DOROTEO DI GAZA

SCRITTI E INSEGNAMENTI SPIRITUALI

IV. IL TIMOR DI DIO

Estratto da "Doroteo di Gaza, Insegnamenti spirituali", a cura di Maurizio Paparozzi - Città Nuova Editrice 1993

 

47. Dice nelle epistole cattoliche san Giovanni: L’amore perfetto caccia via il timore[1]. Che cosa vuol farci capire con queste parole il santo? Di quale amore e di quale timore intende parlare? Il profeta nel salmo dice: Temete il Signore, voi tutti suoi santi[2]; e altre frasi di tal tenore ne troviamo innumerevoli nelle sante Scritture. Se dunque anche i santi, pur amando così il Signore, lo temono, come mai dice: L'amore perfetto caccia via il timore? Il santo vuole mostrarci che ci sono due specie di timori, imo introduttivo e uno perfetto, e che il primo è proprio di coloro che sono principianti, per così dire, nella vita di pietà, mentre l’altro è proprio dei santi giunti alla perfezione, che sono pervenuti alla misura dell’amore santo[3]. Sarebbe a dire: uno fa la volontà di Dio per timore delle punizioni; costui, come abbiamo detto, è appena un principiante: egli non fa ancora il bene per se stesso, ma per timore delle percosse. Un altro invece fa la volontà di Dio perché ama Dio per se stesso, ama particolarmente di riuscir gradito a Dio. Costui sa che cos’è il bene in se stesso, sa che cosa vuol dire essere con Dio. Ecco, questi è colui che possiede l’amore vero, quello che il santo chiama perfetto, e questo amore lo porta al timore perfetto. Egli infatti teme e osserva la volontà di Dio non più per le battiture, non più per non essere punito, ma, come abbiamo detto, perché ha gustato la dolcezza stessa dell’essere con Dio, e teme di caderne fuori, teme di esserne privato. Questo timore perfetto, che nasce da questo amore, caccia via il timore introduttivo. E per questo dice: L'amore perfetto caccia via il timore. Ma è impossibile che il timore perfetto si realizzi senza passare attraverso quello introduttivo.

48. Tre infatti sono le disposizioni, come dice sap Basilio, mediante le quali possiamo piacere a Dio [4].

Possiamo piacergli perché temiamo la punizione, e siamo nella condizione dello schiavo; oppure adempiamo agli ordini per il nostro proprio vantaggio, in quanto cerchiamo di ottenere il guadagno della mercede, e in questo senso rassomigliamo ai mercenari; oppure per il bene in sé, e allora ci troviamo nella condizione del figlio. Il figlio, infatti, quando giunge all’età della ragione, fa la volontà di suo padre non perché teme di essere frustato, e nemmeno per ottenere da lui una paga, ma perché lo ama, gli riserva particolarmente l’amore e l’onore dovuti a un padre ed è convinto che tutto quello che ha il padre è suo. Costui merita di sentirsi dire: Non sei più schiavo, ma figlio ed erede di Dio per mezzo di Cristo [5]; costui non teme più Dio, come abbiamo detto, con il timore introduttivo, chiaramente, ma lo ama, come dice sant’Antonio: Io non temo più Dio; io lo amo [6]. Anche il Signore, quando dice ad Abramo, dopo che gli aveva offerto in sacrificio il figlio, Adesso so che tu temi Dio [7], intende mostrare quel timore perfetto che nasce dall'amore. Se no, come avrebbe potuto dire: Adesso so? Scusa, aveva fatto tante cose, aveva obbedito a Dio e aveva abbandonato tutto, era emigrato in una terra straniera, tra un popolo di idolatri, dove non c’era nemmeno l’orma della pietà, e oltre a tutto questo aveva sopportato anche una simile tremenda tentazione, quella del sacrificio del figlio, e dopo tutto ciò gli disse: Adesso so che tu temi Dio: è chiaro che intendeva il timore perfetto, quello dei santi. Essi non fanno più la volontà di Dio per timore della punizione o per ricevere una paga, ma perché lo amano, come abbiamo detto spesso, e temono di fare qualcosa contro la volontà dell'amato. Per questo dice: L’amore perfetto caccia via il timore. Non agiscono più per timore, ma temono per amore.

