LE MADRI DEL DESERTO
Sr. Lisa Cremaschi, Comunità di Bose
Diocesi di
Fidenza
Scuola diocesana di formazione
12 novembre 2018
Introduzione: Perdute nella storia?
Difficile è parlare della donna oggi; si finisce a volte per parlare di “genio
femminile” senza spiegare che cosa si nasconda dietro queste parole; si cerca
affannosamente uno specifico femminile, una spiritualità femminile come se fosse
contrapposta a quella maschile.
“Tale genere di categorizzazione si presta bene alle polemiche, come anche alla
misoginia, che trae vantaggio dal far risalire l’esperienza di fede delle donne
a un certo ripiegamento nella sensibilità, ad alcuni stereotipi, i più
elogiativi dei quali peraltro sono i più insidiosi. In realtà,
vivere e credere al femminile ci rimanda essenzialmente a un
voluminoso e aerato spazio nel quale risuonano molteplici voci, ciascuna delle
quali ha il suo timbro particolare, contrassegnato da una nota personale che più
frequentemente è assente nel discorso maschile”[1].
Non esiste una categoria “donne”; esistono le donne.
E poi si dimentica e si è dimenticato troppo spesso che unico è l’evangelo
annunciato a tutti uomini e donne (“Non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né
libero; non c’è maschio né femmina”, Gal 3,28).
Il tema della donna, tema complesso e delicato che si cerca di affrontare con
tutti gli strumenti che la cultura contemporanea ci offre, è ancor più difficile
da trattare quando si parla della figura della donna nei tempi antichi, così
lontani da noi non solo cronologicamente. Si ripete e si è ripetuto all’infinito
che nell’antichità cristiana la donna era afona, priva di parola, che i padri
della chiesa sono responsabili della misoginia che tuttora permane nella chiesa
cattolica. Sono tutte affermazioni in gran parte vere, ma non sono tutta la
verità. A volte ci si limita a formule rapide, eccessive, ideologiche.
Indubbiamente ci sono miti da decostruire, ma contemporaneamente occorre cercare
nella storia ciò che apparentemente può sembrare perduto. Faccio mie le parole
di Lucetta Scaraffia: “è particolarmente importante che, proprio in questo
momento, la chiesa riprenda contatto con le proprie origini ‘femministe’”
[2] .
E queste origini femminili, direi più che femministe, si trovano nel vangelo, ma
anche, a sprazzi, nella letteratura cristiana antica. Da decenni il femminismo,
o meglio, i femminismi si chiedono se la religione cristiana “è la principale
responsabile dell’oppressione delle donne, o ha invece rappresentato, se pure
con ambiguità, uno dei pochi spiragli offerti ad alcune di esse per accedere
alla cultura, alla sfera pubblica e, talvolta al potere”
[3].
Accanto a una risposta polemico-accusatoria che giudica antifemminista tutta la
tradizione cristiana e si limita alla denuncia dell’oppressione delle donne
[4],
vi è quella di chi cerca di rileggere i vangeli e la letteratura patristica
ritrovando ed evidenziando la presenza di figure femminili.
I tempi antichi sono stati avari di informazioni sulle donne, avari di parole di
donne e sulle donne. Eppure qualcosa c’è. Occorre per prima cosa vedere e
ascoltare quello che c’è
[5], e
vederlo e ascoltarlo con estrema umiltà. I testi antichi richiedono una lettura
attenta, non frettolosa. Vanno sempre contestualizzati e liberati dai pregiudizi
di cui sono stati sovraccaricati; sono racconti nati in una determinata epoca,
in una particolare area geografica, all’interno di determinate culture e
ideologie. Ma soprattutto occorre guardarsi dal leggere questi testi con gli
occhiali di oggi. Anche il tempo presente ha le proprie ideologie, anche l’oggi
è un tempo della storia, con la propria cultura, la propria visione del mondo,
della società, dell’uomo e della donna; vi è il rischio di proiettare tutto
questo sul passato impedendoci l’ascolto e la comprensione di parole antiche.
Oggi parleremo di donne che hanno scelto di vivere la loro sequela dietro a Gesù
nella vita monastica e questo non solo per il fatto che chi vi parla è una
monaca e si interessa di monachesimo antico, ma anche per il fatto che la
documentazione relativa alle monache nel mondo antico è ben più ricca di quella
relativa alle altre donne. Se è difficile reperire fonti di o sulle donne, è
possibile trovare fonti monastiche che parlano anche di monache. Impiego questo
termine in senso lato per indicare tutte le donne che vissero la loro sequela
del Signore nel celibato, nella preghiera assidua e nella povertà, qualunque sia
la forma concreta della loro vita.
Molte fonti antiche sono costituite da diari di viaggio di uomini e donne che
hanno voluto visitare i monaci e le monache e hanno riferito le loro parole, a
volte accompagnate dalle proprie impressioni e considerazioni. Faremo anche noi
un viaggio per “visitare” le monache antiche e chiedere loro una parola. “Amma,
dimmi una parola”[6].
Perdute nella storia? Andiamole a cercare!
Le madri del deserto egiziano
I
Detti dei padri del deserto rappresentano una letteratura di un
genere particolare. Sono nati come parole pronunciate da un abba o da una amma -
cioè da un padre o da una madre spirituale -, chiamato anche “anziano/a”, in
riferimento non tanto all’età biologica, ma alla maturità spirituale. Queste
parole sono state pronunciate in un contesto preciso; costituivano “il dono” di
un padre o di una madre a un discepolo, a un ospite, a un altro monaco o monaca
che chiedeva un consiglio per il suo cammino esistenziale e spirituale. A volte
queste parole si esprimono attraverso un gesto, un mimo. Profondamente ancorati
alla realtà, a un determinato momento e a un determinato luogo, i detti non
offrono regole universalmente valide per tutti. Non c’è da stupirsi dunque se
troviamo detti in contraddizione l’uno con l’altro; se a un discepolo o a un
ospite viene data una risposta, a un altro che sottopone lo stesso problema ne
viene data una diversa, proporzionata al suo cammino spirituale. Queste parole
così preziose furono tramandate a lungo oralmente; i discepoli, divenuti a loro
volta anziani, trasmettevano gli insegnamenti ricevuti dal loro padre. Si
fissarono così piccole collezioni di detti che cominciarono a circolare nei
diversi centri monastici egiziani. Fu probabilmente in Palestina, dove
convivevano gli uni accanto agli altri monaci di nazionalità diverse, che si
avvertì come ormai una stagione della vita monastica fosse finita: ripetute
incursioni
di tribù di beduini che devastavano le celle e
uccidevano i monaci
[7], una profonda decadenza morale
e spirituale e il triste conflitto origenista
[8]
avevano provocato la dispersione dei padri del deserto egiziano. Alcuni si
stabilirono sul delta del Nilo, altri nella penisola del Sinai, altri in
Palestina. È in questi anni difficili che si cerca di mantenere vivo il ricordo
dei grandi padri del passato, a raccogliere le loro parole e a trasformarle in
un testo scritto.
Le due grandi collezioni di detti, la collezione alfabetico-anonima e quella
sistematica, furono raccolte in Palestina tra la fine del
V e gli inizi del IV
secolo
[9].
All’interno di queste raccolte troviamo alcune figure femminili. Di tre madri
del deserto sono riportati i detti nella collezione alfabetica
[10];
si tratta di amma Teodora, amma Sara e amma Sincletica. Scrive Ewa Wipszycka a
proposito di queste madri del deserto:
Il carattere stereotipato degli apoftegmi attribuiti a donne e il fatto che
queste ‘madri del deserto’ non possiedono specifici tratti personali può far
nascere il sospetto che non siano mai esistite. Esito tuttavia ad accogliere
questo sospetto; sarebbe difficile spiegare perché gli autori o i redattori del
corpus degli apoftegmi abbiano sentito il bisogno di inventare
queste ‘madri del deserto’ e di attribuire loro degli apoftegmi, dei ‘detti’:
non conoscevano ancora, infatti, il principio della
political correctness. Mi sembra meglio ammettere che queste
‘madri’ sono realmente esistite e che erano note per il loro spirito religioso,
ma che l’immagine che ne è rimasta alcuni secoli più tardi era troppo annebbiata
perché i redattori del
corpus degli apoftegmi concernenti queste ascete-donne potessero
andare al di là di banalità. In conclusione: gli apoftegmi femminili così come
pure la
Vita di Sincletica ci deludono. Invano possiamo sperare di sentire,
attraverso la mediazione di questi testi, la voce delle religiose. Tutto quello
che vi si trova appartiene ai temi trattati in tutto il
corpus degli apoftegmi
[11].
