Il monachesimo celtico

di Marcel Pacaut

 

Estratto da "Monaci e religiosi nel medioevo" -  Il Mulino1989 (Prelevato dal sito "franciscanos.net" nel 2015)

 

Durante il secolo V la vita monastica si diffuse, assumendo tratti molto originali, nelle regioni celtiche delle isole britanniche, aree periferiche dell'Occidente che fino ad allora non ne avevano avuto esperienza. Qui il monachesimo conobbe allora una straordinaria fioritura e fu caratterizzato da un dinamismo tale che alla fine del VI secolo si propagò sul continente, dando origine ad una fitta rete di fondazioni. Da ultimo, quel monachesimo, anche se la sua vicenda fu effimera, esercitò in campi diversi un'influenza profonda sullo sviluppo dell'Europa occidentale.

1. Le origini

La diffusione della religione cristiana e la nascita del monachesimo in Britannia sono avvolti nell'oscurità. Con sicurezza si può soltanto affermare che nelle regioni britanniche c'erano fin dal II secolo dei cristiani evangelizzati da missionari provenienti dalla Gallia, che nel 314 presenziarono al Concilio di Arles tre vescovi bretoni e che durante il IV secolo le comunità cristiane in area celtica, non fecero che progredire. Esse infatti si adattarono all'organizzazione sociale delle popolazioni celtiche, fondata sull'appartenenza dei singoli a clans costituiti da ampi raggruppamenti familiari, possessori di terre e greggi che ad ogni generazione venivano suddivisi tra i membri del gruppo. Tuttavia, lo sviluppo di quelle comunità fu caratterizzato da due fatti: la diffusione di un'eresia, il pelagianesimo, che traeva origine dall'insegnamento del prete Pelagio, e l'arrivo, tra il 440 e il 470, di invasori germanici (Angli, Juti, Sassoni) nella maggiore delle isole britanniche. Per lottare contro gli eretici la Chiesa gallica inviò san Germano di Auxerre, che soggiornò in Britannia due volte (dal 429 al 431 e nel 447), conseguendo ampi successi. I Britanni, pur opponendo tenace resistenza agli invasori, davanti alla loro preponderanza finirono per ritirarsi nella regione occidentale del paese (Galles e Cornovaglia), emigrando anche alcuni in Irlanda e nell'Armorica (Ndr: l'odierna Bretagna).

In Irlanda il cristianesimo penetrò soltanto nel V secolo, grazie alla missione di Palladio (intorno al 440) e soprattutto grazie all'azione di san Patrizio, negli anni 460‑490. Patrizio era un britanno romanizzato, nato in una famiglia cristiana, ed aveva sedici anni quando, dopo essere stato catturato da dei pirati, sbarcò per la prima volta, prigioniero, nell'isola. Sei anni dopo riuscì ad evadere e a raggiungere il continente, soggiacendo poi a Lérins e incontrando san Germano di Auxerre, che lo consacrò vescovo e lo incaricò di proseguire l'opera di evangelizzazione dell'Irlanda. Tornato, dunque, nell'isola, fissò la sua sede ad Armagh e di qui diffuse il cristianesimo nell'Ulster, nel Leinster e nel Connaught.

Anche la diffusione del monachesimo avvenne per iniziativa di Germano di Auxerre in Britannia e di Patrizio in Irlanda. Entrambi avevano avuto rapporti con il monastero lerinense e conoscevano le motivazioni che avevano portato alla nascita del monachesimo in Occidente e le influenze che su questo avevano esercitato certe tradizioni orientali, in particolare quelle diffuse da Giovanni Cassiano. Tuttavia, non è escluso che la vita monastica sia apparsa in Britannia prima dell'arrivo di Germano di Auxerre e che si sia impiantata all'interno di vari clans in forma di comunità aperte, che riunivano i fedeli più devoti cui veniva affidata la direzione della chiesa locale ed il compito di proseguire l'attività di evangelizzazione del paese. Se le cose andarono così, allora Germano e Patrizio dovettero servirsi di quelle prime comunità per condurre la lotta al pelagianesimo e al paganesimo, assegnando poi identiche finalità anche alle comunità monastiche da loro fondate. Ad ogni modo, il risultato di queste iniziative fu la creazione di numerosi monasteri, tra cui i più famosi furono quelli di Llancarfan (Galles) e di Llanwit (Glamorgan), fondati da Germano e dal suo discepolo Iltredo, quello di Armagh (Irlanda), centro dell'azione di Patrizio, e quello di Casa Candida, che Ninían fondò nella parte sud‑occidentale della Scozia per avere una base da cui diffondere il cristianesimo nelle terre circostanti.

La prima fase del monachesimo celtico

Già allora, dunque, il monachesimo celtico aveva acquisito i caratteri fondamentali della sua originalità. Da un lato, costituì l'unica vera struttura ecclesiastica capace, in certo modo, di subordinare l'episcopato, attribuendo di fatto all'abate del monastero le mansioni che altrove erano proprie del vescovo, mentre dall'altro si diede consuetudini particolari, soprattutto in campo liturgico. Quel monachesimo, infine, rimase inserito nell'organizzazione socio‑politica dei popoli celtici, poiché ogni monastero era congiunto ad un clan, ma ciò non gli impediva di essere animato da un vivissimo spirito missionario.