49. Questo è il timore perfetto; ma non è possibile, come abbiamo detto prima, che si realizzi quello perfetto se uno non ha prima di tutto il timore introduttivo. È detto infatti: Inizio di sapienza è il timore del Signore  [8], e ancora è detto: Inizio e fine è il timore di Dio [9]. Chiama inizio il timore introduttivo, dopo il quale c’è quello perfetto dei santi. Il timore introduttivo, dunque, è proprio della nostra condizione: esso protegge l'anima da ogni cattiveria come la vernice. È detto infatti: Col timore del Signore ci si allontana dal male [10]. Se dunque uno si allontana dal male per timore della punizione, come uno schiavo che ha paura del padrone, arriva un po' alla volta anche a fare il bene, e facendo il bene, piano piano comincia anche a sperare una ricompensa per la sua pratica del bene, come il mercenario. Quando poi continua a fuggire il male, come abbiamo detto, per timore come lo schiavo, e ancora a fare il bene per speranza, come il mercenario, perseverando con l’aiuto di Dio nel bene e attaccandosi a Dio proporzionalmente, alla fine arriva a gustare e a percepire il vero bene in sé e per sé e non vuole più separarsi da esso. E infatti chi lo può più separare, come ha detto l’Apostolo, dall’amore di Cristo? [11]• Allora giunge alla condizione di figlio e ama il bene di per se stesso e teme perché ama. E questo è il timore grande e perfetto.

50. Per questo anche il profeta, insegnandoci la differenza di questi due timori, ha detto: Venite figli, ascoltatemi, vi insegnerò il timore del Signore [12]. Applicate la vostra mente a ciascuna parola del profeta, che senso ha ogni vocabolo. Venite a me: ci invita alla virtù. Aggiunge anche figli: figli chiamano i santi coloro che grazie alla loro parola si sono trasformati dalla cattiveria alla virtù, come dice l’Apostolo: Figlioletti, di nuovo vi partorisco finché in voi sia formato Cristo [13]. Poi, dopo averci invitati ed esortati ad una tale trasformazione, dice: vi insegnerò il timore del Signore. Guardate la franchezza del santo. Noialtri, quando vogliamo dire qualche cosa bella, diciamo sempre: « Volete che parliamo un po’ e discutiamo sul timore di Dio e sulle altre virtù? ». Invece il santo non fa cosi, ma con franchezza dice: Venite, figli, ascoltatemi, vi insegnerò il timore del Signore. Chi è l’uomo che vuole la vita, che ama vedere giorni felici?[14]. Poi, come se qualcuno rispondesse: « Lo voglio io! Insegnami come vivere e vedere giorni felici », lo ammaestra e dice: Trattieni la tua lingua dal male e le tue labbra da parole d’inganno [15]. Ecco, recide ancora la pratica del male con il timor di Dio: Trattieni la tua lingua dal male vuol dire non ferire in nessun modo la coscienza del prossimo, non dirne male, non irritarlo; le tue labbra da parole d’inganno vuol dire non raggirare il prossimo. Quindi aggiunge: Allontanati dal male [16]. Prima ha parlato di certi peccati parziali, come la maldicenza, il raggiro; poi porta il discorso, complessivamente, su ogni malvagità con Allontanati dal male; come a dire: fuggi ogni male e basta, allontanati da ogni cosa che comporta peccato. E non si è limitato a dire questo e a tacere, ma ha aggiunto: e fa’ il bene [17]. Talvolta uno non fa niente di male, ma neanche di bene; talvolta non si fanno torti, ma nemmeno si esercita la misericordia; talvolta non si odia nessuno, ma non si ama nemmeno. Bene dunque ha detto il profeta: Allontanati dal male e fa’ il bene. Ecco, ci dimostra la successione di quelle tre condizioni di cui abbiamo parlato prima: attraverso il timore di Dio ci ha condotto per mano ad allontanarci dal male, e così ci esorta ad intraprendere il bene. Se uno, infatti, è reso degno di smettere di fare il male e dì fuggirne via, naturalmente poi opera il bene, guidato dai santi. Dopo aver detto questo, molto opportunamente e coerentemente aggiunge: Cerca la pace e perseguila [18]; non ha detto solo: cercala, ma perseguila di corsa per poterla prendere.