Condivido, con qualche riserva, queste affermazioni. Penso anch’io che queste
madri siano realmente esistite, ma non mi sembrano affatto banali le loro parole
e non mi sembra affatto banale che esse vengano inserite in una collezione di
detti di padri del deserto quasi esclusivamente “al maschile”: nella
Collezione alfabetica vengono riportati i detti di tre donne a
fronte di quelli di centotrenta uomini.
Amma Teodora
Da tutto trarre un guadagno
Le Chiese d’Oriente e quelle d’Occidente festeggiano l’11 settembre la memoria
di santa Teodora, particolarmente conosciuta e venerata soprattutto in Oriente.
La
Vita di Teodora è in gran parte leggendaria; tende a dimostrare
che anche le donne possono uguagliare gli uomini nella vita monastica. Si
racconta che Teodora, vissuta nel corso del IV secolo, era una donna sposata che
lasciò il marito per farsi monaca. Temendo di essere ricercata si travestì da
uomo e si fece accogliere con il nome di Teodoro in un monastero maschile a 18
miglia da Alessandria.
Visse in grande spirito di rinuncia e di sacrificio, tanto che spesso le
venivano affidati i lavori più faticosi. Un giorno fu falsamente accusata di
essere padre di un bimbo illegittimo che era stato abbandonato davanti alla sua
cella. Teodoro/a, scacciata dal monastero, andò a vivere nel deserto. Qui è
provata da una serie di tentazioni, ma Teodora le scaccia con la preghiera. Dopo
sette anni viene riaccolta in monastero ma confinata in una cella appartata.
Alla sua morte l’abate ha la visione di una donna bellissima condotta incontro
al Signore da schiere di santi. I monaci, richiamati dal pianto del bambino,
scoprono che fratel Teodoro è morto e che in realtà è una donna.
La collezione alfabetica dei
Detti dei padri del deserto riporta dieci detti di Teodora. Ne
commentiamo due.
“Amma Teodora chiese a papa
[12]
Teofilo che cosa significassero le parole
dell’Apostolo: ‘sfruttando il tempo’ (Ef 5,16; Col 4,5). Egli le disse:
‘L’espressione indica il guadagno; ad esempio, è per te un tempo in cui sei
offesa? Sfrutta il tempo in cui sei offesa con l’umiltà e la pazienza e traine
un guadagno. È per te un tempo in cui sei disprezzata? Sfrutta il tempo
trattenendoti dal fare del male e guadagna. Sei accusata ingiustamente? Guadagna
con la pazienza e la speranza. E tutte le avversità, se lo vogliamo, diventano
un guadagno per noi’”
(Detto 1).
Il detto riporta la risposta di papa Teofilo a una domanda di amma Teodora.
Teofilo, patriarca di Alessandria tra il 385 e il 412, fu un personaggio molto
discusso; fanatico e violento, combatté i pagani e rase al suolo i loro templi
utilizzando le armate imperiali e schiere di monaci. Amava molto i monaci, ma li
usava per i suoi fini; per questo motivo troviamo in alcuni padri del deserto un
atteggiamento di diffidenza, se non di avversità, nei suoi confronti. Quando
Teofilo si reca dal grande abba Arsenio e gli chiede una parola promettendogli
di osservarla, questi gli dice:
“Dovunque sappiate ci sia Arsenio, non avvicinatevi”
[13]. Abba Pambo è ancora più duro; gli
chiedono di dire al papa una parola di edificazione ed egli risponde: “Se non
trova utilità nel mio silenzio, non la troverà nelle mie parole”[14].
Teofilo per un certo tempo appoggiò gli intellettuali del deserto, gli
origenisti discepoli di Evagrio Pontico
[15],
e nel 399 decretò la condanna dell’antropomorfismo, eresia diffusa tra i monaci
più semplici, che per ignoranza attribuivano a Dio fattezze umane e tutte le
umane passioni e tentazioni. Di fronte alla dura reazione di molti monaci,
Teofilo non solo ritrattò le sue parole di condanna dell’antropomorfismo, ma
passò nel campo opposto e si mise a perseguitare gli origenisti. Si servì a tal
fine dell’esercito imperiale e degli antropomorfisti ormai divenuti suoi fedeli
sostenitori. Centinaia di monaci furono costretti all’esilio e numerosi vescovi
furono deposti.
Di Teofilo è stato detto che “sapeva parlare bene più che fare bene”[16]
e che diede una spiegazione molto bella ad amma Teodora. In effetti
Teofilo fu uno scrittore prolifico, anche non ci resta quasi nulla della sua
opera. La risposta che dà a Teodora è veramente bella. Teodora ha chiesto che
cosa significhi l’espressione “sfruttando il tempo”
(exagorazómenoi tòn kairón), che ricorre due volte
[17] negli scritti paolini. Il verbo
greco
exagorázo ha il significato intensivo di “comprare tutto, esaurire
tutte le possibilità di compera”.
Scrive Paolo ai cristiani della comunità di Colossi: “Perseverate nella
preghiera, vegliando in essa in azione di grazie, pregando anche per noi, perché
Dio ci apra la porta della parola, per annunciare il mistero di Cristo, per il
quale sono anche prigioniero, perché lo manifesti parlandone come devo.
Camminate con sapienza verso quelli di fuori,
sfruttando il tempo. La vostra parola sia condita di sale, per
sapere come bisogna rispondere a ciascuno” (Col 4,2-6). Paolo raccomanda la
preghiera, una preghiera continua anche per lui, affinché l’annuncio
dell’evangelo sia efficace e le sue parole siano eco della parola di Dio. Alle
parole è accostata la prassi, una vita sapiente, una vita leggibile da quelli di
fuori, dai pagani, dai non-cristiani. E in questo contesto utilizza
l’espressione ripresa nel detto di Teodora: “sfruttando il tempo”. Accogliere,
dunque, il tempo che ci viene donato da Dio senza sprecarlo, approfittando di
ogni occasione per essere testimoni di Cristo, per rendere ragione della
speranza che è in noi (cf. 1Pt 3,15). Non bisogna aspettare tempi migliori per
vivere l’evangelo.
Ritroviamo la stessa espressione nella Lettera ai cristiani di Efeso: “Fate
dunque molta attenzione a non comportarvi da stolti, ma da saggi,
sfruttando il tempo, perché i giorni sono cattivi. Non siate
perciò insensati, ma sappiate comprendere qual è la volontà di Dio (Ef 5,16-17).
Paolo ha ricordato al cristiano che egli “è luce nel Signore” (Ef 5,8) e dunque
deve vivere il suo essere luce. Di qui la vigilanza per non perdersi a sognare
un’altra vita, un altro tempo, un altro luogo, un altro corpo, quasi come se
essi ci portassero magicamente ciò che non troviamo nella nostra realtà
quotidiana. Risuona l’invito a essere sapienti e non stolti, insensati, cioè un
invito a non fuggire il pensare, il riflettere. Vivere con saggezza: che cosa
significa? Sfruttare il tempo presente e questo è tanto più necessario perché “i
giorni sono cattivi”. I cristiani non devono rinviare l’adempimento della
volontà di Dio a tempi migliori, concedendosi di essere malvagi perché i tempi
sono malvagi, o gli altri sono malvagi. Occorre piuttosto imparare a discernere
in ogni situazione buona o cattiva, positiva o negativa qual è la via conforme
al vangelo.
Amma Teodora, come tutti padri e le madri del deserto, aveva una grande
familiarità con le Scritture; quello che chiede al papa Teofilo è forse
un’attualizzazione di quei testi paolini e la risposta è così bella che, pur
senza alcun fondamento storico, mi verrebbe da ipotizzare che i ruoli in questo
breve racconto andrebbero invertiti ... Forse è papa Teofilo che, come avviene
usualmente nei
Detti dei padri del deserto, chiede una parola, ed è Teodora,
nascosta sotto un’identità maschile, a rispondere al papa; ma quando si scoprì
che era una donna, divenne problematico tramandare queste parole sotto il suo
nome. Che una donna, seppure travestita da uomo, vivesse nel deserto era ancora
accettabile, ma che spiegasse un testo biblico a un patriarca!
