Estratto dal libro "Il monachesimo medievale" di C. H. Lawrence
(Cattedra di storia medievale all'Università di Londra) – Edizioni San Paolo
In Occidente, durante il Medioevo, la Regola composta da san Benedetto costituì per molti secoli il modello più seguito di pratica monastica. Le grandi abbazie benedettine, che i governanti laici arricchivano con cospicue donazioni, e di cui talvolta si servivano, ricoprirono una posizione di primo piano nel Panorama sociale dell'Europa in quanto enti proprietari di vaste estensioni territoriali, patronati ecclesiastici e centri di sapere. Ma dobbiamo stare attenti a non proiettare ciò che già conosciamo dell'epoca successiva sui primi stadi del periodo benedettino, quando la Regola non aveva ancora raggiunto la reputazione di cui godette in seguito. Ai suoi tempi san Benedetto (ca. 480 - 550), patriarca di tutti i monaci occidentali, era uno sconosciuto abate italiano, cosicché sappiamo veramente poco delle origini della Regola.
Benedetto visse durante la prima metà del VI secolo, un periodo difficile dal punto di vista delle fonti storiche. All'impero romano si era sostituito, in Occidente, un precario aggregato di regni fondati dai barbari provenienti dalla Germania. L'Italia era stata soggetta a un secolo di dominazione ostrogota, alla fine del quale la Penisola venne trascinata da Giustiniano in una guerra prolungata e devastante. allo scopo di sottrarla ai goti e porla sotto l'egida dell'impero romano d'Oriente. Ripetuti assedi avevano ormai ridotto la città di Roma a un cumulo di rovine, abitate da una popolazione esangue. Durante questo tormentato periodo l'Occidente produsse pochi documenti storici che potessero essere paragonati alle storie letterarie dell'antichità. « Tra tutta la nostra gente - lamenta Gregorio di Tours, quando prende in mano la penna per cercare di colmare le lacune - non si riesce a trovare nessuno che possa scrivere un libro su ciò che sta succedendo ai nostri giorni ». D'altra i contemporanei di Gregorio diedero il via a una ricca produzione di biografie, il genere letterario già inaugurato da Atanasio e Sulpicio, le vite agiografiche di santi, pensate per promuovere il culto e stimolare la devozione popolare. E' da un'opera di questo genere che provengono le poche conoscenze di cui disponiamo sull'autore della Regola benedettina.
Riguardo alla vita del santo fondatore si può fare riferimento a un'unica fonte, la Vita di san Benedetto scritta da papa Gregorio Magno intorno al 593 - 594, a circa quarantacinque anni dalla morte del santo. Sono stati fatti anche tentativi per ricostruire una sorta di identikit del personaggio, partendo dall'esame della Regola; ma la moderna critica testuale ha dimostrato che la maggior parte di queste ricostruzioni è senza fondamento: è stato appurato che i passi tradizionalmente attribuiti a Benedetto come diretta espressione del suo pensiero sono invece stati scritti in un secondo tempo. Per la storia della vita di san Benedetto non abbiamo altra alternativa se non quella di basarci sulla biografia contenuta nel secondo libro dei Dialoghi di Gregorio. Si tratta di una collezione di vite di abati e vescovi italiani redatte sotto forma di dialoghi tra un interlocutore e un informatore, secondo una convenzione letteraria ben consolidata.
Furono i Dialoghi a lanciare il culto di san Benedetto, grazie all'immensa popolarità di cui il libro godette nel Medioevo; il testo è il più antico riferimento al santo di cui siamo in possesso. Evidentemente l'opera contiene tutto ciò che si sapeva di lui a Roma alla fine del VI secolo, e forse anche di più. L'opera di Gregorio è agiografica, rappresenta Benedetto sia come uomo santo che come potente autore di miracoli e taumaturgo. Le sue preghiere fanno zampillare una sorgente da un'arida rupe, rendono capace il discepolo Mauro di correre sulla superficie di un lago, e ridanno la vita a bambini morti per disgrazia. Rispetto all'abbondanza di episodi miracolosi, c'è una mancanza di particolari verificabili e una frustrante assenza di riscontri cronologici, a parte forse una presunta visita a Cassino del goto Totila poco prima della sua entrata a Roma (1). Questi vuoti, insieme alla mancanza di qualsiasi fonte contemporanea che confermi il racconto di Gregorio, hanno portato alcuni studiosi a liquidare il libro come puramente allegorico o di invenzione, fino al punto da mettere in discussione la stessa esistenza storica di san Benedetto.
Uno scetticismo così esteso è ingiustificato. Non dobbiamo permettere che la preoccupazione di Gregorio di raccontare i miracoli di Benedetto possa distorcere la nostra valutazione di quest'opera. Il suo intento nello scrivere i Dialoghi era necessariamente didattico e gli aneddoti miracolosi facevano parte integrante del suo messaggio. Il fine ultimo era di registrare e celebrare le conquiste dell'ascetismo cristiano in Italia nei primi decenni del VI secolo, quando essa era sotto la dominazione dei goti, per dimostrare che anche l'Italia, come l'Egitto, aveva i suoi santi e i suoi eroi della vita ascetica. In effetti, Gregorio stava facendo per l'Italia esattamente ciò che Sulpicio aveva fatto per la Gallia nel secolo precedente, e l'opera di Sulpicio gli forniva il modello letterario adeguato. Anche qui si potevano trovare aneddoti sui santi abati, e, nella parte centrale, un'ampia Vita di san Martino. Così l'epopea dei Padri del deserto veniva ripetuta in Gallia. I Dialoghi di Gregorio veicolavano lo stesso tipo di messaggio in Italia. La popolazione romana, impoverita e umiliata sotto il regime dei barbari, e ulteriormente provata dalla peste e dalla breve reconquista di Giustiniano, doveva capire di non essere stata abbandonata da Dio. La santità dei suoi monaci e vescovi, e le meraviglie che Dio aveva fatto in essi, costituivano il terreno su cui poteva rinascere una speranza per il futuro. Il nostalgico rimpianto di Gregorio per la perduta vocazione monastica e la sua sofferenza di fronte al crollo dell'antico ordine sociale aggiungono intensità di significato a questo tema.
I segni miracolosi erano di importanza fondamentale rispetto allo scopo che Gregorio si proponeva. 1 più sofisticati tra i lettori di Gregorio, cioè clero e monaci, avrebbero di certo compreso il loro significato simbolico. Per i lettori meno colti, questi fatti concordavano semplicemente con la convinzione popolare, molto diffusa nella tarda antichità, che gli uomini santi esercitassero misteriosi poteri sulle forze della natura. Per gli storici, la parte importante degli avvenimenti miracolosi è il loro contesto, e non abbiamo nessuna ragione di ritenere che questo fosse inventato. Tutto sommato Gregorio metteva per iscritto una storia orale destinata a un pubblico di italiani viventi. Se i lettori dovevano accettare il suo messaggio, egli non poteva inventare l'ambientazione topografica dei suoi aneddoti, né le personalità che vi comparivano e che ancora esistevano nella memoria del suo pubblico. Autore e lettore erano circondati allo stesso modo dall'evidenza visiva del passato. Cassino e Subiaco erano state disertate e di esse era rimasto solo un cumulo di rovine, come san Benedetto aveva profetizzato; ed erano ancora viventi coloro che potevano ricordare la vita a Cassino prima che i longobardi la bruciassero, e coloro i quali avevano conosciuto il fondatore. Alcuni di essi sono citati da Gregorio come fonte delle sue informazioni.
