescovo e i monaci non significano che tra essi regnasse una completa
armonia, e tanto meno che l’autorità dell’arcivescovo fosse un dato ormai
acquisito. Nonostante tutti i suoi sforzi, quindi, alla morte di Atanasio il
monachesimo continuava ad essere relativamente indipendente dal controllo dei
capi ecclesiastici e la loro autorità sui monasteri era ancora lungi dall’essere
completa; questa situazione perdurò fino a che i monaci riuscirono a suscitare
forti personalità, nelle quali si riconoscevano.
Anche i patriarchi
Teofilo e Cirillo cercarono l’appoggio dei monaci. Cirillo, personaggio
fortemente autocratico e autoritario in seno alla Chiesa, si trovò costretto,
per necessità, a coltivare buone relazioni con Shenute, controparte altrettanto
autocratica e autoritaria nel sistema monastico. È stato fatto notare che
qualora Shenute fosse stato mite e dolce come Pacomio, le comunità monastiche
sarebbero state completamente assorbite nella Chiesa al tempo di Cirillo; così,
invece, al tempo di Calcedonia non si potè ottenere più di una stretta
associazione. È solo più tardi, dopo la separazione della Chiesa egiziana da
quella cattolica, che anche il monachesimo fu unificato nella struttura
ortodossa sotto il patriarca di Alessandria.
5. IL MONACHESIMO OGGI NEL CONTESTO DELLA
CHIESA
COPTA
La conquista
musulmana segnò l’inizio di un lento declino della cristianità copta. I monaci,
dapprima esentati dal pagamento delle tasse, vi vennero anch’essi assoggettati
dopo che molti contadini copti, per sfuggire al peso fiscale sempre più
insostenibile, avevano abbracciato la vita monastica, facendo così diminuire
drasticamente il numero dei contribuenti. Verso il 720, sotto il
sovrintendente delle finanze Osama ibn Zayd al-Tanuhi,
ai monaci, sottoposti a censimento, fu proibito di ricevere novizi; inoltre, per
poterli identificare, fu loro imposto di portare al braccio sinistro un
braccialetto in ferro sul quale erano segnati il loro nome e quello del
monastero di appartenenza. Molti monaci che si erano rifiutati di ottemperarvi e
si erano rifugiati nei monasteri del deserto vennero ricercati dai soldati e
decapitati o fustigati a morte, oppure portati schiavi sulle navi islamiche; i
monasteri che avevano dato loro rifugio vennero chiusi e i loro abati torturati
e costretti a pagare una multa di mille dinari. Molti altri furono mutilati
della mano e di un piede, accecati, o, nella migliore delle ipotesi, furono loro
tagliate le fluenti barbe. Patria del monachesimo, l’Egitto aveva poi conosciuto
a questo riguardo un decadimento totale: soprattutto durante il periodo
mamelucco (1250-1517) e sotto la dominazione ottomana (1517-1805) moltissimi
monasteri erano stati abbandonati, per mancanza di monaci, ed erano caduti in
rovina. Alla fine degli anni 1950 restavano solo una cinquantina di monaci,
suddivisi in sei o sette monasteri, conducenti una vita oziosa, ridotta
all’osservanza di qualche rito poco impegnativo e priva di qualsiasi
preoccupazione intellettuale. A questi si aggiungevano altri centocinquanta
monaci circa, che vivevano al di fuori dei monasteri, impegnati in attività
pastorali presso le parrocchie.
Antico monaco egli
stesso e convinto della necessità e dell’importanza del monachesimo, strumento
scelto per la conservazione del tesoro della tradizione, il patriarca Cirillo VI
(1959-1971) si propose di ridare vigore al movimento monastico, risvegliandolo
dalla letargia nel quale era caduto durante la lunga dominazione musulmana. In
questa sua opera di ammodernamento della Chiesa Copta partendo dal rinnovamento
della sua istituzione più prestigiosa, il monachesimo, il patriarca fu aiutato
dai giovani monaci usciti dal movimento delle
Scuole della Domenica.