Teodora sa molto bene che cosa significhi essere accusati ingiustamente e ha
imparato molto bene a “sfruttare il tempo”. Come nella Lettera agli Efesini
5,16, anche nel detto riportato sotto il nome di Teodora si evocano tempi
cattivi: offese, disprezzo, accuse ingiuste. Che fare? Come viverle in maniera
evangelica? Certamente innanzitutto vi è il perdono per chi ci ha fatto del
male, questo dono enorme, gratuito, immeritato che siamo invitati a fare a chi
ci ha fatto del male. Qualche volta, è possibile anche la riconciliazione. Ma la
ferita che abbiamo subito c’è, resta, esiste. Non serve rimuoverla, non serve
ingannare noi stessi dicendoci che siamo superiori al male che ci è stato fatto.
Occorre riconoscere con onestà e lucidità che la ferita esiste e che dobbiamo
farne qualcosa perché non si trasformi in peso “rancoroso” che avvelena la vita.
Si possono lavorare le nostre ferite per trarne un guadagno per sé e per gli
altri. Con l’umiltà e la pazienza dinanzi all’offesa, con la rinuncia alla
vendetta e con il perdono di fronte al disprezzo, con la pazienza e la speranza
dinanzi alle accuse guadagno Cristo, guadagno la comunione con lui nella via
stretta. Nella preghiera posso, a poco a poco, lavorare le mie ferite e trarne “un
guadagno”; viverle come preziosa occasione per crescere in umiltà, in
misericordia, in bontà. Se l’acedia, il cattivo scoraggiamento, ci fa sognare un
altrove, un altro luogo dove la vita sarà più facile, e ci spinge ad esonerarci
dal vangelo perché i tempi sono cattivi, il Signore ci chiama a vivere il
vangelo nell’adesione alla realtà, nell’hic
et nunc.
Questo mi ricorda una pagina di uno splendido libro di un monaco benedettino,
Gabriel Brasò, che commentando la
Regola di Benedetto scrive:
“La vita monastica normale esige, ogni giorno, un nuovo sforzo, piccolo o
grande, con la fedeltà nelle piccole cose del momento presente, un costante
riferimento a Dio nelle proprie azioni e nella propria persona ... Un mezzo
molto efficace per mantenere lo slancio della vita monastica è uno sforzo di
attualizzazione, cioè vivere, giorno per giorno, approfittando di tutte le
occasioni. Non perdersi a scrutare l’avvenire, ma vivere ogni giorno come se si
ricominciasse di nuovo. Rinnovandosi nello spirito di fede, bisogna saper
approfittare delle realtà quotidiane per riprendere contatto con Dio. Senza
sforzo concreto non c’è virtù; senza austerità materiale non c’è distacco
interiore; senza privazione effettiva non c’è povertà; senza rimorso di qualche
peccato concreto non c’è compunzione; senza precetti sgradevoli e che costano
non c’è obbedienza; senza difficoltà sensibili non c’è pazienza; senza
umiliazioni non c’è umiltà. Bisogna saper approfittare di ogni occasione
concreta per unirsi al Signore”
[18].
Sono parole evangeliche che riguardano qualsiasi cristiano e non solo chi fa vita monastica. Il credente sa discernere in ogni evento, nelle quotidiane vicende della vita l’azione dello Spirito e cerca di trarre profitto da ogni circostanza, di vivere ogni evento come grazia, come occasione offertagli per apprendere la libertà da sé, per imparare, se pure a caro prezzo, in un lungo e faticoso cammino, a cercare soltanto il regno di Dio, nella certezza che tutto ciò di cui ha bisogno gli verrà dato dal Padre suo (cf. Lc 12,30). E lungo questo cammino tutto serve, tutto ci può aiutare a crescere nell’amore. Ciò non vuol dire che le offese, le calunnie, le aggressioni da parte dell’altro siano cosa buona. Qui ci viene in aiuto un altro testo, una lettera del pastore luterano Dietrich Bonhoeffer:
“Certamente non tutto quello che accade è semplicemente ‘volontà di Dio’. Ma
alla fine, comunque, nulla accade ‘senza che Dio lo voglia’ (Mt 10,29);
attraverso ogni evento cioè, quale che sia eventualmente il suo carattere
non-divino, passa una strada che porta a Dio”[19].
La domanda che in ogni istante possiamo porci è la seguente: in questa
situazione, bella o brutta che sia, qual è la via che porta a Dio?
Il credente sa discernere in ogni evento, nelle quotidiane vicende della vita
l’azione dello Spirito e cerca di trarre profitto da ogni circostanza, di vivere
ogni evento come grazia, come occasione offertagli per apprendere la libertà da
sé, per imparare, se pure a caro prezzo, in un lungo e faticoso cammino, a
cercare soltanto il regno di Dio, nella certezza che tutto ciò di cui ha bisogno
gli verrà dato dal Padre suo (cf. Lc 12,30).
Leggiamo un secondo detto di questa monaca sapiente.
“Amma Teodora disse:
‘Lottate per entrare attraverso la via stretta (Mt 7,13). È come
per gli alberi: se non passano attraverso gli inverni e le piogge, non possono
dare frutti. Così anche per noi, il mondo presente è l’inverno. Soltanto
attraverso molte sofferenze e le tentazioni possiamo diventare eredi del regno
dei cieli (Gc 25; At 14,22)’”
(Detto 2).
Il mondo presente è un inverno, ma noi speriamo nella primavera; sappiamo porre
segni di questa speranza? “La fede cristiana è anche per noi oggi una speranza
che trasforma e sorregge la nostra vita?”[20].
La speranza è messa alla prova dalla sofferenza, dalla malattia, come nel caso
di Giobbe. Sono moltissimi i testi in cui Giobbe riversa la sua amarezza, ma non
si lascia vincere, continua al cuore della sua sofferenza a invocare il Signore,
a invocare un senso (cf. Gb 16,18-22). Come dare speranza a chi soffre? Ponendo
dei gesti nuovi, concreti. Quando Gesù invia i dodici, dona loro il potere di
scacciare gli spiriti immondi e di guarire da ogni malattia. Li rende “ministri
di speranza”
[21]. Sappiamo rendere conto della
speranza che è in noi (cf. 2Pt 3,15). Cosa abbiamo da portare agli altri? La
speranza, la speranza che il regno è vicino, che la vita è più forte della
morte, che il Signore è con noi fino alla fine del mondo, ogni giorno, in ogni
evento. Le nostre malattie, le nostre crisi, le nostre tenebre, la nostra morte
e quella di ogni uomo si apriranno alla vita. Questo crediamo e speriamo: la
vita è più forte di ogni contraddizione, della morte stessa.
Sara
Una donna forte
Tutto ciò che sappiamo di amma Sara deriva dai
Detti dei padri del deserto; oltre a quelli riportati nella
Collezione alfabetica occorre aggiungerne uno in greco presente in due
manoscritti, uno in armeno e uno in latino
[22]. Quest’ultimo detto ci fa cogliere
immediatamente il carattere di Sara, donna vivace, impulsiva, immediata nelle
sue reazioni.
“Un giorno amma Sara, mentre camminava lungo un sentiero, fece un salto e
scavalcò un piccolo ruscello. Un tale al vederla si mise a ridere e Sara,
inconsapevole della grazia di Dio venuta su di lei, gli disse: ‘Crepa!’.
Giratasi all’indietro vide che a quel tale era scoppiata la pancia.
Spaventatissima pregò: ‘Gesù mio, fallo rivivere! D’ora in poi non dirò mai più
parole del genere!’”
(Detto latino conservato nelle
Vite dei padri).
Naturalmente i detti non sono una cronaca puntuale di fatti realmente accaduti;
contengono un insegnamento a volte dato in forma provocatoria. In questo caso si
vuole mostrare a che cosa può giungere la passione se non viene educata,
orientata; si vuole mostrare il potere delle nostre parole che possono
trasformarsi in armi che uccidono. Sara non ha dominato la propria aggressività;
è stato sufficiente che si ridesse di un suo gesto, forse un po’ goffo, perché
reagisse con una violenza verbale sproporzionata. Sara che non era consapevole
“della grazia di Dio venuta su di lei”, non aveva cioè coscienza di quella vita
nuova che le era stata donata nel battesimo, è resa consapevole dal vedere il
male che ha fatto e allora, pentita, prega Gesù di ridare la vita alla sua
vittima, e promette di non dire mai più parole simili.
La collezione alfabetica dei
Detti dei padri del deserto riporta nove detti di amma Sara. Ne
commentiamo qualcuno.
“Di amma Sara si raccontava che per tredici anni fu violentemente combattuta dal
demonio della lussuria e non pregò mai perché la guerra si ritirasse da lei, ma
diceva: ‘O Dio, dammi forza (cf. Gdc 16,28; Is 41,10)’” (Detto
1).
