A SCUOLA DI MANAGER CON SAN BENEDETTO?
Machiavelli per i manager del XXI secolo
Introduzione
"L’attualità del pensiero di Machiavelli per i manager del XXI secolo"
Di Maurizio Gamberini
1. La “crisi strutturale”
In questo inizio di terzo millennio, in Italia sempre più spesso si parla di
“crisi strutturale” e, conseguentemente, della necessità di ripensare e rivedere
le basi più profonde del nostro sistema economico.
Tale situazione di crisi ha radici molteplici. Senza dubbio su di essa hanno
pesato sia i cambiamenti globali degli ultimi quindici anni sia l’inadeguata
velocità di adattamento da noi italiani dimostrata agli stessi. È, infatti,
innegabile che l’apertura europea verso l’Est, ai Paesi dell’ex blocco
socialista seguita alla caduta del muro di Berlino, abbia reso disponibile e
facilmente accessibile manodopera a basso costo fortemente competitiva che, in
quanto tale, ha minato la nostra capacità manifatturiera. Poi, l’unificazione
monetaria europea, culminata nell’introduzione dell’Euro a inizio 2002, ha
privato l’Italia e la sua economia di un’arma che più volte era stata utilizzata
nel dopoguerra per mantenere la competitività sui mercati mondiali, ossia quella
svalutazione della Lira che, fino ai primi anni ’90, ci ha permesso di superare,
anche se in modo solo apparentemente indolore, le situazioni di maggiore
criticità congiunturale. Infine, proprio in questi primi anni del XXI secolo,
l’inadeguata velocità di risposta alla crisi generalizzata della domanda dei
prodotti “made in Italy” sui mercati europeo e americano, accompagnata dalla
galoppante crescita dell’economia cinese e asiatica, ha definitivamente fatto
esplodere una crisi che era già in atto.
Questi tre elementi qui sinteticamente esposti, insieme a molti altri che
potremmo elencare, hanno generato la situazione che ho trovato ben rappresentata
dalle cifre tratte delle Considerazioni Finali 2005 e 2006 del Governatore della
Banca d’Italia. Secondo quanto si afferma nelle suddette due relazioni, tra il
1995 e il 2000 in Italia l’incremento della produttività del sistema
manifatturiero è stato pari a zero; tra il 2000 ed il 2004 la produzione
industriale è diminuita complessivamente del 3,8%; nel 2004 il valore delle
vendite dei prodotti italiani nel mondo è stato inferiore a quello del 2000,
facendo così contrarre la quota di mercato mondiale dei nostri prodotti dal 4,6%
del 1995 al 2,9% di oggi; il tutto in uno scenario del commercio mondiale che,
solo nell’ultimo biennio, è cresciuto di oltre il 9% l’anno. A tutto questo ha
fatto da sponda un’insufficiente crescita complessiva del Sistema Italia, che
nel biennio 2004-2005 è stata pari a zero contro una media dell’Area Euro
dell’1,7% e dell’intera economia mondiale del 5%.
Se dal punto di vista macro questi sono gli avvenimenti e i risultati della
“crisi strutturale”, dal punto di vista micro - interno al sistema economico -
le aree critiche della situazione italiana non sono state meno condizionanti.
Per cominciare, un peso fortemente negativo ha avuto l’eccesso di importanza, e
quindi di potere, dei gruppi industriali che operano sui mercati interni
protetti e in posizioni monopolistiche od oligopolistiche. A ciò si sono
aggiunte: l’inefficienza indotta nel sistema economico dalle posizioni
privilegiate e protette di gruppi professionali chiusi; la frammentazione
commerciale, oltre all’arretratezza infrastrutturale, del sistema distributivo;
l’insufficiente componente flessibile del lavoro, inferiore all’1% del totale
(contro una media europea prossima al 3%) – il dato “ufficiale” è nella realtà
completato da quell’ulteriore quota di lavoro flessibile “per definizione”
rappresentata dal lavoro nero e irregolare. Fenomeno, quest’ultimo, che va di
pari passo con un‘altra grande area di criticità, cioè quella relativa
all’economia sommersa che, come qualche autorevole analista ha nel recente
passato stimato, raggiungerebbe un valore addirittura pari al 40% del PIL.
