Dopo la virtù,
un quarto di secolo dopo
Prefazione alla seconda edizione italiana
Armando Editore 2009
ALASDAIR MACINTYRE
Nei
venticinque anni trascorsi dalla pubblicazione di
Dopo in virtù (1981), ho avuto modo
di considerare più volte le ricerche iniziate in quel volume e di sviluppare le
mie tesi in Giustizia e razionalità
(1988), Enciclopedia, genealogia e
tradizione (1990) e Animali razionali
dipendenti (1999), come conseguenza di una discussione critica e costruttiva
che si è sviluppata in aree linguistiche assai diverse non solo in inglese,
danese, polacco, spagnolo, portoghese, francese, tedesco e italiano, ma anche in
turco, cinese e giapponese e ha
coinvolto numerosi interlocutori, di diverse tradizioni di pensiero. Sono
convinto perciò che qualora vi fossero state buone ragioni per confutare il
nucleo dell’impianto argomentativo di
Dopo la virtù, avrei avuto tutto il tempo per individuarle con certezza.
Fino a questo momento però, non ho trovato motivi sufficienti per abbandonare le
tesi principali di Dopo la virtù:
qualcuno mi taccerà per questo motivo di una testardaggine invincibile; quale
che sia il giudizio sul mio conto, rimane il fatto che ho imparato molto nel
frattempo, integrando e modificando di conseguenza le mie tesi e argomentazioni
precedenti.
Per
poter giudicare adeguatamente la cultura morale dominante della modernità
avanzata, questo era e rimane il nucleo centrale del volume di cui stiamo
parlando, bisogna giudicarla dall’esterno. Essa appare ancora oggi lo scenario
di controversie irrisolte e apparentemente irrisolvibili, di natura morale e non
solo, tra fazioni avverse le cui rispettive argomentazioni valutative e
normative ci pongono dinanzi al dilemma seguente: per un verso si dà per
scontato il riferimento a criteri condivisi impersonali in forza dei quali si
assume che una delle parti in causa alla fine otterrà ragione. D’altro canto,
pare proprio che un siffatto criterio non esista nella realtà, a giudicare dalla
povertà delle argomentazioni a sostegno delle diverse tesi in campo, e dal modo
con cui si continua a sostenerle: le si ripete invariate nella loro sostanza in
maniera meramente assertiva e alla lunga petulante. La mia spiegazione di questo
fenomeno era e rimane la seguente: i cosiddetti principi morali erano
originariamente inseriti in un contesto di credenze pratiche e di modalità
consolidate di pensare, sentire e agire, che li rendevano comprensibili; tale
contesto, ove i giudizi morali trovavano il loro senso in riferimento a criteri
impersonali giustificati da una concezione condivisa del bene umano, è andato
perduto. Venuti meno il contesto e la giustificazione, a seguito di complessi
processi di trasformazione sociale e morale occorsi alla fine del Medioevo e
alle soglie della modernità, bisognava individuare nuove strade per poter
spiegare le regole e i precetti morali, e di conseguenza attribuire loro un
nuovo statuto, autorità e giustificazione. È quanto i filosofi morali
dell’illuminismo europeo hanno tentato di realizzare a partire dal diciottesimo
secolo in avanti. Tuttavia, il risultato delle loro riflessioni è stato di fatto
la moltiplicazione di teorie rivali, le une incompatibili con le altre, gli
utilitaristi in conflitto con i kantiani, gli uni e gli altri opposti ai
contrattualisti, in modo tale che i giudizi morali, come oggi li si intende, si
riducono essenzialmente a regole che esprimono il comportamento e i1 sentire di
chi le ha formulate, e ciò nonostante si continua a presentarle assumendo che ci
sia un criterio impersonale in base al quale i conflitti morali potrebbero
essere risolti razionalmente. Tali disaccordi riguardavano sin dall’inizio, non
solo la giustificazione, ma anche il contenuto della morale.