Volendo però approfondire l'analisi, dobbiamo pur ammettere che, non disponendo di documentazione sicura, tali caratteristiche sono più frutto di congetture che di certezze e ad ogni modo non sembra che, in un primo tempo (e cioè prima di Germano e di Patrizio), ci sia stato nei paesi britannici e celtici un vero e proprio monachesimo. Infatti il cristianesimo proponendo alle popolazioni una spiritualità fondata sulla rinuncia ‑ spiritualità che procede direttamente dalla dottrina dogmatica e morale propria del cristianesimo ‑, le indusse a ritenere quella rinuncia non già come un ideale attuabile in modi diversi, bensì come un dovere generale e assoluto. Per ingenuità e fors'anche per trasporto emotivo e ancor più sicuramente per il desiderio di primeggiare sugli altri clans, i Celti sostenevano che la conversione alla religione cristiana comportava la rinuncia totale ai beni e ai piaceri del mondo e la pratica di un'ascesi che poi, di fatto, era di tipo monastico. Ecco allora che in ogni clan si svilupparono consistenti comunità in cui confluivano i cristiani più ferventi, che cercavano di attirare a sé tutti i fedeli e comprendevano ‑su questo punto la documentazione pervenuta è chiarissima‑, uomini, donne e fanciulli.

Un tale stato di cose diede presto origine a problemi di ogni specie. La rivalità fra i clans fu esasperata da una falsa emulazione ascetica; le comunità troppo numerose divennero impossibili da governare; poi al loro interno scoppiarono disordini in cui si affrontarono lassisti e rigoristi. Proprio a causa di queste difficoltà il sistema cominciò a sfaldarsi, mentre le invasioni dei barbari germani obbligarono i Celti, dal 520 in poi, a ripiegare in determinate regioni, disgregando così le strutture interne delle comunità.

2. La grande stagione del monachesimo celtico

La nuova fioritura monastica

Intorno al 540 ebbe inizio la seconda fase della vicenda del monachesimo celtico, che giunse ad uniformarsi pienamente all'autentico ideale monastico, e ora con una riforma delle comunità preesistenti (fatta eccezione per quanti non potevano o non volevano essere monaci), ora con la fondazione di nuovi monasteri ad opera di alcuni pionieri, alcuni dei quali dotati di straordinaria personalità, si avviò ad un considerevole sviluppo.

Fu allora che vennero ricostituiti i monasteri della regione del Galles (Bangor, Lancavan) e della Cornovaglia (Crediton), mentre comparivano le prime grandi abbazie dell'Armorica (Rhuis, fondata da Gildas, che verso il 540 vi compose la storia delle migrazioni celtiche intitolata Rovina e lamento della Britannia; e Lann‑Tevennec, o Landévennec, fondata indubbiamente da Guénolé nella penisola di Crozon). È però in Irlanda che si manifestò più vivace quella passione per la vita monastica che diede origine ad un gran numero di nuove fondazioni. Tra le più famose, l'abbazia di Killeany, sorta su una delle isole di Aran (nella baia di Galway, sulla costa occidentale dell'isola) ad opera di sant'Enda (o Enna), morto nel 542, che era capo di un clan potentissimo ed era stato monaco a Casa Candida. Di qui uscirono poi i fondatori di altri numerosi monasteri.

Tra questi, san Finnian, dopo avere trascorso un certo tempo nell'Armorica, fondò un monastero a Clonard (regione centro‑occidentale dell'Irlanda). Un altro Finnian, morto verso il 590, fece la stessa cosa, circa nel 540, a Moville, nell'Ulster e san Ciaran, già monaco a Clonard, creò un convento a Clonmacnois, sulla riva sinistra del fiume Shannon, tra il 545 e il 550. Analoga iniziativa prese Congall, a Bangor, verso il 558, mentre altri abati impiantavano nuove fondazioni a Glandalough, a Skelling Michael ed in altre località e cominciavano contemporaneamente ad apparire i primi monasteri femminili (Kildare).

Tra quei pionieri del monachesimo, due sono i più conosciuti. Brandano (morto intorno al 580) si guadagnò una prima notorietà fondando parecchi monasteri e dirigendone il più importante, quello di Clonfert, fondato nel 552. Successívamente, insieme a quattordici discepoli, si lasciò trasportare dalle correnti marine per sette anni tra Irlanda e Scozia ed al largo delle coste scozzesi. E questa famosa peregrinazione doveva poi dare origine, alla fine del secolo IX, alla leggenda, diffusa in molti paesi e tradotta in numerose lingue volgari, della Navzgataó Brandani. Columba, invece, sembra avesse una statura, una personalità, più considerevole. Uscito dal potentissimo clan degli O'Donnel e nato intorno al 520, Columba entrò giovanissimo in un monastero, quasi certamente Killeany, dove ricevette la prima formazione, passando poi nel monastero di Moville e poi ancora in quello di Clonard. Dopo aver ricevuto gli ordini sacri, divenne a propria volta fondatore di monasteri insediando delle comunità a Derry, Durrow e Kells. Fu allora che venne a contrasto con Finnian, abate di Moville, cui lo oppose per alcuni mesi un'ostilità che si manifestò in tanti episodi, talvolta comici, ma sicuramente determinata da rivalità fra i diversi clan cui essi appartenevano. Ed alla fine Columba decise di lasciare l'Irlanda insieme ad alcuni monaci e si diresse verso nord. Ad ovest della Scozia, nei pressi dell'isola di Mull, sbarcò nell'isolotto di Hy, noto con il nome di Iona, ove eresse capanne per sé e i compagni e organizzò il suo monastero, a cui affluirono parecchi nuovi monaci che poi, inviati ad evangelizzare i Pitti della Scozia, si sparsero dando vita a tante piccole comunità monastiche. Alcuni furono da lui mandati anche nelle terre occupate dai Sassoni, in Northumbria, per intraprendere l'opera di evangelizzazione. Al termine della sua vita, nel 597, Columba si trovò dunque a capo di una familia numerosissima. Uno dei suoi discepoli, Aidano, fonderà più tardi, nel 635, un monastero nell'isolotto di Lindisfare, vicino alla costa orientale della Scozia, al confine con l'Inghilterra.

