DOROTEO DI GAZA
SCRITTI E INSEGNAMENTI SPIRITUALI
IV. IL TIMOR DI DIO
47. Dice nelle epistole cattoliche san Giovanni:
L’amore perfetto caccia via il timore[1].
Che cosa vuol farci capire con queste parole il santo? Di quale
amore e di quale timore intende parlare? Il profeta nel salmo
dice:
Temete il Signore, voi tutti suoi santi[2];
e altre frasi di tal tenore ne troviamo innumerevoli nelle sante
Scritture. Se dunque anche i santi, pur amando così il Signore,
lo temono, come mai dice:
L'amore perfetto caccia via il timore? Il santo
vuole mostrarci che ci sono due specie di timori, imo
introduttivo e uno perfetto, e che il primo è proprio di coloro
che sono principianti, per così dire, nella vita di pietà,
mentre l’altro è proprio dei santi giunti alla perfezione, che
sono pervenuti alla misura dell’amore santo[3].
Sarebbe a dire: uno fa la volontà di Dio per timore delle
punizioni; costui, come abbiamo detto, è appena un principiante:
egli non fa ancora il bene per se stesso, ma per timore delle
percosse. Un altro invece fa la volontà di Dio perché ama Dio
per se stesso, ama particolarmente di riuscir gradito a Dio.
Costui sa che cos’è il bene in se stesso, sa che cosa vuol dire
essere con Dio. Ecco, questi è colui che possiede l’amore vero,
quello che il santo chiama perfetto, e questo amore lo porta al
timore perfetto. Egli infatti teme e osserva la volontà di Dio
non più per le battiture, non più per non essere punito, ma,
come abbiamo detto, perché ha gustato la dolcezza stessa
dell’essere con Dio, e teme di caderne fuori, teme di esserne
privato. Questo timore perfetto, che nasce da questo amore,
caccia via il timore introduttivo. E per questo dice:
L'amore perfetto caccia via il timore. Ma è
impossibile che il timore perfetto si realizzi senza passare
attraverso quello introduttivo.
48. Tre infatti sono le disposizioni, come dice sap Basilio,
mediante le quali possiamo piacere a Dio
[4].
Possiamo piacergli perché temiamo la punizione, e siamo nella
condizione dello schiavo; oppure adempiamo agli ordini per il
nostro proprio vantaggio, in quanto cerchiamo di ottenere il
guadagno della mercede, e in questo senso rassomigliamo ai
mercenari; oppure per il bene in sé, e allora ci troviamo nella
condizione del figlio. Il figlio, infatti, quando giunge all’età
della ragione, fa la volontà di suo padre non perché teme di
essere frustato, e nemmeno per ottenere da lui una paga, ma
perché lo ama, gli riserva particolarmente l’amore e l’onore
dovuti a un padre ed è convinto che tutto quello che ha il padre
è suo. Costui merita di sentirsi dire:
Non sei più schiavo, ma figlio ed erede di Dio per mezzo di
Cristo
[5]; costui non teme
più Dio, come abbiamo detto, con il timore introduttivo,
chiaramente, ma lo ama, come dice sant’Antonio:
Io non temo più Dio; io lo amo
[6]. Anche il Signore,
quando dice ad Abramo, dopo che gli aveva offerto in sacrificio
il figlio,
Adesso so che tu temi Dio
[7],
intende mostrare quel timore perfetto che nasce dall'amore. Se
no, come avrebbe potuto dire:
Adesso so? Scusa, aveva fatto tante cose, aveva
obbedito a Dio e aveva abbandonato tutto, era emigrato in una
terra straniera, tra un popolo di idolatri, dove non c’era
nemmeno l’orma della pietà, e oltre a tutto questo aveva
sopportato anche una simile tremenda tentazione, quella del
sacrificio del figlio, e dopo tutto ciò gli disse:
Adesso so che tu temi Dio: è chiaro che intendeva
il timore perfetto, quello dei santi. Essi non fanno più la
volontà di Dio per timore della punizione o per ricevere una
paga, ma perché lo amano, come abbiamo detto spesso, e temono di
fare qualcosa contro la volontà dell'amato. Per questo dice:
L’amore perfetto caccia via il timore. Non
agiscono più per timore, ma temono per amore.
49. Questo è il timore perfetto; ma non è possibile, come
abbiamo detto prima, che si realizzi quello perfetto se uno non
ha prima di tutto il timore introduttivo. È detto infatti:
Inizio di sapienza è il timore del Signore
[8],
e ancora è detto:
Inizio e fine è il timore di Dio
[9].