Questa
caratteristica peculiare della cultura morale della modernità non è cambiata. E
io sono rimasto dell`idea che si possa comprendere la genesi e la situazione di
stallo della modernità morale soltanto a partire dal punto di vista di una
tradizione differente, di cui Aristotele ha raccolto e analizzato credenze e
presupposti, elaborandoli teoricamente nella sua ben nota teoria classica. Non
voglio sostenere, questo è importante sottolinearlo, che la dottrina morale
aristotelica sia in grado di vedere riconosciuta la propria superiorità
razionale e di essere accettata dagli esponenti delle correnti più accreditate
della filosofia morale, in altre parole che un aristotelico sia in grado di
avere la meglio nei confronti di un kantiano, un utilitarista o un
contrattualista, nelle dispute teoretiche che avvengono nei teatri della
modernità. Sarei subito smentito e non potrei obiettare nulla: la situazione è
evidentemente diversa; non solo: in un simile agone, l’aristotelismo è costretto
a presentarsi e si presenta di fatto come una solamente tra le tante proposte
morali, i cui esponenti hanno la stessa, flebile speranza di confutare i loro
rivali, cosa che peraltro accade anche agli utilitaristi, ai seguaci di Kant o
ai contrattualisti.
La mia
convinzione di allora, che rimane immutata ancor oggi, è che l’inconsistenza del
discorso morale della modernità si spiega a partire dal genere di vita che
ricalca la logica e si comprende alla luce dei concetti formulati da Aristotele;
da questa prospettiva si capisce anche perché la cultura della modernità morale
sia priva delle risorse che possono farla progredire nelle proprie ricerche,
cosicché sterilità e frustrazione sono l’inevitabile conseguenza con la quale
essa è costretta a misurarsi per venir fuori dall’impasse in cui si trova. ln
questo momento però comprendo molto meglio di venticinque anni fa le ragioni che
mi hanno portato a sposare le tesi di Aristotele, e che si devono ad almeno due
tipi diversi di sollecitazione.
Quando
ho scritto Dopo lo virtù, ero già un
pensatore aristotelico. Ma non ancora un tomista: basta leggere quanto scrissi
allora su San Tommaso alla fine del capitolo 13. Sono diventato tomista dopo
aver scritto Dopo la virtù, in parte
perché mi sono convinto che l’Aquinate era per certi versi più aristotelico di
Aristotele: non soltanto era un eccellente interprete dei testi del filosofo
greco, ma era stato in grado di estendere e approfondire le ricerche metafisiche
e morali del proprio maestro. Ciò mi ha fatto cambiare idea in almeno tre casi.
ln
Dopo la virtù offrivo una spiegazione
delle virtù che definirei aristotelica in senso ampio, senza far ricorso o
appello ti quella che allora definivo la biologia metafisica di Aristotele.
Buona parte della biologia aristotelica è senza dubbio sorpassata. Tuttavia, San
Tommaso mi ha fatto capire che il mio tentativo di spiegare il bene sociale
ricorrendo semplicemente a una teoria della società, in termini di pratiche,
tradizioni e dell`unità narrativa delle vite umane,
non sarebbe stato adeguato finché non
fosse stato esplicitamente fondato in una metafisica. Pratiche, tradizioni e
tutto il resto possono funzionare, come di fatto funzionano, solamente in quanto
gli uomini hanno un fine verso il quale muovono in ragione della loro natura
specifica. Così ho capito che, senza rendermene conto, avevo dato per scontata
la verità di qualcosa di molto simile alla dottrina del bene che si può leggere
nella quinta quaestio della prima
parte della Summa Theologica.
Un’altra cosa che ho dovuto ammettere è stata di avere bisogno di basi
biologiche per attribuire virtù e vizi agli esseri umani, e che essa poteva non
essere necessariamente di matrice aristotelica. E’ quanto ho esposto un bel po'
di tempo dopo in Animali razionali
dipendenti, la cui tesi centrale è che l`animalità degli esseri umani gioca
un ruolo fondamentale nell’elaborazione della teoria morale, e per capirlo
appieno si deve riconoscere la nostra affinità con alcune specie animali quali
ad esempio i delfini, che si trovano appena al di qua della soglia della
razionalità specificamente umana.
Nello
stesso libro, ho dato anche una spiegazione più accurata del contenute delle
virtù, identificandone alcune col nome di "virtù della dipendenza riconosciuta".
Seguendo questa logica, ho preso spunto dalla dottrina sulla misericordia di
Tommaso d`Aquino, un punto che lo separa da Aristotele in maniera decisiva.