Gregorio ci dice che Benedetto nacque a Norcia nell'Italia centrale - la data convenzionale del 480 è solo ipotetica e fu mandato a Roma per ricevere un'educazione umanistica. Ma, disgustato dalla vita dissoluta dei suoi compagni di studio, egli abbandonò la scuola « deliberatamente ignorante e saggiamente privo di istruzione », e scappò con la sua nutrice nel villaggio di Effide (l'odierna Affile), a circa venti chilometri da Roma. Di là si ritrasse poi in solitudine vicino a Subiaco, un luogo desertico sulle colline della Sabina, dove visse in una grotta per tre anni.
Per tutto questo tempo un monaco chiamato Romano, di un monastero che si trovava nelle vicinanze, lo nutrì e lo istruì nelle pratiche della vita ascetica. A poco a poco vennero altri discepoli che cominciarono a vivere con lui, ed egli li organizzò in gruppi di dodici, nominando un abate per ogni gruppo. Infine Benedetto si trasferì sulla cima di Monte Cassino, la collina che si eleva sulla Via Latina a metà strada fra Roma e Napoli, e costruì un monastero per una comunità cenobitica, che diresse fino alla fine della sua vita. Benedetto morì, come Gregorio sembra dirci, tra l'anno 546 e il 550, e fu sepolto a Cassino. Nei Dialoghi Gregorio fa un unico riferimento alla Regola di san Benedetto: « Scrisse infatti una regola per i monaci segnalata per discrezione e limpida per dettato. Se qualcuno volesse conoscere più compiutamente i costumi e la vita di quest'uomo di Dio può trovare nelle disposizioni di questa regola tutto ciò di cui egli è stato un magistero vivente, perché il santo non poté insegnare diversamente da come visse ». Questa è la più antica citazione conosciuta della Regola ed è tutto ciò che Gregorio riesce a dire su di essa. Non c'è nulla nei Dialoghi per cui si possa supporre che egli l'avesse letta (2).
Tra gli innumerevoli manoscritti della Regola, il più antico esistente è probabilmente quello compilato nell'Inghilterra anglosassone intorno all'anno 750 ed ora conservato nella Bodleian Library di Oxford. Ma una copia ancora più preziosa è quella che sopravvive in un manoscritto della biblioteca di San Gallo. Si tratta di una copia fatta ad Aquisgrana all'inizio del IX secolo da un codice che Teodemaro, l'abate di Monte Cassino, aveva spedito a Carlomagno, quando quest'ultimo aveva richiesto un testo autentico della Regola da utilizzare nel proprio regno. Il codice che Teodemaro gli inviò era stato copiato a Cassino dal manoscritto che si riteneva essere la copia autografa di san Benedetto. Si può quindi pensare che abbiamo nel manoscritto di San Gallo una copia che dista di un solo passaggio dall'originale dell'autore; cosa rara per un testo così ampiamente diffuso e di tale antichità.
Benché non possiamo essere certi di quando Benedetto lo abbia scritto, ci sono indicazioni interne al testo che fanno pensare che l'opera nella sua forma attuale non sia stata composta in una sola volta, ma sia il risultato di correzioni e ampliamenti apportati, alla luce dell'esperienza, in un certo arco di tempo. Ciò è indicato da un certo numero di interruzioni nella sequenza logica dell'argomento e dal fatto che gli ultimi sette capitoli sembrano essere stati aggiunti dopo le conclusioni originali come un ulteriore ripensamento.
La Regola consiste di un prologo e di settantatre capitoli, e, se si escludono le occasionali digressioni rispetto all'argomento principale, essa definisce un piano coerente e dettagliato per l'organizzazione di una comunità monastica. Il monastero che viene descritto è una società cenobitica in piena regola, che vive in una singola costruzione o in un complesso di edifici, sotto la direzione di un abate che è eletto dai confratelli. Coloro che vogliono entrare devono fare un anno di noviziato per verificare la loro vocazione a questo tipo di vita e la loro perseveranza, a cui segue la totale rinuncia ad ogni proprietà personale; infine essi prendono i voti impegnandosi ad osservare le regole della comunità monastica e a rimanere in essa fino alla morte.
Il Prologo e i primi sette capitoli della Regola comprendono un trattato esortativo sulla vita ascetica, che ne spiega gli scopi ed espone le virtù caratteristiche che il monaco deve cercare di coltivare, tra cui in primo luogo l'obbedienza e l'umiltà. I tredici capitoli seguenti contengono dettagliate istruzioni per l'ordine del servizio divino, il regolare turno di preghiera, le letture e la salmodia, che costituiscono la struttura della giornata di un monaco. Dopo questi vengono una serie di capitoli che trattano di questioni costituzionali come l'elezione dell'abate e il ruolo degli altri uffici monastici, le disposizioni per le oredi sonno, il lavoro manuale e le letture, i pasti e, alternato a queste istruzioni varie, un codice penitenziale, che stabilisce punizioni per le inosservanze della disciplina monastica. Viene anche riservata molta attenzione all'accoglienza e alla formazione dei novizi. E' impossibile rendere giustizia in poche parole alla grande ricchezza di particolari e alla profondità di sguardo contenuta nel trattato di san Benedetto. Alcune delle sue idee cardine saranno esaminate fra poco. Nel complesso la Regola è una guida eminentemente pratica sia per la gestione di una comunità cenobitica sia per la vita spirituale del monaco.
Benché evidenze interne suggeriscano che essa sia stata composta negli anni dopo il 535, sappiamo veramente poco riguardo alle circostanze in cui san Benedetto lavorò. Anche le fonti da cui egli trasse il suo insegnamento pongono un ulteriore problema. Una cosa almeno è stata chiarita dalla critica moderna: non è più possibile considerare la Regola come il lavoro isolato di un genio originale. Essa era parte di un gruppo di regole monastiche strettamente collegate fra loro che vennero composte in Italia e nella Gallia meridionale nella prima metà del VI secolo. Le più vicine ad essa nel tempo furono le due regole una per gli uomini e l'altra per le donne ‑ scritte da Cesario di Arles (ca. 470 - 542).
Come la maggior parte dei vescovi galli del suo tempo, Cesario era figlio dell'aristocrazia gallo-romana. Aveva preso i voti monastici a Lérins alla giovane età di vent'anni, ma poi, a causa della sua salute, non aveva potuto continuare a vivere in monastero. Cesario fu mandato ad Arles, dove frequentò la scuola e il vescovo lo volle ecclesiastico. Ma il suo cuore era rimasto a Lérins. Dovettero trascinarlo fuori dal suo nascondiglio per nominarlo vescovo; ma alcuni anni più tardi Cesario riuscì a compensare almeno un poco la sua perduta vocazione monastica fondando e dirigendo una comunità di monache ad Arles. Fu per loro che egli scrisse la prima e la più lunga delle sue regole, in seguito alle richieste continue della loro badessa. Il documento consisteva di una collezione piuttosto disorganizzata di precetti e di una sistemazione della salmodia per l'uso dell'ufficio divino. Molte delle istruzioni su argomenti quali il noviziato, la rinuncia alle proprietà personali, la scelta stabile per tutta la vita, furono principi-cardine adottati da san Benedetto, e vi sono echi verbali nella sua Regola che suggeriscono che egli conoscesse il lavoro di Cesario. Ma le influenze non vennero tutte da un'unica fonte. Lo stesso Cesario aveva certamente letto la Regula Magistri, un testo italico che, come vedremo tra poco, diede il maggior contributo a quella di Benedetto. Queste complesse relazioni letterarie dimostrano che nel VI secolo l'Italia e la Provenza erano parte di un unico mondo monastico unito da un comune corpo di dottrine ascetiche.