Chiama inizio il timore introduttivo, dopo il quale c’è quello
perfetto dei santi. Il timore introduttivo, dunque, è proprio
della nostra condizione: esso protegge l'anima da ogni
cattiveria come la vernice. È detto infatti:
Col timore del Signore ci si allontana dal male
[10]. Se dunque uno si
allontana dal male per timore della punizione, come uno schiavo
che ha paura del padrone, arriva un po' alla volta anche a fare
il bene, e facendo il bene, piano piano comincia anche a sperare
una ricompensa per la sua pratica del bene, come il mercenario.
Quando poi continua a fuggire il male, come abbiamo detto, per
timore come lo schiavo, e ancora a fare il bene per speranza,
come il mercenario, perseverando con l’aiuto di Dio nel bene e
attaccandosi a Dio proporzionalmente, alla fine arriva a gustare
e a percepire il vero bene in sé e per sé e non vuole più
separarsi da esso. E infatti chi lo può più separare, come ha
detto l’Apostolo, dall’amore di Cristo?
[11]• Allora giunge alla
condizione di figlio e ama il bene di per se stesso e teme
perché ama. E questo è il timore grande e perfetto.
50. Per questo anche il profeta, insegnandoci la differenza di
questi due timori, ha detto:
Venite figli, ascoltatemi, vi insegnerò il timore del Signore
[12]. Applicate la
vostra mente a ciascuna parola del profeta, che senso ha ogni
vocabolo.
Venite a me: ci invita alla virtù. Aggiunge anche
figli: figli chiamano i santi coloro che grazie
alla loro parola si sono trasformati dalla cattiveria alla
virtù, come dice l’Apostolo:
Figlioletti, di nuovo vi partorisco finché in voi sia formato
Cristo
[13]. Poi, dopo averci
invitati ed esortati ad una tale trasformazione, dice:
vi insegnerò il timore del Signore. Guardate la
franchezza del santo. Noialtri, quando vogliamo dire qualche
cosa bella, diciamo sempre: « Volete che parliamo un po’ e
discutiamo sul timore di Dio e sulle altre virtù? ». Invece il
santo non fa cosi, ma con franchezza dice:
Venite, figli, ascoltatemi, vi insegnerò il timore del Signore.
Chi è l’uomo che vuole la vita, che ama vedere giorni felici?[14].
Poi, come se qualcuno rispondesse: « Lo voglio io! Insegnami
come vivere e vedere giorni felici », lo ammaestra e dice:
Trattieni la tua lingua dal male e le tue labbra da parole
d’inganno
[15]. Ecco, recide
ancora la pratica del male con il timor di Dio:
Trattieni la tua lingua dal male vuol dire non
ferire in nessun modo la coscienza del prossimo, non dirne male,
non irritarlo;
le tue labbra da parole d’inganno vuol dire non
raggirare il prossimo. Quindi aggiunge:
Allontanati dal male
[16]. Prima ha parlato di
certi peccati parziali, come la maldicenza, il raggiro; poi
porta il discorso, complessivamente, su ogni malvagità con
Allontanati dal male; come a dire: fuggi ogni male
e basta, allontanati da ogni cosa che comporta peccato. E non si
è limitato a dire questo e a tacere, ma ha aggiunto:
e fa’ il bene
[17]. Talvolta uno non
fa niente di male, ma neanche di bene; talvolta non si fanno
torti, ma nemmeno si esercita la misericordia; talvolta non si
odia nessuno, ma non si ama nemmeno. Bene dunque ha detto il
profeta:
Allontanati dal male e fa’ il bene. Ecco, ci
dimostra la successione di quelle tre condizioni di cui abbiamo
parlato prima: attraverso il timore di Dio ci ha condotto per
mano ad allontanarci dal male, e così ci esorta ad intraprendere
il bene. Se uno, infatti, è reso degno di smettere di fare il
male e dì fuggirne via, naturalmente poi opera il bene, guidato
dai santi. Dopo aver detto questo, molto opportunamente e
coerentemente aggiunge:
Cerca la pace e perseguila
[18]; non ha detto
solo:
cercala, ma perseguila di corsa per poterla
prendere.