Monasteri celti e anglosassoni

Originalità del monachesimo celtico

Conosciamo i caratteri specifici del monachesimo celtico, sia pure non in modo particolareggiato, non soltanto tramite il racconto delle vicende dei suoi principali promotori, ma anche in base ai regolamenti composti da alcuni di loro (ogni abate doveva fissare una regola per i suoi monaci), che in parte sono giunti sino a noi. Innanzitutto, le regole enunciano dei principi di spiritualità ed evidenziano che l'attività svolta nei paesi celtici combinava principi propriamente monastici con alcune idee assolutamente estranee al monachesimo.

I principi di natura propriamente monastica riguardano la definizione del monachesimo. Infatti, i Padri irlandesi, che conoscevano sicuramente, tramite la tradizione che si rifaceva a san Patrizio, il monachesimo orientale ed intrattenevano rapporti con il continente e persino con l'Italia, definiscono la vita del monaco come una fuga mundi, ossia come un ritiro assoluto dalla società per vivere nell'ascesi e nell'esercizio delle virtù cristiane e così conseguire la salvezza della propria anima. Essi tendono a realizzare un sistema di tipo cenobitico, ma non di piena vita comunitaria, dato che, sull'esempio di certe fondazioni continentali come Lérins, ogni monaco abita una sua capanna e si riunisce ai confratelli soltanto in Chiesa, e durante il lavoro. Ed inoltre alcuni abati furono soliti insediare dei monaci fuori dalla clausura monastica, consentendo loro di vivere come eremiti. In questo caso, come già aveva fatto notare san Benedetto, il cenobitismo era una preparazione alla vita eremitica.

Ciononostante, la comunità monastica era molto salda e ciò obbliga giustamente a classificare le fondazioni irlandesi tra quelle cenobitiche. Infatti il monastero era considerato essenzialmente come un gruppo di persone che si riunivano attorno ad un abate perché da lui chiamate; l'abate, poi, doveva guidarle con i suoi consigli e le sue disposizioni lungo la via di una autentica ascesi. Dunque, nel monastero irlandese, come in quello retto dall'autore sconosciuto della Regula Magistri e come in tante altre fondazioni, la comunità prendeva forma dall'abate che, alla guisa del capo di un clan, aveva tutti i poteri. Tuttavia, si trattava pur sempre di una comunità e non di un gruppo informe di persone che si erano trovate insieme per caso.

Eppure, la comunità monastica celtica differisce dalla maggior parte delle comunità sorte sul continente perché è formata in parte da preti, secondo una caratteristica che deriva dal modo in cui il cristianesimo si diffuse nella regione e dal sistema di evangelizzazione qui praticato, basato su monasteri creati per essere centri di irradiazione evangelica da uomini investiti degli ordini sacri al fine di poter celebrare i riti del culto cristiano. Questo elemento, di per sé non contrario all'ideale della vita monastica, finì per darle una connotazione particolare, accentuando, per esempio, l'obbligo dello studio ed obbligandola a definire meglio la sua posizione all'interno delle strutture ecclesiastiche. Quanto all'ascesi, era in genere estremamente dura. Alla sua base sta la preghiera comune e quella individuale, che devono condurre alla meditazione e alle mortificazioni fisiche (digiuni assai frequenti e durissimi, estenuante applicazione al lavoro manuale). Essa insiste, in particolare, sulle punizioni corporali e stimola i compilatori delle regole a fare l'elenco delle possibili colpe (peccati e infrazioni alle regole), indicando per ognuna di esse il relativo castigo: tali elenchi sono comunemente detti “penitenziali”. Dunque, obbiettivo di quella pratica ascetica era di condurre il monaco a un totale dominio e ad un disprezzo del proprio corpo e di tutto quanto ha relazione con esso, e all'esaltazione di virtù quali la castità, la rinuncia ai beni terreni e l'abbandono di ogni propria volontà tramite l'obbedienza. Per gli spiriti migliori quell'ascesi finisce per approdare all'affidamento completo di se stessi a Dio e alla fuga totale dal mondo, che poi si concretezza in una pratica intensissima di tali virtù attuata mettendosi all'avventura sul mare fino a sbarcare in qualche luogo deserto (isola) dove fondare un nuovo monastero. È però vero che l'asprezza delle pratiche ascetiche e il carattere pubblico delle penitenze imposte ai colpevoli ‑ che fanno così conoscere a tutti i meriti e le debolezze di ciascuno ‑ rischiavano di suscitare spirito d'emulazione e rivalità contrarie all'esercizio dell'umiltà.

A questi elementi specifici ne vanno aggiunti altri che non sono di diretta ispirazione monastica. Infatti, la vita monastica irlandese, nonostante la durezza del suo regime e la peregrinazione con cui si manifestava la volontà di ritirarsi totalmente lontano dagli altri, non era certo una vita claustrale. Era, al contrario, aperta sul mondo, e questo soprattutto perché tutti i grandi fondatori furono persuasi che i monaci avessero una funzione da compiere nella società: sono spesso incaricati di presiedere e celebrare il servizio liturgico per i comuni fedeli ed hanno come missione quella di evangelizzare le popolazioni non cristiane o di diffondere più capillarmente la religione nelle campagne già toccate dal cristianesimo. D'altro canto, e sicuramente per effetto di questa attività apostolica, la stabilità, ossia la fissità della dimora in un monastero, non era ancora considerata un obbligo fondamentale: il monaco irlandese muta spesso durante la vita la sua residenza, passando da un monastero all'altro (lo si deduce dalla vita di Columba e di numerosi altri pionieri della vita monastica); e poi, la pratica della peregrinano, presentata come supremo esercizio di perfezione, portava naturalmente il monaco ad abbandonare la sua abbazia.