Sara era una donna passionale. È a lungo combattuta dalla tentazione della
lussuria, che nelle antiche liste di passioni occupa il secondo posto dopo la
voracità
[23]. La lussuria è un’assolutizzazione
della propria pulsione fino a ridurre l’altro a oggetto che soddisfa il mio
piacere e sul quale posso esercitare violenza. L’altro, l’altra non è un
fratello, una sorella da amare, ma è ridotto a oggetto che deve soddisfare i
miei desideri, le mie volontà. La radice di questo male sta nel profondo del
cuore. Gesù ha dichiarato: “Beati i puri di cuore!” (Mt 5,8) e ha ricordato che
“chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei
nel proprio cuore” (Mt 5,28). L’amore, che è dono di sé e accoglienza
dell’altro, è smentito dalla lussuria che vuole possedere l’altro. Sara conduce
una lunga lotta per rendere puro il proprio cuore; non chiede di essere
esonerata da questo combattimento, ma chiede la forza di perseverare.
La convinzione che la tentazione è un bene perché rende provati, saldi, compare
più volte nei
Detti. Di Giovanni il Nano si racconta che aveva pregato Dio di
allontanare da lui ogni passione e fu esaudito; ma quando andò da abba Poimen e
gli disse: “Vedo che sono nella quiete e non ho alcuna lotta da sostenere”,
l’anziano gli rispose: “Va’, prega Dio perché la lotta venga su di te e tu ne
ottenga quella contrizione e quell’umiltà che avevi prima. È infatti attraverso
la lotta che l’anima progredisce”
[24]. Un altro detto paragona l’essere
umano alla cera che, “se non è stata riscaldata e ammorbidita non può ricevere
il sigillo che vi si imprime”
[25]. Veniamo lavorati, ammorbiditi
dalle tentazioni, dalle crisi. Ma dinanzi alla tentazione ci si può indurire; in
preda all’orgoglio, non si accetta la propria fragilità e debolezza. È bene
accettare la crisi, imparare a stare nella crisi, accettare di non poterne
uscire immediatamente, non pretendere di trovare soluzioni immediate, drastiche.
La lotta contro le tentazioni ci rende umili, ci insegna a non giudicare gli
altri. La pace la si trova anche al cuore della lotta; a volte ci sono oasi nel
deserto, momenti di frescura, ma la realtà quotidiana è la lotta. Per dire sì al
Signore, occorre dire no a tante altre cose e ripeterlo giorno dopo giorno.
E in questa lotta solo se facciamo spazio al Signore potremo risultare
vittoriosi, o meglio, come dice Sara, il Signore stesso riporterà la vittoria.
“Una volta questo medesimo spirito di lussuria, l’assalì con maggior violenza,
suggerendole le vanità di questo mondo. Essa che per il timore di Dio e la sua
ascesi non cedeva, un giorno salì sulla sua piccola terrazza
[26] a pregare e le apparve allora lo
spirito della lussuria in forma corporea e le disse: ‘Tu mi hai vinto, Sara’. Ma
essa rispose: ‘Non io ti ho vinto, ma il mio Signore, Cristo (cf. 1Cor 15,10)’”
(Detto 2).
Sara ha vinto nella lotta contro la passione, ma come afferma ripetutamente la
Vita di Antonio, è Cristo che trionfa in chi combatte nel suo
nome. “Non io, ma la grazia di Dio che è in me (1Cor 15,10)”
[27], dice Antonio il Grande, il padre
dei monaci. Secondo le parole dell’apostolo Paolo - “Non sono più io che vivo è
Cristo che vive in me” (Gal 2,20) - è Cristo che agisce nel battezzato e riporta
la vittoria sul male. Soltanto radicando la nostra vita in Cristo, in lui
possiamo vincere la morte, ogni forma di male che già oggi ci sottrae un po’
della nostra vita e già da ora vivere la vita del Risorto.
Poco per volta, amma Sara ha imparato la lotta spirituale, ha imparato la
vigilanza su di sé, sui pensieri, sui pensieri malvagi ma anche su quelli
superficiali, inutili, vani che a volte occupano il cuore e lo distraggono dal
Signore e da un agire secondo il vangelo. Il
Detto 3 racconta che Sara abita presso un ramo del delta del Nilo,
ma non lo guarda.
Di lei dicevano che abitò sessant’anni dinanzi al fiume, e non si sporse mai a
guardarlo”
(Detto 3).
Ma che male c’è a guardare un rivo d’acqua che scorre davanti a casa? Nessuno,
ovviamente. A questo detto che ci può lasciare sconcertati
sottostà il tema della non-distrazione. Sara è
veramente monaca
[28], ha un unico intento, sa che cosa
vuole e non si lascia distrarre. Il suo atteggiamento ricorda quello di abba
Elladio “che trascorse vent’anni senza mai alzare gli occhi per vedere il tetto
della chiesa”
[29]. Sommersi dal quotidiano, persi nei
dettagli, nelle piccole cose si rischia di dimenticare il fine della nostra
vita. Di Arsenio, che dopo aver vissuto a lungo alla corte dell’imperatore a
Costantinopoli, si era ritirato nella solitudine del deserto di Scete, i suoi
discepoli raccontano che sulla sua bocca c’era sempre stata questa parola:
“Arsenio, perché te ne sei uscito da una vita mondana?”
[30]. Questo “perché?” era divenuto un
canto interiore che lo accompagnava e manteneva il suo sguardo fisso verso la
meta. Al pari di Arsenio, amma Sara non si disperde in tante cose, non cede a
una vana curiosità, sa che a che cosa volgere i suoi occhi, sa a chi volgere i
suoi occhi.
E ancora, Sara ha lottato contro le sue passioni, sa che cosa questo significhi.
Sa che c’è una gradualità, un cammino accidentato da percorrere e che occorre
avere tanta pazienza con noi stessi e con gli altri. È una donna che sa fare
fiducia a chi pone dei gesti che forse sono ancora dettati da quel desiderio di
compiacere gli altri di cui parla nel
Detto 7.
“Disse ancora amma Sara: ‘È cosa buona fare l’elemosina anche se la si fa per piacere agli uomini, perché dal desiderio di piacere agli uomini si volge poi in cosa gradita a Dio’” (Detto 7)
Secondo abba Forta bisogna rifiutare i doni che non vengono fatti “per amore di
Dio”;
diceva:
“Se qualcuno mi porta qualcosa, ma non per amore di Dio, né io ho qualcosa da
dargli, né egli
riceve una qualche ricompensa da Dio, perché non l’ha
portata per amore di Dio”
[31].
Tra i detti attribuiti ad abba Antonio si racconta di un fratello che aveva
rinunciato ai suoi beni per diventare monaco, ma si era tenuto qualcosa per sé;
Antonio gli diede ordine di andare nel villaggio, di comprare della carne, di
legarsela intorno al suo corpo nudo e poi di ritornare da lui. Il fratello fece
quello che gli era stato ordinato e tornò con il corpo dilaniato dai cani e
dagli uccelli. Antonio gli disse: “Quelli che hanno rinunciato al mondo e
vogliono tuttavia tenersi una parte delle ricchezze, vengono così dilaniati
nella lotta contro i demoni”
[32]. Alla radicalità che rasenta la
crudeltà di abba Antonio, alla rigidità di abba Forta si contrappone la
condiscendenza e la misericordia di amma Sara. C’è una gradualità nella vita
spirituale che va accolta e guidata con discernimento; occorre fare fiducia a
quel poco che c’è di buono nella speranza che poco per volta cresca e si
consolidi.
E infine, un ultimo detto:
“Disse amma Sara: ‘Se prego Dio che tutti gli uomini siano pienamente
soddisfatti di me, mi troverò a inchinarmi alla porta di ciascuno. Pregherò
piuttosto che il mio cuore sia puro con tutti’”
(Detto 5).
“Mi troverò a inchinarmi”; così traduco il greco
metanooûsa. La versione latina precisa:
suppliciter prosternens me, “mi troverò a inchinarmi supplice”.
Quell’inchino profondo (in greco:
metanía) che si fa davanti a Dio, la farò davanti a tutti,
considerando tutti come mio Dio, dal momento che finisco per dipendere dal
giudizio di tutti e da tutti cerco conferma e approvazione. Sotto lo sguardo di
chi viviamo durante le nostre giornate? Sotto lo sguardo di Dio o sotto lo
sguardo di un essere umano, per quanto importante sia? Con chi facciamo i conti?
