MARCO POETA
Estratto da "Storia di San Benedetto e
dei suoi tempi"
Di Adelfonso Card. Schuster
Abbazia di Viboldone 1965
Tra i primi discepoli di Benedetto, Paolo Diacono annovera il poeta Marco, di
cui cita i distici in onore del santo Patriarca.
Haec omnia ex Marci poetae carmine sumpsi qui ad eumdem Patrem huc veniens,
aliquot versus in ejusdem laude composuit (Sono
tutti particolari che desunsi dal carme del poeta Marco: venendo a vivere in
questi luoghi, accanto al padre Benedetto, compose in sua lode alcuni versi)
(De gestis Longobardorum (Storia dei Longobardi),
1. I, cap. XXVI).
Trattasi d’una breve composizione poetica di trentatré distici, nei quali si
descrive il soggiorno di san Benedetto dapprima a Subiaco, quindi a Monte
Cassino. L’autore si presenta da se medesimo: è un tal Marco, il quale,
essendosi recato a Monte Cassino con l’animo lacerato dal rimorso d’una vita
sregolata, si sentì alleggerito dalla paterna parola dell’Uomo di Dio e si pose
sotto la sua ubbidienza
[1].
Il carme appare scritto poco dopo la morte del Santo, e nonostante qualche
recente dissenso, per la stessa testimonianza di Paolo Diacono non può in alcun
modo riportarsi al secolo VIII ed ai primi tempi della restaurazione del cenobio
cassinese sotto papa Gregorio II
[2].
Il poeta si mantiene del tutto fuori della tradizione gregoriana, che doveva
affermarsi solo qualche decennio più tardi. Egli anzi rappresenta una tradizione
anteriore assolutamente indipendente, e tra le fonti, cita la testimonianza
stessa di san Benedetto medesimo.
Te teste.
Non dice nulla dei miracoli del Taumaturgo, che tanto invece interessano la
generazione contemporanea di Gregorio; ma si diffonde nel descriverci l’opera
sua missionaria sul
Casinum, ed i lavori da lui intrapresi per la erezione del
monastero e la bonifica del territorio circostante.
S’incontra qualche discrepanza tra i due scrittori.
Mentre per san Gregorio l’acropoli cassinese era sacra ad Apollo, per Marco
invece vi si rendeva culto a Giove:
Templa ruinosis hic olim struxerat aris,
Queìs dabat obscoeno sacra cruenta Jovi
……………………………………..
Improba mortifero reddere vota Jovi.
(La cieca moltitudine) un giorno da cadenti altari aveva innalzato dei templi,
per i quali offriva sacrifici di sangue all’empio Giove.
…………………………………………
e offrivano improbe promesse a Giove mortifero.
L’archeologia dà ragione anche al poeta Marco; perché oltre al tempio ed al fano
d’Apollo, una lapide ritrovata nel 1880 in quella zona di scavi ci attesta
l’esistenza d’un tempio di Giove con un annesso portico. L’ho già citata
precedentemente.
I culti solennizzati in quel luogo dovevano quindi essere vari; tanto che il
vate cassinese aggiunge che quelle diverse divinità avevano mutato
l’arce in un tartareo
chaos.
D’accordo con san Gregorio, Marco afferma che ai tempi di san Benedetto, quei
vecchi templi, ufficialmente abbandonati dal Governo cristiano del Basileus,
ormai cadevano in rovina, né erano più frequentati che dai contadini dei
villaggi limitrofi, dalla
plebs stulta, che vi continuava a sacrificare.
Non sembra quindi che il
municipium di
Casinum fosse ufficialmente ritornato all’idolatria.
Il santo Patriarca si era deciso a lasciar Subiaco, non tanto per le
persecuzioni di prete Fiorenzo, che Marco anzi neppure nomina, ma per espresso
ordine ricevuto da Dio:
Sed iussus veniens, heremoque vocatus ab alta
....................................................................