L’ultima delle criticità che desidero qui ricordare, è la fine del mito
industriale italiano del dopoguerra, quel “piccolo e bello” che, prima con la
proliferazione delle piccole imprese a carattere familiare e poi con la
degenerativa e disgregante esplosione del “popolo delle partite IVA”, ha
contribuito allo sviluppo economico delle regioni italiane centro-settentrionali
e alla nascita dei distretti industriali, aiutata però troppo spesso da quella
leva competitiva irregolare che è l’evasione fiscale. Come molti osservatori
sottolineano, a fronte di questa “crisi strutturale”, il Sistema Italia ha ora
la necessità di reinventarsi e riproporsi rapidamente nell’arena competitiva
mondiale con un profilo nuovo e diverso. Un profilo meno basato sulla capacità
di generare fisicamente valore attraverso economie di costo che oggi sarebbero
improponibili - basti pensare alla quota ancora eccessiva di lavoratori
impiegati nell’industria italiana, pari al 25% del totale, rispetto alla Francia
e all’Inghilterra, nostri più vicini riferimenti, che raggiungono soltanto il
20% (G. Alvi, cfr. testi citati) -, e sorretto piuttosto da una nuova capacità,
più intellettuale che fisica, di generare valore. Una capacità intellettuale
fatta non più, come nel passato, solo di italico intuito e creatività, ma anche
di quel metodo e di quelle conoscenze - comunemente definite “know-how” - che
rappresentano il maggiore punto di forza dei Paesi più industrializzati: dai
grandi Stati Uniti alla piccola Olanda.
2. La capacità di gestire il cambiamento come
“know-how”
Lasciamo ora la dimensione sistemica, che è stata sin qui al centro della nostra
analisi, per addentrarci in quella realtà quotidiana, molto più vicina a tutti
noi, che è rappresentata dalle organizzazioni e dalle aziende. Lo faremo
partendo da due citazioni. La prima riguarda Machiavelli ed è tratta dall’ultima
opera di Richard Normann, Ridisegnare
l’Impresa (cfr. testi citati), dove l’autore, docente e consulente di
strategia aziendale, ricorda che “L’imperatore Adriano, Niccolò Machiavelli e
Karl von Clausewitz sono pensatori (e operatori politici e militari)
d’avanguardia appartenenti a diverse epoche, che hanno riflettuto
approfonditamente sui princìpi che stanno alla base di un’organizzazione
efficace e di una strategia vincente”. La seconda è tratta da
La fine del ceto medio, di Gaggi
e Narduzzi (cfr. testi citati): “In fondo anche quella descritta in queste
pagine è una visione neo-rinascimentale: allora la città si apriva alle novità
che venivano da ogni dove e le declinava per migliorare la qualità dei propri
cittadini; oggi – scomparsi i confini e le mura – sono le aziende, forma moderna
di convivenza collettiva prolungata nel tempo, a farsi permeabili a ciò che di
utile e innovativo si sviluppa o si produce nel mondo”.
Oggi, nelle organizzazioni e nelle aziende, la valutazione dell’efficacia o del
successo di una strategia o di una struttura organizzativa viene sempre più
spesso messa in relazione con la capacità di generare, affrontare e gestire il
cambiamento. È, infatti, ormai chiaro che, per continuare a svilupparsi a fronte
di condizioni quali la globalizzazione dei mercati, lo sviluppo delle nuove
tecnologie e la sempre più accentuata prossimità tra i settori industriali, le
organizzazioni devono imparare a trattare
e gestire al meglio quell’elemento base di qualsiasi percorso di sviluppo che è
la capacità di gestione del cambiamento. Perché, proprio come nei più elementari
fenomeni naturali ed evoluzionistici, non può esserci sviluppo senza
cambiamento. Sicché, a tutti coloro che operano all’interno delle organizzazioni
e in particolare a chi, come i manager, ha responsabilità di guida e indirizzo,
viene richiesto di migliorare continuamente le proprie competenze, appunto, su
questa dimensione specifica. Negli ultimi anni, anche la letteratura manageriale
ha sempre più spesso affrontato questo tema con testi che con esempi, teorie e
modelli hanno contribuito al miglioramento dei processi di gestione del
cambiamento. Tra le più preziose, indico le opere di Gary Hamel, C.K. Prahalad e
John P. Kotter (cfr. testi citati). Da questi autori emerge che uno dei
principali ostacoli al cambiamento all’interno delle organizzazioni è
rappresentato dagli individui che vi operano, e che quindi, per attuare
efficacemente qualsiasi processo di cambiamento, occorre tenere al centro delle
priorità manageriali proprio quella fondamentale risorsa organizzativa che è
l’uomo. Anche su questo aspetto considero doveroso richiamare altri esempi
tratti della letteratura manageriale e, in particolare, da quegli autori che si
sono occupati di problemi organizzativi legati alla gestione del cambiamento.
Tra gli altri, mi permetto di citare i contributi di Manfred F.R Kets de Vries,
Paul Watzlawick, e, in Italia, Walter Passerini ed Ettore Messina (cfr. testi
citati).