Sono
dunque giunto a questi cambiamenti del mio pensiero in seguito alle riflessioni
sui testi di Tommaso e sui commenti ai medesimi da parte di alcuni studiosi
tomisti contemporanei. ll mio pensiero si è però sviluppato anche grazie alla
spinta delle critiche rivolte a Dopo la
virtù da parte di quanti si trovavano in radicale disaccordo con il mio
libro. Prenderò spunto da una di queste, la quale più che derivare da una reale
incornprensione, parrebbe provenire da una lettura non attenta del testo. Sono
stato accusato di nostalgia per un passato che avrei idealizzato: questo perché
la mia comprensione della tradizione delle virtù muove dall`interno della
polis greca, in modo particolare da
quella ateniese in cui è stata adeguatamente razionalizzata; e perche, poi, ho
indicato nell`Europa del Medioevo l‘ambiente nel quale per cui quella tradizione
è potuta maturare. Mi pare tuttavia che non ci siano spunti sufficienti nel
testo per un‘accusa del genere.
Sono
certamente convinto del fatto che dobbiamo rileggere il nostro passato, per
comprendere la nostra identità e le nostre relazioni morali di oggi alla luce di
una tradizione che ci renda capaci di superare gli ostacoli che la modernità,
specialmente la modernità avanzata, impone a una simile conoscenza di sé, Allo
stesso tempo, viviamo inevitabilmente nella modernità avanzata, di cui assumiamo
i caratteri sociali e culturali che la contraddistinguono. Il mio modo di
comprendere la tradizione delle virtù, le conseguenze per la modernità del
rifiuto di considerare questa tradizione e la possibilità di rimetterla in
gioco, si può capire solo se si vive nella modernità. Le continuità e le
fratture della tradizione delle virtù, cosi come essa si è declinata secondo una
varietà di forme culturali diverse, si possono comprendere infatti solo
retrospettivamente, a partire della prospettiva moderna, nel momento in cui si
cerca una via per venire fuori dal le secche della modernità morale.
Detto
in altri termini, il genere di ricerca storica che ho svolto in
Dopo la virtù è possibile solamente
dopo il diciottesimo e diciannovesimo secolo. Vico è stato l’antesignano di
questo genere di ricerca storica, anche se personalmente devo di più a RG.
Collingwood, e a J. H. Newman, soprattutto per quanto riguarda la comprensione
della natura e della complessità delle tradizioni.
La
ricerca storica mostra come ogni interrogativo sia formulato all‘interno di una
situazione determinata: il valore dei criteri di verità e di giustificazione
razionale emerge in contesti di pratica che variano nello spazio e nel tempo;
se, come ho fatto io, si nega l’esistenza di qualsiasi criterio di verità e di
giustificazione razionale a disposizione di qualsiasi agente razionale in
maniera che si possa risolvere in maniera inoppugnabile ogni fondamentale
disputa di carattere morale, scientifico o metafisico, semplicemente facendovi
appello, allora l`accusa di relativismo sembra inevitabile (la parola “accusa" è
probabilmente fuori luogo, dal momento che per il mio presunto relativismo ho
ricevuto complimenti da quanti hanno cercato di inserirmi nella schiera dei
postmodernisti - si veda Peter Watson,
The Modern Mind: An Intellectual
History of the Twentieth Century: HarperCollins. New York 2001, pp. 678-9).
Avevo già abbozzato una risposta a quest’addebito nel poscritto alla seconda
edizione in lingua inglese; ho articolato ulteriormente la mia risposta in
Giustizia e Razionalità; tuttavia,
dal momento che c`e chi a tutt`oggi mi taccia di relativismo, mi si permetta una
volta ancora di chiarire che cosa mi consente, o più precisamente, esige che io
rifiuti la posizione relativistica.
La
tradizione aristotelico - tomista, la tradizione delle virtù, è come alcune
altre, anche se non tutte le altre tradizioni morali, una tradizione di ricerca.
Le tradizioni di ricerca si contraddistinguono perché ritengono che il nucleo
delle loro tesi sia vero e le loro
argomentazioni di fondo siano corrette.
