IL
MONACHESIMO COPTO
di Alberto 
Elli
Aspetto 
caratteristico del Cristianesimo egiziano, il monachesimo 
è un fenomeno che riveste un’enorme importanza nella storia della Chiesa. Esso 
ha lasciato un segno profondo non solo nella pietà, nell’etica e nelle 
istituzioni della Cristianità copta, ma ha influenzato la Chiesa universale, in 
Occidente come in Oriente. Ed è questo certamente il dono più importante della 
Chiesa egiziana al mondo cristiano. Come ebbe a scrivere uno studioso francese, 
Jean Vergote, in conclusione di un suo articolo su
L’Égypte, berceau du monachisme chrétien: “...
noi possiamo concludere, senza timore di esagerazione, 
che il monachesimo è l’istituzione per mezzo della quale l’Egitto ha esercitato 
l’influenza più. diretta e più. profonda sulla nostra civiltà occidentale e sul 
corso della nostra storia”. Il movimento spirituale del 
monachesimo, iniziato verso la metà del III secolo, ebbe infatti un fiorire e 
uno slancio quasi miracoloso e oltrepassò ben presto non solo le strette 
frontiere del mondo copto, ma anche quelle, ben più ampie, del mondo greco e 
latino, diffondendosi in tutta l’ecumene cristiana: dopo un secolo e mezzo, esso 
aveva ormai solide radici in Oriente e in Occidente, dalla Mesopotamia fino alla 
Gallia e alla Spagna e, un po’ più tardi, fino all’Irlanda.
L’Egitto è 
generalmente considerato culla del monachesimo, anche se diverse manifestazioni 
del fenomeno monastico apparvero più o meno allo stesso tempo pure in 
Mesopotamia, Siria, Cappadocia e anche in Occidente (Gallia, Italia e Spagna), 
in continuità con le varie correnti ascetiche che caratterizzarono la vita della 
Chiesa durante i primi secoli, in particolare nelle zone sotto l’influenza 
giudeo-cristiana. Vero è, però, che il ruolo sostenuto dall’Egitto nella storia 
del monachesimo primitivo fu straordinariamente vivido e che in nessun altro 
paese la popolazione dei monaci fu così numerosa come nella valle del Nilo: 
pertanto il monachesimo egiziano godette fin dall’inizio di una notorietà quasi 
universale, grazie anche alle numerose opere letterarie a esso dedicate.
È importante notare 
che, per quanto riguarda l’Egitto, il monachesimo non si sviluppò in 
Alessandria, città di lingua e cultura greca, ma prevalentemente tra la 
popolazione nativa, che parlava il copto, anche se molti dei primi monaci si 
presentano come bilingui.
1. IL MONACHESIMO ANACORETICO E 
LAUREOTICO
1.1 L’ascetismo
La perfezione 
cristiana, predicata dalla nuova religione, trovò, a partire dai primi secoli 
dopo Cristo, numerose persone che si sforzarono di viverla in tutta la sua 
pienezza. Già se ne trovano tracce negli
Atti degli Apostoli, ma in seguito 
divennero sempre più numerose.
La caratteristica di 
quanti volevano applicare i consigli evangelici era la verginità, alla quale si 
votavano sia gli uomini, detti
continentes, che le donne, dette
virgines (o
viduae, nel caso si trattasse di vedove). 
Più tardi queste persone ricevettero il nome di
asceti, dal paragone che Clemente 
Alessandrino traccia tra la vita cristiana e la preparazione ardua degli atleti. 
Il termine greco
àskesis significa “esercitazione, esercizio ginnico”: come 
l’atleta acquista e affina le sue capacità con l’allenamento prolungato, così 
anche nella sfera etico-morale è possibile acquistare virtù con attenzione ed 
esercizio. Nel contesto del primo monachesimo, l’ascesi non va quindi intesa 
esclusivamente in senso negativo, come abnegazione o rinuncia a qualcosa, ma 
soprattutto come “esercizio spirituale”. Clemente, tuttavia, considerava 
negativamente l’ascetismo, la cui pratica riteneva segno certo della presenza di 
un’eresia gnostica. La necessità della continenza, così come proclamata dagli 
asceti, si basava infatti per lui su opinioni che nascevano
“dall’odio di ciò che Dio ha creato”. Egli considerava lo stato 
matrimoniale superiore a quello verginale: le prove offerte dal matrimonio, dai 
figli e dalle preoccupazioni domestiche renderebbero infatti più difficile e 
meritorio il distacco da tutto ciò che non sia servizio di Dio.
Il termine
ascetismo non si 
applica quindi soltanto agli esercizi di austerità, ma indica anche lo stato di 
vita. All’inizio, questi asceti vivevano nel mondo, nelle proprie abitazioni, 
praticando un ascetismo “domestico”: conducendo una vita di mortificazione e di 
preghiera, tenendosi lontani dai lussi e dai divertimenti del mondo
pagano, essi si dedicavano alle opere di carità, 
rimanendo in seno alle loro famiglie e senza separarsi dalla comunità dei 
Cristiani.
È solo più tardi che 
si manifestò la tendenza alla vita di comunità. Queste persone erano riunite in 
“confraternite religiose”, dotate di una certa forma di organizzazione e 
sottoposte al controllo del clero locale, specialmente del vescovo. Nella parte 
greca dell’impero romano, i membri di queste confraternite erano chiamati
Filopónoi 
“amanti della fatica” o
Spudaioi 
“zelanti”. Oltre a partecipare alle cerimonie religiose come gruppi organizzati, 
distinti sia dai laici che dai chierici, queste confraternite assicuravano anche 
tutte le cure quotidiane che le varie chiese richiedevano. Ad Alessandria, i
Filoponoi 
furono spesso utilizzati dalle autorità ecclesiastiche anche nelle 
manifestazioni contro i pagani o per far pressione sui funzionari imperiali.
1.2
L’anacoretismo
All’ascetismo nel 
senso indicato succedette
l’anacoretismo, a volte indicato anche come
eremitismo. I due termini, benché a volte usati quali sinonimi, 
hanno tuttavia una diversa valenza.
Il termine greco
anakhóresis, 
propriamente “il ritirarsi”, 
designava, in Egitto, la “fuga 
(nel deserto)” di tutti coloro, a volte intere comunità che, per un motivo o per 
l’altro (spesso per sottrarsi all’oppressione fiscale o per motivi penali), 
avevano bisogno di farsi dimenticare per un po’ di tempo. Tali motivazioni 
sociali sono ben lungi dal dare una spiegazione adeguata al sorgere e allo 
svilupparsi di un movimento così complesso come quello monastico, il quale fu, 
assai più che una rivoluzione sociale, essenzialmente una rivoluzione 
spirituale.
Il termine
eremitismo deriva 
invece dal greco
eremia, “solitudine, deserto, luogo desolato” e 
indica propriamente che tale forma di vita aveva nel deserto il suo ambiente 
naturale. Dovrebbe pertanto più giustamente parlarsi di
anacoretismo eremitico o di
eremitismo anacoretico.
L’anacoretismo o
eremitismo è quindi uno stato di vita di 
perfezione segregato dal commercio degli uomini, che vide persone isolate 
(chiamate 
anacoreti o
eremiti) ritirarsi in luoghi deserti, 
appena al di fuori dei villaggi, in grotte o tombe abbandonate, e lì consacrarsi 
alla preghiera, alla meditazione e a pratiche di severa ascesi. Per garantirsi 
la sopravvivenza, l’anacoreta si dedicava anche a lavori manuali, per lo più la 
fabbricazione di corde di fibre di palma e di panieri di giunchi, che vendeva 
poi nei mercati dei villaggi.
Questa prima forma 
visibile del movimento monastico, detta
monachesimo anacoretico, che costituisce 
un secondo passo verso la vita religiosa propriamente detta, nasce direttamente 
dagli ideali ascetici cristiani dei primi secoli. Prima di designare il monaco 
che viveva nella solitudine del deserto, l’anacoreta era infatti colui che era 
“solitario” (e questo è il significato della parola greca
monakhós) perché aveva rinunciato a 
sposarsi, così da non avere altra preoccupazione che il servizio di Dio. La 
separazione dal mondo attraverso l’anacoresi permetteva al monaco di realizzare 
concretamente quella rinuncia al mondo che è l’elemento fondamentale dell’ascesi 
cristiana.
I 
testi ascetici della Chiesa ci forniscono tuttavia un altro aspetto, sovente 
ignorato: la fuga nel deserto vista non come “uscita” dal mondo, per condurvi 
una vita santa, lontana dalle tentazioni mondane, ma come “entrata” deliberata 
nel deserto, come una spedizione, un’invasione, cioè, dei luoghi abitati dal 
demonio, per liberarli dal male e renderli a Dio. Liberare la creazione dal 
giogo del male e ristabilire quindi il dominio di Dio sul mondo intero 
permetteva all’eremita di continuare l’opera di Cristo. Secondo questa 
prospettiva, gli anacoreti non vanno considerati dei fuggitivi, ma, al 
contrario, dei “pionieri” della Chiesa. Il diavolo stesso si lamenta con 
Antonio: 
“Dappertutto sono apparsi i 
Cristiani e ormai il deserto è pieno di monaci” (ATANASIO,
Vita Antonii, 41, 4). Alcuni autori hanno 
insistito sulla rottura messa in evidenza dal movimento monastico: si è mostrato 
in particolare come la spiritualità del deserto espressa nella ricerca eremitica 
sia un’innovazione in rapporto alla concezione egiziana, piuttosto negativa, del 
deserto. Per gli antichi Egizi, il deserto era un luogo di pericolo, sede del 
malvagio dio Seth, ma esso era anche collegato con la necropoli ed era quindi 
visto come punto d’inizio del viaggio che conduceva dalla morte alla vita 
eterna. Il Cristianesimo vi ha sostituito un’immagine biblica, idealizzata: sì 
luogo della prova e della purificazione, ma anche dell’incontro con Dio, luogo 
privilegiato di un’intimità tra l’uomo e Dio, di un Dio che ricerca l’uomo e 
desidera accoglierlo nella sua intimità, di un Dio che vuole lasciarsi trovare 
dall’uomo.
La pratica di 
ritirarsi nel deserto cominciò nella metà del III secolo, inizialmente come 
conseguenza delle persecuzioni di Decio e di Valeriano e successivamente 
favorita dallo sviluppo della Chiesa durante la “Piccola Pace” instaurata 
dall’editto di Gallieno (262). Il primo caso noto di un cristiano ritiratosi in 
eremitaggio è tuttavia quello del vescovo Narcisso II di Gerusalemme (circa 
170-212), che all’inizio del III secolo, disgustato per una calunnia, si sarebbe 
ritirato in solitudine nel deserto. Si citano anche i casi di Cheremone, vescovo 
della città di Nilopolis, all’imbocco del Fayum, che ai tempi della persecuzione 
di Decio sarebbe scomparso nel deserto della montagna arabica insieme con la 
moglie, e del celebre Paolo di Tebe.
Col IV secolo, alla 
fine delle persecuzioni, questo movimento conobbe uno sviluppo prodigioso, non 
solo in Egitto, ma in tutto il vicino Oriente. E se nei secoli seguenti godrà di 
minor favore rispetto ad altre forme di monachesimo, questa austera forma di 
vita troverà sempre fedeli seguaci.
Numerose ipotesi 
sono state avanzate per spiegare l’origine di questo fenomeno e, benché nel suo 
spirito e nella sua dottrina la vita monastica sia essenzialmente cristiana, ci 
si è sforzati di cercarne le radici in tendenze o istituzioni anteriori, sia 
pagane che ebraiche.