Alcuni dei prodotti letterari di questo ambiente sono stati identificati recentemente, come la regola per i monaci composta da Eugipio. Eugipio era abate di un monastero a Lucullanum, vicino a Sorrento. L'altro suo lavoro, una Vita di san Severino, fu scritta circa vent'anni prima che san Benedetto fondasse il suo insediamento a Cassino. Fu probabilmente in uno dei monasteri a sud di Roma che, subito dopo l'anno 500, un ignoto abate scrisse la Regu1a Magistri (3). E' ormai comunemente accettato dagli studiosi che questo testo sia stato la principale fonte letteraria di san Benedetto.
Il debito di Benedetto nei confronti dell'anonimo Maestro è consistente. Il santo derivò da lui non solo i principi di base e i particolari organizzativi; alcuni dei passi più famosi della Regola, come ad esempio il capitolo sull'obbedienza e sui gradi di umiltà, furono ripresi letteralmente; e molti altri passi vennero trasferiti con pochi cambiamenti. Tutto ciò che è essenziale nella Regola di san Benedetto lo si può trovare nel lavoro del suo ignoto predecessore che, a giudicare dal tipo di istruzioni liturgiche, scriveva circa quarant'anni prima. L'appropriazione del lavoro di altre persone senza i dovuti riconoscimenti era una cosa molto comune tra gli scrittori medievali. Ciò che da noi sarebbe considerato plagio, era per loro segno di umiltà e di deferenza verso una saggezza più grande. Quando Benedetto decise di compilare un libro di istruzioni per i suoi monaci di Cassino, dovette sembrargli perfettamente naturale modellare la sua Regola su un trattato composto da un altro riconosciuto veterano della vita ascetica.
San Benedetto risulta così non un genio solitario con un dono particolare per la legislazione monastica, ma piuttosto come il rappresentante di una scuola di insegnamento ascetico diffusa nel VI secolo in Italia e che derivava la sua ispirazione principale dall'Egitto. Egli non è solo. Dietro di lui possiamo scorgere le ombre di una ricca compagnia di abati ed eremiti che abitavano le colline ad est e a sud di Roma e le isole al largo delle coste, collegati uno all'altro da contatti personali e dallo scambio di libri. Eppure fu proprio la Regola di Benedetto, e non quella del Maestro anonimo, che gradualmente ottenne l'universale riconoscimento dell'Europa occidentale. Quali le ragioni di ciò?
La biografia di Gregorio fu certamente un fattore determinante. Rese famoso Benedetto e suscitò interesse verso la Regola. Ma il suo successo non può essere spiegato solamente con la propaganda di Gregorio. I meriti intrinseci al trattato di Benedetto furono egualmente importanti nel promuoverne la circolazione, poiché egli non fu solo un compilatore pedissequo. La sua Regola è migliore del modello da cui attinse, sia dal punto di vista strutturale che stilistico. Benedetto e il Maestro scrissero entrambi nella lingua vulgaris: il latino parlato e scritto nell'Europa meridionale del VI secolo, opposto al latino letterario del periodo classico. Ma la lingua di Benedetto, quando non cita la sua fonte, è più chiara e il suo fraseggiare più finemente cesellato di quello del Maestro, impregnato del vocabolario giuridico dei tribunali. Spesso egli si ferma e afferra l'attenzione del lettore con una frase lapidaria o un epigramma: « L'ozio è nemico dell'anima », o « il vino non è per i monaci », oppure « all'opera di Dio non s'anteponga nulla ». Al contrario, il trattato del Maestro è verboso, irregolare, e poco coordinato.
Benedetto migliorò la sua fonte non solo dal punto di vista stilistico. Il suo pensiero è più approfondito e i suoi argomenti meno ingombri di dettagli irrilevanti. Inoltre, in parecchi punti dove parla del governo del monastero, egli rivela uno spirito più geniale di quello del Maestro e una maggiore tolleranza verso le debolezze umane. « Speriamo -egli scrive - di non stabilire nulla di penoso, nulla di pesante ». In entrambi i trattati l'ancora di salvezza della comunità è la personalità dell'abate, ed entrambi gli autori furono ampiamente influenzati a questo riguardo dalla nozione romana di autorità paterna. Ma l'autorità dell'abate benedettino è meno autocratica. Nel prendere le decisioni egli deve tener conto dell'opinione dell'intera comunità, compresi i suoi membri più giovani, mentre il Maestro insiste che nessuno deve dare consigli, a meno che non gli sia richiesto. Inoltre l'abate benedettino è eletto dai suoi confratelli, mentre all'abate, secondo il Maestro, è dato il potere di nominare il proprio successore. Entrambe le regole richiedono obbedienza incondizionata al volere del superiore, ma Benedetto mitiga questo comando ribadendo l'importanza del legame che proviene dall'amore reciproco. In tutto e per tutto la Regola di Benedetto è più moderata e più umana di quella del suo prototipo.
L'idea di vita monastica di san Benedetto è completamente cenobitica. La sua comunità di monaci è una famiglia, che vive sotto lo stesso tetto, o comunque nello stesso spazio, guidata da un abate che è il padre della comunità in una sorta di villa-monastero. Infatti il progetto classico delle abbazie benedettine del Medioevo derivava dal progetto di villa romana di campagna della tarda antichità. Seguendo il Maestro, Benedetto consente la vocazione eremitica, pur considerandola rara e anche piuttosto pericolosa; coloro che vi sono chiamati devono prima compiere la loro formazione condividendo la vita in una comunità monastica: « Coloro che non sono in quel fervore di vita monastica ch'è proprio dei principianti, ma han percorso un lungo tirocinio nel monastero, e addestratisi con l'aiuto di molti, sono già divenuti esperti a combattere contro il demonio; sicché dalla lotta sostenuta insieme con i fratelli son bene esercitati per il combattimento singolare della solitudine ». Le immagini prese dalla vita militare sono una caratteristica assai diffusa nella prima letteratura monastica. La vita spirituale del monaco era una battaglia continua contro i demoni che vagavano per il mondo cercando di sfruttare le debolezze della natura umana peccatrice. L'anacoreta aveva bisogno di essere ben attrezzato per la sua solitaria battaglia contro i dominatori del regno delle tenebre.
La cauta approvazione degli eremiti da parte di Benedetto non andò perduta tra i suoi discepoli dei periodi successivi. Non era così strano, in una abbazia benedettina del Medioevo, che uno o due membri della comunità vivessero da eremiti a qualche distanza dal monastero di origine. Ancora nel XIV secolo il priore della cattedrale di Durham inviò monaci solitari a occupare le celle nell'isola di Inner Farne, al largo delle coste della Northumbria. Ma non era per gente come questa che Benedetto compose la sua Regola. Egli scriveva per i cenobiti, « quelli cioè che vivono in un monastero, militando sotto una regola e un abate ».
Vi sono parecchi accenni nella Regola che fanno pensare che egli avesse in mente un pubblico monastico più vasto della sua sola comunità di Monte Cassino. Ma benché abbia incluso consigli per altre comunità che vivevano in condizioni diverse, Benedetto non prevedeva niente che potesse essere chiamato un ordine monastico. Il tipo di monastero descritto nella Regola era un'unità autonoma, economicamente autosufficiente e che non aveva legami costituzionali con nessun'altra casa religiosa. Un uomo che voleva diventare monaco doveva bussare alla porta di una comunità particolare, e se dopo un periodo di prova era ammesso a far parte della comunità, egli prometteva di rimanervi fino alla morte.
Il rituale predisposto nella Regola per l'accoglimento dei nuovi fratelli illumina ampiamente il pensiero di Benedetto. Al postulante non era concesso di entrare facilmente in monastero; doveva perseverare nella sua richiesta per quattro o cinque giorni prima che le porte gli venissero aperte, e dopo doveva completare un anno di probandato come novizio. Se egli proseguiva con costanza il cammino intrapreso, faceva la sua professione nell'oratorio alla presenza della comunità. Prendeva il voto della stabilità, promettendo di rimanere nella stessa casa per il resto della sua vita, il voto di abbracciare la vita religiosa e il voto dell'obbedienza; poi si prostrava di fronte ad ogni membro della comunità. Se aveva delle proprietà, gli era richiesto di distribuirle ai poveri o di donarle al monastero con un atto legale.