Ad quam tu ex alio monitus cum monte venires.
Ma giungendo per comando divino, chiamato dall’alto eremo
…………………………………………………
E quando venivi a quella da un altro monte
A sbarazzare tuttavia la zona da ogni altra influenza, il Signore vuole che un
buon eremita, che viveva in pace ed in preghiera in una grotta della montagna
cassinese, emigri altrove:
Hiis tu parce locis, alter amicus adest.
lascia questi luoghi, c’è un altro amico
Nel viaggio a Cassino, accompagnano il Santo tre corvi, già suoi vecchi amici e
commensali quotidiani nel cenobio di S. Clemente. Anzi, Cristo stesso gli fa da
guida: allorché giunge a qualche bivio, gli si mostrano due giovani che gli
indicano cortesemente la strada.
L’allontanamento però da Subiaco non è senza grave rimpianto, specialmente da
parte delle desolate popolazioni di quelle montagne, che raggiungono Benedetto a
Cassino, mentre ormai egli si prepara alla nuova missione con un sacro ritiro
quaresimale:
Hic quoque te clausum populi, te teste, requirunt,
Expectas Noctis cum pia festa Sacrae;
Qui velut orbati raucis tibi fiere loquelis
Instant, convictu quod caruere tuo.
Anche qui rinchiuso i popoli ti cercano - tu testimone
mentre attendi le pie feste della santa notte.
E quelli, come orfani, con rauchi lamenti insistono a piangere per te,
Perché sono stati privati della tua convivenza.
Ma ormai la missione sublacense del Patriarca deve considerarsi compiuta. Pianga
quindi la selva — come canta Marco —, pianga il lago, piangano le montagne
Simbruine. Quelle desolate popolazioni, che hanno rincorso il Santo fino a
Cassino, debbono purtroppo ritornare indietro desolate: Dio già gli ha assegnato
un nuovo campo di lavoro.
La conversione dei rustici Casinati alla fede non preoccupa gran che il poeta,
il quale non ne dice parola. Egli invece, al pari di Cassio- doro quando scrive
l’amenità del cenobio di
Vivarium, è tutto intento nel descriverci i lavori intrapresi da
san Benedetto per mutare quel luogo dissacrato in una rocca di vita eterna:
Arxque modo vitae est, quae fuit ante necis.
e l’Arce che fu prima di morte ora è di vita.
Per coltivare la sommità della montagna, la prima necessità è quella dell’acqua.
A questo appunto provvide il Patriarca, sia riattando le antiche cisterne
d’acqua piovana, sia ancora in grazia di qualche buona polla d’acqua impetrata
dalla di lui prece.
Siccaque mirandas terra retexit aquas.
e l’arida terra ricompose acque mirabili.
Gli antichi idoli marmorei o di bronzo vengono rovesciati dai loro piedistalli:
Sculptaque confractìs deiecit marmora signis.
frantumando le statue, abbatté i marmi scolpiti
Ed il tempio vetusto è consacrato al Dio vivo e vero:
Et templum vivo praebuit esse Deo.
e offrì un tempio al Dio vivente.
Il vate ci parla d’un sol tempio: quello di S. Martino. Il
fanum di Apollo, benché ampliato, fu destinato a cappella
cimiteriale. Del tempio di Giove non si fa più memoria, forse perché cadeva
ormai in rovina, come insinua Marco, e non valeva la pena di ripararlo.
Invece degli inutili boschetti sacri, mentre tu osservi un gruppo di monaci
lavoratori che spiana la vetta del monte per crearvi degli orti irrigui, altri
con pale e vanghe lavorano lungo la mulattiera, per allargarla e per sradicarne
i sassi. Per renderne anzi meno ardua la salita, nei punti più ripidi la
deviano, facendola dolcemente girare attorno alla costa del monte:
Neve fatigentur qui te, Benedicte, requirunt,
Molliter obliquum flectit ubique latus.