- 
Secondo alcuni studiosi, i precedenti dell’anacoretismo si ritrovano nel 
movimento dei 
Therapeutes del I secolo di cui ci parla 
Filone di Alessandria, o in quello degli
Esseni, setta e confraternita giudaica nata nel II secolo a.C. e 
durata per circa tre secoli, descrittaci da Giuseppe Flavio. Filone 
Alessandrino, nato ad Alessandria verso il 20 a.C. e morto dopo il 40 d.C., fu 
una delle personalità più in vista della cultura giudeoalessandrina del suo 
tempo. Egli ci presenta questa specie particolare di gente pia, appunto i 
cosiddetti 
Therapeutes, come una comunità di tipo 
monastico, anacoretico e cenobitico (ossia comunità nelle quali i membri 
vivevano singolaramente, oppure in comune), maschile e femminile, dedita a una 
vita ascetica severissima, strettamente contemplativa (a differenza dei
Therapeutes, gli
Esseni non praticavano una vita solamente 
contemplativa, dedicandosi anche al lavoro). Basandosi sul doppio significato di
servire e
curare del verbo greco
therapéuo, il nome
Therapeutes venne loro assegnato, come 
scrive Eusebio di Cesarea (EUSEBIO,
HE, II, 17, 3), che 
tra l’altro presenta erroneamente i
Therapeutes come monaci della Chiesa cristiana, “o 
perché, come medici, essi liberano dalle passioni del male le anime di coloro 
che vengono ad essi e così le curano e le guariscono, oppure a causa del loro 
puro e sincero servizio e adorazione del Divino”. Anche dopo la 
scoperta dei manoscritti di Qumran, che permettono di meglio conoscere il 
movimento degli 
Esseni, non si 
può assolutamente parlare di dipendenza del monachesimo cristiano da questo 
movimento essenzialmente ebraico. Iniziato a fiorire nel IV secolo, quando ormai 
Qumran era distrutta da secoli, in un periodo talmente lontano dal giudaismo e 
opposto a esso che un’imitazione cosciente di una istituzione settaria giudaica 
sembra essere esclusa, il monachesimo cristiano si è sviluppato secondo delle 
linee proprie e in maniera indipendente. Ciò non toglie che tra i due movimenti 
vi siano dei rapporti e delle rassomiglianze rimarchevoli (in particolare per 
gli aspetti del celibato, della povertà e dell’autorità), non sufficienti, 
tuttavia, a stabilire una dipendenza tra di essi; tali rassomiglianze, per 
quanto grandi possano essere, possono facilmente avere la loro origine in uno 
stesso clima spirituale nel quale si sono sviluppati l’Essenismo e il 
Cristianesimo. Un’accurata analisi dei testi e di tutta la documentazione 
storica e archeologica disponibile, porta infatti a individuare, al di là delle 
apparenti rassomiglianze, delle diversità di fondo ben più significative. 
Mentre, per esempio, per gli Esseni il celibato derivava dalla necessità di 
mantenere la propria purità rituale (considerando essi impuro qualsiasi atto 
sessuale), per i monaci cristiani la scelta celibataria nasceva dal desiderio di 
non essere divisi tra Dio e il mondo. Gli Esseni, inoltre, pur mettendo i loro 
beni in comune, non ricercavano la povertà (se erano poveri, lo erano per forza 
delle circostanze, non per propria volontà), mentre i Cristiani praticavano la 
povertà evangelica, per non appartenere più al mondo ma a Dio. Infine, mentre 
per gli Esseni il potere era in mano ai sacerdoti della razza di Aronne, per i 
primi monaci cristiani, quasi tutti laici, il sacerdozio era considerato quasi 
incompatibile con lo stato monacale.
- per 
altri si tratta della sopravvivenza di certe pratiche dell’antica religione 
egiziana (i cosidetti
reclusi di Serapi e i
melanofori di Isi). Queste ipotesi, per 
le quali non esistono prove decisive, sono ora generalmente respinte. Alcuni 
papiri greci testimoniano l’esistenza di uomini, chiamati
kàtochoi, che conducevano una vita da 
reclusi nel 
Serapeum di 
Menfi. I motivi di questa reclusione non sono molto chiari: secondo tutte le 
ipotesi formulate, tuttavia, la reclusione dei
kàtochoi non appare essere ispirata da 
alcun motivo religioso, essenziale, invece, nella reclusione monastica. Dediti 
al culto della dea Isi e soliti indossare vesti di color nero (donde il nome), 
anche i 
melanofori di Isi 
vivevano in ambienti consacrati, come reclusi. Anche in questo caso, comunque, 
nonostante le rassomiglianze di questa istituzione col monachesimo cristiano, le 
differenze sono tuttavia tali da rendere estremamente rischioso supporre una 
qualche connessione tra i due fenomeni.
- Si è 
anche avanzata l’ipotesi che la nascita del fenomeno dell’anacoretismo sia 
dovuta all’influenza delle missioni manichee che raggiunsero l’Egitto a partire 
dalla metà del III secolo. Benché un’influenza diretta della dottrina dualistica 
di Mani sia poco probabile, non è tuttavia impossibile che il manicheismo abbia 
contribuito a creare quel clima spirituale di cui si nutrì e in cui prosperò 
l’ascetismo degli anacoreti.
- Più 
recentemente, dopo la scoperta della Biblioteca di Nag Hammadi, è stata 
suggerita l’influenza delle sette gnostiche.
Nessuna di queste 
congetture è di per sé convincente; benché ognuna di esse presenti delle 
analogie con l’ascesi cristiana (analogie che, d’altronde, si ritrovano nelle 
discipline filosofiche o religiose più disparate, che rispecchiano tendenze e 
impulsi psicologici profondamente radicati nella natura umana, quali il bisogno 
di solitudine, di allontanamento dagli altri uomini, di emancipazione dalle 
bassezze fisiche e dalla schiavitù degli agi), è illusorio voler dedurre da 
esse, in particolare dai modelli pagani, la derivazione diretta delle prime 
manifestazioni del monachesimo cristiano. Con certezza si può solo dire che, 
come per tanti altri aspetti della religione cristiana in Egitto, anche 
l’origine del movimento monastico è, al livello attuale delle nostre conoscenze, 
ancora oscura.
È fondamentale, 
comunque, sottolineare che il monachesimo, soprattutto nella sua prima 
manifestazione anacoretica, è, nel suo spirito e nella sua dottrina, 
un’esperienza autenticamente cristiana: le sue origini vanno ricercate in un 
sincero desiderio di ascetismo, in uno slancio interiore a ritornare agli ideali 
del Cristianesimo primitivo, in una nostalgia di un Cristianesimo più semplice, 
più autentico, più vero.
A questa ricerca 
delle radici profonde del Cristianesimo, si univa anche una nostalgia della 
solitudine, diventata sempre più acuta man mano che cresceva il numero dei 
Cristiani: il più alto grado possibile della perfezione personale poteva essere 
raggiunto, più ancora che col ritiro dal mondo, con la solitudine. E fu in primo 
luogo in Egitto che questa nostalgia poté concretizzarsi: dapprima gli asceti 
lasciarono i loro villaggi e città e si stabilirono fuori dai centri abitati o a 
qualche distanza da essi, occupando una grotta o un’antica tomba o una celletta 
da essi stessi costruita. Poi, sempre più desiderosi di una solitudine assoluta, 
avanzarono in profondità nel deserto, facilitati dal clima e dalla geografia 
dell’Egitto che permettevano un isolamento completo. Alla base di questo slancio 
e di questa nostalgia del deserto c’è una spiritualità nutrita alla tradizione 
dell’Antico e del Nuovo Testamento, alle figure e agli esempi di Elia, di Eliseo 
e di Giovanni il Battista. Il deserto era considerato anche il dominio 
prediletto dei demoni e per gli asceti, che si consideravano gli eredi dei 
martiri; esso era quindi teatro privilegiato per le loro battaglie contro di 
essi, battaglie che occupano un ampio spazio nella letteratura agiografica 
monastica.
È stata avanzata 
l’ipotesi che il “successo” che le forme ascetiche hanno avuto in Egitto e in 
Siria sia stato dovuto al fatto che in un’epoca libera da persecuzioni 
l’ascetismo venne considerato una forma di martirio spirituale, un sostituto del 
martirio fisico, che riempiva il vuoto creato dall’adozione del Cristianesimo da 
parte degli Imperatori del tardo Impero romano. Di Antonio si diceva che
“viveva ogni giorno il 
martirio della coscienza e combatteva le battaglie della fede” (ATANASIO,
Vita Antonii, 47, 1). Un passaggio del 
testo della preghiera di Apollo, superiore del monastero di Bawit, nel Medio 
Egitto, del VII secolo, mostra chiaramente come i monaci egiziani, che 
continuavano nella loro persona la lotta intrapresa da Cristo contro Satana, si 
confrontassero con i martiri antichi:
“Molti santi martiri sopportarono la sofferenza solo per un’ora o un giorno, ma 
Apollo sopportò tutti i giorni le sue sofferenze ascetiche”. In 
effetti, benché molte fonti agiografiche presentino il monachesimo come nato 
dalla ricerca di un sostituto del martirio in un periodo in cui le persecuzioni 
sono ormai finite - e come molti storici ancora affermano -, esso nasce 
esclusivamente dal desiderio di un’obbedienza radicale alla volontà di Dio. Non 
si sceglie questa vita per fare questo o quello, ma in risposta a una chiamata 
che dà egualmente la forza di obbedire.
1.3 Antonio
Il modello degli 
eremiti è 
Antonio. Nato verso la metà del III secolo in un villaggio copto 
del Medio Egitto, Koma (Tkmene o Tkeman nei testi copti, Qiman al-Arus in quelli 
arabi), da una famiglia benestante cristiana, e rimasto ben presto orfano, con 
una sorellina di cui si prese amorevolmente cura, un giorno, quasi ventenne, udì 
leggere in chiesa la parola che il Signore aveva rivolto al giovane ricco:
“Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello che 
possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, poi vieni e seguimi!” 
Sentendola irresistibilmente rivolta a sé stesso, abbandonò tutti i suoi beni 
per seguire la parola evangelica, trascorrendo tutta la sua lunghissima vita 
(250/251-356) nel deserto, in un ritiro sempre più rigoroso. Dapprima praticò 
una vita di preghiera e penitenza in casa, poi, affidata la sorella a delle 
vergini che ben conosceva perché fosse allevata nella verginità, seguì l’esempio 
di altri asceti del suo tempo e si ritirò in una tomba non lontana dal villaggio 
natale, uno degli innumerevoli sepolcri di cui era disseminato l’Egitto pagano, 
dove visse fino a 35 anni. Infine, 
disturbato dal 
numero sempre crescente di persone che venivano a lui attratte dalla sua fama 
per chiedergli preghiere e consigli, attraversò il fiume e si inoltrò nel 
deserto arabico. Rimase vent’anni (circa 285-305) in un fortino romano 
abbandonato nei pressi di Pispir (attuale Dayr al-Maimun), qualche chilometro a 
Nord-Est di Beni Suef, dove, attorno a lui, si venne radunando la prima comunità 
di eremiti; quindi, desideroso di vivere in maggior solitudine, si aggregò a una 
carovana di beduini e andò a ritirarsi in una grotta ai piedi del monte Qulzum, 
nello Wadi al-Arab, a circa trenta chilomentri dal Mar Rosso, in vicinanza del 
luogo ove ora sorge il monastero di sant’Antonio
(Dayr Anba Antuniyus). Qui, dapprima solo 
e poi con la compagnia di alcuni discepoli, visse per cinquantanni, fino alla 
morte, avvenuta, all’età di centocinque anni, il 17 gennaio 356. Durante tutti 
questi anni Antonio si recò solo due volte ad Alessandria; la prima nel 311, sul 
finire della persecuzione di Massimino Daia, sperando, inutilmente, di poter 
ricevere anch’egli il martirio; la seconda molto più tardi, nel luglio 337 o 
338, per sostenere il vescovo Atanasio nella sua inflessibile lotta contro 
l’arianesimo.
Antonio non fu certo 
il primo a lasciare la famiglia per cercare di vivere la perfezione della vita 
evangelica nella solitudine del deserto. Nella
Vita Copta di Pacomio, vengono attribuite 
ad Antonio queste parole:
“'All’epoca in cui mi sono fatto monaco, non c’era sulla terra alcun cenobio, 
perché potessi vivere in comunità; c’erano soltanto persone che si ritiravano in 
disparte, un po’ fuori del villaggio: ecco perché anch’io ho vissuto una vita 
anacoretica’”. Prima di lui, quindi, altre persone, da sole o in 
gruppi, come l’eremita Paolo di Tebe, avevano consacrato la loro vita al Signore 
nella verginità, penitenza e preghiera.
Paolo di Tebe 
(234-347), appartenente a una famiglia ricca e colta, fuggì ancor giovane nel 
deserto sulla costa del Mar Rosso durante la persecuzione di Decio. Trovato un 
luogo adatto, che sembrava preparato apposta da Dio, costituito da una grotta 
con vicino una sorgente e una palma, vi rimase permanentemente, abbracciando per 
libera scelta un modo di vita che la necessità gli aveva dapprima imposto. 
Secondo Girolamo, Antonio, tentato dal demone dell’orgoglio che gli suggeriva 
che nessuno era più perfetto di lui, ebbe un giorno una rivelazione: una voce 
celeste gli disse che ce n’era uno di gran lunga migliore: Paolo. Antonio si 
recò quindi a trovare il vecchio eremita .