L'insistenza di Benedetto sulla necessità della stabilità non era nuova. « Un monaco fuori dalla sua clausura – diceva sant'Antonio - è un pesce fuor d'acqua ». E Cesario concordava con lui. Ciò che era nuovo era l'inclusione di questo principio negli stessi voti del monaco. L'importanza che Benedetto attribuiva a questo fatto emerge con evidenza dalla durezza con cui egli condanna i gyrovagi, monaci vaganti, sempre in movimento, che approfittavano dell'ospitalità delle altre case: « A riguardo della vita miserabile di costoro è meglio tacere che parlare ». Il Maestro era stato meno reticente: la sua Regola comprende una descrizione rabelaisiana del ghiottone vagabondo che cala sul suo povero ospite e lo spolpa fino all'osso. L'ospite di mestiere, sia che fosse un monaco girovago o un ecclesiastico vagabondo, fu una molestia costante per la Chiesa medievale. Per secoli vescovi e concilii lanciarono invano anatemi contro di lui.
E' comprensibile che su questo argomento Benedetto si esprimesse con un'asprezza che non gli era consueta: il girovago non solo scombussolava l'unità dei fratelli con la sua irrequietezza, ma, abusando dell'ospitalità, sfruttava uno degli obblighi più solenni imposti dalla Regola, in quanto Benedetto insisteva che un monastero doveva ricevere l'ospite come se fosse Cristo stesso. Ovviamente, un monaco poteva essere inviato da qualche altra parte da ordini superiori senza che per questo il principio generale di stabilità venisse intaccato. Così l'abate Adriano fu inviato dal papa in Inghilterra insieme all'arcivescovo Teodoro di Tarso per assicurarsi che questi non introducesse nessuna delle sue discutibili abitudini greche nella Chiesa inglese; e i monaci irlandesi, che erano notoriamente dei girovaghi, evangelizzarono la Northumbria e impiantarono monasteri in tutta Europa, da San Gallo a Bobbio.
Un'altra caratteristica del pensiero di Benedetto che è messa in rilievo dalle istruzioni per i novizi è la sua insistenza, tipicamente romana, sull'assoluta autorità di una regola scritta. La legge di Roma era una legge scritta; ai tempi in cui la Regola stava prendendo forma nella sua mente i giuristi dell'impero di Giustiniano erano impegnati a raccogliere in codici la gran massa della legislazione e della giurisprudenza classiche. Così colui che voleva diventare monaco doveva sentirsi leggere la Regola ripetute volte durante l'anno del noviziato, e dopo due mesi gli si doveva dire: « Ecco la legge sotto la quale vuoi militare; se puoi osservarla, entra; se non puoi, va' pure via liberamente ». In altri monasteri le abitudini della casa erano determinate dal superiore. Ma nel progetto di Benedetto la Regola è sovrana, e anche all'abate non è concessa nessuna facoltà di allontanarsene. E' anzi sollecitato al dovere di attenersi ad essa in ogni particolare. Poiché la Regola rifletteva le abitudini sociali e la pratica liturgica del VI secolo, dovettero necessariamente attuarsi modifiche successive. Ma ciò che era essenziale nella Regola di san Benedetto si impresse indelebilmente nella tradizione ascetica occidentale. Gli uomini cominciarono a pensare ai monaci come a persone la cui vita religiosa era governata da un codice scritto e la vita monastica venne ad essere descritta come la « vita regolare », cioè la vita che seguiva una regola.
Quando il monaco faceva la sua professione gli veniva richiesto di rinunciare completamente alla proprietà privata: « Da quel giorno egli non sarà padrone neppure del proprio corpo ». Tutte le proprietà erano in comune. Non c'era niente che l'individuo potesse conservare come proprio. Anche il possesso di uno stilo o di una tavoletta per scrivere richiedeva il permesso dell'abate. La proprietà è un'estensione della personalità. La rinuncia ad essa era un atto di rinuncia a se stessi che il vangelo aveva comandato a coloro che cercavano la perfezione cristiana. Ma non implicava l'indigenza quando veniva praticata all'interno di una proprietà comunitaria.
Benedetto dice esplicitamente di aspettarsi che i monasteri possedessero costruzioni e terreni. Egli presuppone che nella maggior parte dei casi il lavoro della terra venga eseguito da affittuari, benché nelle situazioni in cui la povertà costringa i monaci ad aiutare nel periodo del raccolto, essi debbano farlo senza lamentarsi « perché allora sono veri monaci quando vivono col lavoro delle loro mani, come i nostri padri e gli Apostoli ». Ma è improbabile che egli prevedesse monasteri molto ricchi. I monaci erano ex professo « i poveri di Cristo » e come tali erano sostentati da devoti benefattori. Eppure la povertà dell'individuo che viveva in un ambiente ampio e agiato tendeva ad essere più psicologica che materiale. Secoli di donazioni trasformarono molte abbazie in istituzioni ricche e potenti che dimostravano tutte le caratteristiche della tendenza ad accumulare propria del gruppo. Ma la ricchezza su grande scala era compatibile con la Regola? Nel XII secolo, la domanda fu posta da san Bernardo a Cluny. « Nel parlare di qualsiasi proprietà - scrive Pietro il Venerabile in atteggiamento difensivo - la Regola non fa eccezioni. I monaci possiedono queste cose in un modo completamente diverso... essi vivono come se non avessero niente, eppure possiedono tutto ». Era la risposta di prammatica. Ma la questione non poteva essere messa a tacere così facilmente in una società in cui coloro che avevano fatto voto di povertà si godevano la sicurezza e il conforto di grandi residenze, mentre la maggior parte di coloro che erano nel mondo esterno vivevano a livello di sussistenza.
Seguendo gli insegnamenti dei maestri orientali, Benedetto fa dell'obbedienza il principio-cardine della vita monastica. Insieme alla stabilità e alla conversione dei costumi, l'obbedienza costituisce l'oggetto del triplice voto dei monaci. Il suo significato per Benedetto è dimostrato dal fatto che egli la colloca all'inizio della Regola: « Ascolta, o figlio, gli insegnamenti del maestro; perché tu possa per la fatica dell'obbedienza ritornare a Colui dal quale ti eri allontanato per l'inerzia della disobbedienza ». Così il compito del monaco era di annientare il primitivo atto di disobbedienza dell'uomo alla volontà divina, modellando se stesso su Cristo, che « fu obbediente fino alla morte ». La vita monastica iniziava con l'intenzione di rinunciare al proprio volere e di porre se stessi sotto il volere di un superiore, che rappresentava la persona di Cristo. Ciò che era richiesto non era una semplice conformità esterna, ma il consenso più profondo della volontà ai comandi dell'abate. L'obbedienza doveva essere immediata, libera e senza mormorazione. Il capitolo 68 della Regola solleva il problema di che cosa un monaco debba fare se gli viene ordinato di intraprendere qualcosa di troppo pesante o impossibile. Gli viene detto che egli deve ricevere l'ordine con mansuetudine e spirito di obbedienza; e se il compito richiesto sembra del tutto al di là delle sue possibilità, egli deve spiegare pazientemente al suo superiore il motivo della sua impossibilità ad eseguire le istruzioni, ma senza porre resistenza o contraddire. Se, dopo questa spiegazione, il superiore insiste, il monaco deve obbedire, confidando nell'aiuto di Dio. Il mistero era un classico nella formazione dell'asceta. La docilità completa alla volontà del maestro era vista come indispensabile salvaguardia contro l'orgoglio spirituale.