51. State bene attenti a questo detto e osservate la precisione del santo. Quando uno è fatto degno di allontanarsi dal male e s'impegna poi con l’aiuto di Dio nel fare il bene, subito gli vengono addosso gli assalti del Nemico. Egli dunque lotta, fatica, si macera, non solo perché teme di volgersi di nuovo al male, come abbiamo detto dello schiavo, ma anche perché spera, come abbiamo detto prima, la ricompensa del bene, come il mercenario. Sicché nel subire e nello sferrare assalti e nel fare a pugni col nemico, fa il bene, ma con molta afflizione, con molta macerazione. Ma quando gli viene l’aiuto da Dio e comincia quindi a trovarsi in una certa disposizione costante verso il bene, allora intravvede il riposo, allora gusta progressivamente la pace, allora prova che cosa è l'afflizione della guerra e che cosa invece la gioia e la serenità della pace; e quindi la cerca, e perciò si affretta e corre a perseguirla, per poterla prendere, per possederla perfettamente, per farla dimorare dentro di sé. E che cosa c’è di più beato dell’anima che è stata fatta degna di raggiungere questa meta? Costui, come spesso abbiamo detto, è arrivato alla condizione di figlio. Allora, veramente beati i pacificatori, perché saranno chiamati figli di Dio [19]. Chi può credere che quell’anima faccia ancora il bene per un altro motivo die non sia il godimento del bene stesso? Chi conosce quella gioia, se non chi ne ha esperienza? [20]. Allora costui viene a conoscere anche il timore perfetto, come spesso abbiamo detto.

Ecco, abbiamo sentito che cos’è il timore perfetto dei santi e che cos’è il timore introduttivo proprio della nostra condizione, da che cosa si deve fuggire e dove si arriva grazie al timor di Dio. Vogliamo ora capire anche come si realizza il timor di Dio, e vogliamo dire pure che cos’è che ci separa dal timor di Dio.

52. I Padri hanno detto che l’uomo acquista il timor di Dio con il ricordo della morte e con il ricordo delle punizioni [21], con l’esaminarsi ogni sera su come ha passato la giornata e ancora ogni mattina esaminando come ha passato la notte [22], e infine anche non lasciandosi andare alla sfrontatezza [23] e invece attaccandosi ad un uomo che teme Dio. Si racconta che un fratello interrogò un Anziano: « Che devo fare. Padre, per temere Dio? ». L'Anziano gli rispose: « Va’, attaccati ad un uomo che teme Dio e col suo stesso timor di Dio insegnerà anche a te a temerlo »[24].

Scacciamo invece da noi stessi il timor di Dio quando facciamo il contrario di tutto ciò, quando non abbiamo il ricordo della morte né delle punizioni, quando non badiamo a noi stessi, quando non facciamo l’esame di come abbiamo passato il tempo, ma viviamo nell’indifferenza e frequentiamo gente indifferente, quando siamo sfrontati: questo è peggio di tutto, è la rovina completa. Infatti, che cosa mai scaccia dall’anima il timor di Dio come la sfrontatezza? Per questo l’abbas Agatone quando fu interrogato sulla sfrontatezza disse che essa rassomiglia ad un gran ciclone ardente: quando arriva, tutti friggono davanti ad esso e distrugge tutti i frutti degli alberi. Vedi, signore, la forza della passione? Vedi il suo furore? E interrogato di nuovo: « Davvero la sfrontatezza è così terribile? », rispose: « Non c’è passione più terribile della sfrontatezza: essa è madre di tutte le passioni » [25]. Rispose proprio bene e con molta intelligenza « è madre di tutte le passioni », perché essa scaccia dall’anima il timor di Dio. Infatti se col timor di Dio ci si allontana dal male, certo dove non c’è timor di Dio, lì c’è ogni passione. Dio liberi le nostre anime dalla passione rovinosa della sfrontatezza!

53. La sfrontatezza, poi, è multiforme. Si è sfrontati con la parola, col tatto, con lo sguardo. Per sfrontatezza si arriva ai discorsi oziosi, alle conversazioni mondane, a fare buffonate e a suscitare risate sconvenienti; è sfrontatezza toccare qualcuno senza necessità, mettere le mani addosso a qualcuno per ridere, dare spinte a qualcuno o togliergli qualche cosa, guardare qualcuno sfacciatamente. Tutto ciò lo produce la sfrontatezza; tutto questo perché non c’è nell'anima timor di Dio: e da tali cose si arriva pian piano anche al disprezzo totale. Per questo Dio, quando consegnò i comandamenti della Legge, disse: Rendete rispettosi i figli d’Israele [26]. Senza rispetto non si onora nemmeno Dio stesso né si bada a qualsiasi comandamento. Per questo nulla è più terribile della sfrontatezza; per questo è madre di tutte le passioni, perché caccia via il rispetto, perché mette in fuga il timor di Dio, perché genera il disprezzo.