Proprio il frequente utilizzo da parte di questi studiosi di citazioni tratte da
autori classici, mi ha portato a ipotizzare che la gestione del cambiamento,
oltre a essere al centro delle tematiche aziendali di oggi, abbia rappresentato
anche in passato un’esigenza dell’uomo e delle sue organizzazioni. A questo
proposito, e senza voler andare a testi e ad autori lontani dal presente
soggetto, propongo immediatamente una riflessione su alcuni versi di Niccolò
Machiavelli che sono estratti dall’opera
Di Fortuna e che riguardano,
appunto, il tema del cambiamento:
Colui con miglior sorte si consiglia
tra tutti li altri che ’n quel loco stanno,
che ruota al suo valor conforme piglia,
perché li umor che adoperar ti fanno,
secondo che convengon con costei,
son cagion del tuo bene e del tuo danno;
non però che fidar si possa in lei
né creder d’evitar suo duro morso,
suo duri colpi impetuosi e rei:
perché mentre girato sei dal dorso
di ruota per allor felice e buona,
la suol cangiar le volte a mezzo el corso
e, non potendo tu cangiar persona
né lasciar l’ordin di che ’l Ciel ti dota,
nel mezzo del cammin la t’abbandona.
Però, se questo si comprende e nota,
sarebbe un sempre felice e beato
che potessi saltar di rota in rota;
ma, perché poter questo ci è negato
per occulta virtù che ci governa,
si muta col suo corso el nostro stato.
Questi versi, al di là della conclusione fatalistica, ci forniscono una
straordinaria sintesi del pensiero di Machiavelli sul cambiamento. Egli vi
afferma che “Colui che ruota al suo valor conforme piglia” (colui che meglio si
adatta, o sa adattarsi, alla realtà) “con miglior sorte si consiglia” (ottiene i
risultati migliori); poi aggiunge che “non però che fidar si possa in lei”
perché la ruota (ossia la realtà) “la suol cangiar le volte a mezzo corso” in
quanto ha nel cambiamento, cioè nell’instabilità – nell’evoluzione, volendo
declinare il termine nella sua accezione positiva – una delle sue peculiarità. A
quel punto “non potendo tu cangiar persona” (non potendo l’uomo facilmente
modificare il proprio essere) “nel mezzo del cammin la t’abbandona”. È chiaro,
in estrema sintesi, che per Machiavelli il cambiamento è la caratteristica
principale della realtà e che, per interagire efficacemente con essa - cioè per
raggiungere determinati obiettivi e risultati, individuali e collettivi - l’uomo
deve sia sviluppare competenze adeguate sia ambire a quella che amo definire la
“madre di tutte le competenze”, vale a dire la capacità di gestire e guidare
proattivamente i processi di cambiamento.
Mi sono, dunque, chiesto: ciò che stiamo vivendo oggi è, forse, il primo momento
storico di grandi cambiamenti che vede coinvolte le organizzazioni umane? E
ancora: vi è stata un’altra epoca in cui l’uomo e le sue organizzazioni hanno
dovuto confrontarsi con una realtà particolarmente turbolenta e dinamica, come
la nostra di oggi? E infine: in passato vi sono stati autori - “d’avanguardia”,
come li definisce Normann - che nelle loro opere hanno trattato il tema del
cambiamento e le cui riflessioni possono essere ancora attuali? Grazie al caso -
forse la machiavelliana fortuna
- credo di aver trovato una valida risposta a queste domande in quella età
comunemente definita Rinascimento e risalente a giusto 500 anni. Ecco, a tal
proposito, in quali termini i già citati Gaggi e Narduzzi si esprimono: “Nel
Rinascimento in Italia si inventavano la finanza innovativa e l’assicurazione e
fiorivano le officine nelle quali nascevano i brevetti dell’epoca: soluzioni
materiali originali che rendevano possibili nuove produzioni. (...) Era un
sistema produttivo che aveva, ovviamente, caratteristiche molto diverse da
quello a cui ci ha poi abituato la produzione in serie della fabbrica
industriale. Ma era anche un universo economico solo apparentemente incentrato
sulla materia: un sistema che in realtà sapeva «estrarre» valore aggiunto sia
dall’invenzione di nuovi servizi, come gli assegni e le cambiali, sia da una
serie di applicazioni creative che facevano diventare «immateriale» la materia:
per esempio l’aggiunta di dettagli originali per abiti ed arredamenti”.