Da tale intransigente insegnamento sull'obbedienza derivava che la personalità dell'abate era il perno della comunità monastica. L'abate benedettino non può comandare legittimamente niente che sia contrario alla legge di Dio o alla Regola, ma per il resto gode di assoluta discrezionalità. Egli può nominare e dimettere i suoi subordinati, distribuire punizioni e dirigere le relazioni del monastero con il mondo esterno nel modo che egli ritiene più opportuno. L'abate è esortato dalla Regola a richiedere i pareri dei confratelli prima di prendere decisioni politiche, ma non è tenuto a seguirli. Costituzionalmente, dunque, il monastero di san Benedetto è un'autocrazia paterna, moderata dall'obbligo di ascoltare previamente i consigli. Ma l'abate è molto di più di un governante assoluto. Egli esercita un ruolo pastorale verso la sua comunità. E' maestro, confessore, guida spirituale dei suoi monaci. Questo aspetto del suo ruolo viene illuminato dalle istruzioni di Benedetto per le norme da osservare nel periodo quaresimale. Ogni monaco deve decidere quale forma di mortificazione ha intenzione di intraprendere; poi deve proporla all'abate e metterla in pratica solo con il suo benestare. Così, compiendo in obbedienza le sue mortificazioni ascetiche, il monaco è protetto contro l'orgoglio spirituale e l'autocompiacimento. Quale pastore della sua comunità, viene ricordato all'abate che nel giorno del giudizio egli dovrà render conto delle anime dei suoi monaci. La Regola lo mette in guardia continuamente contro il pericolo di governare in modo tirannico o troppo aspro; egli deve considerare se stesso come servo piuttosto che come padrone dei suoi confratelli, deve cercare di farsi amare più che temere.
Il carattere autoritario del regime è addolcito non solo dall'insistenza di Benedetto a governare con l'aiuto di consultazioni ma anche dalle sue disposizioni riguardanti la nomina del capo del monastero. L'abate deve essere scelto dai confratelli stessi, e di solito ciò significa che deve essere uno di loro. Anche il più giovane fra i membri della comunità può essere considerato eleggibile se la sua prudenza e la sua preparazione lo rendono adatto. Una volta eletto, l'abate è presentato al vescovo per la consacrazione e mantiene l'ufficio per tutta la vita. Benedetto consente l'attivo intervento del vescovo o di abati vicini solo in situazioni di emergenza, dove una comunità disordinata o negligente abbia eletto un candidato palesemente inadeguato. In questo caso, ci può essere un abate che viene imposto alla comunità, altrimenti la scelta rimane dei monaci.
Qualunque sia la dimensione della comunità, l'abate avrà bisogno di assistenti che lo aiutino a reggere il monastero. La Regola fa riferimento a un prevosto o priore, a decani, a un cellerario, che ha il compito di provvedere alle necessità del monastero, a un portinaio, e a fratelli incaricati di seguire i novizi, la foresteria e l'infermeria. La maggiore preoccupazione di Benedetto in questo punto sembra essere quella di non indebolire l'autorità dell'abate. Tutti gli uffici monastici devono essere conferiti da lui e a lui direttamente sottomessi.
Nelle grandi abbazie benedettine del Medioevo, dove l'abate era un prelato continuamente assorbito dagli uffici pubblici, a scapito della sua comunità, l'effettivo capo dei confratelli era il priore claustrale. Ma nella sua Regola san Benedetto prevede la figura del priore con alcune riserve, in quanto possibile fonte di discordia « perché ci sono alcuni che, gonfi del maligno spirito della superbia, pensano di essere altrettanti abati ». Egli preferisce un sistema di decani, ognuno dei quali è collocato dall'abate a guida di un gruppo di dieci monaci. I decani sarebbero, diciamo così, ufficiali senza brevetto di nomina; nome e grado derivano dall'esercito imperiale, e il sistema era adottato nei monasteri egiziani di Pacomio. L'abate Smaragdo, commentando la Regola nel IX secolo, osservava che i decani non erano semplici guide dei loro gruppi, essi erano anche i loro mentori spirituali e dovevano conoscere i pensieri più riposti di coloro che erano loro affidati. Smaragdo affermò ciò a partire dalla propria esperienza, dal momento che lo stesso sistema veniva ancora praticato nei monasteri carolingi, ma sopravvisse per poco tempo. Nelle abbazie riformate dell'XI secolo, l'assegnazione delle cariche seguì altre strade, determinate da valutazioni economiche e amministrative.
«Dobbiamo dunque costituire una scola di servizio del Signore », scrisse Benedetto nel suo Prologo. Nel linguaggio del VI secolo il termine scola aveva un significato militare e anche uno accademico; nel linguaggio militare si intendeva un reggimento speciale o corps d'élite. Nel primo Medioevo il Borgo Romano - la parte della città che si trovava fuori dalle mura aureliane tra San Pietro e il Tevere - era difesa da scolae, o unità della milizia, mantenute dalle varie nazionalità che erano insediate in quel distretto. Benedetto usava la parola in questo senso. Il suo monastero non era un luogo di tranquillo ritiro o di piacere, e neanche una scuola nel senso accademico del termine; era una sorta di unità di combattimento, in cui la recluta veniva addestrata ed equipaggiata per la sua guerra spirituale sotto la guida di un esperto comandante: l'abate. L'obiettivo era la conquista della sensualità e della volontà per rendere l'uomo completamente disponibile a Dio.
A questo fine la Regola prescriveva un ritmo quotidiano e attentamente preordinato di preghiera, lavoro e studio, che occupasse tutta la giornata, con variazioni che dipendevano soltanto dall'anno liturgico e dalle stagioni. Era un regime di stretta disciplina ma, come scrisse san Benedetto chiudendo un occhio sulle ben più dure austerità degli asceti orientali, non ci doveva essere « nulla di penoso, nulla di pesante ». La sua era « una minima Regola per principianti ». E infatti la struttura della giornata non poneva richieste insopportabili. Concedeva otto ore di sonno in inverno e sei ore, con un riposo pomeridiano, in estate. Le razioni di cibo, pur non essendo prodighe, erano comunque sufficienti. Con l'eccezione dei malati, era proibito l'uso della carne, ma un pasto poteva comprendere due o tre piatti di verdure cotte con pane e una misura di vino; se i fratelli vivevano in una regione dove il vino non era disponibile, dovevano però farne a meno senza lamentarsi. « Leggiamo - osserva san Benedetto - che il vino non è per i monaci », eppure qui, come altrove nella Regola, egli era desideroso di fare concessioni alle debolezze umane.
Il primo impegno della vita monastica era la preghiera in comune: il canto in coro del servizio divino, ciò che Benedetto chiama opus Dei. Il servizio divino costituiva la struttura essenziale della giornata e tutto il resto doveva essere collocato intorno ad esso. Seguendo la Regula Magistri, ma con significative varianti, Benedetto dà precise istruzioni per la celebrazione di questi servizi quotidiani, che sono di grande interesse per coloro che vogliono studiare la storia del culto cristiano, in quanto sono le più antiche dettagliate descrizioni dell'ufficio divino di cui disponiamo. Per molto tempo era stata pratica comunemente diffusa nelle grandi chiese di recitare preghiere pubbliche quotidiane all'alba e al tramonto, gli uffici di Lodi e Vespri. Al tempo di san Benedetto, le comunità monastiche elaborarono, a partire da questi servizi divini, un turno quotidiano di otto uffici che venivano recitati in comune in certe ore del giorno.