51. State bene attenti a questo detto e osservate la precisione
del santo. Quando uno è fatto degno di allontanarsi dal male e
s'impegna poi con l’aiuto di Dio nel fare il bene, subito gli
vengono addosso gli assalti del Nemico. Egli dunque lotta,
fatica, si macera, non solo perché teme di volgersi di nuovo al
male, come abbiamo detto dello schiavo, ma anche perché spera,
come abbiamo detto prima, la ricompensa del bene, come il
mercenario. Sicché nel subire e nello sferrare assalti e nel
fare a pugni col nemico, fa il bene, ma con molta afflizione,
con molta macerazione. Ma quando gli viene l’aiuto da Dio e
comincia quindi a trovarsi in una certa disposizione costante
verso il bene, allora intravvede il riposo, allora gusta
progressivamente la pace, allora prova che cosa è l'afflizione
della guerra e che cosa invece la gioia e la serenità della
pace; e quindi la cerca, e perciò si affretta e corre a
perseguirla, per poterla prendere, per possederla perfettamente,
per farla dimorare dentro di sé. E che cosa c’è di più beato
dell’anima che è stata fatta degna di raggiungere questa meta?
Costui, come spesso abbiamo detto, è arrivato alla condizione di
figlio. Allora, veramente
beati i pacificatori, perché saranno chiamati figli di Dio
[19]. Chi può credere
che quell’anima faccia ancora il bene per un altro motivo die
non sia il godimento del bene stesso? Chi conosce quella gioia,
se non chi ne ha esperienza?
[20]. Allora costui
viene a conoscere anche il timore perfetto, come spesso abbiamo
detto.
Ecco, abbiamo sentito che cos’è il timore perfetto dei santi e
che cos’è il timore introduttivo proprio della nostra
condizione, da che cosa si deve fuggire e dove si arriva grazie
al timor di Dio. Vogliamo ora capire anche come si realizza il
timor di Dio, e vogliamo dire pure che cos’è che ci separa dal
timor di Dio.
52. I Padri hanno detto che l’uomo acquista il timor di Dio con
il ricordo della morte e con il ricordo delle punizioni
[21], con l’esaminarsi
ogni sera su come ha passato la giornata e ancora ogni mattina
esaminando come ha passato la notte
[22],
e infine anche non lasciandosi andare alla sfrontatezza
[23] e invece
attaccandosi ad un uomo che teme Dio. Si racconta che un
fratello interrogò un Anziano: « Che devo fare. Padre, per
temere Dio? ». L'Anziano gli rispose: « Va’, attaccati ad un
uomo che teme Dio e col suo stesso timor di Dio insegnerà anche
a te a temerlo »[24].
Scacciamo invece da noi stessi il timor di Dio quando facciamo
il contrario di tutto ciò, quando non abbiamo il ricordo della
morte né delle punizioni, quando non badiamo a noi stessi,
quando non facciamo l’esame di come abbiamo passato il tempo, ma
viviamo nell’indifferenza e frequentiamo gente indifferente,
quando siamo sfrontati: questo è peggio di tutto, è la rovina
completa. Infatti, che cosa mai scaccia dall’anima il timor di
Dio come la sfrontatezza? Per questo
l’abbas Agatone quando fu interrogato sulla
sfrontatezza disse che essa rassomiglia ad un gran ciclone
ardente: quando arriva, tutti friggono davanti ad esso e
distrugge tutti i frutti degli alberi. Vedi, signore, la forza
della passione? Vedi il suo furore? E interrogato di nuovo: «
Davvero la sfrontatezza è così terribile? », rispose: « Non c’è
passione più terribile della sfrontatezza: essa è madre di tutte
le passioni »
[25]. Rispose proprio bene e
con molta intelligenza « è madre di tutte le passioni », perché
essa scaccia dall’anima il timor di Dio. Infatti se col timor di
Dio ci si allontana dal male, certo dove non c’è timor di Dio,
lì c’è ogni passione. Dio liberi le nostre anime dalla passione
rovinosa della sfrontatezza!
53. La sfrontatezza, poi, è multiforme. Si è sfrontati con la
parola, col tatto, con lo sguardo. Per sfrontatezza si arriva ai
discorsi oziosi, alle conversazioni mondane, a fare buffonate e
a suscitare risate sconvenienti; è sfrontatezza toccare qualcuno
senza necessità, mettere le mani addosso a qualcuno per ridere,
dare spinte a qualcuno o togliergli qualche cosa, guardare
qualcuno sfacciatamente. Tutto ciò lo produce la sfrontatezza;
tutto questo perché non c’è nell'anima timor di Dio: e da tali
cose si arriva pian piano anche al disprezzo totale. Per questo
Dio, quando consegnò i comandamenti della Legge, disse:
Rendete rispettosi i figli d’Israele
[26].
Senza rispetto non si onora nemmeno Dio stesso né si bada a
qualsiasi comandamento. Per questo nulla è più terribile della
sfrontatezza; per questo è madre di tutte le passioni, perché
caccia via il rispetto, perché mette in fuga il timor di Dio,
perché genera il disprezzo.