Proprio perché avete sfrontatezza gli uni con gli altri, voi siete svergognati gli uni con gli altri, parlate male gli uni degli altri e vi malmenate gli uni gli altri. Se uno di voi vede qualcosa che non va, si affretta a chiacchierarne e a metterlo in cuore a un altro fratello: e non solo resta danneggiato lui, ma danneggia anche il proprio fratello, mettendogli in cuore un cattivo veleno. Magari egli aveva la mente rivolta alla preghiera o a qualche altra cosa buona, ed ecco, arriva quello, gli offre argomento di ciarle e non solo impedisce il suo profitto, ma addirittura gli porta una tentazione. Niente è più grave di questo, niente più rovinoso del fatto che uno non solo danneggi se stesso, ma anche il prossimo.

54. Abbiamo dunque rispetto, fratelli, temiamo il danno nostro proprio e reciproco, onoriamoci a vicenda e cerchiamo di non guardarci in faccia gli uni gli altri: anche questa, come ha detto un Anziano, è una forma di sfrontatezza[27]. E se capita che uno veda peccare il proprio fratello, non lo disprezzi tacendo e permettendo che egli si perda, ma neppure lo offenda e ne sparli: invece con compassione e timor di Dio lo dica a chi può correggerlo, oppure gli parli lui stesso con amore e umiltà dicendo: « Perdonami, fratello mio, perché, pur trascurato come sono, mi rendo conto che forse non facciamo bene questa cosa ». E se non ascolta, lo dica ad un altro in cui vede che quello ha confidenza, oppure lo dica al superiore o all’abate secondo la gravità della colpa e non ci pensi più; ma, come abbiamo detto, parli con lo scopo di correggere il fratello e non per cianciare o sparlare, senza disprezzarlo o volerlo, come si dice, esporre all’infamia, senza condannarlo o atteggiarsi, si, a correzione, ma con dentro qualcuno dei sentimenti che ho detto; veramente, se uno lo dice al proprio abate e non parla per la correzione del prossimo o perché ne è rimasto danneggiato personalmente, è un peccato: è maldicenza. Invece, saggi il proprio cuore, e se ha qualche moto passionale, non parli. Se al contrario vede esattamente che vuol parlare per compassione e giovamento, ma anche che interiormente lo turba un pensiero passionale, riferisca all'abate con umiltà sia la situazione propria che quella del prossimo dicendo: « La mia coscienza mi è testimone che voglio parlare per correzione, ma mi accorgo anche che interiormente si frammischia come un turbamento: forse perché qualche volta ce l’ho avuta contro quel fratello, non saprei; forse è un inganno che vuole impedirmi di parlare perché non ci sia correzione, non saprei ». E allora l’abate gli dirà se deve parlare o non parlare.

Talvolta però si parla non per vantaggio del fratello, né perché si è stati danneggiati personalmente, e neppure per qualche rancore, ma cosi, semplicemente, raccontando per chiacchiere oziose. Ma che bisogno ce di queste ciance? Spesso poi il fratello viene a sapere che l'altro ha parlato di lui e si turba, e ne nasce afflizione, ne nasce anche altro aumento di danno. Quando invece si parla per il giovamento, come abbiamo detto, e solo per esso, Dio non permette che ne nasca scompiglio, non lascia che ne seguano afflizione o danno[28].

55. Studiatevi poi, come abbiamo detto, di custodire la vostra lingua, perché non si dica male del prossimo e non lo si ferisca con parole o azioni o atteggiamenti o in qualsiasi modo. Non siate permalosi, perché quando uno di voi ascolta una parola dal proprio fratello non se la prenda subito a male o risponda male anche lui o rimanga afflitto contro di lui. Queste non sono cose da gente che lotta, non sono cose da gente che vuole salvarsi. Cercate di acquistare il timor di Dio, ma insieme al rispetto: quando vi incontrate, ciascuno abbassi la testa davanti al proprio fratello, come abbiamo detto, ciascuno si umili davanti a Dio e davanti al suo fratello e recida via per lui la sua volontà. È davvero ima bella cosa se imo fa cosi, cede il posto al fratello e lo onora per primo. Io non so di aver mai fatto nulla di buono, ma se sono stato preservato, so di esserlo stato da questo: non mi sono mai giudicato migliore del mio fratello, ma ho sempre messo il fratello prima di me.