Svendiamo l’evangelo per paura di inimicarci gli altri?
Sincletica
Prima lacrime e fumo, poi gioia indicibile
Sincletica, dopo aver vissuto un’intensa vita di preghiera nella casa paterna,
alla morte dei genitori vendette tutte le sue ricchezze e insieme a una sorella
non vedente si stabilì in un luogo solitario non lontano da Alessandria di
Egitto per vivere la vita monastica. Molto presto la fama della sua sapienza
spirituale si diffuse e molte donne si stabilirono accanto a lei per averla come
propria guida spirituale. Si formò così una comunità di sorelle che
riconoscevano in Sincletica la loro “amma”, cioè la loro madre spirituale.
Conosciamo Sincletica, vissuta presumibilmente verso la fine del
IV e l’inizio del
V secolo, attraverso una
Vita
[33], databile nel
V secolo e modellata su quella di Antonio il Grande, e numerosi
detti. Leggiamo il primo detto riportato nella collezione alfabetica dei
Detti dei padri del deserto.
“Disse amma Sincletica: ‘Per quelli che si avvicinano a Dio all’inizio vi è
grande lotta e fatica, poi
gioia indicibile (1Pt 1,8). Come infatti quelli che vogliono
accendere un fuoco all’inizio sono importunati dal fumo e lacrimano, ed è in
questo modo che raggiungono ciò che cercano - è detto infatti:
Il nostro Dio è un fuoco divorante (Eb 12,29; cf. Dt 4,24) -, così
anche noi dobbiamo accendere dentro di noi il fuoco divino con lacrime e
fatiche’”
(Detto 1).
La collezione dei detti di amma Sincletica si apre ricordando che l’inizio del
cammino dietro al Signore conosce “lotta” e “fatica”, ma in seguito
“gioia indicibile (1Pt 1,8)”. “Lotta” e “fatica” sono due termini
che troviamo spesso nel Nuovo Testamento. Il primo, “lotta”, è tipico del
linguaggio dell’apostolo Paolo che ama descrivere la vita cristiana ricorrendo a
immagine sportive. L’Apostolo parla della lotta che ha dovuto sostenere per la
fede, dei patimenti sopportati a motivo di Cristo e invita i cristiani di
Filippi: “Sostenete la stessa lotta che mi avete visto sostenere e sapete che io
sostengo anche ora” (Fil 1,30); e ai cristiani della comunità di Colossi
confida: “Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che
agisce in me con potenza” (Col 1,29). Sapere che Paolo affronta con coraggio
queste lotte deve essere motivo di consolazione per i fratelli delle diverse
comunità da lui fondate (cf. Col 2,1-8; 1Ts 2,2). Timoteo viene esortato:
“Combatti la bella lotta della fede” (1Tm 6,12) e, alla fine della sua vita,
Paolo dichiara: “Ho combattuto la bella lotta, ho terminato la corsa, ho
conservato la fede” (2Tm 4,7). Ancor più frequente è la frequenza del termine
“fatica”. Paolo ricorda spesso le fatiche che ha dovuto sostenere nei suoi
viaggi missionari (cf. 2Cor 6,5; 11,23.27; 1Ts 2,9; 3,5) e riconosce che la
fatica sopportata dai suoi fratelli nella fede “non è vana nel Signore” (1Cor
15,58); nella comunità cristiana di Tessalonica riconosce presente accanto
all’operosità della fede, “la fatica della carità” (1Ts 1,3).
Lotta e fatica sono necessarie per Sincletica “per accendere dentro di noi il
fuoco divino”. È il fuoco del roveto ardente contemplato da Mosè (cf. Es 3,2-6),
è il fuoco che Gesù viene a gettare sulla terra (cf. Lc 12,49). Nella
Vita il detto 1 di Sincletica prosegue così:
“Il Signore stesso infatti dice:
Sono venuto a gettare un fuoco sulla terra (Lc 12,49). Ma alcuni,
per mancanza di coraggio, pur avendo sopportato il fumo, non sono riusciti ad
accendere il fuoco, perché mancavano di pazienza e soprattutto perché la loro
comunione con Dio era debole e
incerta”
[34].
Il fuoco purifica, riscalda, illumina. Questo fuoco va acceso nel cuore “con
lacrime e fatica” e poi va custodito, alimentato con la preghiera, l’ascolto
della Parola di Dio. Soltanto se abbiamo questo fuoco nel cuore potremo
sostenere “la fatica della carità” (1Ts 1,3); la fatica non viene meno, ma si
trasforma in giogo dolce e leggero (cf. Mt 11,30). E il Signore, lui che solo
vede nel nostro cuore conosce la nostra fatica (cf. Ap 2,2), ci promette il
riposo in lui (cf. Mt 11,29).
Ma Sincletica parla anche di una
“gioia indicibile (1Pt 1,8)” per quelli che hanno perseverato
nella lotta e nella fatica. La gioia è dono del Signore, ma questo dono va
coltivato, custodito, alimentato. L’apostolo Paolo fa della gioia un comando:
“Rallegratevi sempre nel Signore; ve lo ripeto, rallegratevi!” (Fil 4,4; cf.
anche 1Ts 5,16). Come è possibile fare della gioia un comando? Non è forse un
sentimento naturale, un tratto del comportamento, il risultato di situazioni
fortunate? E ancora: perché gioire? Non siamo piuttosto abituati ad associare
alla vita cristiana una certa serietà e severità, la rinuncia ai piaceri della
vita, la tristezza per il peccato?
La vita di Gesù è stata bella e segnata dalla gioia. Certo Gesù ha conosciuto
anche la tristezza e il dolore, tristezza dinanzi all’indurimento di cuore degli
uomini, davanti alla morte di
Lazzaro, ha conosciuto la tristezza di fronte alla
prospettiva della morte ed è stato preso da paura e angoscia. Il Vangelo ci dice
che egli ha vinto quella tristezza mediante un radicale abbandono alla volontà
del Padre, fino a vivere anche la passione e la morte nell’amore. Davvero solo
quando s’intravvede l’amore, quando si sa che l’amore può essere la ragione del
vivere e del morire, allora cessa la tristezza e si fa strada la beatitudine, la
gioia sempre rinnovata, gioia ogni giorno nuova, gioia come dono dello Spirito
Santo. Nel cristiano la gioia nasce dalla consapevolezza di essere in Cristo,
dal sapere che Cristo vive in noi; dal sapere che niente e nessuno “potrà mai
separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,39).
Il cristiano, dunque è “gioioso nella speranza” (Rm 12,12), nella fede perché
Cristo è risorto e ha vinto ogni forma di morte. Paolo conclude la Lettera ai
cristiani di Roma con questa benedizione: “Il Dio della speranza vi riempia di
ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per opera dello
Spirito santo” (Rm 15,13).
Sincletica, oltre che di gioia; parla anche di tristezza. Dice:
“C’è una tristezza utile e c’è una tristezza dannosa (cf. 2Cor 7,10). É proprio
della tristezza utile gemere sui propri peccati e sull’infermità del prossimo e
far sì che non veniamo meno al nostro proposito di giungere alla perfezione del
bene. Ma c’è anche una tristezza che viene dal Nemico, piena di stoltezza; da
alcuni è chiamata acedia. Bisogna respingere questo spirito soprattutto con la
preghiera e la salmodia”
(Detto 28).
Il primo detto di Sincletica allude a una “gioia indicibile”, l’ultimo parla di
tristezza, o meglio, distingue tra due generi di tristezza sulla falsariga di
ciò che dice Paolo nella Seconda lettera ai cristiani di Corinto (cf. 2Cor
7,10). L’Apostolo parla di una tristezza secondo il mondo che conduce alla morte
e di una tristezza secondo Dio, cioè il pianto sul proprio peccato, che conduce
alla vita. La tradizione spirituale cristiana darà al primo genere di tristezza
il nome di acedia o accidia, che letteralmente indica la mancanza di interesse,
di cura per qualcosa. Questa cattiva tristezza è una sorta di paralisi
spirituale che conduce a non desiderare più nulla, a sottrarsi a qualsiasi
sforzo spirituale. Nell’acedia, nella cattiva tristezza, la psiche è
profondamente turbata, la vita appare priva di senso; chi è affetto da tale male
ne è profondamente disorientato, lo sguardo del cuore è offuscato, la relazione
con gli altri, nei confronti dei quali si vive un forte estraniamento, diventa
fonte di dolore. È la lotta più dura ma, dice un grande padre del deserto,
Evagrio Pontico: “A questo demone dell’acedia non fa seguito immediatamente
nessun altro; anzi, uno stato di pace e una gioia indicibile subentrano
nell’anima dopo la lotta”
[35]. “Gioia indicibile”: è la stessa
espressione che troviamo nel
Detto 1 di Sincletica. L’acedia è quel fumo molesto che annebbia lo
sguardo e irrita gli occhi, con l’aiuto della preghiera, soprattutto della
recita dei salmi lo si può dissipare e con sguardo limpido guardare con gioia al
Signore, alla vita che ci ha donato, a quanti ci ha messo accanto.