Movimento educativo fondato nel 1918 dall’arcidiacono Habib Jirjis (1887-1951),
esso fu il punto di forza del risveglio giovanile: la domenica (ora al venerdì),
dopo la messa, venivano impartite ai bambini e ai ragazzi lezioni di Bibbia,
come anche della storia e delle tradizioni della Chiesa, cercando di sviluppare
in essi il senso di appartenenza al proprio gruppo religioso. Ciò è
particolarmente importante nella società egiziana, dove essere copto spesso
significa essere diverso. I giovani, e in particolare i bambini, sono infatti
considerati i più vulnerabili all’influenza dell’Islam. L’effetto di queste
scuole suscitò tra i Copti un movimento di quasi-rinascita culturale, che ebbe
delle importanti ricadute politiche ed ecclesiastiche. La prima generazione
uscita dalle Scuole della Domenica fece la sua apparizione negli anni 1930 e
all’inizio dei 1940; ma sarà alla fine della seconda Guerra Mondiale
che questo movimento comincerà ad apparire un fenomeno
più significativo e quasi unico al mondo, contribuendo in maniera preponderante
al risveglio del monachesimo, quando dei diplomati all’università, sia in
facoltà scientifiche che letterarie, formatisi spiritualmente e culturalmente
presso queste scuole, cominceranno in numero sempre crescente a presentarsi nei
monasteri chiedendo di essere ammessi tra i postulanti. Convinti dell’importanza
fondamentale del movimento monastico per la vita stessa della Chiesa Copta,
questi giovani avevano deciso di abbracciare la vita monastica per cercare di
rinnovarla dall’interno. Tra di essi vi era anche Nazir Jayed Raphael, che nel
1971 sarebbe diventato patriarca col nome di Shenuda III. Sotto di lui il
monachesimo ha registrato un rifiorire rigoglioso, quasi una resurrezione: i
monasteri, prima quasi deserti, sono ora stati ripopolati con una nuova
generazione di monaci, molti dei quali diplomati o laureati. Anche monasteri
abbandonati da secoli e in rovina sono stati riadattati e ospitano ora
nuovamente dei monaci. Monasteri copti sono stati fondati anche all’estero,
presso le principali comunità della diaspora. Uno di essi, il Dayr Anba Shenuda,
si trova anche in Italia, a Mettone di Lachiarella, alle porte di Milano.
Il rinnovamento della Chiesa Copta a
partire dagli anni 1960 ha avuto un notevole impatto anche sui conventi per
donne, nelle differenti vocazioni: suore contemplative tradizionali, nuove
comunità di suore attive, “vergini consacrate” e diaconesse.
Sono ormai più di
una decina i conventi per le suore contemplative; in uno di essi, il Dayr Sitt
Dimyana, presso Bilqas, nella provincia di al-Gharbiyya, nel Delta, le suore
vivono come semi-anacorete, mentre negli altri (come
il convento dei Santi
Teodoro e Acladio a Medinet Habu, sulla riva occidentale del Nilo, di fronte a
Luxor; il convento dei santi Pisenzio e Abshai, nel villaggio di Tod, sulla riva
orientale del Nilo, a sud di Armant; il convento di sant’Ammonio e dei
tremilaseicento martiri di Esna, a circa quattro chilometri a sud-est di Esna,
ai bordi del deserto) conducono una vita comunitaria, con preghiera e pranzi in
comune. Le suore contemplative, che fino a pochi anni fa vestivano col costume
tradizionale delle donne egiziane, ora hanno una loro veste, col caratteristico
copricapo monastico, portato anche dagli uomini, la
qalansuwa: di
colore nero, esso è diviso in due metà cucite insieme e porta ricamate tredici
croci, che rappresentano i dodici Apostoli e Gesù Cristo; la tradizione lo fa
risalire a sant’Antonio.
La comparsa delle
suore attive è frutto di un’evoluzione: esse, come le “vergini consacrate”, si
rivolgono soprattutto ai bambini, agli anziani, ai malati, agli studenti, alle
donne in generale, agendo nel campo educativo, medico e nei progetti per lo
sviluppo comunitario. Il primo gruppo di suore attive, le
BanatMaryam, “Figlie di Maria”, furono
fondate il 19 marzo 1965 da Anba Atanasio, vescovo di Beni Suef e di al-Bahnasa.