La preghiera quotidiana del monaco cominciava nelle ore notturne, alle due o poco dopo in inverno, e alle tre o poco dopo in estate, con il canto dell'ufficio di Veglia o Notturno (più tardi chiamato Mattutino). Le Lodi venivano cantate alle prime luci dell'alba, e a queste seguivano, ad intervalli relativamente brevi, gli uffici del giorno, cantati alla prima, terza, sesta e nona ora, e l'ufficio della sera dei Vespri. Il giorno finiva con il canto di Compieta, al calare del sole. L'ufficio della notte era il più lungo ed elaborato. Era diviso in diverse parti chiamate Notturni, ognuna delle quali consisteva di sei salmi e di quattro lezioni con responsori, o versi di meditazione, che si riferivano all'argomento delle lezioni. Di domenica e nei giorni festivi l'ufficio della notte comprendeva tre Notturni, e si dovevano impiegare circa due ore per recitarlo tutto. La Regola di Benedetto forniva istruzioni dettagliate per l'ordine della salmodia, così da assicurare che nell'arco di ogni settimana fosse recitato l'intero Salterio. Le lezioni erano prese dalla Bibbia e dai commenti alla Scrittura dei Padri. Nei secoli successivi l'ufficio venne ulteriormente elaborato, sia dal punto di vista musicale che da quello testuale, ma i suoi lineamenti essenziali, così come sono tracciati nella Regola, rimasero e divennero la struttura modello della preghiera quotidiana nella Chiesa occidentale; la sua eredità è chiaramente visibile in tutti i testi di servizio divino, sia protestanti che cattolici, che derivano dalla tradizione medievale.
E' cosa piuttosto sorprendente per il lettore moderno il fatto che la Regola, che fornisce istruzioni così dettagliate per la preghiera quotidiana della comunità, faccia solo pochi e incidentali riferimenti alla preghiera eucaristica. Il motivo è da ricercarsi nel fatto che l'ordine della liturgia eucaristica era determinato dal vescovo; non era questo un argomento su cui l'abate potesse legiferare. E san Benedetto osservava i costumi della Chiesa delle origini ancora vigenti ai suoi tempi e secondo i quali la celebrazione della messa era riservata alle domeniche e alle feste del Signore.
Dal momento che l'intera comunità celebrava la messa solo una volta alla settimana, il monastero non aveva bisogno di più di uno o due monaci con gli ordini sacerdotali. Coloro che dovevano essere ordinati dal vescovo venivano scelti dall'abate. Costoro erano messi in guardia, con grande severità, contro il pericolo dell'arroganza: non dovevano fare nulla eccetto che eseguire le istruzioni dell'abate e dovevano rimanere nel ruolo che era già stato loro assegnato. Benedetto pensava che la maggioranza dei membri della comunità - e possibilmente anche lo stesso abate - non dovessero essere ordinati. In questo egli rifletteva la convinzione diffusa nel periodo del primo monachesimo che i monaci non erano sacerdoti. Gregorio Magno considerava l'ufficio ecclesiastico incompatibile con la vita monastica. « Nessuno - egli scrisse al vescovo di Ravenna - può servire sotto l'obbedienza ecclesiastica e continuare anche sotto una regola monastica, osservando lo stretto regime di un monastero, se è obbligato a rimanere nel servizio quotidiano della Chiesa » (4) . Si doveva scegliere o l'uno o l'altro. Un chierico poteva naturalmente divenire monaco, ma, in questo caso, doveva cessare di prestare le sue funzioni sacerdotali fuori dal monastero.
Con tutto ciò, Gregorio si accingeva ad affidare ai monaci il grande compito dell'evangelizzazione dei popoli barbari del Nord Europa, e i pressanti bisogni della missione resero necessario un allentamento dei suoi principi affinché i popoli appena convertiti potessero ricevere i sacramenti. Forse è questa la ragione per cui nel VII secolo le ordinazioni sacerdotali divennero una pratica crescente nei monasteri occidentali, fino ad essere, nei secoli successivi, prassi comune. Ma l'antica tradizione stentava a morire: fu solo nell'826 che un sinodo di Roma richiese che gli abati fossero ordinati sacerdoti. Il principio di Gregorio a volte veniva rivitalizzato per motivi polemici. Ancora nel XII secolo Teobaldo di Etampes faceva sapere all'arcivescovo Thurstan di York che ai monaci non era permesso predicare al popolo, battezzare e dare l'assoluzione. Infatti ai monaci era stato espressamente proibito esercitare la cura pastorale o celebrare la messa in chiese pubbliche dal primo concilio del Laterano del 1123.
Terminati i Notturni, la comunità non tornava a letto; c'era solo un breve intervallo, dopo il quale veniva cantato l'ufficio di Lodi, alle prime luci, e poi l'ufficio di Prima, al sorgere del sole. Poi i monaci uscivano in processione dal coro e andavano alle proprie occupazioni. Gli orari della giornata variavano come le maree, secondo il ritmo delle stagioni. Il computo del tempo di allora era quello dell'antichità classica, ancora in uso nel VI secolo. Secondo questa suddivisione i periodi di luce e di buio erano entrambi divisi in dodici ore di uguale ampiezza. Così in inverno le ore della notte, pur essendo uguali tra di loro, risultavano più lunghe dei sessanta minuti odierni, e di conseguenza le ore del giorno più corte. Al contrario, in estate le ore diurne erano più lunghe e quelle notturne più corte. L'impegno di far alzare tutti dal letto all'ora giusta per l'ufficio notturno e il suono della campana per le ore canoniche ponevano non pochi problemi, prima dell'avvento degli orologi meccanici, nel XIV secolo. Prima di allora venivano spesso usati orologi ad acqua. Alcuni codici monastici consigliavano l'osservazione astronomica come verifica dell'orario durante il periodo notturno. E' chiaro che qualcuno doveva stare sveglio durante la notte per far alzare la comunità all'ora dovuta. Nella Regula Magistri il compito ricadeva a turno su ciascuna decina di confratelli. Essi badavano all'orologio a coppie, per paura che uno dei due si addormentasse, e quando giungeva l'ora, i due andavano al letto dell'abate e dicevano: « Signore, apri le mie labbra », battendo leggermente i piedi finché non si fosse svegliato.
All'infuori delle ore della preghiera comune la Regola divideva la giornata del monaco in periodi di lavoro manuale e periodi di lettura. L'orario estivo, che iniziava a Pasqua, prevedeva sette ore di lavoro e tre di lettura; in inverno il periodo di lavoro era accorciato e quello di lettura allungato. Nelle lunghe giornate estive la Regola prevedeva due pasti, il primo poco dopo mezzogiorno e il secondo verso sera, mentre l'orario invernale contemplava un solo pasto, che veniva consumato alle 2,30 del pomeriggio, o anche più tardi in Quaresima. Durante i pasti non era permesso parlare, i fratelli mangiavano in silenzio mentre un membro della comunità leggeva per loro. Il silenzio era prescritto per qualsiasi momento, ma in particolare nelle ore notturne.
Ciò che è più palesemente assente dalla Regola è una qualsiasi indicazione per il tempo libero. « L'ozio - osserva severamente Benedetto - è nemico dell'anima ». La sua insistenza sul valore del lavoro manuale è già nella tradizione monastica orientale, in quanto rispondente sia ad una funzione ascetica che ad una pratica: rendeva umili e veniva incontro alle necessità materiali della comunità. I monaci artigiani dovevano esercitare il loro mestiere a discrezione dell'abate e il prodotto del loro lavoro poteva essere venduto, gli altri monaci andavano a lavorare nei campi o si occupavano delle incombenze domestiche. Il bilanciato equilibrio di Benedetto tra periodi di lavoro manuale e di studio venne distrutto nel periodo medievale. L'aggiunta di una messa quotidiana capitolare e la crescente elaborazione dell'ufficio liturgico, che raggiunse il suo vertice a Cluny, occupava buona parte della giornata. E l'acquisizione di grandi estensioni di terreno significò che un numero crescente di monaci delle abbazie benedettine erano impegnati in compiti manageriali. Ma il semplice progetto di Benedetto continuava ad offrire un modello che i successivi riformatori monastici cercarono sempre di riprendere.