Proprio perché avete sfrontatezza gli uni con gli altri, voi
siete svergognati gli uni con gli altri, parlate male gli uni
degli altri e vi malmenate gli uni gli altri. Se uno di voi vede
qualcosa che non va, si affretta a chiacchierarne e a metterlo
in cuore a un altro fratello: e non solo resta danneggiato lui,
ma danneggia anche il proprio fratello, mettendogli in cuore un
cattivo veleno. Magari egli aveva la mente rivolta alla
preghiera o a qualche altra cosa buona, ed ecco, arriva quello,
gli offre argomento di ciarle e non solo impedisce il suo
profitto, ma addirittura gli porta una tentazione. Niente è più
grave di questo, niente più rovinoso del fatto che uno non solo
danneggi se stesso, ma anche il prossimo.
54. Abbiamo dunque rispetto, fratelli, temiamo il danno nostro
proprio e reciproco, onoriamoci a vicenda e cerchiamo di non
guardarci in faccia gli uni gli altri: anche questa, come ha
detto un Anziano, è una forma di sfrontatezza[27].
E se capita che uno veda peccare il proprio fratello, non lo
disprezzi tacendo e permettendo che egli si perda, ma neppure lo
offenda e ne sparli: invece con compassione e timor di Dio lo
dica a chi può correggerlo, oppure gli parli lui stesso con
amore e umiltà dicendo: « Perdonami, fratello mio, perché, pur
trascurato come sono, mi rendo conto che forse non facciamo bene
questa cosa ». E se non ascolta, lo dica ad un altro in cui vede
che quello ha confidenza, oppure lo dica al superiore o
all’abate secondo la gravità della colpa e non ci pensi più; ma,
come abbiamo detto, parli con lo scopo di correggere il fratello
e non per cianciare o sparlare, senza disprezzarlo o volerlo,
come si dice, esporre all’infamia, senza condannarlo o
atteggiarsi, si, a correzione, ma con dentro qualcuno dei
sentimenti che ho detto; veramente, se uno lo dice al proprio
abate e non parla per la correzione del prossimo o perché ne è
rimasto danneggiato personalmente, è un peccato: è maldicenza.
Invece, saggi il proprio cuore, e se ha qualche moto passionale,
non parli. Se al contrario vede esattamente che vuol parlare per
compassione e giovamento, ma anche che interiormente lo turba un
pensiero passionale, riferisca all'abate con umiltà sia la
situazione propria che quella del prossimo dicendo: « La mia
coscienza mi è testimone che voglio parlare per correzione, ma
mi accorgo anche che interiormente si frammischia come un
turbamento: forse perché qualche volta ce l’ho avuta contro quel
fratello, non saprei; forse è un inganno che vuole impedirmi di
parlare perché non ci sia correzione, non saprei ». E allora
l’abate gli dirà se deve parlare o non parlare.
Talvolta però si parla non per vantaggio del fratello, né perché
si è stati danneggiati personalmente, e neppure per qualche
rancore, ma cosi, semplicemente, raccontando per chiacchiere
oziose. Ma che bisogno ce di queste ciance? Spesso poi il
fratello viene a sapere che l'altro ha parlato di lui e si
turba, e ne nasce afflizione, ne nasce anche altro aumento di
danno. Quando invece si parla per il giovamento, come abbiamo
detto, e solo per esso, Dio non permette che ne nasca
scompiglio, non lascia che ne seguano afflizione o danno[28].
55. Studiatevi poi, come abbiamo detto, di custodire la vostra
lingua, perché non si dica male del prossimo e non lo si ferisca
con parole o azioni o atteggiamenti o in qualsiasi modo. Non
siate permalosi, perché quando uno di voi ascolta una parola dal
proprio fratello non se la prenda subito a male o risponda male
anche lui o rimanga afflitto contro di lui. Queste non sono cose
da gente che lotta, non sono cose da gente che vuole salvarsi.
Cercate di acquistare il timor di Dio, ma insieme al rispetto:
quando vi incontrate, ciascuno abbassi la testa davanti al
proprio fratello, come abbiamo detto, ciascuno si umili davanti
a Dio e davanti al suo fratello e recida via per lui la sua
volontà. È davvero ima bella cosa se imo fa cosi, cede il posto
al fratello e lo onora per primo. Io non so di aver mai fatto
nulla di buono, ma se sono stato preservato, so di esserlo stato
da questo: non mi sono mai giudicato migliore del mio fratello,
ma ho sempre messo il fratello prima di me.