Se fosse vero il contrario, sarebbe difficile per loro definire il fine e
l‘oggetto delle loro ricerche oppure dare ragione delle proprie conclusioni.
Tuttavia, dal momento che esse sono e sono state in contrasto reciproco in
merito ai rispettivi criteri di giustificazione razionale - anzi, la questione
principale che alimenta il dibattito riguarda proprio i criteri ai quali bisogna
fare riferimento - e posto che ognuna di esse contiene al proprio interno
criteri specifici, sembra che le loro dispute debbano rivelarsi sistematicamente
irrisolvibili, anche nel caso in cui le parti in causa condividano sia il
rispetto per le esigenze della logica sia una medesima concezione di base della
verità, per quanto ristretta possa essere. Esempi di simili tradizioni rivali
che riproducono chiaramente tale logica di conflitto sono la tradizione
aristotelica e tomistica, il buddismo che trova la migliore espressione
filosofica nel nâgârjuna, e
l`utilitarismo moderno europeo c nordamericano.
In che
modo allora, se un modo c'è, i protagonisti di una di queste tradizioni
potrebbero sperare di confutare le affermazioni dei propri avversari? Come prima
cosa, dovrebbero capire che cosa vuol dire pensare secondo le modalità fissate
da quella particolare tradizione rivale, imparare come si ragiona quando si è
convinti sostenitori di quella particolare tradizione. Per fare questo bisogna
sviluppare una certa capacità d`immaginazione filosofica, di cui spesso oggi si
avverte l’assenza. Il secondo passo consiste nell‘individuare le domande
irrisolte e i problemi insoluti dall'interno di quella tradizione, cioè in base
ai criteri propri di quella tradizione; in altre parole capire con gli occhi
degli altri le difficoltà teoriche e pratiche che hanno arrestato il progresso
della loro ricerca. Quando, nonostante una ricerca per quanto possibile
meticolosa ed esauriente, le domande e i problemi d'importanza cruciale per
quella tradizione si riveleranno irrisolti e insolubili, sarà necessario porsi
alcuni quesiti, proprio perché non si vede più il modo di andare avanti nella
ricerca. Forse quella tradizione è priva delle risorse necessarie per affrontare
tali questioni e risolvere tali problemi ed è incapace di acquisirle fintanto
che rimane fedele ai propri criteri e presupposti. Magari sono proprio i vincoli
imposti dai principi razionali di riferimento e che derivano da simili
presupposti che impediscono di formulare o riformulare domande e problemi in
maniera da poterli risolvere e affrontare adeguatamente. Supponiamo che la
risposta a queste due domande sia positiva: potrebbe anche darsi che le ragioni
dell‘impasse possano risultare
evidenti a una tradizione rivale e magari proprio a partire dalla medesima
tradizione rivale si potranno ricavare le risorse necessarie per superare le
difficoltà.
Quando
gli appartenenti a una tradizione riescono a relazionarsi con una particolare
tradizione rivale avendo prima compiuto questi atti d‘immaginazione e
d`interrogazione, potrebbero concludere, addirittura potrebbero essere costretti
a concludere, che le difficoltà di quella tradizione rivale possono essere
adeguatamente comprese e superate solamente dal punto di vista della propria
tradizione. In altre parole, se gli assunti di base della propria tradizione
sono veri e le proprie argomentazioni corrette, una tradizione potrà
ragionevolmente attendersi che a un certo punto una tradizione rivale debba
incappare proprio in una ben precisa situazione di crisi, e comprendere che le
risorse (concettuali, normative o di altro genere) di cui essa dispone sono
insufficienti per poterne venire fuori. Questa è la via che consente a una
tradizione di ricerca di rivelarsi più adeguata di un`altra in relazione alle
proprie pretese di verità e di giustificazione razionale, senza per questo
ammettere che esistano dei criteri neutrali in riferimento ai quali qualsiasi
agente razionale potrebbe determinare la superiorità di una tradizione nei
riguardi di un`altra.