Credo sia opportuno, a questo punto, ricordare che i primi decenni del XVI
secolo furono sconvolti da tre avvenimenti che cambiarono profondamente l’Europa
e l’Italia. Il primo fu la scoperta dell’America o, come forse ancora si credeva
all’epoca, la scoperta della via per le Indie passando da est che - così come
oggi si assiste alla “pacificazione” del mondo con il baricentro economico che
si va ponendo tra Stati Uniti e Cina - provocò allora “l’atlantificazione” e la
fine del mondo “mediterraneocentrico”. Il secondo furono le tesi luterane con i
conseguenti scismi dalla Chiesa di Roma, risultato dell’evoluzione del pensiero
umanistico, dal De libero arbitrio
di Erasmo da Rotterdam al
Discorso sulla dignità dell’uomo di Pico della Mirandola. Il terzo,
infine, fu la reale e piena diffusione della stampa seguita all’invenzione di
Gutenberg del 1455, paragonabile all’impatto dell’odierna diffusione della
tecnologia digitale. Fino ad allora la presenza della Chiesa di Roma, lo
sviluppo di una forte borghesia mercantile nelle Repubbliche Marinare e il
fervore culturale della Firenze Medicea avevano consentito all’Italia di
ricoprire in Europa un ruolo spiritualmente, economicamente e culturalmente
centrale. I fatti che intervennero misero in crisi questo indiscusso primato.
Infatti, per ciò che riguarda la religione, come già accennato, le tesi
protestanti di Lutero e Calvino portarono alla rottura dell’unità dei cristiani
d’Occidente e alla prima grande riduzione del potere temporale della Chiesa di
Roma. Per quanto riguarda l’economia, la scoperta della via ad est per le Indie
tolse alle Repubbliche Marinare quel monopolio degli scambi commerciali con
l’Oriente che le stesse avevano sviluppato grazie ai buoni rapporti con gli
Arabi che abitavano le coste meridionali del Mediterraneo. Infine, la diffusione
del pensiero umanistico e rinascimentale in tutta Europa e il concomitante
accesso ai libri e alla cultura da parte di strati via via sempre più ampi della
popolazione, posero le basi di quella che 200 anni dopo sarebbe stata la
rivoluzione illuministica. Come ho fatto nel primo paragrafo a proposito della
“crisi strutturale” odierna, vorrei riportare qualche dato sul periodo storico
che stiamo analizzando insieme.
La scoperta dell’America produsse in quegli anni uno sviluppo impetuoso della
Spagna e di tutti quegli Stati che si affacciavano sull’Oceano Atlantico: basti
pensare in proposito all’incremento di 35 volte registrato dalle importazioni
spagnole di oro e argento tra il 1520 e il 1580 o, ancora, alla crescita del
traffico del porto di Siviglia, che nello stesso periodo quadruplicò passando da
50 a 200 navi l’anno (fonte: N. Davies,
Storia d’Europa, cfr. testi citati). Dal punto di vista politico, credo
basti qui ricordare la famosa frase attribuita all’imperatore Carlo V che, per
dare un’idea della vastità del suo Impero, affermò che sul suo regno non
tramontava mai il sole.
Culturalmente, infine, e a testimonianza del peso che ormai si attribuiva ai
libri, mi piace ricordare che proprio in quell’epoca fu introdotta, nella Spagna
di Isabella di Castiglia, la Santa Inquisizione la quale, nel suo disegno
moralizzatore, incluse l’istituzione dell’indice dei testi proibiti con la loro
conseguente condanna e messa al rogo.
In questo scenario di forte cambiamento che coinvolgeva anche le organizzazioni
umane, si avvertì l’esigenza di un nuovo modo di confrontarsi con il po22
tere. Fu proprio in tali circostanze che si
risvegliò quel particolare genere letterario rappresentato dai testi educativi -
institutio principis - per
prìncipi e sovrani e che affondava le sue radici in opere di epoca classica come
la Repubblica di Platone, il
De Re Publica di Cicerone o il
De Clementia di Seneca. Così,
all’inizio del XVI secolo (il De
Principe del Pontano, scritto nel 1468, è l’opera che annuncia questa
nuova stagione della trattatistica di argomento etico- politico) in situazioni e
con modalità completamente differenti, sentono la necessità di dedicare le
proprie riflessioni ai prìncipi contemporanei tre autori, tre grandi filosofi
che ancora oggi influenzano il pensiero occidentale: Erasmo da Rotterdam,
Tommaso Moro e, naturalmente, Niccolò Machiavelli. Erasmo e Tommaso sono
strettamente legati tra loro sia dai comuni studi umanistici sia da un’amicizia
profonda che porta Erasmo, nel 1511, a dedicare proprio a Tommaso Moro la sua
opera più famosa, l’Elogio della Pazzia
(cfr. testi citati). Su un altro versante si colloca, invece, Niccolò
Machiavelli il quale, oltre ad avere una diversa origine culturale e sociale che
oggi definiremmo “borghese”, non sembra conoscere i primi due né le loro opere.