………………………………………………
Arida tu cujus hortis componis amoenis
Nudaque foecundo palmite saxa tegis.
E affinché non si affatichino coloro che ti cercano, o Benedetto,
flette dolcemente ovunque il lato obliquo.
……………………………………….
Le sue aridità disponi in giardini ameni
e ricopri le nude rupi con fecondo tralcio.
Il Taumaturgo ha bensì licenziate le turbe dei montanari sublacensi che erano
andati a trovarlo a Cassino; ma egli non può impedire che anche qui le buone
popolazioni della Campania accorrano a lui per trovare sollievo in ogni loro
necessità.
E’ per loro comodo infatti che viene allargata la vecchia strada che collega
l’arce con
Casinum.
Molti vengono e vanno; ma molti anche restano, e ricevono dalle mani dell’Abbate
la monastica cocolla.
Come vivono i monaci a Monte Cassino sotto san Benedetto? Che cosa fanno? Eccone
la vita, come ce la descrive Marco:
De qua stelligeri pulsatur janua caeli
Dum canit angelicis turba beata modis
[3],
De qua conloqueris vero, Benedicte, Tonanti
Monticula et sacri Dux heremita Chori.
E da quella è fatta vibrare la porta del cielo stellato,
mentre la turba beata canta con ritmi celesti.
Ma da quella parli a Dio, Benedetto, abitante del monte,
e guida solitaria del sacro coro.
Mentre Benedetto è assorto nella contemplazione e nel colloquio con Dio, la
turba beata dei discepoli canta in coro soavemente le divine lodi. A
quell’altezza, quasi si direbbe che con le sue fervide preci picchi alla porta
della volta stellata del Cielo!
Vuolsi rilevare la nota musicale del vate? A Monte Cassino si canta bene:
angelicis modis.
La vetta del
Casinum è tramutata in un florido giardino, coltivato ed irrigato
dalle mani solerti dei monaci.
Quello però che meno apparisce, ma che è ben più prezioso, si è che ogni giorno
salgono a quella cima delle anime sconsolate. Dopo un colloquio con san
Benedetto, quei cuori si cambiano, e dove prima era rupe e macigno, diviene orto
e giardino. La parola del Taumaturgo è come un’onda di vita eterna, che
rinfresca e feconda dovunque scorre:
Sic hominum steriles in fructum dirigis actus
Sicca salutari flumine corda rigans.
Così trasformi gli atti sterili degli uomini in frutti,
irrigando i cuori aridi di salutare acqua.
* * *
Così si cantava a Monte Cassino a qualche decennio appena dalla morte di
Benedetto, al quale il vate già decreta il titolo di
Sanctus. Nulla gli fa ancora prevedere la futura distruzione del
monastero da parte dei Longobardi, perché forse il Maestro ha voluto che
Teoprobo tenesse secreta la confidenza fattagli.
Ad ogni modo, il poeta cassinese, pur rappresentando una fonte indipendente da
quella gregoriana, si accorda tuttavia con il Pontefice storico nel descriverci
la potente personalità di san Benedetto che domina tutto l’ambiente.
Non soltanto dei monaci, ma sono le popolazioni intere che muovono a lui,
sitibonde di quell’acqua perenne di eterna sapienza che sgorga dal suo labbro, e
che è contenuta nella Regola.
Soprattutto l’epilogo del prologo della Regola stessa viene così parafrasato:
Huc properat caelos optat qui cernere apertos
Nec removet votum semita dura pium
Semper difficili quaeruntur magna laborem
Arctam semper habet vita beata
viam.
In questo luogo si affretta chi
desidera scorgere i cieli aperti,
e la dura strada non lo distoglie dal
pio desiderio:
le grandi cose richiedono sempre un
difficile travaglio
e la vita di vera gioia presenta
sempre una via stretta. |
Et si... ad vitam volumus pervenire perpetuam... nibil asperum,
nihil grave nos constituturos speramus... non illico pavore
perterritus refugias viam salutis, quae non est nisi angusto initio
incipienda.