Sulla scia e 
sull’esempio di Antonio, il fenomeno dell’anacoretismo raggiunse ben presto 
l’aspetto di un esodo dai luoghi abitati; a buon diritto, quindi, egli ha avuto 
il titolo di “padre del monachesimo”. Quando ancora era vivo Antonio, infatti, e 
sul suo esempio, la pratica dell’eremitismo si diffuse in maniera sorprendente. 
Il fascino della sua figura fu rafforzato e continuato dall’influenza 
straordinaria esercitata dalla
Vita di sant’Antonio (Vita Antonii). “E così apparvero dimore di solitari sui monti e il 
deserto divenne una città di monaci che avevano abbandonato i loro beni e si 
erano iscritti nella cittadinanza dei cieli” (ATANASIO,
Vita Antonii, 14, 7).
Antonio 
“fu il primo 
monaco in senso tipico, più che in senso cronologico; [...] sembra accogliere 
una tradizione precedente pur innovandola e perfezionandola” (L. CREMASCHI, a cura di, 
Atanasio di Alessandria: Vita di Antonio; Antonio 
abate: Detti-Lettere, 
Milano 1995, p. 10). Egli è il continuatore e innovatore di una tradizione di 
vita.
Benché Antonio non 
conoscesse il greco e si servisse di interpreti quando doveva conversare con 
Greci, ciò non significa affatto che fosse un illetterato, un contadino 
totalmente ignaro della cultura del suo Paese e del suo tempo: i suoi scritti 
mostrano che egli aveva una profonda conoscenza della Bibbia e dei temi e 
concetti filosofici correnti e che fu per i suoi discepoli un vero maestro di 
saggezza. A differenza dei monaci greci, tuttavia, che mostreranno una spiccata 
tendenza allo studio delle lettere, Antonio privilegiò sempre l’essere 
direttamente “educato da Dio”
(theodidaktos, come lo chiamò lo stesso ATANASIO,
Vita Antonii, 66, 2): egli era arrivato a 
un tale stato di perfezione nella
sequela Christi da non essere più “istruito” dagli uomini, ma 
direttamente da una “voce” divina.
1.4
II monachesimo semi-anacoretico o laureotico. Gli 
insediamenti monastici dei deserti di Nitria, Kellia e Scete.
Sovente il futuro 
eremita compiva un periodo di “apprendistato” presso un “anziano” già esperto 
della vita ascetica, il quale, per formarlo all’umiltà e al rinnegamento della 
propria volontà, gli richiedeva spesso i lavori più umili e più faticosi. Poteva 
in seguito ritirarsi in solitudine, dove sarebbe stato a sua volta raggiunto da 
altri aspiranti eremiti. Così spesso, più che una solitudine assoluta, certi 
eremiti sceglievano una vita in semicomunità: al sabato e alla domenica si 
riunivano in una chiesa per partecipare alla liturgia eucaristica, celebrata da 
un monaco sacerdote, e prendere un leggero pasto in comune, detto
agàpe, mentre 
per il resto della settimana ciascuno viveva nella propria cella, dedito alla 
preghiera e all’attività manuale. Tale forma di colonia monastica,
comprendente la 
possibilità sia della vita comune che di quella solitaria a diversi livelli, si 
chiama 
laura e questa 
forma di semi-anacoretismo è detta
laureotica[1].
Mentre 
l’anacoretismo è tipico della Tebaide, il monachesimo semi-anacoretico si 
sviluppò in particolare nel Basso Egitto, soprattutto nei celebri eremitaggi dei 
deserti di 
Nitria, di
Kellia e di
Scete, nel Delta occidentale.
- Il 
sito di 
Nitria è posto un centinaio di chilometri a sud-est di 
Alessandria, approssimativamente lungo l’attuale percorso Cairo-Alessandria. Il 
nome deriva dal fatto che nella regione sono presenti laghi salati dai quali, 
come nello Wadi al-Natrun, veniva estratto il
natron (carbonato di sodio), usato per la mummificazione dei 
cadaveri o come detergente (esso viene ancor oggi estratto e utilizzato per il 
candeggio del lino e per la produzione del vetro). In zona sono comunque 
presenti anche numerose sorgenti di acqua dolce.
- Kellia 
è più all’interno nel deserto, a circa diciotto-diciannove km da Nitria.
- Un 
altro grande insediamento monastico sorse nel distretto di
Scete, zona 
desertica di circa 30 km lungo il celebre Wadi al-Natrun. Una leggenda popolare 
copta, che sarà ripresa anche dal sinassario arabo, narra che in quei luoghi 
avrebbe soggiornato, durante la fuga in Egitto, la Sacra Famiglia e che il 
Bambino Gesù li avrebbe benedetti, profetizzando la “vita angelica” che vi 
sarebbe fiorita (la definizione “angelica” della vita dei monaci deriva dal loro 
tenere lo sguardo rivolto costantemente a Dio, come quello dei cherubini e dei 
serafini). Un’incerta ma popolare etimologia copta del nome fa risalire la 
denominazione 
Scete a un 
aneddoto sul grande monaco Macario l’Egiziano: un cherubino gli avrebbe posto 
una mano sul cuore, pesandolo come su una bilancia, perciò quel posto sarebbe 
stato chiamato con un termine che significherebbe
“il luogo dove si pesano i cuori e i pensieri”. 
Questa etimologia popolare continua anche nella tradizione araba, che 
attribuisce a Scete il significato di
“bilancia del cuore”. La reale etimologia del termine non è 
peraltro conosciuta; non è escluso che ci sia una qualche associazione fonetica 
col termine 
ascesi (“àskesis” in 
greco).
Ammonio (o
Amun), contemporaneo di Antonio e appartenente quindi alla prima 
grande generazione di monaci, fu il pioniere e fondatore della vita monastica 
nel deserto di 
Nitria. Qui Ammonio, che apparteneva a 
un’agiata famiglia di Alessandria, si ritirò verso il 330, dopo diciotto anni di 
vita fraterna, non coniugale, con la moglie che uno zio gli aveva forzatamente 
imposto. Ammonio era un grande amico di Antonio e tra i due ci fu sempre una 
grandissima stima; si scambiarono persino alcune visite, benché tra i rispettivi 
eremitaggi ci fosse una distanza di tredici giorni di cammino. Uno degli 
incontri avvenne nel 337/338, quando Antonio, nel suo secondo viaggio ad 
Alessandria, passò da Nitria. È probabilmente in questa occasione che Ammonio, 
su consiglio di Antonio, decise di abbandonare Nitria, poiché il luogo, nel giro 
di pochi anni, era ormai sovrappopolato di monaci (il sito verà poi 
definitivamente abbandonato nel VII secolo).
Nel corso dello 
stesso anno, Ammonio diede quindi inizio alla fondazione dell’eremitaggio di
Kellia, più 
all’interno nel deserto. In questo insediamento, le celle (è questo il 
significato del nome
Kellia) dei 
monaci erano sparse su un’area più vasta e ad una più grande distanza l’una 
dall’altra e dalla chiesa.
Lo sviluppo di Scete 
come colonia monastica cominciò quando il monaco
Macario l’Egiziano, così chiamato per 
distinguerlo dal suo grande contemporaneo
Macario Alessandrino (i due Macario erano noti anche coi nomi di
Macario il Grande e di
Macario il Cittadino), vi si ritirò 
trentenne verso il 330. A lui ben presto si unirono i primi due discepoli - i 
due “giovani stranieri” ai quali la tradizione assegna i nomi di Maximus e 
Domitius, detti “i Romani”, e che identifica in due principi, figli illegittimi 
dell'imperatore d'Occidente Valentiniano I (364375) - e quindi una numerosa 
comunità di monaci, desiderosi di vivere seguendo il suo esempio e i suoi 
insegnamenti. All’inizio, a Scete non vi era chiesa e quindi non era possibile 
la celebrazione dell’Eucarestia e i monaci si recavano fino alla chiesa di 
Nitria, lontana circa 70 km. Più tardi, verso il 340, Macario venne ordinato 
presbitero e attorno a lui sorse la prima chiesa di Scete; alla sua morte, verso 
il 390, in Scete esistevano ben quattro insediamenti monastici[2], ognuno chiaramente definito 
da un nucleo con una chiesa centrale, alla quale facevano riferimento le celle 
disperse nei dintorni.
La tranquillità che 
regnava nella vallata di Scete, diventata ben presto il baluardo del monachesimo 
copto, fu più volte disturbata da incursioni e razzie di briganti, provenienti 
dalle oasi di al-Kharga e Dakhla o dall’oasi di Siwa: nel 407-408 Scete fu 
devastata dalla bellicosa tribù libica dei Mazici e altre sanguinose incursioni 
avvennero nel 410, nel 434 e nel 444. In tutti questi assalti, le costruzioni 
monastiche vennero saccheggiate e distrutte e i monaci temporaneamente dispersi 
(molti si rifugiarono in Palestina) o portati via come prigionieri; numerosi 
furono anche i monaci uccisi, come, nel 407, il famoso Mosè l’Etiope, 
ex-brigante, di carnagione nera e di statura gigantesca, e, nel 444, i 
“quarantanove martiri di Scete”[3].
Nelle comunità 
laureotiche i sacerdoti furono sempre molto pochi e in genere era il monaco 
anziano, rispettato per le sue virtù e per la santità della sua condotta, che 
veniva ordinato presbitero. Il frugale pasto in comune dell’agàpe, in genere più 
consistente di quello consumato giornalmente nelle singole celle e destinato a 
rinsaldare i reciproci legami di fraternità, si celebrava nel silenzio il sabato 
pomeriggio, prima della celebrazione delle funzioni liturgiche. Questo pasto 
aveva inizialmente luogo nella chiesa stessa; più tardi nei pressi della chiesa 
sorse un refettorio, con magazzini annessi. Poiché a questi pasti comuni 
partecipavano centinaia di monaci, fu ben presto necessario eleggere un economo 
incaricato della gestione del magazzino. Un secondo pasto in comune, o almeno 
una distribuzione di pane e di vino, avveniva la domenica, dopo la celebrazione 
dell’eucaristia, prima che ogni monaco prendesse la via del ritorno verso la 
propria cella.
Benché costituissero 
una strettissima minoranza, non mancarono tra i monaci del Basso Egitto anche 
degli stranieri, riconoscibili dai loro nomi. Tra i più celebri si possono 
citare Evagrio Pontico (345-399), maestro spirituale di Palladio, Arsenio, 
proveniente da Costantinopoli (già precettore dei principi Arcadio e Onorio, 
figli dell’imperatore Teodosio I, era poi fuggito da Costantinopoli, ritirandosi 
a vita monastica nel deserto della Nitria; temeva infatti che Arcadio, infatti, 
al quale da giovane aveva fatto infliggere una dura punizione, avesse deciso, 
ora che era salito al trono, di vendicarsi), e i “due Romani” Maximus e 
Domitius, che sono all’origine del monastero di al-Baramus nel deserto di Scete.
1.5
Caratteristiche della vita anacoretica e laureotica
Tra le principali 
caratteristiche della vita anacoretica e laureotica si possono citare: 
l’isolamento, spesso però relativo; la preghiera; il lavoro manuale per il 
proprio sostentamento; l’austerità, spesso durissima; l’assenza di un superiore 
religioso e di una regola vera e propria, sostituita da tradizioni orali 
veneratissime, consistenti nei detti e nelle massime dei Padri precedenti, 
venerati per la loro saggezza.
Il lavoro e il 
“risiedere nella propria cella” sono i due aspetti caratteristici di questa vita 
monastica; benché non manchino esempi, il monachesimo itinerante, così diffuso 
in Siria, era in Egitto praticamente un’eccezione. Il monachesimo individuale, 
errante, fu comunque la forma primitiva del monachesimo. Questi monaci 
indipendenti, esseri passionati ed “estremisti” nelle loro manifestazioni e di 
cui certi racconti ci assicurano che vivevano “come bestie selvagge” nelle 
montagne del deserto, alla ricerca di un’innocenza paradisiaca o angelica, senza 
legami con nessuno e con nessun luogo, poco controllabili, acquistarono col 
tempo una cattiva reputazione: sotto il nome di
remnuoth (“solitari, 
uomini di solitudine”) o di
sarabaiti (“erranti”?), vengono presentati come una specie 
degenerata di anacoreti.