Nei momenti di acedia sorge la tentazione dell’“altrove”. Ci si può mettere in
cammino e viaggiare per tante ragioni. Il viaggio è occasione di presa di
distanza dal ritmo abituale di vita, costringe ad interrogarsi e a ritornare
all’essenziale; viaggiare consente inoltre l’incontro con realtà diverse, con
altre persone, arricchendo la nostra visione della vita. C’è un viaggiare che è
fonte di arricchimento se non si è arroccati nelle proprie convinzioni e nelle
proprie abitudini di vita e se ci si dispone a imparare; non è contro questo
genere di viaggio che si scaglia Sincletica quando dice:
“Se ti trovi in un monastero cenobitico, non cambiare luogo: ne riceveresti un
grave danno. Se una chioccia abbandona le uova, le rende infeconde e sterili;
così un monaco o una vergine che passano da un luogo all’altro si raffreddano
nella fede ed essa muore”
(Detto 6).
Del resto, molte donne venivano da lei per incontrarla, chiederle una parola di
consolazione e di incoraggiamento. Accanto al viaggiare c’è un girovagare
dettato soltanto da un desiderio di fuga dalla propria realtà e dalle proprie
responsabilità, nella convinzione che esista un altrove[36]
- un altro luogo, un’altra comunità, un’altra compagna o un altro compagno
di vita, un altro corpo, ecc. - in cui staremmo sicuramente meglio. Certamente è
bene, a volte, cambiare luogo, cambiare le condizioni concrete di vita, se ci
rendiamo conto con onestà e lucidità che lì dove siamo facciamo soltanto del
male a noi e agli altri. Ma molto più spesso il desiderio di “cambiare luogo”
nasce soltanto dall’illusione che esista un altro luogo nel quale sarà
certamente più facile vivere. Sono innumerevoli i testi monastici antichi che
mettono in guardia da tale tentazione, così legata all’acedia.
Sincletica dice che il girovagare da un posto all’altro raffredda la fede. Non si
giunge ad accendere quel fuoco di cui parla nel
Detto 1, quel fuoco interiore che deve animare la vita cristiana
che si conquista con la perseveranza nella lotta.
Attorno a Sincletica si era costituita una comunità di sorelle. A queste sorelle
sono invitate a preferire “l’obbedienza all’ascesi”
(Detto 16), e “non cercare ciascuno le cose proprie (cf. 1Cor
13,3) e non servire alla volontà propria”
(Detto 17). Nella vita comunitaria l’ascesi è data dalla
sottomissione reciproca, dall’accettazione dell’altro/a con i suoi doni e i suoi
limiti, dell’accettazione della realtà. Ma questo non vale forse anche nella
vita di coppia?
Troviamo aiuto per comprendere meglio il senso di ciò che ci dice amma
Sincletica
nelle parole di un grande teologo del secolo scorso, Romano Guardini che parla
della persona “giunta a una lucida consapevolezza della realtà”, di chi è giunto
all’età adulta, vorrei dire di chi è diventato “obbediente” secondo il vangelo.
Scrive:
“Tale figura, dice, è caratterizzata dal fatto che la persona vede e accetta ciò
che si chiama limite, cioè le ristrettezze, le insufficienze e le miserie
dell’esistenza umana. Con questo, egli non viene a definire l’ingiustizia, il
male e la volgarità come aspetti del bene, né pretende di porre rimedio al
disordine, alla sofferenza, ai vicoli ciechi in cui si imbatte l’esistenza; e
neppure dichiara ricchezza ciò che è povertà, o verità ciò che è apparenza, o
compiuto ciò che è vuoto. Tutto questo è percepito, ma è ‘accettato’ nel senso
che le cose stanno così e che bisogna farsene una ragione ... Ricomincia sempre
daccapo i suoi tentativi di dare ordine e di aiutare, perché è conscio che le
azioni umane, in apparenza vane, danno origine a impulsi, che, dispiegandosi
autonomamente, conservano l’esistenza umana, peraltro così profondamente
minacciata”
[37].
Ogni umana relazione chiede un’obbedienza
[38]; obbedire è ascoltare chi ci sta di
fronte, dare ascolto all’altro. Non c’è amore senza obbedienza e questo non vale
soltanto per chi fa vita monastica nella forma cenobitica!
La monaca presuntuosa
“Abba Antonio disse: ‘Un giorno, mentre ero seduto accanto ad abba Arphat, si
presentò una vergine che disse: ‘Padre, ho digiunato duecento settimane
limitandomi a mangiare ogni sei giorni
[39],
ho imparato l’Antico e il Nuovo Testamento. Che cosa mi resta ancora da fare
(cf. Mt 19,20)?’. L’anziano le disse: ‘Per te il disprezzo è come l’onore?’.
Essa rispose: ‘No’. ‘Consideri la
perdita come il guadagno? Gli estranei come tuoi parenti secondo la carne?
L’indigenza come l’abbondanza?’. Rispose: ‘No’. Allora l’anziano concluse:
‘Dunque non hai digiunato limitandoti a mangiare ogni sei giorni e non hai
imparato né l’Antico né il Nuovo Testamento, ma inganni te stessa (cf. Gc 1,26).
Va’, lavora
[40] perché non hai niente!’”
(Detti, anon.,
Nau 518).
C’è una donna, una madre del deserto, che ci viene presentata come esempio
negativo, come modello da non seguire. Il detto mette in scena addirittura abba
Antonio, il padre dei monaci del deserto, che interviene a rimproverare questa
monaca che si vanta delle sue pratiche religiose ma non vive il vangelo nella
vita quotidiana. Il giudizio di Antonio è impietoso: “Non hai niente”. Quando ci
si serve di una pratica ascesi, che sia il digiuno o altro, a proprio vanto, o
addirittura ci si inorgoglisce per la propria conoscenza delle Scritture, ma non
le si mette in pratica, ci si ritrova a mani vuote. Vien da pensare a quanto
scrive l’apostolo Paolo nell’inno alla carità della Prima lettera ai corinti:
“Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità,
sarei come bronzo che rimbomba o come cembalo che strepita. E se avessi il dono
della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se
possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non
sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio
corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe” (1Cor
13,1-3).
Di Antonio si racconta che “era così attento alla lettura delle Scritture, che
non lasciava cadere a terra nulla di quanto vi è scritto, ma ricordava tutto e
la memoria stava per lui al posto dei libri”[41].
Era abitudine che i monaci imparassero a memoria il salterio e interi libri
della Scrittura. Di parecchi padri del deserto si dice che conoscevano a memoria
l’Antico e il Nuovo Testamento; è il caso, ad esempio di abba Ammonio e di abba
Marco
[42], dei quali parla Palladio, e di
numerosi altri padri di cui parlano i Detti. Già si è ricordato che le regole
attribuite a Pacomio prescrivono a chi entra in monastero di imparare a memoria
venti salmi e un buon numero di passi delle Scritture; una volta accolto in
comunità, il fratello o la sorella dovrà imparare a memoria tutto il salterio e
tutto il Nuovo Testamento. Tale memorizzazione delle Scritture, se da un lato
era indispensabile per la preghiera data la scarsità di codici a disposizione,
d’altro lato aiutava il monaco a interiorizzare la parola di Dio, ad
assimilarla, meditandola e ripetendola per tutta la giornata. Il monaco meditava
la parola di Dio in ogni momento, mentre si recava alla sinassi, mentre
intrecciava stuoie o qualunque altra attività svolgesse
[43].
Del resto, osservavano i padri: “Se un monaco prega solo quando sta ritto in
preghiera, allora non prega affatto”[44].