Anche le vite di questi tre grandi pensatori, tra loro contemporanei, sono
diverse, così come lo sono i ruoli da ciascuno di loro ricoperti. Erasmo fu una
tra le maggiori figure dell’Umanesimo, un intellettuale che proprio per la
modernità del suo pensiero, pur non essendosi mai schierato a favore del
Protestantesimo, nel 1559 fu messo all’indice dalla Chiesa di Roma. Famoso per
le sue traduzioni dei classici greci e latini, le università e le corti di tutta
Europa lo ricercavano per la sua vasta cultura. Fu consigliere di Carlo V e, per
contribuire alla formazione personale del futuro imperatore, scrisse
L’educazione del principe cristiano
(cfr. testi citati).
Tommaso Moro fu, invece, Cancelliere e Primo Ministro di uno dei sovrani più
turbolenti dell’epoca, ossia Enrico VIII, il re d’Inghilterra noto per le sue
sei mogli. Amico fraterno di Erasmo, che conobbe nel 1509 durante un soggiorno
dell’umanista olandese presso la corte inglese, Tommaso Moro finirà i suoi
giorni prima rinchiuso nella Torre di Londra e poi decapitato per essersi
rifiutato, contro la volontà del suo re, di suffragare lo scisma della Chiesa di
Inghilterra. L’opera più rappresentativa del suo umanesimo è quella
Utopia (cfr. testi citati) che,
attraverso la metafora del racconto marinaresco, propone una rivoluzionaria
organizzazione dello Stato, basata tra l’altro sulla comunione della proprietà.
Gli spazi di riflessione che Moro aprì furono tali che proprio con questo
libellus prese il via quel
filone letterario che, passando attraverso
La città del sole di Tommaso
Campanella, il Leviatano di Thomas Hobbes,
La Nuova Atlantide di Francesco Bacone, porterà alla nascita del
pensiero politico moderno.
E
veniamo a Niccolò Machiavelli, che negli anni a cavallo del 1500 fu Segretario
della Repubblica fiorentina. Tale carica – paragonabile a quella di un moderno
Sottosegretario – gli consentì di frequentare personalmente le più importanti
corti d’Europa: da quella del re di Francia a quella dell’imperatore tedesco e
fino alla curia papale di Roma. Fu un’esperienza altamente formativa grazie alla
quale Machiavelli acquisì una serie di conoscenze politiche che si nutrivano di
teoria e al tempo stesso di pratica.
Questa fase di pieno coinvolgimento nella politica attiva, si protrasse fino al
1512, anno che nella vita di Machiavelli funse da spartiacque poiché segnò il
confine tra quello che gli storici definiscono periodo “ante res perditas”
(precedente alla perdita dello status professionale pubblico) e quello “post res
perditas”. Infatti, in seguito alla battaglia di Ravenna – che si svolse,
appunto, nel 1512 – le truppe francesi alleate della Repubblica fiorentina
furono costrette a retrocedere per l’avanzata della Lega Santa; a quel punto, su
precisa volontà papale, i Medici ripresero il potere a Firenze. Per Machiavelli,
che aveva prestato i suoi servigi alla Repubblica, fu un evento drammatico:
venne incarcerato, torturato e, infine, esiliato. Fino alla morte – avvenuta
quindici anni dopo, nel 1527 – cercò in tutti i modi di riaccreditarsi
politicamente riuscendo, tuttavia, a riavvicinarsi solo parzialmente alla
politica attiva.
Paradossalmente, oggi dobbiamo proprio al rovesciamento della fortuna umana di
Machiavelli le sue opere più importanti: senza quegli sfortunati avvenimenti,
Machiavelli avrebbe probabilmente continuato a esercitare l’attività politica e
diplomatica e, pertanto, non avrebbe avuto né modo né tempo per scrivere opere
come Il Principe e i
Discorsi, continuando tutt’al
più a produrre solo scritti di carattere reportistico - come nella prima parte
della sua vita. Proprio durante gli anni dell’esilio, per sentirsi vivo,
Machiavelli iniziò a scrivere con l’obiettivo sempre chiaro - che non deve mai
essere perso di vista se si vuole comprendere correttamente il significato di
quelle opere – di riconquistare il favore dei potenti e dei notabili fiorentini.
Scrisse in modo disordinato e confuso,
passando da un’opera all’altra, dedicandosi alla riflessione teorica e facendo
tesoro sia dell’esperienza diretta sia dei fatti a cui assisteva da spettatore.