In realtà, quest'ultimo elemento si spiega col fatto che il monachesimo irlandese, nonostante ubbidisca all'intenzione di attuare il cenobitismo, non esclude la vita eremitica, pur ponendo tra i propri obbiettivi un'azione che non lo distacchi del tutto dalla collettività umana. È senza dubbio questa contraddizione che costituisce il fascino e insieme la fragilità del monachesimo celtico. Ma la combinazione tra una vita monastica che propone con fervore la solitudine come l'elemento essenziale della spiritualità e l'azione, in particolare quella evangelizzatrice, nei tempi successivi costituirà una lezione che non rimarrà inascoltata.

3. San Colombano: il monachesimo irlandese in Europa

La vita di Colombano

San Colombario appartiene alla famiglia dei grandi pionieri celo. Sul monachesimo professò infatti le loro stesse idee, ma nella storia monastica occupa un posto più rilevante degli altri poiché, grazie alla sua forte personalità, alla sua audacia e alla sua intransigenza, esercitò un'influenza più profonda e, soprattutto, realizzò un'opera di più ampio respiro. Infatti, nonostante il carattere assai effimero delle sue iniziative, egli resta uno dei fondatori del monachesimo occidentale.

Vale la pena di raccontare la sua vita. Nacque intorno al 540 in Irlanda da una potente famiglia della regione del Leinster. Ancor fanciullo, e sicuramente in un monastero, ricevette una formazione molto solida caratterizzata da una buona conoscenza del latino (nelle sue lettere cita Virgilio, Plauto, Sallustio e persino Orazio, Ovidio e Giovenale) e da quella dei principi fondamentali della fede, e arricchita da nozioni di storia e di filosofia. Questa cultura fece di lui un ottimo scrittore, capace di usare un latino molto corretto, particolarmente attratto dalla poesia e compositore di versi che non mancano di ispirazione.

Nella prima giovinezza, ossia alcuni anni dopo la scomparsa di san Benedetto, si fece monaco a Bangor, in Irlanda, sotto la guida dell'abate Congall, uomo severissimo che esigeva dai suoi discepoli un'austerità molto dura. A Bangor Colombano restò circa un ventennio e poi, verso il 575, dopo aver salito, a quanto sembra, tutti i gradi dell'ascesi cenobitica, decise di compiere con alcuni compagni la peregrinatio. Sua intenzione era quella, allora consueta, di stare in mare per qualche tempo e stabilirsi poi in un luogo solitario per fondarvi un nuovo monastero. La sua navigatio durò parecchio (forse alcuni anni) e finalmente lo portò sulle coste dell'Armorica. Ma Colombano non si fermò qui, continuando ad errare per il continente alla ricerca di un luogo isolato all'interno, lontano dalla costa, oppure ‑ ipotesi più attendibile ‑ spinto dal desiderio di diffondere il monachesimo in regioni dove già esisteva ‑ diversi monasteri sorgevano nella regione di Parigi, nel Poitou ed altrove sin dagli inizi del secolo VII ‑ ma non dava prova di un energico dinamismo, o forse perché voleva anche unire la fondazione di un monastero all'opera di cristianizzazione e di evangelizzazione.

Sbarcato nella zona di Cancale, tra Saint‑Malo e MontSaint‑Michel, si inoltrò verso est e, dopo avere attraversato Rouen, Noyon e Reims, si portò oltre i confini del regno di Austrasia, nel regno burgundo, nato dallo smembramento del regno franco e governato, come l’Austrasia e la Neustria, da re della dinastia merovingia. Secondo il racconto fatto dallo stesso Colombano del suo viaggio, egli scopri allora con doloroso stupore che “la virtù è quasi inesistente” e non poté che deplorare la crudeltà, la cupidigia, la volontà di sopraffazione, il disordine dei costumi e, soprattutto, la persistenza di credenze e di pratiche pagane, proponendosi di lottare contro quei mali. Impegnandosi, senza dubbio, nell'assistenza ai fedeli, si rafforzò in lui l'idea di creare un monastero che organizzasse meglio l'attività evangelizzatrice e ne fosse un solido centro d'irradiazione. Quindi, allorché il re Gontrano gli propose di stabilirsi in una delle sue terre, Colombano accettò immediatamente e scelse la località selvaggia di Annegray, nel cuore dei Vosgi, nella valle del Breuchin. Alcuni mesi dopo si trasferì con una parte dei suoi monaci ad alcune leghe di distanza, in un sito più erto e dirupato del Lixovium (oggi Luxeuil), dove un tempo era stato costruito un castrum. Poi, poco dopo, fondò un altro monastero nelle vicinanze, a Fontaines. Colombano fissò la propria residenza a Luxeuil, dirigendo da qui i tre monasteri da lui fondati avvalendosi dell'aiuto di prevosti (priori), posti a capo di ognuno di essi. Come in passato, continuava ad occuparsi dell'evangelizzazione della regione e a reclutare discepoli che non erano più irlandesi, ma nativi del luogo, già pensando di mandare in giro alcuni dei suoi monaci perché fondassero altri monasteri. Ed infine compose la regola che i suoi monaci dovevano osservare.