La preghiera, come 
il lavoro, doveva essere il più possibile continua: essa comprendeva, oltre alla 
recita dell’uffizio divino a determinate ore del giorno, anche la
meléte, 
consistente non solo nell’atto del riflettere e del meditare, ma soprattutto in 
una vera e propria ripetizione, a volte silenziosa, più spesso a voce alta, di 
un versetto biblico appreso a memoria, o di una breve preghiera più o meno 
direttamente ispirata alla Scrittura (la tradizione
latina ha espresso 
questo modo di pregare col termine molto vivo e plastico di
ruminatio. Da quanto detto, pertanto, la
meléte non corrisponde 
affatto al concetto moderno più noto e diffuso di
meditazione, termine col quale viene 
invece spesso tradotta). Essa accompagnava il monaco durante tutta la sua 
giornata.
Scopo fondamentale 
del lavoro, che non doveva mai essere tale da nuocere alla perfezione 
spirituale, era quello di mettere in grado gli eremiti di provvedere alle 
necessità della loro vita quotidiana. Coloro che si consacravano completamente 
alla 
theoria 
(“contemplazione, riflessione”), come alcuni gruppi estremi di asceti, quali i
Messaliani, erano delle eccezioni. 
Inoltre, i miseri guadagni che i monaci ottenevano vendendo presso i mercati dei 
villaggi i lavori d’intreccio con fibre di palma, quali stuoie o cesti (molti 
asceti, tuttavia, provavano scrupolo a chiedere denaro in cambio dei propri 
prodotti ), o prestando la propria opera per la mietitura delle messi, 
permettevano loro di fare elemosine ai più poveri. Infine, il lavoro veniva 
sentito anche come un dovere e considerato utile alla disciplina spirituale, 
come difesa contro le insidie dell’accidia
(taedium), la malattia della solitudine, ossia quel vago 
sentimento di svogliatezza, scoraggiamento, negligenza e tristezza che, benché 
non certamente tentazione esclusiva dei monaci, è sempre in agguato per quanti 
conducono una vita solitaria e monotona, portandoli al desiderio di fuggire, di 
sottrarsi a un cammino che si presenta infinitamente lungo e faticoso.
Non bisogna pensare 
che la dura ascesi corporale praticata dai Padri del deserto implicasse il 
disprezzo del corpo. Essi ben sapevano dalla Bibbia, con la quale ogni giorno 
nutrivano incessantemente la propria spiritualità, che la creazione di Dio è 
buona e perfetta; ma poiché l’ascesi si prefigge di trasformare il corpo sotto 
l’azione dello Spirito Santo e di purificare l’anima, trasfigurando tutto 
l’essere a immagine del Cristo risorto, nella loro ascesi era fondamentale il 
digiuno: la fame di Dio doveva supplire alla fame di cibi terreni. Al digiuno, a 
volte strettissimo, si aggiungevano le veglie e il rifiuto delle comodità. A 
queste forme di ascesi corporale si accompagnava anche l’ascesi mentale, la 
“custodia del cuore”: lo sforzo, cioè, di essere in continua conversazione con 
Dio, anche durante il lavoro, sfuggendo tutti i pensieri che potevano 
distogliere da questo colloquio mistico e non solo, ovviamente, quelli cattivi, 
ma anche quelli inutili. I lavori d’intreccio con le fibre di palma erano 
particolarmente indicati per questo, perché, per la loro semplicità, diventavano 
ben presto “automatici” e permettevano ai monaci di tenere il loro pensiero 
continuamente rivolto a Dio. Queste pratiche ascetiche dovevano tuttavia essere 
subordinate all’umiltà, alla discrezione, alla carità e all’obbedienza, per non 
portare all’orgoglio e alla vanità.
Nella loro apparente 
semplicità e rudezza, i Padri del deserto si sforzarono di vivere nella maniera 
più integrale possibile l’insegnamento del Vangelo. Essi non furono dei “saggi” 
nel senso ordinario del termine, ma, con l’aiuto dello Spirito, essi ricercarono 
con umiltà e perseveranza la saggezza cristiana, “celata ai potenti e rivelata 
agli umili”. Per la maggior parte i monaci erano gente semplice, non istruita, e 
molti non conoscevano il greco. Di alcuni monaci più o meno colti ci è giunta 
tuttavia notizia, come Ammonio, Eulogio, Evagrio Pontico e Diocle. In generale, 
i monaci respingevano la scienza, vista come parte del mondo dal quale erano 
fuggiti e come costante pericolo di distrazione dalle cose divine e di 
tentazione all’orgoglio. Tuttavia, ciò non significa affatto, come spesso ancora 
si sente dire, che la maggior parte dei monaci fosse analfabeta; come si vedrà, 
le regole del monachesimo pacomiano esigevano esplicitamente che tutti i monaci, 
e le monache, imparassero a leggere; il leggere era infatti considerato un 
esercizio spirituale, una parte dell’ascesi, un aspetto centrale e 
indispensabile dell’allenamento spirituale (già nella
Vita Antonii, 4, 1, si menziona l’“amore 
dello studio” tra gli elementi dell’ascesi). L’esistenza stessa di una gran 
parte della letteratura copta, nonché le nostre conoscenze circa le numerose 
biblioteche monastiche, sono prova dell’alto grado di alfabetizzazione 
riscontrabile presso i monaci, sicuramente superiore a quello presso la 
popolazione.
La vita di questi 
Padri del deserto, almeno nei primi tempi, non era vincolata da regole scritte, 
basandosi sull’insegnamento tradizionale degli anziani, trasmesso oralmente. 
Anche Antonio, infatti, non diede alcuna regola, né scritta né orale, ai suoi 
numerosissimi discepoli: le Sacre Scritture, lette e meditate senza tregua, 
dovevano bastare e gli esempi degli anziani costituivano un modello pratico di 
vita (la 
Regola di sant’Antonio, la più antica regola egiziana che sia 
stata concepita per una laura e non per un cenobio e la cui stesura risale a un 
periodo imprecisato tra la fine del V secolo e il 630, è apocrifa; solo san Saba 
(439-532) nel V secolo promulgò una vera regola per gli eremiti, che tuttavia 
non ci è pervenuta). Molte volte gli anziani, richiesti di un consiglio, 
rispondevano citando brani della Scrittura, mostrando così di essere pienamente 
coscienti dell’inadeguatezza della loro parola paragonata alla Parola di Dio.
Presso gli 
insediamenti laureotici, veniva tuttavia tacitamente riconosciuta una certa 
autorità al sacerdote incaricato di celebrare le funzioni religiose: a lui 
infatti spettavano le decisioni più importanti, come accettare quanti chiedevano 
di diventare monaci, dare loro l’abito monacale, lo
skema, e anche espellere dalla comunità 
chi si fosse eventualmente dimostrato indegno dell’abito che portava. Infatti, 
pur conducendo ognuno la propria vita spirituale secondo il proprio ritmo, un 
minimo di organizzazione comunitaria era tuttavia indispensabile anche per le 
laure.
1.6
La reclusione e la simulazione della follia
Accanto agli 
anacoreti che vivevano in isolamento assoluto e a quelli che praticavano il 
monachesimo laureotico, alcuni monaci spinsero il loro desiderio di separazione 
dal mondo al limite estremo della
reclusione. Questa particolare forma monastica, considerata una 
varietà della vita anacoretica, fu molto praticata soprattutto dai monaci di 
Siria; essa era tuttavia diffusa anche in Palestina, in Mesopotamia, in Asia 
Minore e in Egitto, dove fu, per un certo tempo, praticata dallo stesso Antonio.
La reclusione deve 
essere distinta dal semplice “risiedere nella propria cella”, osservanza alla 
quale si attenevano i monaci del deserto e destinata a favorire il 
raccoglimento. Costoro, in particolare gli anacoreti laureotici, potevano 
lasciare le loro celle per rendersi mutuamente visita e soprattutto per 
partecipare, alla fine della settimana, al pasto in comune e alla celebrazione 
liturgica. I reclusi, invece, restavano perennemente chiusi nella loro cella, 
non uscendone neppure per recarsi alla chiesa: normalmente era un sacerdote che 
si recava saltuariamente presso di loro per celebrare l’Eucaristia. Un laico di 
fiducia portava loro il cibo e ritirava i lavori manuali da vendere. Alcuni vi 
si applicarono con uno scrupolo eccessivo: la cella nella quale vivevano era 
così stretta e angusta da non permettere né la posizione eretta né quella 
coricata; inoltre essa era priva di ogni altra luce e di ogni altra aerazione 
che non quelle che filtravano attraverso una semplice fessura del tetto. In 
qualche caso la cella, senza tetto, esponeva il recluso ai rigori del gelo e al 
calore del sole. Non era necessario ritirarsi nel deserto per praticare questo 
genere di vita, al quale si dedicarono anche molte donne (si citano i nomi di 
Alessandra, IV-V secolo, e di Maria Alessandrina, VI-VII secolo), per le quali 
esso era più indicato che non l’anacoresi nel deserto. Il più famoso di questi 
reclusi fu Giovanni di Lykopolis, vissuto per cinquantanni anni in una grotta, 
che non lasciò fino alla morte (fine 394 o inizio 395) e nella quale non entrò 
mai nessuno.
Altra formula 
radicale di monachesimo era la simulazione della follia: l’individuo, ritenendo 
in tal modo di manifestare una rinuncia totale alla propria volontà, si faceva 
passare per “semplice di spirito”. Anche donne praticarono questa forma ascetica 
estrema: si ricordano Isidora la Stolta e Onesima, venerate dalla chiesa siriaca 
ma vissute in Egitto.
2. IL MONACHESIMO 
CENOBITICO
2.1 Pacomio
Accanto 
all’anacoretismo nelle sue diverse varianti (la cosidetta
formula antoniana del monachesimo), nella 
prima metà del IV secolo si sviluppò in Egitto un’altra forma di monachesimo, a 
opera di 
Pacomio (“L’aquila”): il
monachesimo cenobitico 
(o 
pacomiano), col quale 
la vita religiosa ebbe un ulteriore sviluppo. A volte si trova l’espressione
monachesimo antoniano, posto sullo stesso 
piano e in contrapposizione al
monachesimo pacomiano: tuttavia, mentre Pacomio è l’inventore del 
tipo di monachesimo che a lui si richiama, Antonio non ha “inventato” nulla: 
egli è solo il più noto rappresentante del monachesimo anacoretico, che viene 
pertanto a volte indicato col suo nome (corretta è invece l’espressione 
succitata: “formula antoniana del monachesimo”). Nato 
da genitori pagani verso il 287, nella Tebaide, forse a Diospolis Parva, nella 
regione di Esna (Shne, la Latopolis dei Greci), Pacomio conobbe il Cristianesimo 
nel 312, durante il servizio militare nell’esercito romano: arruolato di forza 
durante la campagna di Massimino Daia contro Licinio, venne rinchiuso in una 
caserma a Tebe insieme coi suoi compagni e qui restò profondamente edificato dal 
gesto di carità di alcuni Cristiani, che si presero amorevolmente cura di loro, 
vedendoli nell’afflizione. Promise così che se fosse stato liberato dalla triste 
condizione in cui si trovava avrebbe servito il Dio dei Cristiani per tutta la 
vita, amando tutti gli uomini. Il giorno dopo venne inviato insieme con le altre 
reclute ad Antinoe e qui, giunta notizia della vittoria di Licinio, furono tutti 
congedati. Pacomio però non tornò a casa, ma si fermò nel villaggio di Sheneset 
(Khenoboskion nei testi greci; odierna Qasr al-Sayyad), in Alto Egitto, sulle 
riva destra del Nilo, dove trascorse tre anni praticando l’ascetismo e dove, 
nella notte di Pasqua del 313, ricevette il battesimo. Desideroso di praticare 
la radicalità evangelica, Pacomio divenne discepolo del monaco Palamone, un 
anacoreta che viveva nei pressi del villaggio, vivendo in obbedienza presso di 
lui per quattro anni. È in questo periodo che una voce interiore lo esortò a 
costruire un monastero, per accogliere i molti monaci che sarebbero accorsi 
presso di lui. Palamone, riconoscendo in ciò la volontà di Dio, lo esortò a dare 
inizio alla sua opera. Pacomio si stabilì allora nel villaggio di Tabennesi, 
presso Dendera, nella Tebaide, sulla riva orientale del Nilo, dove numerosi 
discepoli 
si riunirono ben 
presto attorno a lui, attratti dalla sua fama; il primo fu il fratello maggiore 
Giovanni, seguito poi da Psentaesi, Surus e Psoi.