Il risultato più interessante di questa produzione letteraria di marca
squisitamente politica sono i Discorsi
sopra la prima deca di Tito Livio, testo evoluto e complesso più di quel
Principe che, soprattutto nella
prima metà del secolo scorso, grazie alla spregiudicatezza delle sue tesi - la
politica posta al di sopra della morale - e all’efficacia del suo formato -
paragonabile a un moderno pamphlet - è stato alla base del grande successo e
della scoperta del pensiero di Machiavelli in tutto il mondo e presso tutte le
ideologie.
Oggi più che mai, nell’inizio che abbiamo già definito “turbolento” di questo
XXI secolo, il pensiero del Principe
appare superato da quello dei
Discorsi, in particolare quale spunto per una riflessione manageriale.
Infatti, anche in questo contesto, le riflessioni contenute nel
Principe insieme al suo tono
emotivo, autoritario e personalistico, appaiono obsolete e poco applicabili
all’odierna realtà delle organizzazioni; viceversa i
Discorsi, dedicati da
Machiavelli a un popolo e a una repubblica, sono considerati dai principali
studiosi come “l‘opera di Machiavelli per il XXI secolo”.
3. Le aziende come organizzazioni umane politiche
Prima di proseguire l’approfondimento dei contenuti dei
Discorsi ed evidenziarne nel dettaglio l’attualità, trattandosi
di un testo politico, desidero porre l’attenzione su come le moderne
organizzazioni e aziende vadano considerate sempre meno attraverso un approccio
organizzativo meccanicistico e taylorista e sempre più come organizzazioni umane
- talvolta così efficienti da essere definite “squadre” - dove l’eccellenza dei
risultati dipende sempre più dalla capacità dei manager - in quel caso detti
“leader” - di generare focalizzazione e spinta delle risorse umane verso gli
obiettivi comuni.
Tutto questo è realizzabile nelle organizzazioni non più attraverso meccanismi
coercitivi, autoritari e spersonalizzanti superati e inefficaci, ma attraverso
lo sviluppo del senso di appartenenza, di orientamento ai risultati e di
coinvolgimento di tutti coloro che, a vario livello, prestano la propria opera.
A
questo proposito vorrei citare una frase di Edmondo Berselli tratta
dall’introduzione del saggio di Pier Luigi Celli
Nascita e morte di un’impresa in 42
lettere (cfr. testi citati): “gestire un'azienda non significa trattare
gli uomini e le donne come automi, né come esseri amorfi che reagiscono
automaticamente a stimoli meccanici: significa invece creare consenso,
convogliare energie, convincere sulla giustezza delle modalità. Si dica quello
che si vuole, questa è un’operazione marcatamente
politica.” Concordando su questa
definizione di “politica” e sul ruolo rilevante che essa ricopre sia nelle
organizzazioni sia nelle aziende di oggi, ritengo importante per i manager
conoscere quei testi in cui la politica è considerata proprio in questa
accezione: come il già citato
L’educazione del principe cristiano di Erasmo o l’Oracolo manuale e arte di prudenza di Baltasar Graciàn (cfr.
testi citati). Chi si accinge a leggere queste opere scoprirà non solo che certe
tematiche politiche sono tipiche dell’attività manageriale di oggi, ma anche che
le buone regole di gestione delle organizzazioni sono sempre state le stesse, da
che mondo è mondo. Con la piccola ma significativa differenza che, se un tempo
la conoscenza di queste regole era richiesta solo a una ristretta cerchia di
prìncipi, oggi la stessa è sempre più una competenza indispensabile per tutti
coloro che hanno responsabilità di gestione, di risorse umane e non, all’interno
delle organizzazioni.
Rispetto a questi testi, i Discorsi
di Machiavelli presentano l’ulteriore vantaggio di rivolgersi non a un
principe seduto sul proprio trono, ma a chi governa una repubblica, ossia
un’organizzazione che, anche nel caso in cui avesse a capo un principe, avrebbe
comunque una struttura di gestione molto simile a quella delle nostre aziende.
Anche per questo il messaggio dei
Discorsi si presta ottimamente a un’applicazione all’interno della
moderna realtà organizzativa aziendale: una realtà dove il manager, e più in
generale tutti coloro che gestiscono persone, non gode di un potere assoluto,
non sta seduto su un trono, ma deve basare il proprio potere e gran parte della
propria capacità di guida, sulla gestione della tensione, la creazione del
consenso e uno stile di leadership adatto alle risorse guidate, oltre che
all’ambiente di riferimento. Partendo dalle caratteristiche illustrate e
applicando un minimo di “pensiero laterale”, è stato facile incontrare nei
contenuti del primo libro dei Discorsi
una fonte inesauribile di meta-spunti di riflessione incredibilmente
vicini alla vita professionale dei giorni nostri.