Il successo da queste ottenuto - con le loro scuole, le cliniche, gli ospizi per
i bambini ritardati mentali - fece sì che altre diocesi negli anni ’70 e ’80
fondassero nuovi gruppi locali, il cui compito si diversificò sempre più,
coprendo l’aiuto ai drogati, alle ragazze-madri, l’insegnamento (anche per
adulti illetterati), la cura medica nei villaggi, ecc.
Le “vergini
consacrate” sono donne che vivono vita celibataria, sempre in seno alla Chiesa,
al servizio delle parrocchie e delle diocesi. La prima comunità si è formata nel
1960, a Giza. Dette
mukarrasat, vivono in piccolo gruppi, sotto la giurisdizione di un
vescovo locale, che le assiste nelle attività sociali, mediche ed educative. A
volte sono inviate anche all’estero, per assistere un vescovo o un prete.
Nella sua volontà di
centralizzazione, il patriarca Shenuda III ha cercato di limitare lo sviluppo
del movimento delle donne consacrate sostituendolo con un nuovo modello,
sottoposto più rigidamente al controllo ecclesiastico: l’ordine delle
diaconesse. Mentre le consacrate dipendono dal vescovo locale, le diaconesse
ricoprono una ben definita funzione nella gerarchia ecclesiastica (e come tali
percepiscono un salario). Inoltre, in una società dove il movimento e le
attività delle donne sono una costante preoccupazione, la creazione dell’ordine
delle diaconesse fornisce loro il rispetto dovuto ad ogni membro del clero e le
garanzie professionali e sociali godute dai diaconi maschi. L’ordine del
diaconato femminile venne istitutito nel 1981, quando il patriarca ordinò le
prime 180 diaconesse
(shammasat);
esso fu confermato dal Sacro Sinodo della Chiesa Copta nel 1990-1991 e
nell’occasione il Sinodo decise di riformare anche il gruppo delle consacrate,
con l’emissione di un decreto sinodale che organizzava il loro servizio, le
competenze, la formazione, la promozione ai diversi gradi, la vita di preghiera,
le sanzioni, ecc. Ne risultò un cambiamento radicale del servizio delle
consacrate, il cui stato viene ora visto come una fase preparatoria per il
diaconato femminile e non più come una forma di servizio religioso parallelo
all’ordine delle diaconesse. Ci vogliono ora ben 18 anni di servizio
ininterrotto all’interno delle consacrate per essere ammesse al diaconato.
[1] Il termine laura nacque in Palestina e solo col V secolo compare anche nei documenti egiziani. Il suo significato originario di “cammino stretto, corridoio” ben si accorda con le caratteristiche geografiche delle laure palestinesi, costituite prevalentemente da grotte che si affacciano su un sentiero che corre lungo il versante di una scarpata.
[2] Attualmente esistono i seguenti quattro monasteri: Dayr al-Baramus, o “monastero dei Romani” (dal copto "pahrwmaios" Paromaios, “quello dei Romani”: la storia della sua fondazione è infatti strettamente legata ai due “giovani stranieri” vissuti con Macario l'Egiziano; secondo un’altra interpretazione, il nome è invece legato all’attività a Scete del monaco romano Arsenio, che era stato tutore di Arcadio e Onorio, figli dell’imperatore Teodosio I e successivamente anch’essi imperatori); Dayr Anba Maqar, nel luogo chiamato “roccia di San Macario”; Dayr Anba Bishoi, dedicato al monaco Bishoi, vissuto a Scete fino al 407; nei pressi sorge attualmente anche un monastero dei siri, Dayr al-Suryan. A poco più di tre chilometri a Nord-Ovest del Dayr Anba Bishoi sorgono le rovine di un altro antico monastero, il Dayr Abu Yahnes, dedicato a Giovanni Kolobós (“il Breve”, Nanus nelle traduzioni latine, cosiddetto per la sua bassa statura), compagno di Bishoi, presso l’“albero dell'obbedienza”.