(Prolog.).
E se vogliamo arrivare alla vita eterna...
ci auguriamo di non prescrivere
nulla di duro o di gravoso;.
..non ti far prendere dallo scoraggiamento al punto di abbandonare la
via della salvezza, che in principio è necessariamente stretta e ripida. |
L’autorità dei trentatré distici di Marco non regge al confronto dell’importanza
del secondo libro dei
Dialoghi. In compenso però, qui parla un immediato discepolo del
santo Patriarca. Parla col cuore pieno d’affetto e di gratitudine, e ci dice
quello che non ci potrebbero dire tutti i documenti ufficiali: come doveva
essere felice la direzione spirituale d’un tanto maestro! Come dovevano sentirsi
beati i monaci, avendo a Padre un tale Patriarca:
Dum canit angelicis turba beata modis.
mentre la turba beata canta con ritmi celesti.
Non sappiamo più nulla di codesto Marco. La sua lira è ancora buona e fa onore
alla tradizione latina dei poeti cristiani del secolo VI.
A parte quella baroccata dei monti Simbruini che si avvolgono luttuosamente di
nebbia alla partenza dell’Uomo di Dio per
Casinum; degli antri sublacensi, dove perfino le fiere piangono il
suo allontanamento; del lago di Claudio e di Nerone che versa lacrime, e delle
selve che in segno di dolore spargono disperate le chiome; a parte, dico, tutta
questa retorica di gusto assai discusso, la poesia è calda di sentimento, e fa
veramente onore alla scuola dove il vate si formò.
Egli sentiva accoratamente san Benedetto, e lo esprimeva specialmente nei
distici.
Credo quod et felix vita fruar insuper illa
Oras pro Marco si, Benedicte, tuo
………………………………….
Sic rogo nunc spinas in frugem verte malignas
Quae lacerant Marci pectora bruta tui.
Credo inoltre che vivrò quella vita di beatitudine,
se tu, o Benedetto, pregherai per il tuo Marco.
……………………………..
Così ora ti prego, converti in frutto le spine maligne,
che lacerano il cuore pesante del tuo Marco.
Depongo la penna a questo
pectora bruta del VI secolo, e ripenso a quelli non meno bruti del
tempo nostro, ripetendo anche per loro la prece del pio vate.
[1]
Nota del redattore del sito: Un importante contributo alla conoscenza
del patrono d’Europa è rappresentato dal
Carmen de sancto Benedicto in
cui sono contenuti aneddoti non immediatamente desumibili dallo scritto
di san Gregorio, anzi si è arrivati a ipotizzare che tale opera sia
riferibile ad un periodo molto prossimo alla morte di san Benedetto
(fissata dalla tradizione al 21 marzo 547) e, pertanto, precedente alla
compilazione degli stessi Dialogi.
Dell’autore del Carmen, il
poeta Marco, poco o nulla si conosce, anche se la sua vita può
presumibilmente essere collocata tra il VI e l’VIII secolo. Fonte: "Studi
Cassinati" Anno XVI, n.2, 2016.
Anche la traduzione del testo latino è tratto dalla stessa fonte.
[2]
II poeta vede ancora Monte Cassino così come era prima dell’invasione
delle truppe di Zotone, e non può prevedete affatto le rovine che vi
accumulerà sopra la guerra dei Langobardi.
[3]
E’ un verso che richiama l’inno eucaristico di sant’Ambrogio per il
Lucernario della veglia pasquale :
Exsultet iam Angelica turba caelorum.
Ritorno alla pagina sulla "Vita di san Benedetto secondo Marco poeta e Paolo Diacono"
| Ora, lege et labora | San Benedetto | Santa Regola | Attualità di San Benedetto |
| Storia del Monachesimo | A Diogneto | Imitazione di Cristo | Sacra Bibbia |
15 ottobre 2017 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net