Nonostante le 
difficoltà iniziali, dovute alle incomprensioni e alle opposizioni dei primi 
discepoli, tra i quali lo stesso Giovanni, che mal comprendevano questa 
“rivoluzione” nella tradizione monastica, il numero dei monaci crebbe così 
velocemente che egli, dopo aver organizzato la comunità di Tabennesi, si trovò, 
verso il 329, quasi costretto a fondare per essi, nei pressi di Phbow (odierna 
Faw al-Qibli, non distante da Nag Hammadi), a qualche ora di marcia da 
Tabennesi, una seconda comunità (chiamata, con termine greco,
koinonia, da
koinós “comune”) monastica, che divenne 
in seguito la casa principale. A queste due prime comunità, altre ne seguirono, 
così che alla morte di Pacomio esistevano già ben dieci monasteri, alcuni da lui 
direttamente fondati, altri costituiti da colonie di monaci laureotici che 
avevano chiesto e ottenuto di essere aggregati alla koinonia pacomiana, 
accettandone le regole. A volte erano i vescovi stessi che chiedevano 
espressamente a Pacomio di fondare delle comunità nelle loro diocesi, anche se 
non mancarono casi di opposizione da parte della gerarchia ecclesiastica, che 
angustiarono gli ultimi anni della vita di Pacomio. Nella regione di Tabennesi 
sorsero anche tre conventi femminili: due furono fondati da Pacomio stesso e la 
direzione del primo di essi, fondato verso il 340 a Tabennesi, fu affidata alla 
sorella Maria; un terzo venne fondato successivamente dal discepolo Teodoro a 
Becne. Per tutti i suoi monaci, Pacomio fu sempre un vero padre spirituale, 
aiutato in ciò da un eccezionale carisma di discernimento spirituale, che gli 
faceva leggere nel cuore.
Il fondatore della 
koinonia morì nel 347,
“il 14 del mese di pakhons, alla decima ora del giorno” (ossia 
alle quattro del pomeriggio del 9 maggio), durante una grave epidemia di peste 
che causò la morte di moltissimi monaci. Alla sua morte migliaia di monaci 
abitavano nei monasteri pacomiani, anche se il numero di essi è variamente 
riportato dagli storici[4].
2.2
Struttura e regola delle comunità pacomiane
Col crescere del 
numero dei monaci che, attratti dalla sua fama, venivano a lui, Pacomio si rese 
ben presto conto della necessità di incanalare e di disciplinare con leggi e 
insegnamenti fermi e precisi l’onda impetuosa dell’entusiasmo monastico. È così 
che divenne il primo legislatore del monachesimo, stendendo per i suoi monaci 
una “regola” per la vita religiosa in comune
(cenobitica; da
koinós “comune” e
bios “vita” ): l’attività della comunità, 
centrata sui tre capisaldi della preghiera, della disciplina e del lavoro, 
veniva così regolata fin nei minimi dettagli. E questa organizzazione 
“giuridica”, gerarchizzata e centralizzata, è la principale differenza tra la 
formula antoniana del monachesimo e il monachesimo pacomiano. Tale regola fu 
detta “dell’angelo” perché, 
secondo la leggenda, Pacomio l’avrebbe ricevuta dall’alto. Nonostante tale 
leggenda, che la vuole ispirata direttamente da Dio, la regola pacomiana non fu 
concepita come un tutto in sé concluso, ma si formò gradualmente, sotto la 
pressione degli avvenimenti, accompagnando, con successive aggiunte, variazioni 
e precisazioni, la non facile crescita della comunità. Il centro della vita 
monastica non era più la venerata tradizione orale tipica degli anacoreti, ma ad 
essa si sostituiva una regola scritta, il cui modello era desunto dalla 
Scrittura e il cui principio fondamentale era il servizio ai fratelli, lo stesso 
gesto di disinteressato amore che aveva fatto di Pacomio, pagano, un innamorato 
di Cristo. Si evitava inoltre ogni esagerazione nelle pratiche ascetiche, 
riportandole a un livello accessibile all’uomo medio; pur lasciando a ogni 
monaco la facoltà di imporsi mortificazioni più severe, si sottolineava come la 
perfezione non consistesse in un’ascesi rigorosissima, ma in una stretta 
osservanza della regola. Da un movimento che si affidava alla pietà individuale 
degli anacoreti, il monachesimo venne trasformato, da Pacomio e dai suoi 
successori, in una formidabile organizzazione, pilastro fondamentale della 
Chiesa Copta. Anche per i monaci pacomiani valevano ovviamente i due principi 
fondamentali della vita anacoretica: condurre una vita ascetica e assicurarsi il 
sostentamento col lavoro delle proprie mani. Ma mentre presso gli anacoreti 
questi fini erano perseguiti individualmente, nel cenobitismo ci si muoveva in 
un quadro collettivo, che impediva anche tutte quelle stravaganze ascetiche alle 
quali spesso gli anacoreti si dedicavano.
A causa dei numerosi 
discepoli di cultura greca che erano entrati a far parte della koinonia 
pacomiana e che non conoscevano il copto, le regole di Pacomio e dei suoi 
successori Teodoro e Orsiesi vennero ben presto tradotte in greco. Una 
traduzione latina fu poi eseguita da Girolamo
(Pachomiana latina). La
Pachomiana latina contiene in effetti quattro differenti testi; la 
loro analisi rivela concezioni diverse dell’autorità e della comunità, 
difficilmente riconducibili a un’unica persona e corrispondenti pertanto con 
molta probabilità a tempi e situazioni diverse; essi rispecchierebbero il 
graduale cammino di istituzionalizzazione della
koinonia: dalla pura regola evangelica dell’amore fraterno stilata 
inizialmente da Pacomio si giunge, per successive aggiunte e modifiche, a una 
regolamentazione minuziosa, che sarebbe opera dei successori Orsiesi e, 
soprattutto, Teodoro. È tale rigida regolamentazione finale che ha fatto 
paragonare da molti la
koinonia a una caserma rigorosamente 
organizzata.
Secondo la 
prefazione alla 
Pachomiana latina 
di Girolamo, ogni monastero pacomiano (“villaggio” se ci si attiene alla 
terminologia copta, o “cenobio”,
coenobium, con termine occidentale) era, come tutti i villaggi 
copti dell’epoca, circondato da un alto muro e al suo interno si trovavano da 
trenta o quaranta “case”, ognuna delle quali ospitava gruppi di quaranta 
fratelli; tre o quattro case costituivano una “tribù”. I monaci erano suddivisi 
nelle varie case a seconda dei lavori che venivano loro affidati: vi era così la 
casa dei contadini, dei fratelli incaricati dell’accoglienza degli ospiti, degli 
incaricati del forno, ecc. Oltre alle “case”, destinate ad accogliere le celle 
dei monaci, altre costruzioni permettevano lo svolgimento delle varie attività 
vitali della comunità: di queste, la più importante era certamente la chiesa, 
luogo di riunione (sinassi) per le 
pratiche religiose comuni, ma si trovavano anche un refettorio, un forno, delle 
officine per le diverse attività artigianali svolte dai monaci, stalle, depositi 
e magazzini, un’infermeria, una portineria e una foresteria per gli ospiti. Come 
per i Padri del deserto, anche per i monaci pacomiani l’attività principale 
consisteva nella fabbricazione di stuoie e di ceste, da vendersi nei mercati dei 
villaggi vicini; accanto a questa attività tradizionale dei monaci, se ne 
aggiungevano comunque molte altre, indispensabili per la sopravvivenza di 
comunità così numerose, quali il lavoro dei campi e la pastorizia, nonché le 
molteplici occupazioni interne alla comunità stessa, dai lavori di lavanderia 
alla preparazione del pane, ai vari lavori nei laboratori artigianali, 
all’accoglienza degli ospiti, alla cura dei malati. Autorità suprema di ogni 
monastero era un superiore (pater 
o 
princeps monasterii 
nella traduzione di Girolamo, “l’uomo dell’assemblea”,
prome ent-soouh in copto), al quale, 
oltre al compito generale di vigilare sull’intera comunità, spettavano alcune 
funzioni in particolare, quali decidere l’accoglienza tra i novizi di quanti si 
presentavano alla portineria chiedendo di essere ammessi alla koinonia o 
l’allontanamento di quei monaci che si erano mostrati indegni di rivestire 
l’abito monacale, sovraintendere alle molteplici attività lavorative dalle quali 
dipendeva la sopravvivenza materiale del monastero, vigilare sul rispetto delle 
regole; il suo compito principale era tuttavia quello di provvedere alla 
formazione spirituale dei monaci, al quale ottemperava con le catechesi tenute 
nei giorni di sabato e domenica. I padri di tutti i monasteri riconoscevano poi 
come loro capo il padre del monastero di Phbow.
Ogni casa era 
presieduta da un preposto
(praepositus, o “l’uomo della casa”,
prome enpei nei 
testi copti); a lui spettava il compito di vigilare su tutto ciò che accadeva 
all’interno della casa, aiutato in questo suo ministero da un “secondo”
(secundus), la 
cui importanza è però variamente considerata nei diversi testi. A questa 
funzione amministrativa, egli aggiungeva anche quella di padre spirituale dei 
fratelli della sua casa: due volte alla settimana, nei due giorni di digiuno di 
mercoledì e venerdì (i giorni di digiuno erano limitati a due, così da 
conservare le forze anche per tutte le altre attività di interesse per la 
comunità; i monaci che desideravano praticare un’ascesi alimentare più rigorosa 
dovevano farlo senza ostentazione: era consuetudine, infatti, mangiare col 
cappuccio abbassato sulla fronte, così che nessuno potesse vedere quello che 
mangiavano gli altri[5]), egli 
teneva loro una catechesi biblica, il cui argomento serviva poi come tema di 
meditazione continua durante la giornata lavorativa.
Fondamentale nella 
formazione spirituale dei monaci pacomiani era lo studio assiduo della Bibbia: è 
dalla Bibbia, dall’Antico come dal Nuovo Testamento, che venivano tratti quegli 
esempi viventi che dovevano servire ai monaci come modelli di spiritualità. I
Praecepta di 
Pacomio raccomandano con insistenza la necessità dello studio della Bibbia (già 
nella prima metà del IV secolo sarebbe esistita una versione in copto sahidico 
di quasi
tutta la Bibbia), e 
richiedono esplicitamente che tutti conoscano a memoria almeno il Salterio e il 
Nuovo Testamento. Il rispetto di questa regola imponeva che tutti i monaci 
sapessero leggere, fatto degno di rilievo in un Paese e in un periodo in cui 
l’alfabetizzazione, soprattutto nell’ambiente contadino, dal quale la stragrande 
maggioranza dei monaci proveniva, era decisamente scarsa. Gli analfabeti 
venivano diligentemente istruiti e costretti a imparare a leggere, anche 
controvoglia.
La regola pacomiana, 
nata dall’esperienza, venne, secondo l’esperienza, sempre più perfezionata. 
Sulle orme di Pacomio, uno dei grandi riformatori della vita cenobitica fu
Shenute “Figlio 
di Dio”, in arabo
Shenuda. Vissuto a cavallo tra il IV e il V secolo, fu 
archimandrita del celebre
Dayr Anba Shenuda o
Dayr al-Abyad (Monastero Bianco) di 
Atripe, presso Sohag, a sud di Akhmim. Nessuna fonte greca, né storica né 
letteraria, menziona Shenute: questo rimane uno dei grandi misteri della 
tradizione cristiana greca in Egitto.
Shenute nacque 
intorno al 348 nel villaggio di Shenalolet, moderno Shandanil, sulla riva 
occidentale del Nilo, nella regione di Akhmim, e da ragazzino aiutò i genitori 
pascolando le pecore. Verso il 371 abbracciò la vita monastica, entrando nel 
monastero di cui era superiore lo zio materno Pjol. Dopo la morte dello zio, nel 
388 gli succedette nella direzione del monastero e ben presto introdusse una 
regola per i monaci molto più dura e rigorosa di quella di Pacomio, secondo i 
cui precetti si era fino ad allora retta la vita della comunità. Come già per i 
monaci pacomiani, anche quanti volevano entrare nel suo monastero dovevano 
rinunciare a tutti i loro beni materiali e fare voto di condurre una vita pura. 
La vita di comunità, la cui pietra miliare era l’obbedienza, venne regolata fin 
nei minimi dettagli da regole precise; per i trasgressori erano previste 
punizioni severissime, anche corporali. Shenute fu inflessibile con sé stesso e 
con gli altri: si narra che avesse mandato al supplizio un assassino che, mosso 
dal rimorso per un vecchio crimine, era venuto a cercare un aiuto spirituale; 
scrisse anche una lettera alle monache di un convento nel quale fissava, per le 
varie infrazioni alle regole del monastero, l’esatto numero di colpi di bastone 
da infliggere alle sorelle. Si racconta anche che un monaco, percosso da Shenute 
stesso per una trasgressione alle regole, fosse morto per la durezza dei colpi 
ricevuti. La severità della regola fu tale da provocare talvolta dei fremiti di 
indisciplina e di ribellione; tuttavia, nonostante questa durezza di vita, il 
fascino della persona di Shenute - al quale non fu insensibile neppure il 
patriarca Cirillo, che, a quanto pare, lo volle con sé al Concilio di Efeso del 
431 - fu tale che, secondo la versione araba della
Vita di Shenute, il Monastero Bianco, che quando Shenute divenne 
abate contava circa trenta monaci e si estendeva su una superficie di neppure 
cinque acri, giunse, vivente ancora il grande abate, a occupare un’area di circa 
tredicimila acri e a ospitare ben duemiladuecento monaci e milleottocento 
monache.