56.Una volta, quando stavo ancora nel gruppo dell’abbas Seridos, si ammalò il fratello servitore dell’Anziano abbas Giovanni, l'amico dell’abbas Barsanufio, e l'abate m’incaricò di servire il vecchio. Io già abbracciavo la porta della sua cella da fuori come si venera la preziosa Croce: quanto più il poterlo servire! Chi non avrebbe voluto ricevere l’onore di servire un tale santo? Parlava in modo meraviglioso e ogni giorno, dopo aver finito il servizio, gli facevo una metania per ricevere licenza e andarmene, e ogni volta mi diceva qualche cosa. L'Anziano aveva quattro massime e, come ho detto, quando la sera stavo per ritirarmi, mi diceva sempre ima di quelle quattro, e diceva: « Una volta per tutte — si, l’Anziano aveva l'abitudine di dire cosi ad ogni massima: "Una volta per tutte” —, fratello, Dio custodisca la carità! I Padri hanno detto: lo stare attenti alla coscienza del prossimo genera l’umiltà »[29]. Un'altra sera mi diceva: « Una volta per tutte, fratello, Dio custodisca la carità! I Padri hanno detto: Non ho mai messo la mia volontà innanzi a quella del mio fratello »[30] [31]. Un'altra volta poi diceva: « Una volta per tutte, fratello, Dio custodisca la carità! Fuggi le cose umane e ti salverai » M. E ancora diceva: « Una volta per tutte, fratelli), Dio custodisca la carità! Portate i pesi gli uni degli altri e cosi adempite la legge di Cristo »[32].

Insomma, l'Anziano mi dava sempre ima di queste quattro massime, quando la sera mi ritiravo, come se porgesse a qualcuno un viatico, e cosi le ho tenute a protezione di tutta la mia vita. Eppure, benché avessi ima tale confidenza col santo e fossi tanto attaccato al suo servizio, se appena mi accorgevo che qualche altro fratello si affliggeva perché cercava di entrare anche lui al suo servizio, andavo dall'abate e gli rivolgevo questo invito: « Il servizio si addice di più a questo fratello, se ti sembra bene, signore ». Ma non me lo accordavano né l’abate né l’Anziano stesso. Però allora io avevo fatto tutto quel che potevo perché il fratello fosse onorato più di me. E passai là nove anni, ma non so di aver mai detto a nessuno una parola cattiva: e sì che avevo una carica! Questo perché nessuno dica che non ne avevo.

57. Credetemi, so bene quel che fece un fratello che mi venne dietro dall’infermeria fino alla chiesa svillaneggiandomi; ma io, avanti a lui senza dirgli una parola. Però, non so chi, lo disse all’abate ed egli cosi lo venne a sapere. Voleva punirlo, ma io rimasi a lungo abbracciandogli i piedi e dicendo: « No, per il Signore, sono io che ho sbagliato! Che colpa ha il fratello? ». Un altro, un’altra volta, sia per prova mia, sia per semplicità sua, Dio sa perché, per un certo periodo di tempo la notte veniva a orinare vicino alla mia testa, cosicché il mio letto si bagnava tutto. Allo stesso modo anche altri fratelli venivano il giorno a scuotere le loro stuoie davanti alla mia cella, e vedevo un tale esercito di cimici che mi entravano nella cella che non gliela facevo ad ammazzarle: erano innumerevoli, per via dei grandi caldi. Poi, quando me ne andavo a dormire, quelle convergevano tutte addosso a me, e riuscivo a dormire solo perché ero molto stanco; ma quando mi svegliavo dal sonno mi trovavo con tutto il corpo divorato. Ma non dissi mai a nessuno di loro: « Non fare così », oppure: « Perché fai così? ». Per quanto ne so, come ho detto, non pronunciai mai una parola che ferisse o rattristasse qualcuno.

Imparate anche voi a portare i pesi gli uni degli altri [33], imparate a rispettarvi a vicenda. E se qualcuno di voi ascolta da qualcun altro una parola spiacevole o se riceve qualche molestia involontariamente, non si dia subito pena, non si irriti subito, non si lasci trovare, in una circostanza di lotta a suo vantaggio, con un cuore infiacchito, negligente, snervato, che non può sopportare un qualsiasi colpo, come succede al melone che, appena gli si accosta un sassolino, subito si spacca e marcisce: ma piuttosto abbiate un cuore saldo, abbiate pazienza, perché il vostro amore vicendevole superi tutte le circostanze casuali.