Tuttavia, proprio perché non esistono criteri neutrali in questo senso, i
protagonisti di una tradizione votata alla sconfitta possono non riconoscere,
possono non essere in grado di riconoscere che si è caduti in errore. Possono
benissimo ritenere di essere alle prese con problemi che riguardano la propria
tradizione, ai quali non è stata ancora data nessuna soluzione pienamente
soddisfacente al momento presente, senza per questo avvertire l’esigenza di
andare oltre questa semplice presa di coscienza, Potrebbero ancora ritenere di
avere ottimi motivi per rifiutare qualsivoglia invito ad adottare il punto di
vista di un’altra tradizione rivale e incompatibile, anche al semplice livello
d`immaginazione, perche se i principi ai quali danno il loro assenso sono veri e
razionalmente giustificati, come essi ritengono che siano, allora tali
asserzioni avanzate dagli appartenenti a tradizioni rivali che risultano
incompatibili con la loro dovranno essere false e prive di giustificazione
razionale. Così essi continueranno - forse indefinitamente - a difendere le loro
stesse posizioni e a continuare con le loro ricerche, incapaci di riconoscere
che sono di fatto condannate alla sterilità e alla frustrazione.
È ovvio
che tradizioni rivali di ricerca morale possono coesistere per lunghi periodi di
tempo; questo è importante: l’aristotelismo – tomista, il buddismo
madhyamaka e l'utilitarismo europeo e
nordamericano hanno vissuto insieme, senza che mai nessuno di essi avesse
l’occasione di prendere in considerazione le critiche dei propri rivali; a
maggior ragione, non hanno sentito l’esigenza di intraprendere il genere di
ricerca che potrebbe portare una di queste tradizioni ad essere razionalmente
sconfitta da un’altra. Ed è pure vero che questa ricerca può non condurre di
fatto a nessuna conclusione definitiva, di modo che le questioni che dividono
tali tradizioni rivali potrebbero restare in sospeso. Tuttavia è più importante
avere individuato la via per cui problemi di questo tipo possono essere risolti
in alcune situazioni e che per questa via appare evidente che le pretese di
queste tradizioni rivali presuppongono sin dall`inizio la falsità del
relativismo. Questo è il mio modo di fare ricerca c dovrebbe essere quello di
ogni ricercatore che si rispetti.
Mi si
consenta adesso di passare a una critica molto diversa, quella di chi vuole
difendere la modernità liberale ed individualista e formula le proprie critiche
muovendo dal dibattito tra liberali e comunitaristi (dando per scontato che io
sia uno di questi ultimi, cosa che non è mai stata vera). Personalmente, non
riconosco alcun valore alle comunità di cui si parla in questo dibattito; molte
di queste sono brutalmente oppressive; inoltre, i valori della comunità, come
sono intesi dagli esponenti americani del comunitarisrno, gente come Amitai
Etzioni, sono perfettamente compatibili con i valori del liberalismo che io
rifiuto, anzi contribuiscono a sostenerli. La critica che muovo al liberalismo
deriva dalla convinzione argomentata che la vita migliore per l’uomo, quella in
cui la tradizione delle virtù si esprime nel modo migliore, è vissuta da quanti
sono impegnati a costruire e sostenere forme di comunità volte a ottenere
insieme i beni condivisi che rendono possibile ottenere il bene ultimo per
l‘uomo. Le società politiche liberali s‘impegnano per definizione a negare
qualsiasi spazio per una concezione sostantiva del bene nel dibattito pubblico,
e ancor meno possono accettare che la loro vita comune possa essere fondata su
una concezione determinata del bene. Secondo la visione liberale dominante, il
governo rimane essere neutrale riguardo alle concezioni rivali del bene umano,
anche se il liberalismo promuove un ordine istituzionale sostantivo che è ostile
alla costruzione e al sostentamento delle relazioni solidali richieste per
vivere la vita migliore dell’uomo.