A Luxeuil Colombano rimase vent'anni. Ma venne poi a contrasto con alcuni vescovi della Borgogna, ai quali, da buon irlandese non abituato a rispettare le strutture episcopali, negò ogni potere di giurisdizione sulle proprie abbazie. Disgraziatamente per lui, le divergenze che l'opponevano all'episcopato riguardavano questioni precise, ed in particolare problemi concernenti la liturgia (data della Pasqua, che i Celti calcolavano in un modo diverso rispetto agli altri cristiani, rito del battesimo, la tonsura, ecc.), sulle quali non poté sperare di avere il saldo sostegno dei suoi amici. Al papa, informato del contrasto, Colombano volle far conoscere le sue lodevoli intenzioni e la sua perfetta ortodossia in fatto di dottrina, senza però astenersi dall'aggiungere che Luxeuil era, in qualche modo, un fazzoletto di terra irlandese e, quindi, vi dovevano essere rispettate le tradizioni irlandesi. Ma i suoi avversari non si diedero per vinti e nel 610, avendo suscitato l'ira di Brunilde e perduto l'appoggio del figlio, il giovane re Teodorico, per avere criticato i costumi vigenti alla corte, Colombano dovette partire.

Una parte dei suoi monaci rimasero a Luxeuil, mentre egli, con alcuni altri, intraprese una nuova peregrinatio. Passando per Besangon, Auxerre, Nevers, Orléans e Tours (ove si fermò a pregare sulla tomba di san Martino) giunse a Nantes, dove rimase per un po' di tempo, decidendo infine di far ritorno in Irlanda. Salì, dunque, su una nave, che tuttavia non poté muoversi per mancanza di vento. Colombano, credendo di scorgere in questo un segno del cielo, tornò a terra e si incamminò per la seconda volta verso le regioni dell'interno per fondarvi altri monasteri. Attraversò la Neustria lasciandovi il discepolo Potentino, poi fondatore dell'abbazia di Coutances; giunse a Soissons, a Parigi e a Meaux, dove si fermò per qualche tempo consigliando a quanti lo ospitavano e lo ammiravano di fondare o di riformare la vita monastica nella regione (fu allora che la giovane Fara fondò l'abbazia femminile di Faremoutiers, mentre il monaco Adone divenne abate di Jouarre e il monaco Ouen fondò l'abbazia di Rebais). Procedendo nel suo viaggio, Colombano passò poi in Austrasia per stabilirsi, forse dietro richiesta di re Teodeberto, nelle terre abitate da gente di lingua germanica, dove molti erano ancora i pagani. Dapprima si fermò a Tuggen, nelle vicinanze di Zurigo, per dedicarsi ad una lotta accanita contro il culto degli idoli, e poi si trasferì a Bregenz, all'estremità orientale del lago di Costanza, fondandovi nel 611 un monastero.

Forse fu allora che gli venne l'idea di andare a Roma per esporre direttamente al papa le proprie intenzioni sulla vita monastica e sull'attività missionaria. E può anche darsi che volesse così garantirsi dall'ostilità della dinastia burgunda, che ancora lo perseguitava. Ma in ogni caso, qualunque ne fosse la ragione, Colombano si rimise in viaggio e, dopo avere autorizzato il suo discepolo Gallo a restare sul posto e a costruire un monastero (sarà l'abbazia di san Gallo), si diresse a sud, attraversò le Alpi a Septímer, si fermò per qualche tempo a Milano e, sotto la protezione del re longobardo Agilulfo, che era ariano, ma tollerante, fondò una nuova abbazia a Bobbio, nel 614, dove lo colse la morte il 23 novembre del 615.

Geografia delle fondazioni colombiane

È difficile stabilire, anche in modo approssimativo, quante fossero nel 615 le fondazioni create da Colombano e dai suoi discepoli in cui venivano seguite le norme e le direttive stabilite per il monastero di Luxeuil. È invece possibile indicare le regioni ove egli gettò i semi dell'esperienza monastica.

Innanzitutto le terre dell'attuale Francia orientale e della Svizzera tedesca, ossia la Lorena, i Vosgi, l'alta Renania, la Franca‑Contea, l’Argovia, ecc. Qui erano sorti i monasteri principali: nei Vosgi a Luxeuil, Annegray e Fontaines; in Alsazia a Marmoutiers, fondato da Leobardo; in Renania a Disentis, fondato da Sigeberto; a San Gallo, Bregenz e a Coira in Svizzera; in Franca‑Contea a Lure, creato da Desle, Ajoie, denominato poi Saint‑Ursanne, fondato da Orsicino, a Baume‑les‑Messieurs, Faverney, Bèze e San Paolo di Besangon, fondato con l'ausilio del vescovo della città Donato.

Anche la parte centrale e occidentale della regione parigina fu terra d'elezione del monachesimo irlandese con i conventi di Coutances, fondato da Potentino, Saint‑Valérysur‑Somme, fondato da Wadolino e Valerio, Jouassamoutiers, Faremoutiers e molti altri. Ma anche la parte meridionale di questa regione, ed il bacino della Loira conobbero qualche fondazione (per es. il monastero di santo Stefano a Nevers). Infine, l'Italia settentrionale annovera il monastero di Bobbio, che ben presto brillò di vivo splendore.