58. Se uno ha una carica, oppure anche se uno di voi si trovasse a dover domandare qualsiasi cosa all'ortolano o al cellerario o al cuoco o ad un altro qualunque dei fratelli che sono al vostro servizio, sia quello che fa la domanda sia l’incaricato si studino prima di ogni altra cosa di conservare la propria calma[34] e non si lascino mai andare né all’agitazione né all’antipatia o alla passione o a qualsiasi volontà propria o pretesa di aver ragione[35] tanto da allontanarsi dal comandamento di Dio: ma quale che sia la cosa, piccola o grande che sia, la disprezzi e non se ne curi. L’indifferenza, certo, è cattiva: ma non si preferisca quella cosa alla propria calma tanto da danneggiare, se capita, la propria anima pur di averla vinta. In qualunque situazione vi troviate, anche se è molto urgente e seria, non voglio che voi facciate mai nulla con litigiosità o agitazione, ma siate convinti che ogni cosa che fate, sia grande, come ho detto, sia piccola, è solo l’ottava parte della cosa che cercate: invece conservare la propria calma, anche se per questo capita di mancare al servizio, è la metà, quattro ottavi. Vedete quanto è grande la differenza!

59. Quando dunque fate una cosa, se volete farla perfetta e completa, studiatevi sia di fare quella cosa, il che, come ho detto, è l’ottava parte, sia di conservare intatta la vostra calma, che è la metà, quattro ottavi. Se poi deve succedere di lasciarsi fuorviare e deviare dal comandamento e ricevere o fare danno per adempiere alla necessità del servizio, non è bene che uno perda la metà, quattro ottavi, per conservare un ottavo solo. Se sapete che qualcuno fa cosi, egli non esercita il proprio servizio con scienza: è per vanagloria o per rispetto umano che continua a litigare e a tormentare se stesso e il prossimo, per poter sentire, dopo, che nessuno lo ha potuto superare. Ohibò, che gran valore! Questa non è una vittoria, fratelli; questa è una perdita, è una rovina. Ecco, io vi dico che se mando qualcuno di voi a un qualsiasi servizio, e vede che ne esce fuori agitazione o qualsiasi altro danno, tagli corto. Non danneggiate voi stessi o gli altri; vada pur perso il servizio, si lasci correre; solo, non vi turbate a vicenda, perché, come ho detto, mandate in rovina la metà, i quattro ottavi, per realizzare un ottavo solo: e questo è evidentemente irragionevole.

60. Questo non ve lo dico perché diventiate subito pusillanimi e interrompiate le faccende o perché siate indifferenti e buttiate via subito le cose e calpestiate la vostra coscienza non volendo avere preoccupazioni, e nemmeno perché disobbediate e ciascuno di voi dica: « Questo non posso farlo: ne ricevo danno, non mi conviene », perché con questo ragionamento non fate mai nessun servizio e non potete mai adempiere il comandamento di Dio. Mettete invece tutta la vostra capacità a fare con amore ciascun vostro servizio, sottomettendovi con umiltà gli imi agli altri, onorandovi, esortandovi. Nulla è più potente dell’umiltà. Se imo vede il prossimo momentaneamente afflitto, oppure se stesso, tagliate via, cedete gli uni agli altri, non insistete finché ne succeda un danno. È meglio, ecco, ve lo dico diecimila volte, che la faccenda non si realizzi come volete, ma come conviene per la necessità, e non per ostinazione o pretesa di aver ragione, anche se apparentemente è ragionevole che voi vi turbiate o vi affliggiate a vicenda, ma poi perdete la metà, i quattro ottavi. Ce una bella differenza nel danno! Capita anzi che spesso si perda anche l'unico ottavo e non si combini nulla: queste sono le conseguenze dell’ambizione. In linea di principio, tutte le cose che facciamo, le facciamo per riceverne giovamento: ma che giovamento c'è, se non ci umiliamo gli uni agli altri? Anzi, al contrario, ci turbiamo e affliggiamo a vicenda. Sapete bene che cosa si dice nel Gerontikon: Dal prossimo dipendono la vita e la morte [36].

Riflettete sempre tra voi stessi a queste cose, fratelli, studiate le parole dei santi Anziani, sforzatevi con amore e timor di Dio di cercare il giovamento vostro e reciproco. Cosi potete ricevere vantaggio da tutto ciò che vi capita e far progressi con l’aiuto di Dio. Il nostro Dio, amico degli uomini, vi doni egli stesso il timore suo; è detto infatti: Osserva il timor di Dio e i suoi comandamenti, perché questo è tutto l’uomo [37].



[1]     1 Gv. 4, 18.