56.Una volta, quando stavo ancora nel gruppo dell’abbas
Seridos, si ammalò il fratello servitore dell’Anziano
abbas Giovanni, l'amico dell’abbas
Barsanufio, e l'abate m’incaricò di servire il vecchio. Io già
abbracciavo la porta della sua cella da fuori come si venera la
preziosa Croce: quanto più il poterlo servire! Chi non avrebbe
voluto ricevere l’onore di servire un tale santo? Parlava in
modo meraviglioso e ogni giorno, dopo aver finito il servizio,
gli facevo una
metania per ricevere licenza e andarmene, e ogni
volta mi diceva qualche cosa. L'Anziano aveva quattro massime e,
come ho detto, quando la sera stavo per ritirarmi, mi diceva
sempre ima di quelle quattro, e diceva: « Una volta per tutte —
si, l’Anziano aveva l'abitudine di dire cosi ad ogni massima:
"Una volta per tutte” —, fratello, Dio custodisca la carità! I
Padri hanno detto:
lo stare attenti alla coscienza del prossimo genera l’umiltà
»[29].
Un'altra sera mi diceva: « Una volta per tutte, fratello, Dio
custodisca la carità! I Padri hanno detto:
Non ho mai messo la mia volontà innanzi a quella del mio
fratello »[30]
[31]. Un'altra volta poi
diceva: « Una volta per tutte, fratello, Dio custodisca la
carità!
Fuggi le cose umane e ti salverai » M.
E ancora diceva: « Una volta per tutte, fratelli), Dio
custodisca la carità!
Portate i pesi gli uni degli altri e cosi adempite la legge di
Cristo »[32].
Insomma, l'Anziano mi dava sempre ima di queste quattro massime,
quando la sera mi ritiravo, come se porgesse a qualcuno un
viatico, e cosi le ho tenute a protezione di tutta la mia vita.
Eppure, benché avessi ima tale confidenza col santo e fossi
tanto attaccato al suo servizio, se appena mi accorgevo che
qualche altro fratello si affliggeva perché cercava di entrare
anche lui al suo servizio, andavo dall'abate e gli rivolgevo
questo invito: « Il servizio si addice di più a questo fratello,
se ti sembra bene, signore ». Ma non me lo accordavano né
l’abate né l’Anziano stesso. Però allora io avevo fatto tutto
quel che potevo perché il fratello fosse onorato più di me. E
passai là nove anni, ma non so di aver mai detto a nessuno una
parola cattiva: e sì che avevo una carica! Questo perché nessuno
dica che non ne avevo.
57. Credetemi, so bene quel che fece un fratello che mi venne
dietro dall’infermeria fino alla chiesa svillaneggiandomi; ma
io, avanti a lui senza dirgli una parola. Però, non so chi, lo
disse all’abate ed egli cosi lo venne a sapere. Voleva punirlo,
ma io rimasi a lungo abbracciandogli i piedi e dicendo: « No,
per il Signore, sono io che ho sbagliato! Che colpa ha il
fratello? ». Un altro, un’altra volta, sia per prova mia, sia
per semplicità sua, Dio sa perché, per un certo periodo di tempo
la notte veniva a orinare vicino alla mia testa, cosicché il mio
letto si bagnava tutto. Allo stesso modo anche altri fratelli
venivano il giorno a scuotere le loro stuoie davanti alla mia
cella, e vedevo un tale esercito di cimici che mi entravano
nella cella che non gliela facevo ad ammazzarle: erano
innumerevoli, per via dei grandi caldi. Poi, quando me ne andavo
a dormire, quelle convergevano tutte addosso a me, e riuscivo a
dormire solo perché ero molto stanco; ma quando mi svegliavo dal
sonno mi trovavo con tutto il corpo divorato. Ma non dissi mai a
nessuno di loro: « Non fare così », oppure: « Perché fai così?
». Per quanto ne so, come ho detto, non pronunciai mai una
parola che ferisse o rattristasse qualcuno.
Imparate anche voi a
portare i pesi gli uni degli altri
[33],
imparate a rispettarvi a vicenda. E se qualcuno di voi ascolta
da qualcun altro una parola spiacevole o se riceve qualche
molestia involontariamente, non si dia subito pena, non si
irriti subito, non si lasci trovare, in una circostanza di lotta
a suo vantaggio, con un cuore infiacchito, negligente, snervato,
che non può sopportare un qualsiasi colpo, come succede al
melone che, appena gli si accosta un sassolino, subito si spacca
e marcisce: ma piuttosto abbiate un cuore saldo, abbiate
pazienza, perché il vostro amore vicendevole superi tutte le
circostanze casuali.