Che cosa pensava di far leggere, san Benedetto, ai suoi monaci durante le molte ore settimanali dedicate allo studio? La frase che egli usò - lectio divina, letture sacre o divine - significava anche occupazioni letterarie o intellettuali? Questo punto costituì uno degli enigmi della Regola su cui i commentatori successivi versarono molto inchiostro. Il IX secolo fu un periodo di abati colti, quando i monasteri benedettini della Mosa e della Renania giocarono un ruolo di primo piano nel trasmettere la cultura letteraria dell'antichità al Medioevo e, finché non si arrivò al movimento scolastico del XIII secolo, la maggior parte dei protagonisti del mondo del sapere erano monaci. Ma questa tradizione rappresentò realmente una interpretazione autentica del progetto di san Benedetto? Nel XVII secolo, Rancé, fondatore della riforma trappista, era sicuro che non lo fosse, e accusò i colti benedettini di San Mauro di sovvertimento della Regola: « San Benedetto e l'intera antichità sono dalla mia parte... e ciò che è chiamato studio è stato soltanto designato come un periodo di riposo ». Rancé dimostra tutta la cieca rigidítà di uno che si è autonominato enunciatore di dogmi, e il principale merito della sua insistente polemica fu il fatto di indurre il grande monaco - studioso Jean Mabillon a scrivere la sua magnifica apologia del sapere monastico. Considerando la situazione del VI secolo, comunque, Rancé aveva in parte ragione.
Gli uomini di Chiesa del VI secolo, infatti, dimostravano un atteggiamento ambivalente verso le lettere classiche. La cristianità aveva conquistato l'impero, ma le divinità pagane che tormentavano i poeti e gli oratori dell'antichità erano ancora troppo vicine per poterne trattare con leggerezza. Venere e le muse erano seduzioni per l'uomo che aveva sentito la chiamata del vangelo alla rinuncia. Fu proprio il vangelo a dare il colpo di grazia alle antiche scuole di retorica, rimaste ancora in piedi, in Italia e in Gallia, dopo il collasso dell'apparato statale dell'impero, solo per essere finalmente soppresse in seguito ad un gran numero di condanne ecclesiastiche. Ma i poeti e gli oratori non potevano essere esorcizzati così facilmente: i Padri latini che imprecavano contro di essi erano per la maggior parte cresciuti sui loro testi, e la loro prosa ne tradisce l'indebitamento ad ogni pagina. Vi furono alcuni che cercarono una riconciliazione, come ad esempio il vecchio aristocratico romano Cassiodoro, che era un contemporaneo di san Benedetto. Dopo aver servito il re ostrogoto Teodorico, Cassiodoro si ritirò in un monastero che egli stesso aveva costruito nella propria tenuta a Vivarium, nell'Italia meridionale. Egli compose un programma di studi in due parti per i suoi monaci che includeva gli oratori classici e la logica di Aristotele, le Institutiones divinarum et saecularium litterarum e, come egli spiega, lo scopo dello studio dei classici pagani era di permettere agli studenti una migliore comprensione delle Scritture. Era la strategia che anche sant'Agostino aveva approvato: l'educazione cristiana poteva sfruttare i classici per i propri fini, proprio come gli israeliti avevano saccheggiato gli egiziani.
Le Institutiones di Cassiodoro furono molto lette ma il suo schema formativo non ottenne l'approvazione generale tra i primi legislatori monastici. L'idea di un tempo libero dedicato alla cultura come si praticava a Vivarium doveva più alla tradizione classica del solitario-studioso che non allo spirito ascetico che veniva dall'Oriente. Quello spirito era invece più fedelmente racchiuso nel racconto del sogno che Girolamo fece dopo aver deciso di abbracciare la vita ascetica. Egli si trovava in cammino verso il deserto siriano, ma non si convinceva ad escludere dal bagaglio il suo Cicerone. Una notte, durante un attacco di malattia, sognò di essere portato davanti al trono del giudizio divino e gli fu richiesto quale fosse la sua professione di fede. La sua risposta fu che era cristiano. Al che gli venne replicato, con durezza: « Tu menti. Tu non sei un cristiano, ma un ciceroniano; dov'è il tuo cuore, lì c'è anche il tuo tesoro ». Ed egli fu condannato a crudele fustigazione. Preso dallo spavento, Girolamo fece voto di non leggere mai più i classici pagani, e per alcuni anni almeno sembra che mantenesse la promessa.
L'aneddoto, che aveva lo scopo di tenere lontano uno dei suoi pupilli spirituali dalla lettura di Orazio e Virgilio, è paradigmatico dell'atteggiamento del primo mondo monastico nei confronti dei classici. A parte l'Antico e il Nuovo Testamento, le uniche opere che san Benedetto raccomanda espressamente ai suoi monaci sono i libri dei Padri della Chiesa, le vite dei Padri, Cassiano e le Regole di san Basilio. E' la quintessenza della biblioteca dell'asceta. La sua espressione « lettura divina » esclude implicitamente i classici e le sue istruzioni per la distribuzione di libri alla comunità indicano che lo scopo della lettura è di acquisire alimento per la meditazione religiosa. Ogni anno, all'inizio della Quaresima, il monaco riceveva un codice dalla biblioteca, che doveva leggere interamente, senza saltare nessuna pagina. Il rituale era ancora mantenuto a Canterbury nell'XI secolo, ai giorni di Lanfranco: i libri per le letture quaresimali erano lasciati su un tappeto al centro della casa del capitolo; i libri dell'anno precedente venivano ritirati, e chiunque non avesse terminato il suo volume si prostrava a terra e confessava la sua colpa.
Eppure anche nel chiostro benedettino si dovevano compiere studi classici. La Regola dava disposizioni per la presenza di bambini oblati, cioè donati al monastero dai genitori. La consuetudine esisteva già al tempo del Maestro anonimo. Nella Regola i genitori fanno il voto al posto del bambino, avvolgendo la sua mano nel paramento usato per l'offertorio della messa, come se dovessero offrire il bambino stesso sul piatto dell'offertorio, insieme a un dono adeguato. Così era abituale, nelle comunità benedettine del primo Medioevo, la presenza di un gruppo di ragazzini dai sette anni in su. Nel commento di Paolo Diacono, vissuto nell'VIII secolo, essi ci vengono descritti mentre si spostano in fila da un luogo all'altro del monastero guidati dai loro maestri, ed occupano il loro posto in coro all'ora delle celebrazioni liturgiche. Naturalmente essi venivano istruiti con l'aiuto delle grammatiche di Prisciano e Donato, che fornivano una buona antologia dei poeti latini. I classici potevano diventare pericolosi, ma non potevano essere totalmente evitati nell'educazione dei giovani. Così il monastero conteneva per necessità una scuola, ma era una scuola per monaci‑bambini, che normalmente non ammetteva studenti esterni.