[2]     Sal. 34 (33), 10.

[3]         II tema dei due timori è presente già in Cassiano, Collationes, XI, 13. Un’eco diretta di questo insegnamento di Doroteo, che viene esplicitamente citato, si trova in Pietro Damasceno, scrittore spirituale del XII secolo (cf. R. Gouillard, Un auteur spirituel byzantin du XIIe siècle: Pierre Damascène, in «Échos d’Orient», 38 [1939], pp. 257-278): «Il timore del Signore è duplice, come la fede: uno introduttivo, l'altro perfetto, nato da quello introduttivo » (Alfabeto, 3: Philokalia, III, Athenai 1976, p. 117). Pietro Damasceno cita anche lui 1 Gv. 4, 18 e Prov. 15, 27 (cf. Doroteo, par. 49). Il collegamento tra fede e timor di Dio è presente anche in Teodoro di Edessa, autore di data incerta tra il VII secolo (cosi Nicodemo Agiorita in Philokalia, I, p. 303) e il IX (H.-G. Beck, Kirche und theologische Literatur im byzantinischen Reich, Monaco 1959, p. 583), ohe comunque attinge in larga misura ad Evagrio Pontico e a Massimo il Confessore: « La fede retta ed interiore genera il timor di Dio. Il timor di Dio insegna l’osservanza dei comandamenti... Dall’osservanza dei comandamenti sorge la virtu "pratica", che è inizio di quella "teoretica". Il loro frutto è l’impassibilità (apatheia). Attraverso l’impassibilità nasce in noi l’amore. Dell’amore il discepolo amato dice: "Dio è amore, e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio in lui” (1 Gv. 4, 16) » (Capitoli utili all’anima, 47: Philokalia, I, p. 311). In realtà, però, questo passo di Teodoro di Edessa non è che una ripresa letterale, invertendo l’elenco, da Evagrio Pontico, Praktikos, 81 (e v. il commento di A. e C. Guillaumont ad loc., pp. 670-671).

[4] Dopo accenni di Clemente di Alessandria, la dottrina dei tre gradi della vita spirituale, nei quali si passa dal timore al desiderio della ricompensa e da questo all’amore filiale disinteressato, da Origene in poi diventa patrimonio comune della letteratura patristica: si ritrova in Evagrio, in Basilio, nei due Gregori, in Giovanni Crisostomo, in Marco Eremita, in Giovanni Climaco, in Massimo il Confessore (v. i testi elencati in Dictionnaire de Spiritualité, II, Parigi 1953, coll. 535-536); in Occidente la triplice gradazione compare in Cassiano, Colla- tiones, XI, 6-7. Dalla presente trattazione di Doroteo, che richiama questa dottrina anche al par. 157, dipende, esplicitamente, Pietro Damasceno (Philokalia, III, p. 79).

[5] Gal. 4, 7.

[6] Apoftegmi, serie alfabetica, Antonio il Grande, 32 (in cui si cita 1 Gv. 4, 18); serie metodica, XVII, 1.

[7] Gen. 22, 12.

[8] Sal. 111 (110), 10.

[9] Cf. Prov. 1, 7; 9, 10; 22, 4.

[10] Prov. 15, 27.

[11] Cf. Rom. 8, 35.

[12] Sal. 34 (33), 12.

[13] Gal. 4, 19.

[14] Sal. 34 (33), 12-13.

[15] Sal. 34 (33), 14.

[16] Sal. 34 (33), 15.

[17] Ibid.

[18] Ibid.

[19] Mt. 5, 9.

[20] L’impossibilità di capire la dolcezza dell’amore e dell’unione con Dio se non se ne fa l’esperienza è un tema comune a tutti i mistici. Una delle espressioni più belle rimane quella di san Bruno il Certosino: « Quid vero solitudo heremique silentium amatoribus suis utilitatis iucunditatisque divinae conferai, norunt hi soli qui experti sunt » (Lettera a Radulfo il Verde, 6, in Lettres des premiers Chartreux, Introduction, texte critique, traduction et notes par un Chartreux [= Sources Chrétiennes, 88], Parigi 1962, p. 70: « L’utilità e la gioia divina che la solitudine e il silenzio dell'eremo donano a chi li ama, sono note solo a chi ne ha fatto l’esperienza »).