Nel panorama del monachesimo altomedievale Bobbio acquisì rapidamente un rilievo di portata europea grazie all'alto livello dell'attività culturale di cui divenne centro, all'imponenza della sua dotazione patrimoniale ed alla protezione regia di cui godette sin dalla fondazione, passando poi sotto il diretto controllo imperiale in età carolingia. L'istituzione del cenobio bobbiese nella valle del Trebbia, in territorio piacentino, coronò l'attività svolta da Colombano nei pochi anni trascorsi in Italia a stretto contatto con la monarchia longobarda, in un periodo agitato dai perduranti contrasti politici e militari conseguenti all'espansione dell'avanzata longobarda verso i domini bizantini e dalle tensioni religiose provocate dalla coesistenza, nell'Italia settentrionale, del cattolicesimo, dell'arianesimo, professato ancora dai Longobardi invasori, e della fede tricapitolina, difesa da quanti aderivano alla condanna pronunciata da Giustiniano delle opere di alcuni trattatisti cristiani orientali. In questo complesso tessuto di relazioni ed eventi le iniziative di Colombano furono rivolte, con il favore di Agilulfo e Teodolinda, sia alla lotta contro la persistenza di culti pagani nell'area lombarda che alla mediazione tra i Longobardi e il papato romano per favorire la pace religiosa. L'appoggio del re si manifestò concretamente nella donazione ‑all'attivo monaco irlandese del territorio di Bobbio, ove già sorgeva una chiesa dedicata a san Pietro, per consentire la nascita di una fondazione che rappresentasse anche, grazie all'organizzazione del controllo e dello sfruttamento delle zone circostanti di proprietà del monastero, destinate ad una forte espansione in seguito ad ulteriori concessioni regie e donazioni private, un saldo avamposto religioso e politico, in quanto protetto e controllato dal Regno, nei confronti della vicina Liguria bizantina.

Motivazioni, quindi, composite alla base della fondazione colombiana, analogamente ad altri esempi forniti dalla storia dell'alto medioevo, che però non ne condizionano lo sviluppo, limitandolo, ma anzi lo favoriscono consentendole di diventare una delle maggiori dell'Occidente europeo. Già nel secolo VIII Bobbio è famosa per l'intensa e pregevole attività del suo scriptorium, ove si trascrivono i testi che costituiscono il patrimonio culturale ereditato dall'antichità classica. Opere letterarie, scientifiche, di grammatica e di diritto, oltre agli scritti dei Padri della Chiesa, ai testi sacri e ai libri liturgici, che vanno ad arricchire una biblioteca di straordinarie dimensioni ed importanza, paragonabile soltanto a quella di Montecassíno, ma di cui oggi rimane meno di un terzo del patrimonio che si stima accumulato nel secolo IX.

L'abbazia si distingue anche per la sua potenza, che si misura nella ricchezza di diritti e privilegi concessi da re e imperatori e nella crescita del suo patrimonio fondiario, che raggiunse ben presto una portata interregionale concentrandosi, in particolare, nell'Emilia occidentale, in Liguria, Piemonte e Lombardia, ove i monaci bobbiesi sono presenti anche attraverso la creazione di una vasta rete di celle, ospizi, cappelle e chiese rurali e cittadine. L'organizzazione impartita da Colombano al cenobio bobbiese viene parzialmente modificata già verso la fine del VII secolo con l'introduzione, dapprima a fianco e poi in sostituzione della regola dettata dal fondatore, di quella benedettina, meno severa, soprattutto per quanto concerne il ricorso a punizioni corporali, permettendo così di superare i forti contrasti sorti all'interno della comunità e facilitando la sua rapida crescita in dimensioni, potenza e prestigio nei secoli successivi.

Come si vede, tutte queste fondazioni coprono un vastissimo territorio, che agli inizi del secolo VII si trovò sotto l'influenza irlandese.

La regola di Colombano

A Luxeuil Colombano compose due regole: la Regula Monachorum, articolata in dieci capitoli, e la Regula Coenobialis, suddivisa in due parti: regula coenobialis Patrum (quindici brevi titoli di capitolo) e la regula coenobialis fratrum (quindici capitoli di diversa lunghezza). La Regula Monachorum tratta innanzitutto delle virtù e della spiritualità del monaco, ma non dice nulla sull'ammissione dei conversi in monastero, sull'amministrazione dell'abbazia, sull'elezione dell'abate e sulle sue funzioni, sui suoi coadiutori e sui rapporti dell'abbazia con l'esterno. Invece la Regula Coenobialis, anche se su questi punti fornisce qualche informazione indiretta, in pratica non è che un penitenziale. Ad ogni modo è chiaro che molte indicazioni riguardanti l'organizzazione della vita monastica sono assenti dalle due regole, ma fortunatamente le possiamo conoscere attraverso altre fonti.

Complessivamente, la regola di Colombano è in perfetto accordo con la tradizione celtica e irlandese, a cui sovente si richiama, del resto, l'autore, quando cita i “Padri” di quel monachesimo. Per Colombano, come per i fondatori di monasteri della Britannia e dell'Irlanda, il monastero si forma attorno ad un abate che raduna attorno a sé dei discepoli e costituisce insieme a loro una comunità. Da ciò risulta che il monaco, che in genere è anche sacerdote, ha uno stretto vincolo personale con il proprio abate, cui deve sottomissione totale usque ad mortem, come scrive il maestro di Luxeuíl, che insiste su questo punto ancora più dei suoi predecessori, tanto da poter pensare che l'unico voto monastico cui si alludeva nella Regula Coenobialis sia quello con cui il monaco si impegnava ad un'obbedienza totale. Per reggere l'abbazia l'abate è assistito da alcuni monaci con speciali incarichi, la cui finalità è però una sola: aiutare i confratelli nel cammino ascetico intrapreso.