Si parla di “ruminare”, un’immagine questa che affonda le sue radici in
un’interpretazione allegorica di Levitico 11,3 e Deuteronomio 14,6 e che
troviamo già nella Lettera di Barnaba
[45]
10,11. Tale metafora torna di frequente
nei
Detti. In un detto dei padri del deserto si attribuiscono ad
Antonio le parole seguenti:
“Al cammello basta poco cibo; egli lo conserva dentro di sé finché non ritorna
alla stalla, lo fa risalire in bocca, lo rumina fino a che non entra nelle sue
ossa e nella sua carne. Il cavallo, invece, ha bisogno di una grande quantità di
cibo, mangia ogni momento ed espelle subito tutto quello che ha mangiato. Non
siamo dunque come il cavallo, cioè badiamo di non recitare le parole di Dio a
ogni momento senza metterne in pratica nessuna. Imitiamo invece il cammello:
recitiamo ogni parola delle sante Scritture custodendole in noi finché non le
abbiamo compiute”[46].
Nei
Detti emerge costantemente la preoccupazione di un accordo tra
vita e preghiera
[47]. Se questo accordo non c’è, allora
ciò che professiamo con le labbra diventa maledizione per noi; la nostra
preghiera diventa come quella del fariseo di Luca 18,9-14. Ne aveva coscienza
quel santo abba di cui parlano i detti. Era venuto a trovarlo un altro monaco e
gli aveva chiesto: “Come stai, abba?”. Quello rispose: “Male”, e ne spiegò il
motivo:
“Sono trent’anni che ogni giorno sto a pregare davanti a Dio e talvolta maledico
me stesso quando dico a Dio: ‘Non avere misericordia di tutti quelli che operano
l’iniquità’ (Sal 58,6), e: ‘Maledetti quelli che deviano dai tuoi comandamenti’
(Sal 118,21), e io devio sempre dai suoi comandamenti e opero l’iniquità!’”.
E continuò a citare versetti di salmi e a mostrare come la sua vita
contraddicesse ciò che diceva a parole. E alla fine concluse: “Tutta la mia
liturgia e tutta la mia preghiera si ergono contro di me a rimprovero e
vergogna”
[48]. Anche la monaca che si vantava dei
suoi digiuni e della sua conoscenza della Scrittura, è rimproverata e
svergognata da Antonio. Le sue parole fanno la verità e la invitano a
“lavorare”, a lavorare la terra del proprio cuore, colma di “spine e cardi” (Gen
3,18) fino a trasformarla in terra buona che dà frutto (cf. Lc 8,8).
E le altre?
Spesso le testimonianze che ci restano sulle donne riguardano donne
aristocratiche, che, in qualche modo, sono state privilegiate durante la loro
esistenza terrena e lo sono ancora nella storia. E che ne è dell’infinita
moltitudine di monache anonime che hanno cercato di vivere il vangelo nella
preghiera e nell’amore verso tutti e delle quali non possediamo testimonianza
alcuna?
Cito, ancora una volta, Anne-Marie Pelletier la quale parla di “funzione
santificante delle donne” nel corso della storia, santificazione che è opera “di
personalità pubbliche di cui la memoria degli storici giunge a trovare traccia”,
ma anche “di un’immensa folla di donne anonime ... Per questo non è giusto
parlare di una storia perduta delle donne. Nulla è perduto di ciò che è fatto
nell’amore. Tutto è perduto, al contrario, di ciò che ignora questa verità”
[49].
E che ne è di tutte le altre donne, che hanno seguito il Signore e il suo
evangelo in una vita coniugale o, comunque, in un’altra via? Più volte, nei
Detti dei padri, monaci tentati dall’orgoglio sono inviati presso
altri cristiani, semplici laici sposati che vivono nei villaggi o nelle città,
perché vedano in loro un esempio di vita santa. È il caso di Antonio, padre dei
monaci; tentato dall’orgoglio, al quale è rivelato che nella città di
Alessandria c’è un calzolaio (o un medico, a seconda delle diverse versioni del
racconto), che esercita la sua professione ed è molto migliore di lui
[50].
Tra le donne del deserto troviamo un ammonimento di amma Sincletica alle sue
sorelle che va nella stessa direzione:
“Noi che siamo prese da santa sollecitudine non dobbiamo pensare che ci sia
qualcuno che nella vita non ha preoccupazioni ... Non lasciamoci trascinare
dall’illusione affermando che quanti vivono nel mondo sono esenti da
preoccupazioni; anzi, forse, a confronto con noi, affrontano
maggiori fatiche. Generalmente nel mondo sono le
donne a patire maggiori tribolazioni; infatti, partoriscono nel dolore e con
pericolo, soffrono per allattare i piccoli, si ammalano quando questi sono
malati e sopportano tutto senza che vi sia una fine alla loro fatica ... Sapendo
questo, non lasciamoci illudere dal Nemico, pensando che nel mondo la vita sia
facile e priva di preoccupazioni”
[51].
Lisa Cremaschi, monaca della Comunità di Bose
Per saperne di più rinvio a:
Donne di comunione. Vite di monache d’oriente e d’occidente, a
cura di L. Cremaschi, Edizioni Qiqajon, Magnano 2013;
Detti e fatti delle donne del deserto, a cura di L. Cremaschi,
Edizioni Qiqajon, Magnano 2018.
[1]
A.-M. Pellettier,
Una fede al femminile, Magnano 2018, p. 67.
[2]
L. Scaraffia,
Dall’ultimo banco. La chiesa, le donne, il sinodo,
Venezia 2016, p. 97.
[3]
L. Scaraffia e G. Zarri, “Introduzione” a
Donne e fede, a cura di L. Scaraffia e G. Zarri, Bari
1994, p. VIII.
[4]
Condivido l’interrogativo di A.-M.
Pellettier, “Si può davvero ritenere che limitarsi a un atteggiamento di
rifiuto polemico costituisca la miglior forma di resistenza?”
(Una fede al femminile, p. 55).
[5]
Scrive Anne-Marie Pellettier, “Nelle
Scritture il ‘vedere’ è una questione spirituale: si pensi a tutte le
volte in cui qualcuno viene rimproverato perché, pur avendo occhi per
vedere, non vede ... Dunque occorre vedere le donne, nella storia di cui
furono parte e che contribuirono a fare, nonostante tutte le forme di
segregazione nelle quali sono state tenute” (Una
fede al femminile, pp. 60-61).
[6]
Il termine “amma” originariamente significa
“madre”, “nutrice”, ma a partire dal IV
secolo il suo senso si dilata. Un papiro di quest’epoca applica il
titolo di “amma” a Eva e a Maria; in seguito il termine acquista il
senso tecnico di “madre spirituale”, corrispondente al maschile “abba”
che indica “il padre spirituale”. L’espressione: “Abba, dimmi una
parola” è ricorrente nei detti dei padri del deserto; il discepolo o
l’ospite chiede a un abba / a un’amma che si ritiene abbia raggiunto la
maturità spirituale (a un “anziano” o a “un’anziana” non tanto per età,
ma per maturità spirituale) una parola che l’aiuti nel suo cammino umano
e spirituale.
[7]
Le tribù dei mazici devastarono ripetutamente
il centro monastico di Scete (nel 407/408, nel 434 e nel 444).
[8]
Il sinodo di Alessandria del 400 condannò
tutti quanti si ispiravano alla teologia e alla spiritualità di Origene
(+250 ca), giudicate non ortodosse;
una turba di monaci fanatici istigati da Teofilo, patriarca di
Alessandria (385-412), invase Nitria, diede fuoco alle celle dei monaci
e costrinse gli altri alla fuga. Più di trecento monaci origenisti si
rifugiarono in Palestina e di qui la gran parte proseguì per
Costantinopoli dove cercò la protezione di Giovanni Crisostomo.
[9]
Cf. L. Regnault,
Les pères du désert à travers leur apophtegmes, Solesmes
1987, pp. 73-83. Sulla genesi dei detti si veda:
Les apophtegmes des Pères. Collection systématique, chapitres I-IX,
SC 387, a cura di J.-C. Guy, Paris 1993, pp. 18-35;
Detti. Collezione sistematica, a cura di L. d’Ayala Valva,
Magnano 2013, pp. 5-16.
[10]
L’ordine alfabetico in realtà non è
rigorosamente rispettato; la collezione si apre con Antonio che, se si
rispetta l’ordine alfabetico, dovrebbe seguire abba Abramo, Alonio, ecc.
Le tre madri del deserto sono sempre collocate alla fine della lettera
iniziale del loro nome; in fin dei conti sono soltanto donne!
[11]
E. Wipszyka,
Moines et communautés monastiques en Égypte (IVe-VIIIe
siècles),
Varsovie 2009, p. 601.
[12]
Papa è il titolo attribuito al patriarca di una chiesa. Teofilo fu
patriarca
di Alessandria dal 385 al 412.