La Regola di san Benedetto consentiva l'ingresso in monastero a uomini di qualsiasi classe sociale. Ma in pratica i requisiti della vita monastica, così come egli la descrive, restringevano il reclutamento degli adulti ai gruppi sociali più colti. Infatti nei secoli posteriori la fondazione e le donazioni ai monasteri divennero iniziative tipiche dei principi e della nobiltà dei regni germanici, e il reclutamento dei monaci avveniva per la maggior parte in quella classe sociale. La pratica dell'offerta dei bambini, per quanto possa sembrare penosa per una mentalità moderna, divenne sempre più popolare. Per le famiglie di proprietari terrieri, l'oblazione dei bambini offriva un comodo mezzo di sistemazione di quei figli, per i quali non si poteva prevedere un'eredità senza la pericolosa frammentazione della tenuta della famiglia. Era ugualmente utilizzata come scappatoia per le ragazze per le quali non si potesse trovare un adeguato matrimonio di interesse. Così i bambini oblati costituivano una forma primaria di reclutamento per i monasteri. Una volta donati, erano impegnati per sempre. Fu a partire dal XII secolo che l'opinione comune cominciò a ribellarsi contro questa consuetudine. I cistercensi rifiutarono di accettare bambini ‑ anche se più per un desiderio di evitare i legami mondani che si creavano piuttosto che per qualsiasi positivo apprezzamento della psicologia dei bambini - e prima della fine del secolo la legge canonica aveva decretato che nessuna persona poteva essere impegnata in modo permanente nella vita monastica finché non avesse raggiunto la maggiore età, in modo da poter prendere liberamente i voti come persona adulta (5). Grazie a questa pratica, comunque, nel periodo di maggior splendore del monachesimo benedettino emersero alcune personalità veramente notevoli. Beda della Northumbria, « candela della Chiesa » e primo storico dell'Inghilterra, ed Eadmer, il cantore della Christ Church a Canterbury e biografo di sant'Anselmo, erano entrambi cresciuti in clausura fin dall'infanzia. Così fu per Matilde, badessa di Quedlinburg e figlia dell'imperatore sassone Ottone I, la quale prese il velo all'età di undici anni, e che, nel momento della crisi del suo Paese, si dimostrò addirittura all'altezza di governare un regno, in assenza del nipote. Dopo il XII secolo era ancora possibile accettare bambini con lo scopo di istruirli, dal momento che essi non erano impegnati a pronunciare la professione monastica prima di raggiungere la maggiore età. Ma da questo momento il loro numero nei monasteri diminuì rapidamente e sembra non esserci dubbio sul fatto che la fine dell'offerta dei bambini fosse una delle principali cause della riduzione delle dimensioni delle comunità benedettine nel tardo Medioevo.
La Regola di san Benedetto forniva il modello per una comunità ascetica ben organizzata e fortemente unita, che seguiva una routine giornaliera attentamente programmata di preghiera, lavoro e studio. Benché i debiti dell'autore agli insegnamenti ascetici orientali siano evidenti, ciò che diede a questo programma il suo carattere distintivo fu la preoccupazione in esso contenuta per i valori tipicamente romani di stabilità, ordine e moderazione: sagge e rassicuranti indicazioni per gruppi religiosi che reclutavano i propri membri fra l'intellighenzia della tarda antichità. Tra le rovine della civiltà classica, in un mondo divenuto barbaro, violento e imprevedibile, il monastero benedettino offriva un'oasi di pace e di ordine. Ma era vulnerabile, e la sopravvivenza del suo istituto non era affatto assicurata. Circa vent'anni dopo la morte del fondatore, arrivarono in Italia i longobardi e portarono devastazione ovunque. La presenza militare lasciata da Bisanzio era troppo debole per offrire una resistenza efficace. Nel 577 Monte Cassino fu saccheggiato e le costruzioni monastiche bruciate e distrutte. Le altre fondazioni di Benedetto, a Subiaco e Terracina, subirono lo stesso destino. I monaci di Cassino furono dispersi; alcuni di essi andarono a Roma, dove il papa offrì loro un rifugio a San Pancrazio, uno dei monasteri-satellite della basilica laterana. Monte Cassino rimase deserto e pieno di rovine per i successivi centoquarant'anni.
Anche altrove in Italia sembra che l'arrivo dei longobardi sia stato la causa dell'arresto dello sviluppo del monachesimo per circa un secolo. Una ripresa venne più tardi, nel VII secolo, con l'avvento, nella casa regnante dei longobardi, di una dinastia cattolica e la conversione dei duchi di Benevento. Così i governanti dell'VIII secolo divennero ferventi patroni dei monaci e la vita monastica germogliò in una nuova primavera. In questo periodo venne fondata da un parente di re Astolfo (749 - 756) la grande abbazia di Nonantola in Emilia, e monaci provenienti da Bobbio piantarono olivi sulla costa della Liguria. Ma il destino della Regola di san Benedetto dopo il saccheggio di Cassino è un mistero. E' evidente dai riferimenti di papa Gregorio che essa era conosciuta a Roma alla fine del VI secolo, eppure non c'è nessuna prova di monasteri che nella città seguissero la Regola né, e questo è molto significativo, ci sono evidenze di qualche culto a san Benedetto, sia nella iconografia che nella dedicazione delle chiese, a Roma fino al X secolo. In effetti, il futuro della Regola non sarà in Italia ma a nord delle Alpi, nei regni germanici e soprattutto in Gallia.
Note:
(1) La storia della visita di Totila e le presunta profezia di san Benedetto sulla sua entrata in Roma hanno dei precedenti letterari nelle Vite dei Padri e nella Vita di san Martino, che inducono a sollevare la questione della sua autenticità storica, vedi P. A. Cusack, Some literary antecedents of the Totila encounter in the second Dialogue of Pope Gregory I, in Studia Patristica 12 (1975), 87-90. Sul senso allegorico degli aneddoti nei Dialoghi vedi W. F. Bolton, The soprahistorical sense in the Dialogues of Gregory I, in Aevum 33 (1959), 206-213, e J. H. Wansborough, St Gregory's intention in tbe stories of St Scholastica and St Benedict, in Rev. bén. 75 (1965), 145-15l. Nella sua introduzione ai Dialoghi, in Grégoire le Grand: Dialogus I, Sources Chrétiennes 251, Paris 1978, A. de Vogüé rifiuta un approccio genericamente scettico al problema storico nei Dialoghi, e fa una distinzione tra la narrazione e l'esposizione tropologica di Gregorio. Io concordo con lui.
(2) L'argomento è stato trattato in modo convincente da K. Hallinger in Papst Gregor der Grosse und der heilige Benedikt, in Studia Anselmiana 42, Roma 1957, 231-319; le lettere di Gregorio che contengono consigli sulle questioni monastiche non dimostrano una conoscenza della Regola e per certi aspetti la contraddicono.
(3) Testo edito da A. de Vogüé, La Règle du Maître, 3 voll., Sources Chrétiennes 105, Paris 1964-1965. Per la discussione che riguarda questo documento vedi M. D. Knowles, Great Historical Enterprises and Problems in Monastic History (1963), pp. 137-195; e A. de Vogüé, Saint Benoît en son temps: règles italiennes et règles provençales au VI siècle, in Regulae Benedicti studia I, Roma 1972, pp. 170-193.
(4) Gregorii I papae registrum epistolarum I, MGH (1891) a cura di P. Ewald e L. M. Hartmann, pp. 281-282. Su questo problema vedi T. McLaughlin, Le très ancien droit monastique de l'Occident, Archives de la France monastique 30, Ligugé 1935, pp. 116-128.
(5) Il principio sembra essere stato definito da una bolla papale di Celestino III (1191 - 1198) che stabiliva che un ragazzo offerto ad un monastero dal padre era libero di andarsene quando avesse raggiunto la maggiore età; soltanto un voto solenne emesso da adulto lo rendeva monaco: c. 14, X, 111, 31; vedi la discussione di W. M. Plöchl, Geschichte des Kirchenrechts II, Wien 1962, p. 253. Nel 1222 il concilio di Oxford decretò che nessuno doveva essere ricevuto come monaco al di sotto dei diciotto anni: F. M. Powicke e C. R. Cheney, Councils and Synods (1964) 1, p. 122.
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25 giugno 2020 a cura di Alberto "da Cormano" alberto@ora-et-labora.net