[21] Il ricordo della morte, già tipico del pensiero filosofico antico (philosophia e meleti thanatou. sono già strettamente unite in Platone; e poi Epitteto, Conversazioni, 21; Marco Aurelio, A se stesso, 2, 1), diventa un elemento fisso dell’ascesi monastica: per esempio, Apoftegmi, serie alfabetica, Teofilo, 4; Sarra, 6; Cronios, 3; Nau 182, in « Revue de l’Orient Chrétien », 13 (1908), p. 267; serie metodica, V, 30; Evagrio Pontico, Hypotypósis monachiké (Philokalia, I, p. 42, linee 12-37: questo testo diventa, nella serie alfabetica degli Apoftegmi, il n. 1 di quelli di Evagrio); Esichio del Roveto (o di Gerusalemme; VII secolo), Ad Theodulum, 17 (PG 93, 1485 B; Philokalia, I, p. 143). 94 (PG 93, 1509 A;« Philokalia, I, p. 155). 255 {Philokalia, I, p. 165). Anche nella Regola di san Benedetto si dice che uno degli strumenti delle buone opere è « mortem cotidie ante oculos suspectam habere » (IV, 47). Un intero « gradino », il sesto, della Scala Paradisi di san Giovanni Climaco è dedicato alia meditazione della morte.

[22] II duplice esame di coscienza è pratica molto raccomandata nella tradizione monastica: cf. ad esempio, Apoftegmi, serie alfabetica, Nistheros, 5; serie metodica, XI, 39; Nau 264, in « Revue de l’Orient chrétien », 14 (1909), p. 369; Giovanni e Barsanufio, Lettere 291. 395. 442.

[23] II termine greco, parrhèsia, nell’età classica indica il diritto di parola nelle assemblee pubbliche del cittadino della polis; nel Nuovo Testamento emerge maggiormente il senso di « franchezza, fiducia, possibilità di rivolgersi con confidenza a Dio »; nell’ambiente monastico prevale la connotazione negativa di « sfrenata libertà di parola », « sfrontatezza », appunto (il senso positivo di « franchezza » ricorre una sola volta in san Doroteo, par. 50). Una delle definizioni più icastiche è quella di Apoftegmi, serie alfabetica, Agatone, 1, che Doroteo cita subito dopo in questo paragrafo. « Bisogna fuggire la parrhèsia come il veleno di un aspide; ...fuggiamo dunque la parrhèsia come un veleno di morte », ribadisce Esichio del Roveto, Ad Theodulum, 32 (PG 93, 1492 A-B; Philokalia, I, p. 146). Sulla parrhèsia cf. anche I. Hausherr, Penthos. La doctrine de la componction dans l’Orient chrétien ( = Orientalia Christiana Analecta, 132), Roma 1944, pp. 107-109.

[24] Apoftegmi, serie alfabetica, Poimen, 65.

[25] Apoftegmi, serie alfabetica, Agatone, 1; serie metodica, X, 8.

[26]  Lev. 15, 31.

[27]      Cf. Lettera 340 di Giovanni a Doroteo.

[28]     Sull'argomento di questo paragrafo cf. le Lettere 293301 di Giovanni a Doroteo.

[29]     È un apoftegma dell’abbas Isaia, Logos XVI, 4 (ed. Augoustinos, p. 92 = XVII, 4: PG 40, 1148 D), riportato anche da Paolo Evergetinos, Synagógé, I, 45, p. 168 Costantinopoli = I, 45, 90, p. 414 Atene.

[30]     Apoftegmi, serie alfabetica, Giovanni l’Eunuco, 2 (che attribuisce il detto a sant’Antonio).

[31]     Apoftegmi, serie alfabetica, Arsenio, 1.

[32]      Gal. 6, 2.

[33] Gal. 6, 2.

[34]      Katastasis: cf. par. 29, nota 12.

[35]     II termine greco è dikaiòma (cf. par. 10, nota 47) e ricorre spesso in Doroteo (parr. 60, 62-64, 97, 137): ha sempre connotazione negativa (cf. I. Hausherr, Opus Dei, in « Orientalia Christiana Periodica», 13 [1947], p. 211 e nota 3: il p. Hausherr cita Apoftegmi, serie alfabetica, Poimen, 54; il suddetto art. ora anche in I. Hausherr, Études de spiritualité orientale [= Orientalia Christiana Analecta, 183], Roma 1969, pp. 121-144).

[36]     Apoftegmi, serie alfabetica, Antonio il Grande, 9; serie metodica, XVII, 2.

[37]      Qo. 12, 13.

 


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1 dicembre 2024                a cura di Alberto "da Cormano"        Grazie dei suggerimenti       alberto@ora-et-labora.net