[13]
Arsenio, romano d’origine, trascorse diversi
anni alla corte di Costantinopoli, forse in qualità di precettore dei
figli dell’imperatore Teodosio. Divenuto monaco nel deserto egiziano si
dedicò a un’austera ascesi. Teofilo doveva sentirsi onorato ad avere tra
i suoi monaci un personaggio tanto famoso, ma Arsenio sa difendersi con
santa furbizia. Riportiamo l’intero detto: “Un giorno il beato
arcivescovo Teofilo si recò presso abba Arsenio, insieme a un
magistrato. Chiese all’anziano di poter udire da lui una parola.
L’anziano tacque per un momento, poi gli rispose: ‘E se ve la dirò, la
osserverete?’. Essi promisero di osservarla. E l’anziano disse loro:
‘Dovunque udite che vi è Arsenio, non avvicinatevi’” (Detti dei padri
del deserto,
Serie alfabetica, Arsenio 7, in
Vita e detti dei padri del deserto, a cura di L. Mortari,
Roma 19714
[d’ora in poi
VeD],
p. 96).
[14]
Detti dei padri del deserto,
Serie alfabetica, Teofilo 2,
VeD, p. 222.
[15]
Evagrio (345ca - 399), originario del Ponto,
si fece monaco in Egitto nel centro di Nitria nel 383. Due anni più
tardi si trasferì nel più solitario centro delle Celle. È considerato
l’intellettuale del monachesimo egiziano. La maggior parte dei suoi
scritti è andata perduta probabilmente a motivo del suo origenismo per
il quale fu condannato dal concilio di Costantinopoli del 553. I suoi
scritti scomparvero nell’originale greco e furono conservati soltanto in
versioni siriache e armene o tramandati sotto il nome di un altro
autore. Vengono detti origenisti quanti si ispiravano agli scritti di
Origene, grande studioso delle Scritture, teologo e uomo spirituale
vissuto tra il 185 e il 253, che, a partire dal IV secolo, fu avversato
a motivo di alcune sue affermazioni teologiche. Va ricordato però che
Origene è un teologo in ricerca e vive prima delle definizioni
teologiche dei grandi concili.
[16]
L. S. Tillemont,
Mémoires
pour servir à l’histoire ecclésiastique des
six premiers siècles,
X, p. 474, Paris 1693-1712
[17]
Il verbo greco viene utilizzato anche in Gal
3,13: “Cristo ci ha riscattato
(exegórasen = ci ha comprati dalla maledizione della
Legge”.
[18]
G. Brasò,
Sentiero di vita, Milano 1979, pp. 81-82.
[19]
D. Bonhoeffer,
Lettera a Eberhard
Betghe, 18 dicembre 1943,
in
Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere,
a cura di A. Gallas, Cinisello Balsamo 1988, p. 236.
[20]
Papa Benedetto XVI,
Spe salvi 10.
[21]
Ibid. 34.
[22]
Pascasio de Dumio,
Vitae Patrum, in
A Versào latina por Pascasio de Dume dos Apophthegmata Patrum
II, a cura di J. G. Freire, Coimbra 1971, p. 19.
[24]
Detti, alf.: Giovanni il Nano
13,
Detti editi e inediti [d’ora in poi
Ed.In.], a cura di S.
Chialà e L. Cremaschi, Magnano 2002, p.53.
[25]
Detti, sistematica greca
VII,59, in I padri del deserto,
Detti, a cura di L. d’Ayala Valva, Magnano 2013, p. 247.
[26]
In Egitto le celle monastiche, al pari delle
abitazioni, avevano un tetto piatto sul quale si poteva salire.
[27]
Atanasio di Alessandria,
Vita di Antonio 5,7, in Atanasio di Alessandria,
Vita di Antonio. Antonio abate,
Detti- Lettere, a cura di L. Cremaschi, Milano 1995, p.
118; Atanasio conclude il racconto della prima tentazione di Antonio con
queste parole: “Questa fu la prima lotta di Antonio contro il diavolo o
meglio la prima vittoria che riportò in Antonio il Salvatore”
(Vita di Antonio 7,1, p. 120).
[28]
Il termine “monaco/a” in greco
monachós, monaché deriva da
mónos = solo, unificato.
[29]
Detti, sist. greca IV,16, p.
138.
[30]
Detti, alf., Arsenio 40,
Ed.In., p. 252. Nel testo greco c’è semplicemente il verbo
“uscire” usato in senso assoluto; il latino specifica
a saeculo, che preferisco rendere con “vita mondana”.
[31]
Detti, alf, Forta, PG 65, 436B.
[32]
Detti, alf., Antonio 20,
Ed.In., pp. 94-95.
[33]
Per la traduzione italiana di questo testo cf.
Donne di comunione. Vite di monache d’oriente e d’occidente,
a cura di L. Cremaschi, Magnano 2013, pp. 79-146.
[34]
Vita di Sincletica 60,2-5, p.
117.
[35]
Ibid., p. 94.
[36]
“Altrove” in latino si dice
alibi, ma nell’italiano corrente “avere un alibi”
significa avere una scusante, una giustificazione, poter provare
che, al momento dei fatti che le vengono addebitati, la persona in
questione si trovava altrove e dunque è innocente.
[37]
R. Guardini, Le età della vita,
Milano 1992, pp. 51-52.
[38]
“Obbedienza” deriva dal latino
ob-audio, cioè “ascoltare” preceduto dalla particella
ob che significa “di fronte, opposto”, e dunque “ascoltare
chi ci sta di fronte”.
[39]
Raramente il termine “digiuno” nella
letteratura monastica antica significa totale rinuncia al cibo, più
spesso indica l’astensione da certi cibi (carne, uova, latticini).
Normalmente i padri del deserto mangiavano una sola volta al giorno, al
tramonto del sole; oltre che di pane, l’alimento principale, i padri si
nutrivano di legumi, verdure, frutti coltivati negli orti. I padri più
austeri mangiavano un giorno su due; in quaresima il digiuno veniva
prolungato per più giorni. La pratica del digiuno era assai
diversificata. Cf. L. Regnault,
Vita quotidiana dei padri del deserto, Casale Monferrato
1994, pp. 76-97.
[40]
Si intende il lavoro spirituale secondo
l’interpretazione allegorica di Gen 3,17-19.
[41]
Atanasio di Alessandria,
Vita di Antonio 3,7, p. 115. Antonio consiglia ai monaci
di “imprimere nel loro cuore i precetti delle Scrittura”
(Ibid. 55,3, p. 176).
[42]
Palladio,
La storia lausiaca 11,4 e 18,25, a cura di G. J. M.
Bartelink, Milano 1974, pp. 52, 92.
[43]
In obbedienza alla parola di Dt 6,6-7:
“Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai
ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando
camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai”.
[44]
Detti, anon., Nau 104, p. 150.
[45]
Cf.
Lettera di Barnaba 10,11, a cura di E. Prinzivalli, in
Seguendo Gesù. Testi cristiani delle origini II, a cura di
E. Prinzivalli e M. Simonetti, Milano 2015, pp. 145-147.
[46]
E. Amélineau,
Apophtegmes traduits du copte, Annales du Musée Guimet,
Paris 1894, p. 39.
Diceva Giovanni Cassiano: “Tu dovrai in tutti i modi adoperarti
affinché, superata ogni sollecitudine e preoccupazione terrena, ti renda
disponibile in modo assiduo e, ancora più, continuo alla sacra lettura
della Scrittura, al punto che quella incessante meditazione riempia la
tua mente e, per così dire, la conformi a sua propria immagine”
(Conferenze II, 14,10, pp. 117118).
[47]
Disse un anziano: “I profeti hanno scritto i
libri delle Scritture, sono venuti i nostri padri e li hanno messi in
pratica, quelli dopo di loro li hanno imparati a memoria, ma è venuta
questa generazione, li ha copiati e li ha posti inutilizzati sulle
mensole” (Nau 228,
Ed.In., p. 34.).
[48]
Detti,
anon., Nau 587, pp. 230-231.
[49]
II cristianesimo e le donne,
Milano 2001, p. 155.
[50]
Cf.
Alf., Antonio 24; cf. anche
Ibid., Eucaristo;
Sist. lat. VI,3,17;
Anon., Nau 67; 490. Diversi di questi detti sono raccolti
in
Detti editi e inediti, a cura di S. Chialà e L. Cremaschi,
Magnano 2002, pp. 280-283.
[51]
Vita di Sincletica 41,1; 42,1-3, pp. 107-108.
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7 luglio 2021 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net