La sua influenza, 
nonché il suo potere e il suo prestigio, furono grandi anche presso la 
popolazione della regione circostante, che vedeva in lui un
leader nazionale, un avvocato dei poveri 
contro le prepotenze dei ricchi padroni terrieri, greci e copti. Numerosissimi 
erano i visitatori che venivano a sentire i suoi sermoni o a chiedergli consigli 
o benedizioni; tra questi non pochi erano i monaci di Scete o di altri monasteri 
pacomiani, ma anche vescovi, funzionari statali e comandanti militari. In una 
delle tante incursioni dei predoni Blemmi che in quel periodo devastarono la 
Tebaide, ben ventimila persone trovarono rifugio tra le mura del Monastero 
Bianco.
La durezza 
dell’archimandrita non si diresse solo contro i monasteri, ma, come narra il suo 
successore e biografo Besa, anche contro i pagani, ancora numerosi soprattutto 
tra le classi più agiate: nei suoi scritti, molteplici sono gli insulti contro 
le superstizioni pagane e spesso egli tradusse in azione questi suoi violenti 
sentimenti, conducendo di persona attacchi contro i templi pagani e i loro 
frequentatori, distruggendo e bruciando.
Come molti altri 
monaci, tra i quali Paolo di Tebe e Antonio, anche Shenute ebbe una vita 
lunghissima, più che centenaria: secondo la tradizione copta, morì infatti nel 
466, alla veneranda età di centodiciotto anni.
Shenute non fu solo 
un grande riformatore monastico, ma anche il fondatore nonché maggiore autore 
originale della letteratura teologica copta; a lui va il merito di aver portato 
il copto, utilizzato fino allora quasi esclusivamente per traduzioni, al rango 
di lingua letteraria pienamente autonoma. Shenute fece inoltre del suo Monastero 
Bianco un centro di produzione e di raccolta culturale: è qui, infatti, che 
venne compiuta la standardizzazione del testo copto-sahidico della Bibbia, che 
si diede un notevole impulso alla traduzione di quelle opere dei Padri greci 
ritenute adatte a essere introdotte nella cultura copta e che si formò una 
grande biblioteca di opere copte.
Quando, dopo 
Calcedonia, l’organizzazione ufficiale dei pacomiani scelse la parte 
calcedoniana, si originò una scissione all’interno dell’organizzazione stessa; 
molti monaci (come Abramo di Farshut, Apollo, Manasse e Mosè), rimasti fedeli 
alla tradizione di Dioscoro, lasciarono i monasteri pacomiani e si fecero 
fondatori di nuove comunità, le quali non si richiamarono più in maniera diretta 
ed esplicita alla regola di Pacomio, ma, seppur non tutte, a quella di Shenute.
2.4
Rapporti tra il monachesimo cenobitico e quello 
anacoretico-laureotico
La storia del 
monachesimo egiziano viene sovente presentata come una successione di tappe dove 
le più recenti hanno soppiantato le più antiche. In realtà, la formula 
semi-anacoretica ha costantemente incontrato un successo più diffuso e 
soprattutto più durevole della successiva esperienza cenobitica. Il monachesimo 
pacomiano è rapidamente scomparso dopo la conquista musulmana: senza dubbio era 
troppo economicamente legato alle strutture dell'Egitto bizantino, ma senza 
dubbio anche corrispondeva meno alle aspirazioni profonde che avevano fatto 
nascere e avevano alimentato l'ideale monastico pensato all'egiziana. 
Paradossalmente è in Occidente che il modello pacomiano ha conosciuto la sua più 
grande diffusione e si è perpetuato fino a noi. Attualmente, i monasteri che 
sussistono in Egitto si iscrivono di più nella tradizione antoniana-laureotica 
che in quella di Pacomio o di Shenute, o piuttosto presentano una forma mista: 
una laura mutata progressivamente in monastero di tipo semi-cenobitico, ma che 
continua a tenere rapporti organici con gli eremitaggi situati in prossimità. 
Abbastanza presto, quindi, si osserva una sintesi tra i tipi antoniani e 
pacomiani adottata dai membri di colonie monastiche. Soprattutto per ragioni di 
sicurezza, gli eremiti sentirono sempre più il bisogno di vivere in comune al 
riparo di un muro, pur riservandosi luoghi e tempi di solitudine più profonda. 
Si passò quindi gradualmente da una colonia anacoretica a una concentrazione di 
conventi, trasformando il semi-anacoretismo delle origini nel semi-cenobitismo 
attuale.
All’interno del 
monachesimo egiziano è possibile scorgere tracce di una certa dialettica, se non 
di una polemica, riguardo all’anacoretismo, nelle sue varie forme, e il 
cenobitismo, su quale cioè dei due tipi di vita sia da preferirsi. Benché il 
cenobitismo segua cronologicamente l’anacoretismo, molti, sia in Egitto che in 
Palestina, consideravano la vita cenobitica come preparazione alla vita 
anacoretica ed eremitica. Senza essere prima purificati nel crogiuolo della vita 
comune non si sarebbe stati maturi ad affrontare i pericoli e i rischi della 
vita solitaria.
Inutile sottolineare 
come la letteratura pacomiana sostenga invece la preminenza della vita 
cenobitica su quella anacoretica (la
Vita Copta di Pacomio fa riconoscere allo stesso Antonio che il 
cenobitismo è migliore dell'anacoretismo). La vita in comune, caratteristica 
specifica della 
koinonia e 
differenza sostanziale tra le colonie anacoretiche e i monasteri pacomiani, ha 
la sua ragion d’essere in sé stessa e non è considerata in funzione della vita 
eremitica. Viene infatti spesso evidenziato il pericolo dell’orgoglio e di una 
ricerca individualistica della perfezione a cui si espongono coloro che si danno 
alla vita anacoretica. Nella
Vita Copta di Pacomio, laddove si parla del digiuno, limitandolo a 
due soli giorni, si legge: “Coloro 
che si dedicano a pratiche di tal genere, come quelli che si ritirano in 
solitudine, sono esentati da uffici terreni, che li disturberebbero; ma spesso 
si può constatare che si lasciano comodamente servire da altri, e che sono 
orgogliosi o pusillanimi, o vanitosi, alla ricerca di inutile gloria umana”.
La via della carità 
nel servizio reciproco viene da Pacomio contrapposta alle pratiche ascetiche, a 
volte bizzarre, alle lunghe preghiere e ai continui digiuni degli anacoreti. 
Parlando dei 
“fratelli più. piccoli nel cenobio ”, i quali
“non 
si danno a grandi esercizi e ad un ascetismo esagerato, ma procedono 
semplicemente, in obbedienza e spirito di servizio, in purità ed osservanza 
delle regole”, Pacomio osserva che 
“agli occhi degli anacoreti” essi “non conducono una vita perfetta, e sono 
considerati di molto inferiori”, 
e invece “sono 
molto superiori agli anacoreti, perché procedono nello spirito di servizio”.
La
koinonia è anche il luogo in cui i monaci 
imparano a correggersi e a sostenersi a vicenda, nell’esercizio della carità; 
rispetto alla vita solitaria, pertanto, la vita in comune presenta il vantaggio 
della “correzione fraterna”, tema poi ampiamente ripreso da Basilio di Cesarea 
(329-379).
Segno della natura 
comunitaria dei monaci pacomiani non era solo l’eguaglianza nel vestiario e nel 
nutrimento e la cieca e fiduciosa obbedienza ai superiori, ciò che non avveniva 
nelle laure, ma anche la povertà individuale, pur in una relativa prosperità 
comunitaria. I monaci che entravano nei monasteri pacomiani dovevano infatti 
abbandonare tutti i loro beni, mentre quelli che entravano nelle laure li 
conservavano.
3. IL MONACHESIMO FEMMINILE
Non bisogna pensare 
che il monachesimo, in tutte le sue forme, fosse un’esperienza esclusivamente 
maschile. Come il già citato fenomeno delle
virgines e delle
viduae dimostra, fin dai primi tempi del 
Cristianesimo anche numerose donne cercarono di vivere la perfezione evangelica. 
Anche se non numerose quanto gli uomini, furono
molte in Egitto le 
donne che si consacrarono al Signore scegliendo di vivere lo stato monacale; e 
benché la grandissima maggioranza avesse abbracciato la vita cenobitica[6], non 
mancarono tuttavia donne che praticarono l’anacoretismo, nel senso più stretto 
del termine.
L’agiografia 
orientale ci ha tramandato il ricordo di numerose donne che si distinsero nelle 
pratiche ascetiche. Molto spesso i particolari delle vite di queste donne sono 
leggendari e si trovano sovente ripetuti, con leggere variazioni, per personaggi 
diversi, divenendo argomento “topico” a sostegno della tesi che anche le donne, 
i 
vasi deboli 
della tradizione monastica, possono giungere a un alto grado di perfezione e di 
ascesi. Frequenti sono, per esempio, i casi di prostitute che si pentono e 
abbracciano la vita monacale in espiazione dei loro peccati, oppure di donne 
della nobiltà che abbandonano gli agi della loro condizione per vivere la 
povertà evangelica, oppure ancora il caso di donne che, travestite da uomini, 
vivono in mezzo agli uomini e la cui identità viene scoperta solo al momento 
della morte. Questi racconti, pertanto, avevano lo scopo di indurre gli 
anacoreti a non inorgoglirsi, perché anche le donne erano state capaci di fare 
quello che avevano fatto loro. È stato fatto giustamente notare come i Padri del 
deserto praticassero l’eguaglianza dei sessi nelle cose dello spirito, 
considerando le donne idonee a trasmettere le dottrine spirituali; accanto alla 
paternità spirituale dei grandi monaci troviamo così anche la maternità 
spirituale delle
amma, le 
“madri”, modelli e riferimenti di vita ascetica per tutte quelle donne che 
abbracciavano una vita di consacrazione totale a Dio. Ne è prova il fatto che 
gli apoftegmi delle “madri” sono inseriti tra quelli dei padri, nel loro giusto 
ordine alfabetico, e non aggiunti in coda, a mo’ di appendice che si potrebbe 
sospettare aggiunta.
Gli 
Apophthegmata 
Patrum ci hanno tramandato il ricordo di tre di queste 
amma: Teodora, Sara e Sindetica, 
“donne virili, alle 
quali Dio ha concesso la stessa forza di volontà degli uomini’ (PALLADIO, 
HL, 
41).
- 
Teodora era una donna sposata che decise di abbandonare la vita coniugale per 
seguire la propria vocazione allo stato monacale. Per sfuggire alle ricerche del 
marito, che avrebbe potuto riconoscerla in qualche convento femminile, si 
travestì da uomo e, col nome di Teodoro, si ritirò in un monastero ad Ovest di 
Alessandria. Qui visse praticando un ascetismo rigoroso e sopportando dure 
prove, come quando venne ingiustamente accusata di essere il padre di un bambino 
che una ragazza aveva avuto illegittimamente e che aveva abbandonato presso la 
sua cella. Soltanto alla sua morte, nel comporre il corpo, i monaci si accorsero 
che si trattava di una donna.
- Sara 
visse per sessant’anni in una cella provvista di una terrazza sul Nilo e si 
racconta che in tutto questo periodo non abbia mai abbassato gli occhi per 
vedere il fiume, in segno di mortificazione. Fu molto celebre presso i monaci, 
che spesso si recavano in visita da lei, venendo anche da molto lontano, come da 
Scete o persino dalla regione di Pelusio.
- 
Molto popolare nella Chiesa bizantina, Sindetica, di famiglia nobile, visse nel 
IV secolo nei pressi di Alessandria, dove i suoi genitori, di origine macedone, 
si erano trasferiti. Dopo aver praticato fin da giovinetta un’austera vita 
ascetica in casa, si ritirò in un luogo solitario, praticando il digiuno e la 
preghiera. La sua fama attirò molte giovani, desiderose di condurre vita 
monastica sotto la sua direzione.