58. Se uno ha una carica, oppure anche se uno di voi si trovasse
a dover domandare qualsiasi cosa all'ortolano o al cellerario o
al cuoco o ad un altro qualunque dei fratelli che sono al vostro
servizio, sia quello che fa la domanda sia l’incaricato si
studino prima di ogni altra cosa di conservare la propria calma[34]
e non si lascino mai andare né all’agitazione né all’antipatia o
alla passione o a qualsiasi volontà propria o pretesa di aver
ragione[35]
tanto da allontanarsi dal comandamento di Dio: ma quale che sia
la cosa, piccola o grande che sia, la disprezzi e non se ne
curi. L’indifferenza, certo, è cattiva: ma non si preferisca
quella cosa alla propria calma tanto da danneggiare, se capita,
la propria anima pur di averla vinta. In qualunque situazione vi
troviate, anche se è molto urgente e seria, non voglio che voi
facciate mai nulla con litigiosità o agitazione, ma siate
convinti che ogni cosa che fate, sia grande, come ho detto, sia
piccola, è solo l’ottava parte della cosa che cercate: invece
conservare la propria calma, anche se per questo capita di
mancare al servizio, è la metà, quattro ottavi. Vedete quanto è
grande la differenza!
59. Quando dunque fate una cosa, se volete farla perfetta e
completa, studiatevi sia di fare quella cosa, il che, come ho
detto, è l’ottava parte, sia di conservare intatta la vostra
calma, che è la metà, quattro ottavi. Se poi deve succedere di
lasciarsi fuorviare e deviare dal comandamento e ricevere o fare
danno per adempiere alla necessità del servizio, non è bene che
uno perda la metà, quattro ottavi, per conservare un ottavo
solo. Se sapete che qualcuno fa cosi, egli non esercita il
proprio servizio con scienza: è per vanagloria o per rispetto
umano che continua a litigare e a tormentare se stesso e il
prossimo, per poter sentire, dopo, che nessuno lo ha potuto
superare. Ohibò, che gran valore! Questa non è una vittoria,
fratelli; questa è una perdita, è una rovina. Ecco, io vi dico
che se mando qualcuno di voi a un qualsiasi servizio, e vede che
ne esce fuori agitazione o qualsiasi altro danno, tagli corto.
Non danneggiate voi stessi o gli altri; vada pur perso il
servizio, si lasci correre; solo, non vi turbate a vicenda,
perché, come ho detto, mandate in rovina la metà, i quattro
ottavi, per realizzare un ottavo solo: e questo è evidentemente
irragionevole.
60. Questo non ve lo dico perché diventiate subito pusillanimi e
interrompiate le faccende o perché siate indifferenti e buttiate
via subito le cose e calpestiate la vostra coscienza non volendo
avere preoccupazioni, e nemmeno perché disobbediate e ciascuno
di voi dica: « Questo non posso farlo: ne ricevo danno, non mi
conviene », perché con questo ragionamento non fate mai nessun
servizio e non potete mai adempiere il comandamento di Dio.
Mettete invece tutta la vostra capacità a fare con amore ciascun
vostro servizio, sottomettendovi con umiltà gli imi agli altri,
onorandovi, esortandovi. Nulla è più potente dell’umiltà. Se imo
vede il prossimo momentaneamente afflitto, oppure se stesso,
tagliate via, cedete gli uni agli altri, non insistete finché ne
succeda un danno. È meglio, ecco, ve lo dico diecimila volte,
che la faccenda non si realizzi come volete, ma come conviene
per la necessità, e non per ostinazione o pretesa di aver
ragione, anche se apparentemente è ragionevole che voi vi
turbiate o vi affliggiate a vicenda, ma poi perdete la metà, i
quattro ottavi. Ce una bella differenza nel danno! Capita anzi
che spesso si perda anche l'unico ottavo e non si combini nulla:
queste sono le conseguenze dell’ambizione. In linea di
principio, tutte le cose che facciamo, le facciamo per riceverne
giovamento: ma che giovamento c'è, se non ci umiliamo gli uni
agli altri? Anzi, al contrario, ci turbiamo e affliggiamo a
vicenda. Sapete bene che cosa si dice nel
Gerontikon: Dal prossimo dipendono la vita e la morte
[36].
Riflettete sempre tra voi stessi a queste cose, fratelli,
studiate le parole dei santi Anziani, sforzatevi con amore e
timor di Dio di cercare il giovamento vostro e reciproco. Cosi
potete ricevere vantaggio da tutto ciò che vi capita e far
progressi con l’aiuto di Dio. Il nostro Dio, amico degli uomini,
vi doni egli stesso il timore suo; è detto infatti:
Osserva il timor di Dio e i suoi comandamenti, perché questo è
tutto l’uomo
[37].
[1]
1 Gv. 4, 18.
[2]
Sal. 34 (33), 10.