[3] Si tratta di quarantanove monaci del Dayr Anba Maqar, che si rifiutarono di abbandonare il loro monastero davanti alle orde berbere e furono massacrati. I monaci sfuggiti al massacro seppellirono poi i corpi dei martiri in una grotta presso il monastero; più tardi, i corpi furono traslati nella chiesa di san Macario, all'interno delle mura del monastero. Secondo la tradizione, un corriere imperiale, Artemio, accompagnato dal figlio Dios, era stato inviato dall'imperatore Teodosio II per richiedere le preghiere dei monaci affinché Dio gli concedesse un erede maschio. Mentre il messaggero e suo figlio stavano per lasciare Scete dopo aver compiuto la loro missione, giunsero i barbari, che massacrarono i monaci (21 gennaio 444). Sempre secondo la tradizione, il giovane Dios ebbe una visione, nella quale vide gli angeli che portavano in cielo le anime dei martiri e ponevano sulle loro teste la corona del martirio; poi sia lui che il padre si presentarono ai berberi e subirono il martirio. Si racconta inoltre che i berberi, dopo aver compiuto la loro sanguinaria devastazione, si recarono al vicino Dayr Anba Bishoi, dove lavarono le loro spade sporche di sangue nel pozzo del monastero. L'acqua del pozzo, santificata dal contatto col sangue dei martiri, acquistò proprietà terapeutiche, guarendo da ogni tipo di malattia chi l'avesse bevuta.
[4] Palladio, HL, 7, 6, parla di tremila tabennesioti; in un altro passo di settemila (Ibidem, 32, 8-9). Secondo Cassiano, Institutiones IV, 1, i monaci pacomiani erano cinquemila, mentre per Sozomeno, HE, 6, 28 e per la Historia monachorum 3, 1 erano tremila. Occorre poi tener conto anche delle monache pacomiane che, secondo Palladio, HL, 33, 1, erano circa quattrocento. Le stime sul numero totale dei monaci e delle monache sono molto variabili; tutte, comunque, indicano che la percentuale dei Copti che avevano abbracciato la vita religiosa rappresentava una frazione significativa della popolazione totale, mai più ritrovata nell'ecumene cristiana, sì che l'Egitto stesso di quei secoli è stato definito “un vasto monastero”. Jean Maspero parla addirittura di più di mezzo milione tra monaci e monache; ed E.R. Hardy stima la popolazione monacale nell'ordine da centomila a duecentomila unità. Queste cifre vanno considerate in rapporto alla popolazione totale dell'Egitto. Mentre Giuseppe Flavio (37-103 circa) parla di circa otto milioni di persone, J.R. Crussel propone una popolazione più ridotta, di 4.5 milioni al I secolo, scesa a 2.8 milioni al VII secolo.
[5] Come più volte sottolineato, il regime di vita degli anacoreti era molto duro: secondo il monaco Palamone, primo maestro di Pacomio, gli anacoreti si astenevano dall'olio, dal vino, dalla carne e dai cibi cotti, con esclusione del pane; solitamente si concedevano un solo pasto giornaliero e praticavano frequenti e prolungati digiuni. Pur rispettando l'astinenza dalla carne, dal vino e dalla salsa di pesce, liquamen ex piscibus (nel Monastero Bianco di Shenute sarà poi vietato anche il consumo di formaggio e di uova), il regime di vita delle comunità pacomiane era invece più moderato ed equilibrato: i monaci si riunivano per i pasti due volte al giorno, anche se alla sera era concesso, a chi voleva, di prendere un po' di cibo nella propria cella.
[6] Ai già citati tre monasteri femminili fondati da Pacomio e da Teodoro, vanno aggiunti moltissimi altri; soltanto nei dintorni di Antinoe, per esempio, ne esistevano ben dodici (Palladio, HL, 59, 1).
[7] Questa pratica era così diffusa che si sentì la necessità, da parte della Chiesa, di proibirla espressamente. Uno dei canoni del sinodo tenuto a Gangra, in Paflagonia, nel 345 stabilisce infatti: “Se una donna, sotto la pretesa dell’ascetismo, cambierà il proprio aspetto e, anziché il normale abbigliamento femminile, indosserà quello di un uomo, sia colpita da anatema”.
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30
maggio
2015 a cura
di Alberto "da Cormano"
alberto@ora-et-labora.net