Oltre al già citato 
caso di Teodora, non mancano altri esempi di donne vissute in incognito nel 
deserto, sotto abiti maschili[7]. I casi più famosi sono 
quelli di Apollinaria, di Ilaria e di Anastasia, la cui realtà storica è 
tuttavia grandemente incerta, di Eugenia, di Eufrosina e di Atanasia.
Di altre donne la 
tradizione ci ha lasciato il ricordo. Benché non avesse condotto vita monastica 
in Egitto, ma in Palestina, dell’Egitto era originaria Maria Egiziaca (circa 
344-421), celebrata nella Chiesa d’Oriente la quinta domenica di quaresima quale 
esempio di contrizione. La storia esemplare di questa donna si diffuse negli 
ambienti monastici orientali a partire dal VI secolo e venne a volte, 
erroneamente, considerata come la storia degli ultimi anni di vita di Maria 
Maddalena. Secondo il racconto, Maria viveva da giovane ad Alessandria, dove 
praticava la prostituzione. Un giorno, per curiosità, si imbarcò su una nave con 
dei pellegrini che si recavano a Gerusalemme e si pagò il viaggio seducendo 
molti dei suoi compagni. Ma a Gerusalemme, mentre cercava di entrare nella 
chiesa del Santo Sepolcro, sentì una forza invisibile che le impediva 
l’ingresso. Subito si pentì della sua vita dissoluta e dopo un giorno di pianto 
potè entrare nella chiesa a venerare la croce. Quindi, uscita da Gerusalemme, 
attraversò il Giordano e visse per quarantasette anni nel deserto. Un 
presbitero, zosima, la trovò 
per caso, ascoltò la 
sua storia e le diede la comunione. Ritornò da lei l’anno successivo, in tempo 
per seppellirla, e un leone lo aiutò a scavare la fossa.
Altre storie di 
prostitute pentite circolavano negli ambienti monastici, come quelle di Pelagia 
di Antiochia, di Taide e di Maria. Si tratta di racconti quasi fiabeschi, non 
privi di fascino, in cui si può cogliere ancora l’eco di una fede semplice e 
profonda.
4. I  
RAPPORTI TRA 
IL MONACHESIMO E LA GERARCHIA ECCLESIASTICA
Il      
monachesimo fu un fenomeno essenzialmente laico: almeno fino alla fine 
del V secolo pochi monaci furono preti, anche se l’opinione comune che essi 
abbiano sempre mostrato un’attitudine ostile nei riguardi delle ordinazioni va 
respinta; i documenti papirologici mostrano chiaramente che già dalla metà del 
IV secolo esistevano presbiteri all’interno delle varie comunità monastiche, a 
volte in numero ben al di là dei bisogni pastorali.
Così come doveva 
essere libero dal mondo, il monaco sentiva di dover essere libero anche nei 
riguardi della struttura ecclesiastica. Lungo tutta la storia del monachesimo 
egiziano di questi secoli affiora sempre un certo antagonismo tra i monaci e la 
gerarchia ecclesiastica, alla cui base si trova la concezione, già diffusa nel 
II secolo, che i Cristiani si potevano dividere in due classi: gli “spirituali”, 
tra i quali si riconoscevano i monaci, e i Cristiani del mondo, tra i quali 
potevano essere considerati anche i
clerici. Solo verso la fine del IV e nel 
corso del V secolo i vescovi riuscirono ad avere una maggiore influenza sui 
monaci nelle loro diocesi, tuttavia senza ottennere da questi molto di più di 
un’alleanza.
Come risulta dalla 
letteratura monastica, molti monaci facevano di tutto per non essere ordinati 
sacerdoti (solo coi secoli VI e VII si osserverà un processo accelerato di 
clericalizzazione degli ambienti monastici). Il monaco Isacco, per esempio, 
quando seppe che venivano a prenderlo per ordinarlo prete, fuggì a nascondersi 
in un campo e venne scoperto solo grazie a un asino che andò a pascolare accanto 
a lui. Ammonio, uno dei monaci più noti del deserto della Nitria, si tagliò 
persino l’orecchio sinistro pur di non essere ordinato prete; nonostante questa 
mutilazione, che gli valse il soprannome di
Parote “dall’orecchio tagliato”, il 
vescovo di Alessandria Timoteo era disposto a conferirgli ugualmente gli ordini: 
soltanto minacciando di tagliarsi anche la lingua, fu infine lasciato in pace. 
Sono noti anche casi di monaci che, una volta ordinati diaconi, preti e persino 
vescovi, non vollero mai esercitare il loro ministero, ritenendosi indegni del 
compito.
Non bisogna quindi 
vedere in questo rifiuto degli ordini sacri un sentimento di superiorità dei 
monaci verso gli ecclesiastici, di disprezzo per il sacerdozio, quanto un senso 
di indegnità dinanzi a simile grandezza, nonché il desiderio di sfuggire alle 
glorie e agli onori terreni. Non è neppur estranea la volontà, più o meno 
inconscia, di continuare a godere dell’indipendenza nei riguardi della sempre 
crescente autorità del vescovo di Alessandria. Anche Antonio e Pacomio, i 
massimi esponenti del movimento monastico del IV secolo, condivisero questo 
sentimento di indipendenza. Benché Antonio avesse sempre mostrato una grande 
reverenza verso il clero, egli fu sempre un laico e stette anche parecchi anni 
senza accostarsi all’Eucarestia, poiché la chiesa e il sacramento erano visti 
semplicemente come aiuti sussidiari.
Nei primi anni della
koinonia, non 
vi erano presbiteri tra i monaci: per la celebrazione dell’Eucarestia del sabato 
sera, Pacomio conduceva i suoi monaci alla chiesa del paese vicino; la domenica, 
invece, era il presbitero del paese che veniva a celebrare presso la cappella 
del monastero. Pacomio, infatti, non voleva chierici tra i suoi monaci, per 
paura che gelosie e vanagloria causassero discordia nella comunità. Solo in un 
secondo tempo Pacomio acconsentì ad accogliere dei chierici tra i suoi monaci, 
imponendo loro però che si attenessero in tutto alla regola come gli altri 
fratelli, senza alcuna distinzione o favoritismo di sorta. Convinto, secondo la 
tradizione monastica antica, che il monachesimo era per sua natura di carattere 
laicale, Pacomio stesso rifiutò l’ordinazione che il vescovo Atanasio voleva 
accordargli: preavvertito, fuggì, nascondendosi al patriarca. Atanasio mostrò 
comprensione per il gesto di Pacomio, riconoscendo che egli era fuggito da “ciò da cui vengono gelosie, 
discordie e invidie” e da una “grandezza 
vana e temporanea” e promettendogli che non avrebbe mai avuto la 
carica presbiteriale.
Pur di assicurare un 
legame tra il Cattolicesimo e il monachesimo, che era allora la componente 
maggiormente visibile del Cristianesimo egiziano, e minimizzare così la sua 
tendenza naturale a diventare indipendente e separato dalle istituzioni 
ecclesiastiche, i patriarchi di Alessandria si videro quindi costretti, a volte, 
a scovare dei monaci riluttanti per ordinarli diaconi o presbiteri, nonché a 
cercare di stringere buone relazioni coi loro rappresentanti. Iniziatore di 
questa politica di alleanza tra la gerarchia ecclesiastica e il movimento 
monastico fu il patriarca Atanasio, le cui tendenze ascetiche, ben note, gli 
permisero di godere dell’amicizia e della fedeltà di
Antonio e di Pacomio 
e, attraverso essi, della maggior parte dei monaci, fieramente leali ai loro 
capi spirituali. La
Vita Antonii non è stata infatti scritta solo per glorificare 
Antonio, del quale Atanasio aveva comunque una grandissima stima, ammirandone 
l’esemplare vita ascetica, ma anche nell’intento, presentando il rispetto e 
l’amicizia che il grande monaco mostrava per il suo vescovo, di cementare la sua 
alleanza coi monaci egiziani. Atanasio dedicò i primi anni del suo pontificato a 
visitare i vari circoli monastici e le comunità ecclesiastiche del Basso e 
dell’Alto Egitto, anche per ottenere una ratificazione e un supporto popolare 
alla sua controversa elezione. E anche in seguito, in tutta la sua carriera, 
egli si sforzò sempre di ottenere la devozione dei monaci.
I 
benefici ottenuti da Atanasio con questa sua alleanza coi monaci sono 
chiaramente dimostrati dal fatto che fu proprio presso i monaci, in particolare 
quelli pacomiani, che egli cercò e trovò rifugio durante il suo terzo e quarto 
esilio, spostandosi da un monastero all’altro. Le relazioni amichevoli tra 
l’arcivescovo e i monaci non significano che tra essi regnasse una completa 
armonia, e tanto meno che l’autorità dell’arcivescovo fosse un dato ormai 
acquisito. Nonostante tutti i suoi sforzi, quindi, alla morte di Atanasio il 
monachesimo continuava ad essere relativamente indipendente dal controllo dei 
capi ecclesiastici e la loro autorità sui monasteri era ancora lungi dall’essere 
completa; questa situazione perdurò fino a che i monaci riuscirono a suscitare 
forti personalità, nelle quali si riconoscevano.
Anche i patriarchi 
Teofilo e Cirillo cercarono l’appoggio dei monaci. Cirillo, personaggio 
fortemente autocratico e autoritario in seno alla Chiesa, si trovò costretto, 
per necessità, a coltivare buone relazioni con Shenute, controparte altrettanto 
autocratica e autoritaria nel sistema monastico. È stato fatto notare che 
qualora Shenute fosse stato mite e dolce come Pacomio, le comunità monastiche 
sarebbero state completamente assorbite nella Chiesa al tempo di Cirillo; così, 
invece, al tempo di Calcedonia non si potè ottenere più di una stretta 
associazione. È solo più tardi, dopo la separazione della Chiesa egiziana da 
quella cattolica, che anche il monachesimo fu unificato nella struttura 
ortodossa sotto il patriarca di Alessandria.
5. IL MONACHESIMO OGGI NEL CONTESTO DELLA  
CHIESA 
COPTA
La conquista 
musulmana segnò l’inizio di un lento declino della cristianità copta. I monaci, 
dapprima esentati dal pagamento delle tasse, vi vennero anch’essi assoggettati 
dopo che molti contadini copti, per sfuggire al peso fiscale sempre più 
insostenibile, avevano abbracciato la vita monastica, facendo così diminuire 
drasticamente il numero dei contribuenti. Verso il 720, sotto il 
sovrintendente delle finanze Osama ibn Zayd al-Tanuhi, 
ai monaci, sottoposti a censimento, fu proibito di ricevere novizi; inoltre, per 
poterli identificare, fu loro imposto di portare al braccio sinistro un 
braccialetto in ferro sul quale erano segnati il loro nome e quello del 
monastero di appartenenza. Molti monaci che si erano rifiutati di ottemperarvi e 
si erano rifugiati nei monasteri del deserto vennero ricercati dai soldati e 
decapitati o fustigati a morte, oppure portati schiavi sulle navi islamiche; i 
monasteri che avevano dato loro rifugio vennero chiusi e i loro abati torturati 
e costretti a pagare una multa di mille dinari. Molti altri furono mutilati 
della mano e di un piede, accecati, o, nella migliore delle ipotesi, furono loro 
tagliate le fluenti barbe. Patria del monachesimo, l’Egitto aveva poi conosciuto 
a questo riguardo un decadimento totale: soprattutto durante il periodo 
mamelucco (1250-1517) e sotto la dominazione ottomana (1517-1805) moltissimi 
monasteri erano stati abbandonati, per mancanza di monaci, ed erano caduti in 
rovina. Alla fine degli anni 1950 restavano solo una cinquantina di monaci, 
suddivisi in sei o sette monasteri, conducenti una vita oziosa, ridotta 
all’osservanza di qualche rito poco impegnativo e priva di qualsiasi 
preoccupazione intellettuale. A questi si aggiungevano altri centocinquanta 
monaci circa, che vivevano al di fuori dei monasteri, impegnati in attività 
pastorali presso le parrocchie.
Antico monaco egli 
stesso e convinto della necessità e dell’importanza del monachesimo, strumento 
scelto per la conservazione del tesoro della tradizione, il patriarca Cirillo VI 
(1959-1971) si propose di ridare vigore al movimento monastico, risvegliandolo 
dalla letargia nel quale era caduto durante la lunga dominazione musulmana. In 
questa sua opera di ammodernamento della Chiesa Copta partendo dal rinnovamento 
della sua istituzione più prestigiosa, il monachesimo, il patriarca fu aiutato 
dai giovani monaci usciti dal movimento delle
Scuole della Domenica. 