Evidentemente, ciò che qui si propone è una lettura metaforica del testo
machiavelliano, un’interpretazione in chiave manageriale: un trasferimento di
significato che è possibile proprio in virtù delle analogie tra la realtà
politica italiana del Cinquecento e la realtà gestionale delle moderne aziende.
Ciò anche quando, come nel capitolo 11, dove Machiavelli tratta della religione
dei Romani, l’argomento viene tradotto in metafora per spiegare la gestione dei
“valori aziendali”; oppure nel capitolo 21, che tratta del rischio di non avere
armate proprie e propone, così, considerazioni valide sui temi attuali delle
politiche di outsourcing; o, ancora, nel conclusivo capitolo 60, che si sofferma
sul modo in cui venivano assegnate le magistrature a Roma offrendo spunti di
attualissima applicazione nella gestione delle opportunità di carriera. Se,
quindi, oggi in Italia le organizzazioni e le aziende sono, secondo il
significato da noi dato, sempre più “politiche” oltre che alle prese con
l’esigenza di cambiamento che abbiamo già descritto, allora la conoscenza del
pensiero di Machiavelli sviluppato nei
Discorsi può essere per i manager un innovativo e quanto mai produttivo
momento di riflessione.
4. L’incontro con il pensiero di Niccolò Machiavelli
Credo ora sia giunto il momento di condividere la mia esperienza di conoscenza
delle opere di Niccolò Machiavelli e del suo pensiero. Questo anche perché, come
si comprenderà tra breve, il mio primo contatto ha avuto una profonda influenza
sull’ideazione e sulla struttura della presente opera. Come il 90% degli
italiani, sono anch’io partito da Il
Principe, che ho letto nell’edizione pubblicata nel 1991 da Rizzoli (cfr.
testi citati) e curata dallo storico Piero Melograni.
Nella premessa di questo volume si apprende che Goffredo Parise concordava con
Melograni sul fatto che gli stranieri conoscessero Machiavelli meglio degli
italiani poiché avevano la fortuna di leggerlo tradotto. Da tale riflessione
scaturì, appunto, la sfida di proporre il testo machiavelliano più famoso
corredandolo di una “versione in italiano di oggi”: un lavoro che è risultato
molto gradito ai lettori italiani, in particolare ai non letterati a cui ha
permesso un accesso semplificato ai contenuti dell’opera superando l’ostacolo
del testo originale e della sua affascinante, ma oggi indubbiamente ostica,
prosa in volgare cinquecentesco.
Come anticipavo, una volta dinanzi ai
Discorsi, il cui livello di difficoltà richiede al lettore di oggi uno
sforzo anche maggiore del Principe,
volendo proporli all’attenzione dei manager d’azienda, ho pensato a
un’operazione simile a quella di Melograni, anche se molto più mirata.
Sono giunto, quindi, a realizzare questa “versione in italiano di oggi” del
primo libro, il più completo dei tre che costituiscono gli incompiuti
Discorsi - dedicato ai problemi
“interni” delle repubbliche, ossia la loro organizzazione, le loro leggi, etc.
-, limitandomi a proporre, nelle note in calce, il testo originale solo dei
brani più significativi.
D’altra parte, ho ritenuto opportuno condividere, puntualmente e per ogni
capitolo, alcune riflessioni che la lettura aveva generato nella mia mente di
manager. Ma attenzione: l’obiettivo di queste mie osservazioni non è mai stato
di fornire un nuovo metodo o una nuova teoria manageriale precostituita bensì,
in accordo anche con il più moderno utilizzo dei meta-messaggi, semplicemente di
aiutare il lettore nella sua personale scoperta del pensiero di Machiavelli e di
guidarlo attraverso quella che amo definire la “moderna metafora aziendale”. In
sostanza, ho inteso proporre un percorso di scoperta che non può in alcun caso
prescindere dalle esperienze, dalle conoscenze e dalla singolarità tipica di
ogni realtà organizzativa.
Questo lavoro, dunque, è nato prima di tutto, e ricordando Melograni, per
colmare il gap di conoscenze che oggi noi italiani - manager e non - abbiamo nei
confronti dei lettori stranieri. Poi, grazie anche al carattere pratico dei
Discorsi, che già Machiavelli
aveva pensato come strumento da applicare concretamente all’interno di
un’organizzazione - principato o repubblica o, aggiungo, azienda –, ho proceduto
ad analizzarne quei contenuti che sono ancora oggi attuali nella vita delle
organizzazioni, come i loro valori, la gestione del cambiamento, il controllo
del potere.