[3]
II tema dei due timori è presente già in
Cassiano,
Collationes,
XI, 13. Un’eco diretta di questo insegnamento di
Doroteo,
che viene esplicitamente citato, si trova in Pietro
Damasceno, scrittore spirituale del XII secolo (cf. R.
Gouillard,
Un
auteur spirituel byzantin du XIIe siècle:
Pierre
Damascène,
in «Échos d’Orient», 38 [1939], pp. 257-278): «Il
timore del Signore è duplice, come la fede: uno
introduttivo, l'altro perfetto, nato da quello
introduttivo »
(Alfabeto,
3:
Philokalia,
III, Athenai 1976, p. 117). Pietro Damasceno cita anche
lui 1 Gv. 4, 18 e Prov. 15, 27 (cf. Doroteo, par. 49).
Il collegamento tra fede e timor di Dio è presente anche
in Teodoro di Edessa, autore di data incerta tra il VII
secolo (cosi Nicodemo Agiorita in
Philokalia,
I, p. 303) e il IX (H.-G.
Beck,
Kirche und
theologische
Literatur im
byzantinischen Reich,
Monaco 1959, p. 583), ohe comunque attinge in larga
misura ad Evagrio Pontico e a Massimo il Confessore: «
La fede retta ed interiore genera il timor di Dio. Il
timor di Dio insegna l’osservanza dei comandamenti...
Dall’osservanza dei comandamenti sorge la
virtu
"pratica", che è inizio di quella "teoretica". Il loro
frutto è l’impassibilità (apatheia).
Attraverso l’impassibilità nasce in noi l’amore.
Dell’amore il discepolo amato dice: "Dio è amore, e chi
rimane nell’amore rimane in Dio e Dio in lui” (1 Gv. 4,
16) » (Capitoli
utili all’anima, 47:
Philokalia, I, p. 311). In realtà, però,
questo passo di Teodoro di Edessa non è che una ripresa
letterale, invertendo l’elenco, da Evagrio Pontico,
Praktikos, 81 (e v. il commento di A. e C.
Guillaumont
ad loc., pp. 670-671).
[4]
Dopo accenni di Clemente di Alessandria, la dottrina dei
tre gradi della vita spirituale, nei quali si passa dal
timore al desiderio della ricompensa e da questo
all’amore filiale disinteressato, da Origene in poi
diventa patrimonio comune della letteratura patristica:
si ritrova in Evagrio, in Basilio, nei due Gregori, in
Giovanni Crisostomo, in Marco Eremita, in Giovanni
Climaco, in Massimo il Confessore (v. i testi elencati
in Dictionnaire de Spiritualité, II, Parigi 1953, coll.
535-536); in Occidente la triplice gradazione compare in
Cassiano, Colla- tiones, XI, 6-7. Dalla presente
trattazione di Doroteo, che richiama questa dottrina
anche al par. 157, dipende, esplicitamente, Pietro
Damasceno (Philokalia, III, p. 79).
[5]
Gal. 4, 7.
[6]
Apoftegmi,
serie alfabetica, Antonio il Grande, 32 (in cui si cita
1 Gv. 4, 18); serie metodica, XVII, 1.
[7]
Gen. 22, 12.
[8]
Sal. 111 (110), 10.
[9]
Cf. Prov. 1, 7; 9, 10; 22, 4.
[10]
Prov. 15, 27.
[11]
Cf. Rom. 8, 35.
[12]
Sal. 34 (33), 12.
[13]
Gal. 4, 19.
[14]
Sal. 34 (33), 12-13.
[15]
Sal. 34 (33), 14.
[16]
Sal. 34 (33), 15.
[17]
Ibid.
[18]
Ibid.
[19]
Mt. 5, 9.
[20]
L’impossibilità di capire la dolcezza dell’amore e
dell’unione con Dio se non se ne fa l’esperienza è un
tema comune a tutti i mistici. Una delle espressioni più
belle rimane quella di san Bruno il Certosino: « Quid
vero solitudo heremique silentium amatoribus suis
utilitatis iucunditatisque divinae conferai, norunt hi
soli qui experti sunt » (Lettera a Radulfo il Verde, 6,
in Lettres des premiers Chartreux, Introduction, texte
critique, traduction et notes par un Chartreux [=
Sources Chrétiennes, 88], Parigi 1962, p. 70: «
L’utilità e la gioia divina che la solitudine e il
silenzio dell'eremo donano a chi li ama, sono note solo
a chi ne ha fatto l’esperienza »).