Movimento educativo fondato nel 1918 dall’arcidiacono Habib Jirjis (1887-1951), 
esso fu il punto di forza del risveglio giovanile: la domenica (ora al venerdì), 
dopo la messa, venivano impartite ai bambini e ai ragazzi lezioni di Bibbia, 
come anche della storia e delle tradizioni della Chiesa, cercando di sviluppare 
in essi il senso di appartenenza al proprio gruppo religioso. Ciò è 
particolarmente importante nella società egiziana, dove essere copto spesso 
significa essere diverso. I giovani, e in particolare i bambini, sono infatti 
considerati i più vulnerabili all’influenza dell’Islam. L’effetto di queste 
scuole suscitò tra i Copti un movimento di quasi-rinascita culturale, che ebbe 
delle importanti ricadute politiche ed ecclesiastiche. La prima generazione 
uscita dalle Scuole della Domenica fece la sua apparizione negli anni 1930 e 
all’inizio dei 1940; ma sarà alla fine della seconda Guerra Mondiale 
che questo movimento comincerà ad apparire un fenomeno 
più significativo e quasi unico al mondo, contribuendo in maniera preponderante 
al risveglio del monachesimo, quando dei diplomati all’università, sia in 
facoltà scientifiche che letterarie, formatisi spiritualmente e culturalmente 
presso queste scuole, cominceranno in numero sempre crescente a presentarsi nei 
monasteri chiedendo di essere ammessi tra i postulanti. Convinti dell’importanza 
fondamentale del movimento monastico per la vita stessa della Chiesa Copta, 
questi giovani avevano deciso di abbracciare la vita monastica per cercare di 
rinnovarla dall’interno. Tra di essi vi era anche Nazir Jayed Raphael, che nel 
1971 sarebbe diventato patriarca col nome di Shenuda III. Sotto di lui il 
monachesimo ha registrato un rifiorire rigoglioso, quasi una resurrezione: i 
monasteri, prima quasi deserti, sono ora stati ripopolati con una nuova 
generazione di monaci, molti dei quali diplomati o laureati. Anche monasteri 
abbandonati da secoli e in rovina sono stati riadattati e ospitano ora 
nuovamente dei monaci. Monasteri copti sono stati fondati anche all’estero, 
presso le principali comunità della diaspora. Uno di essi, il Dayr Anba Shenuda, 
si trova anche in Italia, a Mettone di Lachiarella, alle porte di Milano.
Il rinnovamento della Chiesa Copta a 
partire dagli anni 1960 ha avuto un notevole impatto anche sui conventi per 
donne, nelle differenti vocazioni: suore contemplative tradizionali, nuove 
comunità di suore attive, “vergini consacrate” e diaconesse.
Sono ormai più di 
una decina i conventi per le suore contemplative; in uno di essi, il Dayr Sitt 
Dimyana, presso Bilqas, nella provincia di al-Gharbiyya, nel Delta, le suore 
vivono come semi-anacorete, mentre negli altri (come
il convento dei Santi 
Teodoro e Acladio a Medinet Habu, sulla riva occidentale del Nilo, di fronte a 
Luxor; il convento dei santi Pisenzio e Abshai, nel villaggio di Tod, sulla riva 
orientale del Nilo, a sud di Armant; il convento di sant’Ammonio e dei 
tremilaseicento martiri di Esna, a circa quattro chilometri a sud-est di Esna, 
ai bordi del deserto) conducono una vita comunitaria, con preghiera e pranzi in 
comune. Le suore contemplative, che fino a pochi anni fa vestivano col costume 
tradizionale delle donne egiziane, ora hanno una loro veste, col caratteristico 
copricapo monastico, portato anche dagli uomini, la
qalansuwa: di 
colore nero, esso è diviso in due metà cucite insieme e porta ricamate tredici 
croci, che rappresentano i dodici Apostoli e Gesù Cristo; la tradizione lo fa 
risalire a sant’Antonio.
La comparsa delle 
suore attive è frutto di un’evoluzione: esse, come le “vergini consacrate”, si 
rivolgono soprattutto ai bambini, agli anziani, ai malati, agli studenti, alle 
donne in generale, agendo nel campo educativo, medico e nei progetti per lo 
sviluppo comunitario. Il primo gruppo di suore attive, le
BanatMaryam, “Figlie di Maria”, furono 
fondate il 19 marzo 1965 da Anba Atanasio, vescovo di Beni Suef e di al-Bahnasa. 
Il successo da queste ottenuto - con le loro scuole, le cliniche, gli ospizi per 
i bambini ritardati mentali - fece sì che altre diocesi negli anni ’70 e ’80 
fondassero nuovi gruppi locali, il cui compito si diversificò sempre più, 
coprendo l’aiuto ai drogati, alle ragazze-madri, l’insegnamento (anche per 
adulti illetterati), la cura medica nei villaggi, ecc.
Le “vergini 
consacrate” sono donne che vivono vita celibataria, sempre in seno alla Chiesa, 
al servizio delle parrocchie e delle diocesi. La prima comunità si è formata nel 
1960, a Giza. Dette
mukarrasat, vivono in piccolo gruppi, sotto la giurisdizione di un 
vescovo locale, che le assiste nelle attività sociali, mediche ed educative. A 
volte sono inviate anche all’estero, per assistere un vescovo o un prete.
Nella sua volontà di 
centralizzazione, il patriarca Shenuda III ha cercato di limitare lo sviluppo 
del movimento delle donne consacrate sostituendolo con un nuovo modello, 
sottoposto più rigidamente al controllo ecclesiastico: l’ordine delle 
diaconesse. Mentre le consacrate dipendono dal vescovo locale, le diaconesse 
ricoprono una ben definita funzione nella gerarchia ecclesiastica (e come tali 
percepiscono un salario). Inoltre, in una società dove il movimento e le 
attività delle donne sono una costante preoccupazione, la creazione dell’ordine 
delle diaconesse fornisce loro il rispetto dovuto ad ogni membro del clero e le 
garanzie professionali e sociali godute dai diaconi maschi. L’ordine del 
diaconato femminile venne istitutito nel 1981, quando il patriarca ordinò le 
prime 180 diaconesse
(shammasat); 
esso fu confermato dal Sacro Sinodo della Chiesa Copta nel 1990-1991 e 
nell’occasione il Sinodo decise di riformare anche il gruppo delle consacrate, 
con l’emissione di un decreto sinodale che organizzava il loro servizio, le 
competenze, la formazione, la promozione ai diversi gradi, la vita di preghiera, 
le sanzioni, ecc. Ne risultò un cambiamento radicale del servizio delle 
consacrate, il cui stato viene ora visto come una fase preparatoria per il 
diaconato femminile e non più come una forma di servizio religioso parallelo 
all’ordine delle diaconesse. Ci vogliono ora ben 18 anni di servizio 
ininterrotto all’interno delle consacrate per essere ammesse al diaconato.
	
[1] Il termine laura nacque in Palestina e solo col V secolo compare anche nei documenti egiziani. Il suo significato originario di “cammino stretto, corridoio” ben si accorda con le caratteristiche geografiche delle laure palestinesi, costituite prevalentemente da grotte che si affacciano su un sentiero che corre lungo il versante di una scarpata.
[2] Attualmente esistono i seguenti quattro monasteri: Dayr al-Baramus, o “monastero dei Romani” (dal copto "pahrwmaios" Paromaios, “quello dei Romani”: la storia della sua fondazione è infatti strettamente legata ai due “giovani stranieri” vissuti con Macario l'Egiziano; secondo un’altra interpretazione, il nome è invece legato all’attività a Scete del monaco romano Arsenio, che era stato tutore di Arcadio e Onorio, figli dell’imperatore Teodosio I e successivamente anch’essi imperatori); Dayr Anba Maqar, nel luogo chiamato “roccia di San Macario”; Dayr Anba Bishoi, dedicato al monaco Bishoi, vissuto a Scete fino al 407; nei pressi sorge attualmente anche un monastero dei siri, Dayr al-Suryan. A poco più di tre chilometri a Nord-Ovest del Dayr Anba Bishoi sorgono le rovine di un altro antico monastero, il Dayr Abu Yahnes, dedicato a Giovanni Kolobós (“il Breve”, Nanus nelle traduzioni latine, cosiddetto per la sua bassa statura), compagno di Bishoi, presso l’“albero dell'obbedienza”.
[3] Si tratta di quarantanove monaci del Dayr Anba Maqar, che si rifiutarono di abbandonare il loro monastero davanti alle orde berbere e furono massacrati. I monaci sfuggiti al massacro seppellirono poi i corpi dei martiri in una grotta presso il monastero; più tardi, i corpi furono traslati nella chiesa di san Macario, all'interno delle mura del monastero. Secondo la tradizione, un corriere imperiale, Artemio, accompagnato dal figlio Dios, era stato inviato dall'imperatore Teodosio II per richiedere le preghiere dei monaci affinché Dio gli concedesse un erede maschio. Mentre il messaggero e suo figlio stavano per lasciare Scete dopo aver compiuto la loro missione, giunsero i barbari, che massacrarono i monaci (21 gennaio 444). Sempre secondo la tradizione, il giovane Dios ebbe una visione, nella quale vide gli angeli che portavano in cielo le anime dei martiri e ponevano sulle loro teste la corona del martirio; poi sia lui che il padre si presentarono ai berberi e subirono il martirio. Si racconta inoltre che i berberi, dopo aver compiuto la loro sanguinaria devastazione, si recarono al vicino Dayr Anba Bishoi, dove lavarono le loro spade sporche di sangue nel pozzo del monastero. L'acqua del pozzo, santificata dal contatto col sangue dei martiri, acquistò proprietà terapeutiche, guarendo da ogni tipo di malattia chi l'avesse bevuta.
[4] Palladio, HL, 7, 6, parla di tremila tabennesioti; in un altro passo di settemila (Ibidem, 32, 8-9). Secondo Cassiano, Institutiones IV, 1, i monaci pacomiani erano cinquemila, mentre per Sozomeno, HE, 6, 28 e per la Historia monachorum 3, 1 erano tremila. Occorre poi tener conto anche delle monache pacomiane che, secondo Palladio, HL, 33, 1, erano circa quattrocento. Le stime sul numero totale dei monaci e delle monache sono molto variabili; tutte, comunque, indicano che la percentuale dei Copti che avevano abbracciato la vita religiosa rappresentava una frazione significativa della popolazione totale, mai più ritrovata nell'ecumene cristiana, sì che l'Egitto stesso di quei secoli è stato definito “un vasto monastero”. Jean Maspero parla addirittura di più di mezzo milione tra monaci e monache; ed E.R. Hardy stima la popolazione monacale nell'ordine da centomila a duecentomila unità. Queste cifre vanno considerate in rapporto alla popolazione totale dell'Egitto. Mentre Giuseppe Flavio (37-103 circa) parla di circa otto milioni di persone, J.R. Crussel propone una popolazione più ridotta, di 4.5 milioni al I secolo, scesa a 2.8 milioni al VII secolo.
[5] Come più volte sottolineato, il regime di vita degli anacoreti era molto duro: secondo il monaco Palamone, primo maestro di Pacomio, gli anacoreti si astenevano dall'olio, dal vino, dalla carne e dai cibi cotti, con esclusione del pane; solitamente si concedevano un solo pasto giornaliero e praticavano frequenti e prolungati digiuni. Pur rispettando l'astinenza dalla carne, dal vino e dalla salsa di pesce, liquamen ex piscibus (nel Monastero Bianco di Shenute sarà poi vietato anche il consumo di formaggio e di uova), il regime di vita delle comunità pacomiane era invece più moderato ed equilibrato: i monaci si riunivano per i pasti due volte al giorno, anche se alla sera era concesso, a chi voleva, di prendere un po' di cibo nella propria cella.
[6] Ai già citati tre monasteri femminili fondati da Pacomio e da Teodoro, vanno aggiunti moltissimi altri; soltanto nei dintorni di Antinoe, per esempio, ne esistevano ben dodici (Palladio, HL, 59, 1).
[7] Questa pratica era così diffusa che si sentì la necessità, da parte della Chiesa, di proibirla espressamente. Uno dei canoni del sinodo tenuto a Gangra, in Paflagonia, nel 345 stabilisce infatti: “Se una donna, sotto la pretesa dell’ascetismo, cambierà il proprio aspetto e, anziché il normale abbigliamento femminile, indosserà quello di un uomo, sia colpita da anatema”.
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30 
maggio 
2015                a cura 
di Alberto "da Cormano"    
   
      
alberto@ora-et-labora.net