5. La moderna metafora aziendale
Nelle pagine successive a questa introduzione e prima del testo di Machiavelli,
il lettore troverà un breve glossario
manageriale che, coerentemente con gli obiettivi sin qui illustrati, si
propone di aiutarlo a cogliere il più rapidamente possibile lo spirito della
“metafora aziendale”.
Nella versione in italiano di oggi che propongo ho, infatti, deliberatamente
lasciato inalterati tutti quei termini che nel linguaggio odierno hanno
mantenuto lo stesso significato di un tempo (per esempio: cariche, istituzioni,
popolo, disordini). Questo anche quando - in particolare pensando a un lettore
manager - gli stessi termini avrebbero potuto essere trasformati in sinonimi più
espliciti e vicini al mondo aziendale (posizioni manageriali, organizzazione
aziendale, risorse umane, conflitti organizzativi, etc.).
Mio preciso intendimento è stato di rispettare il più possibile il testo
originale di Machiavelli e di renderlo solo più facilmente fruibile aggiungendo
il suddetto glossario, un sottotitolo per ogni capitolo che ne evidenzi il tema
aziendale più significativo tra quelli trattati, e alcune riflessioni
manageriali a cui ho già fatto cenno.
I
sottotitoli dei capitoli sono stati riportati anche nell’indice per permettere
una consultazione rapida nel caso, per esempio, che un lettore sia alla ricerca
di spunti su argomenti specifici. Nella definizione, poi, di questi sottotitoli
ho altresì adoperato termini comuni e tra i più diffusi tra quelli utilizzati
dalle scienze manageriali.
Tuttavia, per maggiore chiarezza, ritengo sia opportuno esplicitare brevemente
il significato che ho attribuito alle seguenti definizioni:
-
Modelli organizzativi di base: sono le forme organizzative di base gerarchica,
funzionale e matriciale. Nella metafora dei
Discorsi, hanno particolare
rilievo quella gerarchica, legata al principato, e quella matriciale, legata
alla repubblica o al principato civile.
-
Cambiamento strutturale: da distinguere dal successivo rinnovamento
organizzativo, è il cambiamento che coinvolge non solo le persone ma anche i
ruoli, le relazioni e le istituzioni di tutta l’organizzazione.
-
Rinnovamento organizzativo: è la situazione di cambiamento organizzativo in cui
non si toccano i ruoli, le relazioni e le istituzioni, ma ci si limita al
cambiamento dei soggetti che occupano tali ruoli.
-
Stili di leadership: sono i diversi modelli identificati e proposti dalla
moderna scienza manageriale; quelli che trovano principale riscontro all’interno
della metafora dei Discorsi sono
lo stile autoritario e, all’opposto, quello partecipativo. Nelle prossime
pagine, infine, oltre a un accenno alla genesi dei
Discorsi, presento una dettagliata cronologia della vita di
Machiavelli, completa dei principali avvenimenti a essa contemporanei, con
l’intento di aiutare anche il lettore più desueto alle vicende storiche di
inizio ’500, a immergersi nella temperie culturale e politica del nostro autore.
6. Tre obiettivi
Prima di lasciare alla lettura di questa mia versione del primo libro dei
Discorsi, confidando nel
pensiero tanto caro a Machiavelli che la conoscenza dei comportamenti umani
passati può contribuire a ridurre la possibilità di commettere errori e in
accordo con la più moderna definizione di cosa sia un professionista - colui che
“sa, sa fare e sa essere” - propongo al lettore tre obiettivi:
-
Sapere: conoscere un classico della letteratura italiana e scoprire l’attualità
e l’applicabilità del pensiero di Machiavelli alla quotidianità aziendale.
-
Saper Fare: cogliere i suggerimenti atti a intervenire su temi complessi e
dall’impatto profondo (per esempio, il comportamento manageriale come
fondamentale forma di comunicazione).
-
Saper Essere: agire con la consapevolezza dell’importanza che la cultura e la
filosofia rivestono nella quotidiana attività aziendale, coltivando così quella
“terza dimensione” che è oggi trascurata da una parte consistente della
formazione manageriale.
Dalla mia prospettiva riterrò, a quel punto e immodestamente, di aver raccolto,
dopo cinquecento anni e solo parzialmente, l’appello di Machiavelli: “a
ciò che coloro che leggeranno queste mie declamazioni, possino più
facilmente trarne quella utilità
par la quale si debbe cercare la cognizione delle istorie”. (cfr.
Introduzione).
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21 giugno 2014 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net