Tale cammino, come di consueto, è fondato sulla preghiera e la mortificazione, ed in questa rientrano il duro lavoro manuale, gli studi, il silenzio, le discipline e i digiuni, i castighi corporali inflitti come punizioni delle infrazioni alla regola. L'ascesi così praticata doveva condurre al dominio e al disprezzo del proprio corpo, da conseguire con l'esercizio delle due virtù monastiche che, dopo l'obbedienza, venivano considerate fondamentali: rifiuto delle ricchezze, imprescindibile per raggiungere la perfezione, e castità, raccomandata e esaltata come qualità particolarmente benefica sul piano spirituale. Su altri punti la regola di Luxeuil, più dettagliata di quelle irlandesi, dà informazioni complementari, ma è possibile che alcuni particolari, già contenuti nelle norme stabilite per quel monastero, non ci siano stati tramandati. In particolare ‑ e ciò sembra costituire la sua vera originalità ‑ la regola di Luxeuil trae ispirazione, più che le altre costituzioni irlandesi, da maestri non celti (Pacomio, Basilio, Rufino, Girolamo, Cassiano) e anche da prescrizioni redatte da abati occidentali meno famosi. Essa perciò dà forma “continentale” al monachesimo colombaniano. Inoltre, l'utilizzazione di quelle fonti permette di constatare che il monachesimo colombaniano, dando minor risalto all'eremitismo, mostra più del monachesimo celtico anteriore la sua predilezione per il cenobitismo. Da ultimo (ed è questo un tratto di grande originalità), la regola di Colombano indugia di più sul regime quotidiano del monaco, anche se in misura insufficiente rispetto a quanto dice, in proposito, la regola benedettina. Il maestro di Luxeuil sottolinea che i monaci, vestiti di lana grezza, devono vivere in capanne raggruppate attorno ad un oratorio. Ma invece delle capanne, ci può essere un solo edificio con tante celle (il che avvenne in alcune abbazie, irrobustendo così la pratica della vita cenobitica). Ai monaci è servito un solo pasto ogni giorno, dopo nona, e il cibo è sempre frugale “sì che il ventre non sia troppo gravato e lo spirito non resti soffocato”. Infatti non mangiano carne, bensì legumi, cereali, pane e pesce e bevono birra, bevanda tipica nelle regioni dove sorgevano i loro monasteri. La giornata del monaco trascorre nel silenzio e con ritmi diversi a seconda delle stagioni. Largo spazio è riservato agli uffici divini (tutte le ore liturgiche e la messa) e poi, come già si è detto, il monaco deve attendere al lavoro intellettuale (studio della lingua latina, conoscenza della Sacra Scrittura) e anche al lavoro manuale (e non soltanto ad occupazioni minori, come il servizio di cucina o le pulizie, necessarie in una comunità, ma anche a lavori più duri come il dissodamento del terreno e le varie attività agricole).

4. Il ruolo dei monaci celti nella storia

Le fondazioni celtiche e irlandesi ebbero come effetto principale quello di ridare vigore al monachesimo in alcune regioni dell'Occidente o di riformare la vita monastica già esistente. Su un piano generale, il monachesimo celtico apportò un peculiare dinamismo e un'ascesi singolare, lasciando un'impronta che i mutamenti sopravvenuti in tempi successivi non riuscirono a cancellare del tutto. Ma le fondazioni celtiche e irlandesi esercitarono la loro influenza, quanto mai profonda, in settori che non riguardavano direttamente la vita monastica, ma la formazione stessa dell'Occidente medievale: la cristianizzazione e lo sviluppo della cultura.

La cristianizzazione

Abbiamo già indicato come tratto essenziale il fatto che i monaci celo e colombaniani, nel corso del secolo VI e nei decenni successivi, diffusero la religione cristiana in tutte le zone rurali ove si erano insediati, lottando contro le pratiche ancora vigenti dei culti pagani e contro i disordini morali. Tanto nelle isole britanniche quanto in Armorica, Neustria, Borgogna e nella vicina Austrasia la loro azione fu efficace ed ebbe effetti duraturi.

Ma i monaci celti iniziarono anche a far penetrare il cristianesimo in regioni in cui sino ad allora era rimasto quasi completamente sconosciuto oppure era stato cancellato dalle invasioni barbariche. Ecco allora che l'azione intrapresa da Columba in Scozia (evangelizzazione dei Pitti) si sviluppò con successo partendo dal monastero di Iona ed estendendosi ben presto alla parte settentrionale dell'attuale Inghilterra (Nortumbria, Bernicia) dove i monaci‑missionari non mirarono più tanto alla conversione di una popolazione di origine celtica, quanto ad ottenere l'adesione al cristianesimo dei regni germanici (Angli e Sassoni) che qui si erano formati. L'abbazia di Lindisfarne, sotto la guida di Aidano, divenne nel secolo VII il centro principale della missione tra gli Angli e í Sassoni e diede vita ad altri centri di cristianizzazione, ad altri monasteri come quelli di Whitby, Chester, Peterborough e Boston. Portandosi sempre più a sud gli irlandesi incontrarono poi i missionari che dall'inizio del secolo, sotto la guida di sant'Agostino di Canterbury e su mandato di papa Gregorio Magno, si dedicavano alla conversione degli Angli e dei Sassoni.

Nelle regioni periferiche dei regni merovingi, il monachesimo celtico attuò un'opera ancora più feconda, la cui prima fase si svolse mentre era ancora vivo Colombano e fu attivamente continuata dai suoi discepoli, per tutto il VII secolo. Così le Fiandre vennero evangelizzate da sant'Eligio, vescovo di Noyon, da sant'Omero, primo vescovo di Thérouanne, e soprattutto da sant'Amando. E il cristianesimo penetrò anche nella Germania meridionale, avendo come centri di irradiazione le abbazie di San Gallo, di Sàckingen, nella Foresta Nera, e di Bregenz, dove si formavano i missionari. Partendo da queste i monaci‑missionari si spinsero in Alamannia e in Svevia e poi, negli ultimi decenni del secolo VII, giunsero in Turingia, avendo questa volta come base d'appoggio la chiesa monastica di Wiirzburg, fondata da san Killian, un monaco colombaniano di origine irlandese. Altre regioni germaniche raggiunte dalla predicazione cristiana furono la Baviera, in seguito alla fondazione dei monasteri di Salisburgo, Ratísbona e Frisinga, e il Tirolo, grazie a quella del monastero di Merano.