[21]
Il ricordo della morte, già tipico del pensiero
filosofico antico (philosophia e meleti thanatou. sono
già strettamente unite in Platone; e poi Epitteto,
Conversazioni, 21; Marco Aurelio, A se stesso, 2, 1),
diventa un elemento fisso dell’ascesi monastica: per
esempio, Apoftegmi, serie alfabetica, Teofilo, 4; Sarra,
6; Cronios, 3; Nau 182, in « Revue de l’Orient Chrétien
», 13 (1908), p. 267; serie metodica, V, 30; Evagrio
Pontico, Hypotypósis monachiké (Philokalia, I, p. 42,
linee 12-37: questo testo diventa, nella serie
alfabetica degli Apoftegmi, il n. 1 di quelli di
Evagrio); Esichio del Roveto (o di Gerusalemme; VII
secolo), Ad Theodulum, 17 (PG 93, 1485 B; Philokalia, I,
p. 143). 94 (PG 93, 1509 A;« Philokalia, I, p. 155). 255
{Philokalia, I, p. 165). Anche nella Regola di san
Benedetto si dice che uno degli strumenti delle buone
opere è « mortem cotidie ante oculos suspectam habere »
(IV, 47). Un intero « gradino », il sesto, della Scala
Paradisi di san Giovanni Climaco è dedicato alia
meditazione della morte.
[22]
II duplice esame di coscienza è pratica molto
raccomandata nella tradizione monastica: cf. ad esempio,
Apoftegmi, serie alfabetica, Nistheros, 5;
serie metodica, XI, 39; Nau 264, in «
Revue
de l’Orient chrétien », 14 (1909), p. 369; Giovanni e
Barsanufio,
Lettere 291. 395. 442.
[23]
II termine greco,
parrhèsia, nell’età classica indica il
diritto di parola nelle assemblee pubbliche del
cittadino della
polis; nel Nuovo Testamento emerge
maggiormente il senso di « franchezza, fiducia,
possibilità di rivolgersi con confidenza a Dio »;
nell’ambiente monastico prevale la connotazione negativa
di « sfrenata libertà di parola », « sfrontatezza »,
appunto (il senso positivo di « franchezza » ricorre una
sola volta in san Doroteo, par. 50). Una delle
definizioni più icastiche è quella di
Apoftegmi, serie alfabetica, Agatone, 1,
che Doroteo cita subito dopo in questo paragrafo. «
Bisogna fuggire la
parrhèsia come il veleno di un aspide;
...fuggiamo dunque la
parrhèsia come un veleno di morte »,
ribadisce Esichio del Roveto,
Ad Theodulum, 32 (PG 93, 1492 A-B;
Philokalia, I, p. 146).
Sulla
parrhèsia cf. anche I. Hausherr,
Penthos. La
doctrine
de la
componction dans l’Orient chrétien
( = Orientalia
Christiana
Analecta, 132),
Roma
1944, pp. 107-109.
[24]
Apoftegmi, serie alfabetica, Poimen, 65.
[25]
Apoftegmi, serie alfabetica, Agatone, 1; serie metodica,
X, 8.
[26]
Lev. 15, 31.
[27]
Cf.
Lettera
340 di Giovanni a
Doroteo.
[28]
Sull'argomento di questo paragrafo cf. le
Lettere
293301
di Giovanni a Doroteo.
[29]
È un apoftegma dell’abbas
Isaia,
Logos
XVI, 4 (ed. Augoustinos, p. 92 = XVII, 4: PG 40, 1148
D), riportato anche da Paolo Evergetinos,
Synagógé,
I, 45, p. 168 Costantinopoli = I, 45, 90, p. 414 Atene.
[30]
Apoftegmi,
serie alfabetica, Giovanni l’Eunuco, 2 (che attribuisce
il detto a sant’Antonio).
[31]
Apoftegmi,
serie alfabetica, Arsenio, 1.
[32]
Gal. 6, 2.
[33]
Gal. 6, 2.
[34]
Katastasis:
cf. par. 29, nota 12.
[35]
II termine greco è
dikaiòma
(cf. par. 10, nota 47) e ricorre spesso in Doroteo
(parr. 60, 62-64, 97, 137): ha sempre connotazione
negativa (cf. I. Hausherr,
Opus Dei,
in « Orientalia Christiana Periodica», 13 [1947], p. 211
e nota 3: il p. Hausherr cita
Apoftegmi,
serie alfabetica, Poimen, 54; il suddetto art. ora anche
in I. Hausherr,
Études de spiritualité orientale
[= Orientalia Christiana Analecta, 183], Roma 1969, pp.
121-144).
[36]
Apoftegmi,
serie alfabetica, Antonio il Grande, 9; serie metodica,
XVII, 2.
[37]
Qo. 12, 13.
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1 dicembre 2024 a cura
di Alberto "da Cormano"
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