Questa
critica del liberalismo non deve essere assolutamente interpretata come indice
di una mia personale simpatia nei confronti di qualsiasi genere di
conservatorismo contemporaneo. Il conservatorismo è per molti versi l`immagine
speculare del liberalismo cui professa di opporsi. Il proprio impegno a sostegno
di uno stile di vita strutturato dall‘economia del libero mercato genera un
individualismo distruttivo al pari di quello del liberalismo. Dove il
liberalismo ha tentato di usare il potere di trasformare le relazioni sociali
caratteristiche dello stato moderno, favorendo leggi permissive, il
conservatorismo si serve del medesimo potere per attuare i propri propositi di
coercizione, promulgando leggi proibitive. Conservatorismo e liberalismo sono
ugualmente in opposizione alla visione di
Dopo la virtù. Così la categoria dei moralisti conservatori contemporanei,
con la loro tronfia retorica priva d’ironia c spesso di fondamento, dovrebbe
essere aggiunta ai personaggi descritti nel capitolo 3 di
Dopo la virtù, tra i protagonisti che
caratterizzano i drammi culturali della modernità. Il terapeuta, che negli
ultimi vent‘anni si è lasciato ammaliare dalle scoperte della biochimica, quella
del manager, che continua a ripetere le formule che ha imparato in un corso di
business ethics, mentre sta ancora
cercando la giustificazione delle proprie pretese di competenza, e quella
dell‘esteta, che sta oggi emergendo dalla propria venerazione per l‘arte
concettuale. Così il conservatore moralista è diventato anch`egli un personaggio
ricorrente, nelle trame intessute dalle
élites che governano la moralità avanzata. In ogni caso, a queste
élites non spetta mai l‘ultima
parola.
La
tradizione delle virtù riaffiora infatti periodicamente all’interno della vita
quotidiana, nella vita di persone comuni che si impegnano all’interno di una
varietà di pratiche, compresa quella di mettere su e sostenere relazioni
familiari e di vicinato, scuole, cliniche, e forme locali di comunità politiche.
Questa rigenerazione rende capace la gente comune di mettere in discussione i
modelli dominanti del dibattito morale e sociale: e le istituzioni che trovano
la loro espressione in modelli simili. Mentre scrivevo
Dopo la virtù, immaginavo persone di
questo tipo, e ancor oggi scopro con piacere che proprio loro ne sono i lettori
più adatti, quelli più capaci di riconoscere nelle tesi centrali del libro,
l`articolazione filosofica di idee che loro avevano già elaborato in maniera
spontanea a partite dalla loro vita quotidiana, l’espressione delle motivazioni
che in qualche modo già spiegavano la loro condotta.
Nel
capitolo introduttivo alludo a Un cantico
per Leibowitz, lo straordinario romanzo di Walter M. Miller Jr., e nelle
battute conclusive del capitolo finale richiamo il raffinato poema di
Constantine Kavafis, Aspettando i barbari.
Probabilmente, in un eccesso d’ottimismo, ho pensato che quasi tutti i lettori
avrebbero riconosciuto entrambe le citazioni. Visto che generalmente questo non
è accaduto, vorrei esplicitare in questa circostanza tali debiti
d’immaginazione, che sono tanto importanti quanto quelli intellettuali
riconosciuti nel testo. E dovrei anche chiarire che, benché
Dopo la virtù sia stato scritto in
parte per portare alla luce e motivare le inadeguatezza morali del marxismo che
la storia del ventesimo secolo ha reso evidenti, ero e rimango profondamente
debitore della critica marxista dell‘ordine economico, sociale e culturale del
capitalismo e dello sviluppo di tale critica da parte di appartenenti alla
medesime tradizione.
Nell`ultima frase di
Dopo la virtù
affermo che stiamo aspettando un nuovo San Benedetto. La grandezza di Benedetto
sta nell‘aver reso possibile l`istituzione del monastero centrato sulla
preghiera, sullo studio e sul lavoro, nel quale e intorno al quale le comunità
potevano non solo sopravvivere, ma svilupparsi in un periodo di oscurità sociale
e culturale. Gli effetti della visione fondazionale di Benedetto e la loro
ricaduta istituzionale grazie a quanti in modi diversi hanno seguito la sua
regola erano in gran parte imprevedibili per quei tempi. Quando scrissi quella
frase conclusiva nel 1980, era mia intenzione di suggerire che anche la nostra
epoca è un tempo di attesa di nuove e inattese possibilità di rinnovamento. Allo
stesso tempo, è un periodo di resistenza prudente e coraggiosa, giusta e
temperante nella misura del possibile, nei confronti dell`ordine sociale,
economico e politico dominante nella modernità avanzata. Questa era la
situazione ventisei anni fa, e tale ancora oggi rimane.
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21 giugno 2014 Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net