La cultura cristiana

Anche se a prima vista può sorprendere il fatto che il monachesimo celtico ebbe un suo ruolo fondamentale nella formazione della cultura medievale, una riflessione più approfondita consente agevolmente di rendersi conto che ciò non ha nulla di straordinario e di anomalo.

Infatti, in quasi tutte le altre regioni dell'Occidente, e soprattutto in Italia, in Spagna e in Provenza, la romanizzazione era stata molto profonda ed era quindi difficile configurare un ideale culturale fondato unicamente su criteri cristiani e sciolto dalla onerosa e insieme splendida tradizione della cultura classica. Nonostante le migliori intenzioni ed í tentativi, talvolta anche fruttuosi, di personaggi, come Cesario di Arles, che ebbero ben presenti i pericoli che sul piano filosofico e morale implicava il pensiero antico, tutti coloro che si dedicavano agli studi restavano più o meno legati ad esso e non rinunciavano alla sua ricchezza o, addirittura, ad ammirarne il suo splendore, anche se il loro imenio era sinceramente quello di studiarlo soltanto per meglio comprendere e praticare la religione cristiana. Nella maggior parte dei casi riusciva loro impossibile non fare una netta distinzione tra la cultura in generale e il sapere religioso. Poi, grazie a certe personalità, a certe scuole e soprattutto ad alcuni monasteri (e vedremo più avanti quale ruolo ebbero in ciò i benedettini) la distinzione andò sfumando e poté così fiorire la cultura cristiana medievale. Ma il processo fu lento.

I Celti, invece, fin da quando iniziò il trapasso dalla cultura antica a quella cristiana, si trovarono in una situazione particolare, che consentì loro di assumere, insieme ad alcuni altri, il ruolo di antesignani della cultura propriamente cristiana. La romanizzazione aveva inciso poco su di loro e il latino era rimasto una lingua straniera. Tagliati fuori dal resto della Romanitas fin dagli inizi del V secolo, non avevano più usato il latino per le normali funzioni amministrative, che era però rimasto necessario per gli uffici liturgici. Da questo risultò che per loro gli studi latini non ebbero altro fine che quello di portare alla conoscenza della dottrina e del culto cristiano. Fu, quindi, per questo motivo che i padri del monachesimo celtico e irlandese obbligarono i monaci a studiare e ad imparare il latino.

Alcuni monasteri acquistarono perciò una grande fama come centri di studi e tali furono, ad esempio, Clonard, Bangor irlandese e Bangor gallese, Derry, Iona. Qui si insegnavano la grammatica e la retorica sì che il monaco fosse provvisto dei migliori strumenti intellettuali per accedere alla lettura della Sacra Scrittura, da cui si cominciavano a trarre i principi per spiegare la natura dell'uomo e del mondo. In quei monasteri si coltivavano anche studi di astronomia al fine di determinare con esattezza il ciclo dell'anno liturgico per apprendere quello che era detto il “computo”. Tutto questo, diffuso sul continente dai monaci colombaniani, fatto proprio e approfondito dai benedettini anglo‑sassoni, doveva poi costituire uno dei semi della fioritura culturale del Medioevo.

E lo stesso accadde nel campo delle arti. I monaci seppero volgere gli artisti dei loro clans, abituati a lavorare secondo lo stile semplice della loro cultura pagana e per necessità meramente pratiche, al servizio della religione cristiana, fornendo loro i temi cui ispirarsi e proponendo opere da realizzare. In questo modo l'arte pagana, che affondava le radici nella preistoria, subì, sotto l'influenza dei monaci, un flessibile adattamento, che risultò quanto mai favorevole alle esigenze del cristianesimo. Fu per influenza dei monaci che, ad esempio, un orefice già in grado di decorare uno scudo con motivi a spirale, con figure di animali e intrecci di rami e foglie, passò ad ornare, negli stessi modi, un calice, un reliquiario o un evangeliario. Analogamente (e, anzi, soprattutto) un artista che sapeva trasporre in disegni e in figure a colori quello che era abituato ad incidere su metallo ebbe la possibilità di ornare le pagine dei manoscritti. Poi furono gli stessi monaci, incaricati di copiare i testi sacri, ad acquisire le tecniche della decorazione dei manoscritti, grazie alle quali nacque e si sviluppò l'arte della miniatura, i cui capolavori più famosi a noi pervenuti sono il Libro di Durrow, sicuramente realizzato a Iona nel VII secolo ed oggi conservato a Dublino, un evangeliario ora custodito a Echternach risalente all'ultimo decennio del secolo VII, l’Evangeliario di Durham e il Libro di Kells, entrambi del secolo VIII.

È vero che tale prima produzione artistica era ancora rozza e quei primi esempi di miniatura erano meno elaborati di quelli che contemporaneamente si producevano in Gallia. Eppure, quell'arte celtica, libera da ogni influenza dell'antichità classica e ispirata solo dalle tradizioni locali, esprimeva anzitutto l'intento di piegare l'opera degli artisti alle esigenze e alle necessità della religione. E fu proprio tale intento a costituire la base di quella che chiamiamo la civiltà medievale vera e propria. Dunque non c'è settore in cui si possa reputare trascurabile l'apporto del monachesimo irlandese e in particolare di quello colombaniano.

 


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7 novembre 2024   a cura di Alberto "da Cormano"     Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net